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Videocracy – Basta apparire di Erik Gandini

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Videocracy – Basta apparire di Erik Gandini

Videocracy – Basta apparire (2009), diretto dal regista bergamasco Erik Gandini, è uno dei documentari più discussi e controversi del cinema italiano contemporaneo. Presentato in anteprima al Festival di Venezia, il film affronta senza filtri il rapporto tra televisione, immagine e potere nell’Italia di inizio Duemila, in un’epoca in cui il piccolo schermo non era solo intrattenimento, ma la vera arena politica e culturale del Paese.

Attraverso volti emblematici come Fabrizio Corona, “fotografo-ricattatore” autoproclamatosi Robin Hood, e Lele Mora, talent scout vicino a Silvio Berlusconi, Gandini mostra l’altra faccia dello spettacolo televisivo: un sistema che seduce, manipola e condiziona aspiranti star, vip e spettatori. Il suo titolo – Videocracy – rimanda a un concetto preciso: il governo delle immagini, dove apparire conta più che essere, e la televisione diventa lo strumento privilegiato di un potere che invade ogni aspetto della società.

Videocracy – Basta apparire, la trama:  Il film documenta alcuni aspetti della tv italiana, delle reti mediaset, i provini e i tentativi compiuti da un ragazzo per diventare un’icona dello spettacolo televisivo. Vengono raccontate le vicende del fotografo/ricattatore Fabrizio Corona e dello scopritore di talenti Lele Mora.

Videocracy – Basta apparire è un “invisibile”. Presentato al Festival di Venezia nel 2009, ci si sarebbe aspettati di vederlo regolarmente distribuito nelle sale italiane, e invece la sua uscita fu limitata a poche copie e proiezioni sporadiche.

Perché? La risposta è semplice: il film affronta un tema che scotta, il potere delle immagini televisive. La videocrazia. Non a caso sia RAI sia Mediaset si rifiutarono di trasmetterne il trailer, e poche sale accettarono di programmarlo.

Il documentario mostra come il potere delle immagini agisca a diversi livelli:

  • sul giovane di provincia che sogna una carriera in tv,

  • sui VIP resi ricattabili dal gossip,

  • su produttori e spettatori che restano parte di un meccanismo perverso.

Il potere delle immagini

Di questo sistema hanno saputo approfittare alcuni personaggi chiave. Corona, ad esempio, racconta senza remore di essere un “Robin Hood” che ruba ai ricchi per dare a se stesso. Mora, invece, appare come un vero mediatore di potere: mostra con orgoglio il suo cellulare pieno di immagini di simboli fascisti, mentre in sottofondo risuona Faccetta nera.

E ancora: per diventare una “meteorina” di Rete4 bisogna passare per il “Billionaire” di Flavio Briatore, mentre i provini per le veline di Striscia la notizia diventano il rito di passaggio verso una carriera televisiva.

Gandini e la videocrazia

Erik Gandini, regista bergamasco da anni residente in Svezia, mostra come le immagini televisive siano diventate strumento di condizionamento non solo per chi aspira a diventare famoso, ma anche per chi lo è già. Parafrasando Debord, lo spettacolo è un insieme di relazioni sociali mediate dalle immagini, e in Italia questo legame tra immagini e potere è incarnato dall’uomo politico che più di tutti ha fatto della tv il suo strumento: Silvio Berlusconi.

Le reti televisive, specialmente Mediaset, diffondono un modello di edonismo che manipola coscienze e desideri, promettendo all’“everyman” un quarto d’ora di celebrità, warholiano e illusorio.

Estetica e limiti del film

Le immagini del film sono volutamente sgranate, sporche, pastose, come se fossero riprese di uno schermo televisivo. Richiamano i retini pop di Lichtenstein o le immagini usurate di Warhol: fotogrammi già consumati e riutilizzati, digeriti e instillati nello spettatore.

Videocracy – Basta apparire affronta temi scottanti e necessari, e ha il merito di metterli a nudo con chiarezza. Tuttavia, alla sua operazione manca un vero affondo critico sulle dinamiche profonde dello strapotere mediatico: Gandini si limita a mostrare i casi noti (Corona, Mora) senza andare oltre. L’opera resta comunque preziosa come testimonianza di un’epoca in cui lo spettacolo e il potere politico si sono fusi in un unico dominio: quello delle immagini.

Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov

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Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov

Il colore del melograno (Sayat Nova, titolo originale modificato dalle autorità sovietiche in Brotseulis kvaviloba – Sayat Nova) è il capolavoro del 1968 diretto da Sergej Paradjanov. L’opera racconta la vita del poeta armeno del XVIII secolo Sayat Nova, non attraverso una narrazione tradizionale ma tramite una serie di tableaux viventi, ricchi di simbolismo e visioni oniriche. Infanzia e adolescenza, il servizio presso il principe, l’amore proibito per sua figlia, il ritiro in convento e infine la morte per mano dei soldati persiani: ogni fase dell’esistenza del poeta è evocata per immagini, in una dimensione rituale e metaforica che trascende il realismo narrativo.

Un cinema di poesia

Ci sono molti modi per raccontare una vita. Chi ha detto che al cinema sia necessario attenersi a una narrazione lineare? Il colore del melograno è probabilmente uno degli esempi più limpidi di “cinema di poesia”. Paradjanov sceglie di non “raccontare” ma di visualizzare l’esistenza del poeta attraverso il linguaggio della metafora, dei simboli e delle immagini frontali, sospese, fuori dal tempo.

Sayat Nova, considerato il più grande poeta armeno, apparteneva alla tradizione degli ashughi, simili ai trovatori occidentali. Paradjanov, più che restituire una biografia fedele, cerca di tradurre in immagini l’essenza della sua poesia, evocandone l’universo interiore.

Simbolismo e ritualità

Una delle prime sequenze mostra Sayat bambino che dispone libri sui tetti di un convento e vi si stende sopra con le braccia aperte, in un’immagine che anticipa il suo futuro martirio. In un’altra scena, la mano del giovane poeta rimane schiacciata tra due volumi mentre un sacerdote lo esorta a leggere “per il popolo”: un gesto che diventa correlativo oggettivo della poesia come missione e al tempo stesso come fardello.

Il film alterna riti religiosi, mestieri quotidiani, gesti intimi, restituendo i “colori e gli aromi” del mondo che formò l’immaginazione poetica di Sayat Nova. L’amore per la figlia del principe è reso con sguardi e movimenti rituali, mentre la morte del poeta è rappresentata da immagini di forte potenza visionaria, come il suo corpo disteso tra candele mentre galli, svolazzando, finiscono per bruciarsi.

Un linguaggio tra oriente e occidente

L’impressione dominante è quella di assistere a un rituale. Ogni gesto, ogni oggetto, sembra spiritualizzato e rimandare a una realtà altra. Le inquadrature frontali, quasi bidimensionali, ricordano le miniature medievali e il teatro Nō giapponese, più che il cinema narrativo occidentale. Lo spazio diventa così sospeso, onirico, irriducibile a un tempo realistico.

Un film censurato e scomodo

Non stupisce che un’opera di questo tipo, impregnata di spiritualità e surrealismo, abbia incontrato l’ostilità dell’URSS. Il governo sovietico impose la modifica del titolo originario Sayat Nova in Il colore del melograno e accusò Paradjanov di essersi discostato dal realismo socialista. Le pressioni non si fermarono al piano artistico: il regista venne condannato a cinque anni in un campo di prigionia con accuse infondate di omosessualità e furto. Solo grazie alla mobilitazione di artisti e colleghi venne liberato, ma per anni gli fu impedito di lavorare.

Eredità e riscoperta

Oggi Il colore del melograno è considerato un caposaldo della storia del cinema, amato e lodato da autori come Tarkovskij e Fellini per la sua potenza visionaria. Rimane però un film difficile da reperire, disponibile soprattutto in edizioni DVD della Ruscico e della Kino.

Il destino dell’opera sembra riflettere quello stesso di Sayat Nova: la poesia come missione e insieme martirio. Paradjanov conferma così che i veri poeti – anche quelli del cinema – sono sempre scomodi, capaci di inquietare e di resistere al tempo e alla censura.

Il grande silenzio: recensione del film di Philip Groning

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Il grande silenzio: recensione del film di Philip Groning

Il grande silenzio (Die grosse Stille), diretto da Philip Gröning nel 2005, è un’opera rara e radicale che ha segnato un punto di svolta nel cinema documentario contemporaneo. Girato all’interno del monastero della Grande Chartreuse, nei pressi di Grenoble, il film porta sullo schermo la quotidianità dei monaci certosini, una delle comunità religiose più severe e impenetrabili della Chiesa cattolica. Per la prima volta, la macchina da presa riesce a penetrare questo universo chiuso e silenzioso, mostrando al pubblico un mondo sospeso nel tempo, dove la preghiera, il lavoro manuale e la contemplazione scandiscono ogni gesto.

Il progetto nacque da un rapporto di lunga fiducia: Gröning aveva chiesto ai certosini già negli anni ’80 di poter filmare la loro vita, ma l’autorizzazione arrivò soltanto 16 anni dopo. Una volta ottenuto il permesso, il regista trascorse mesi nel monastero, vivendo alle stesse condizioni dei monaci, senza troupe, senza luci artificiali, immerso nella stessa routine di austerità e silenzio. Questa scelta radicale conferisce al film un carattere unico: non un semplice documentario, ma un’esperienza sensoriale che immerge lo spettatore nella spiritualità quotidiana dei certosini.

Con i suoi 160 minuti privi quasi del tutto di dialoghi, basati su immagini contemplative e su suoni essenziali, Il grande silenzio non racconta una storia tradizionale ma trasmette un’esperienza: il ritmo del tempo, la ripetizione dei riti, la solennità della natura, la quiete interiore. È un cinema che abbandona la parola per ritrovare il senso profondo dell’immagine e del silenzio, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi a una dimensione meditativa e ipnotica, fuori dal tempo e dalle distrazioni del mondo moderno.

L’ordine certosino e l’eccezionalità del film

L’ordine dei Certosini è considerato una delle confraternite più rigide della Chiesa cattolica. La loro vita quotidiana, scandita da regole secolari, è rimasta a lungo nascosta agli occhi esterni. I turisti non hanno accesso ai loro spazi, e prima di Gröning le riprese all’interno della certosa erano state pressoché inesistenti.

Questo film rappresenta quindi un documento unico, frutto di una relazione di fiducia costruita negli anni tra il regista e il Priore Generale dell’ordine. Il contratto siglato stabiliva che per almeno sette anni nessun altro avrebbe potuto girare nella Grande Chartreuse: un’esclusiva che ha reso l’opera ancora più preziosa e irripetibile.

Gröning non si è limitato a osservare: ha condiviso la vita monastica, partecipando al silenzio e alla disciplina del convento, diventando parte integrante del contesto che stava filmando.

L’analisi: il cinema come esperienza

Non è facile parlare di Il grande silenzio. Non lo è mai quando si affronta un film che rifiuta i codici narrativi tradizionali. Qui la parola è quasi del tutto assente, eccezion fatta per le preghiere corali o per la toccante testimonianza di un monaco cieco che, verso la fine, afferma di non provare dolore per la sua cecità, ma gioia nell’avvicinarsi a Dio.

Gröning ha compiuto un’impresa estrema: un film di due ore e quaranta senza dialoghi, girato con una sola telecamera, senza luci artificiali, basato su inquadrature fisse e sulla ripetizione di gesti quotidiani. Una scelta che, se da un lato appare assurda, dall’altro si giustifica pienamente nel contesto monastico.

Un cinema povero, ma essenziale

Il film si avvicina per rigore al “dogma”, ma ciò che ne emerge è un cinema di pura osservazione, quasi cinéma vérité. Davanti all’obiettivo i monaci pregano, leggono, cucinano, si prendono cura delle piante e degli animali, riparano scarpe e vestiti. Ogni gesto, anche il più banale, è investito di significato.

La narrazione è scandita da primi piani, sequenze dell’ambiente naturale e cartelli su fondo nero con citazioni bibliche. Non ci sono virtuosismi formali: solo qualche effetto di pellicola invecchiata o l’uso del grandangolo per sottolineare la profondità.

Il film appare come un “assurdo”, perché racconta un’esistenza che agli occhi del mondo moderno può sembrare altrettanto assurda: un taglio netto con il mondo esterno, una vita dedicata a preghiera, meditazione e silenzio.

Tra Malick e Tarkovskij

Pur centrato sulla fede, Il grande silenzio non è un film religioso in senso convenzionale. Ciò che è trascendente non viene mai mostrato, ma resta implicito, come una corrente sotterranea che attraversa immagini fortemente immanenti: la neve, le piante, i corsi d’acqua, gli oggetti quotidiani, i gesti ripetuti dei monaci.

Il linguaggio visivo richiama a tratti Malick e Tarkovskij, per la capacità di cogliere la spiritualità nel dettaglio naturale e nel rito quotidiano. Perfino i momenti di gioco dei monaci – come quando scivolano su un pendio innevato – diventano parte di un rituale dell’immanente che allude al trascendente.

Conclusione

Con Il grande silenzio, Gröning ha realizzato un’opera che non si limita a documentare: offre un’esperienza di immersione totale in un mondo fuori dal tempo, in cui la vita scorre lontana dal frastuono contemporaneo.

Che lo spettatore vi colga un’esperienza mistica o semplicemente un affascinante esercizio di osservazione dipende dalla sua sensibilità. Ma ciò che resta è la forza di un cinema che riesce, con mezzi poverissimi, a restituire la densità spirituale di una vita interamente dedicata al silenzio e alla contemplazione.

Esther, il film del 1986 diretto da Amos Gitai

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Esther è il film del 1986 diretto da Amos Gitai e con protagonisti Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen, Sara Cohen e Juliano Mer.

  • Anno: 1986
  • Diretto da: Amos Gitai
  • Con: Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen,
    Sara Cohen, Juliano Mer.

“Non opprimete e non sfruttate lo straniero; voi conoscete l’animo dello straniero,
giacché voi stessi siete stati stranieri nel paese d’Egitto.”
Esodo 23:9

Esther, la trama

Esther è basato sulla storia biblica del libro di Ester. Al tempo in cui i giudei sono sotto il dominio persiano, il re Assuero di Susa sceglie come moglie una giovane giudea, Esther.

Sotto consiglio del sacerdote Mardocheo, suo zio, la donna tiene nascosta la propria origine al sovrano. Aman, uno dei dignitari di corte, ordina la persecuzione dei giudei, poiché non sembrano riconoscere altra autorità fuorchè il proprio Dio, come Mardocheo, che sventa un complotto ai danni del re. Aman intende uccidere il sacerdote, ma Esther rivela al re i piani di Aman, che viene messo a morte. Mardocheo ed Esther, ottengono dal re che i giudei possano organizzarsi e difendersi dalle persecuzioni: in breve tempo, coloro che dapprima erano stati perseguitati divengono persecutori.

Esther, l’analisi

Non sono molti i casi della storia del cinema in cui un regista alla sua opera prima riesca a essere, pur tra le acerbità di vario tipo che contraddistinguono gli esordi, intenso e ricco nell’ispirazione, appassionato e asciutto al contempo. Direi che Esther, di Amos Gitai, rientra in questa categoria. Il film è uscito in cofanetto dalla Rarovideo in edizione restaurata e accompagnato dagli altri due capitoli di quella che è considerata la trilogia dell’esilio nell’opera del cineasta di Haifa.

Gitai afferma di essere rimasto colpito dal fatto che nel libro biblico di Ester non si nomina direttamente “Dio” e che voleva rintracciare in esso qualcosa dell’ebreo contemporaneo, laico. Egli riprende il testo in maniera sostanzialmente fedele, ma la sua operazione diviene particolarmente interessante alla luce del fatto che la storia narrata è quella di un popolo perseguitato che diviene persecutore a propria volta, ed Esther diviene a propria volta sanguinaria ordinando il massacro di altri “nemici” dei giudei. Ciò è particolarmente interessante, e coraggioso, se si pensa che Gitai non cela i riferimenti all’attualità di quella terra costantemente promessa e costantemente insanguinata che è la Palestina e quello stato in qualche modo sempre utopico che è Israele, dove accade che i confini tra persecutori e perseguitati siano estremamente labili e fluttuanti.

E Gitai, che è nativo di Haifa (dove il film è stato girato), città nel nord di Israele, mette in discussione, pone quesiti, rimette in gioco la storia e la tradizione affrontando sempre criticamente il presente del suo paese che egli certamente ama, cortocircuitando col suo cinema le distinzioni tra generi, lingue, tecniche. Esther è girato con una tecnica particolare: si tratta infatti di una serie di tableaux (ispirati alle miniature persiane, di cui posseggono l’impianto ieratico) in cui la macchina da presa si muove poco, effettuando delle carrellate.

Le inquadrature del film sono centripete, e ciò che fornisce dinamicità ai quadri sono le azioni degli attori e gli splendidi effetti di luce della fotografia di Herni Alekan, che permea gli oggetti e i colori sgargianti di una patina magica e irreale.  Gitai ha sempre ammesso (e i suoi film lo dimostrano) di preferire le riprese lunghe, i piani-sequenza, poiché più delle inquadrature brevi cui tanto linguaggio televisivo ci ha abituati, sanno restituire la complessità del reale. E’ interessante, questo, se pensiamo al fatto che il suo paese è (pur-troppo) spesso al centro degli obiettivi televisivi, oggetto di servizi a ripetizione, in cui la realtà è frammentata in una serie di informazioni il cui senso sembra già dato una volta per tutte e si rende impermeabile alle interpretazioni.

Esther, la messa in scena 

Nella messa in scena di Gitai di Esther, coi personaggi in costume storico, ci sono però degli elementi stranianti, brechtiani, che fanno saltare il gap temporale tra il tempo in cui si svolge la storia e il tempo in cui il film è stato girato. Quando i personaggi si aggirano infatti per le strade dissestate di Haifa o le sue rovine delle sue mura, la mdp include spesso elementi (intenzionalmente) anacronistici: cavi elettrici, pali del telefono, palazzi moderni. Ciò fa effettivamente deflagrare il confine tra il tempo della storia narrata e la situazione in cui è stata girata. Quel che Gitai vuole offrirci, non è una mera ricostruzione storica, ma una riflessione sul presente. Ci fa sentire il dispositivo cinematografico, attraverso quelli che potrebbero sembrare dei “fianchi aperti” se si trattasse di un normale film a soggetto biblico-storico. Brechtianamente, invece, siamo mantenuti vigili con un occhio alla storia e l’altro alle condizioni reali, attuali, in cui essa è stata girata. È lo stesso per un personaggio che appare più volte in diverse vesti (mendicante, banditore, commerciante, etc) intervenendo a spiegare, come una sorta di cantastorie, alcuni punti della storia, e lo fa guardando in macchina, coinvolgendo direttamente lo spettatore.

Quando Aman viene giustiziato (sequenza splendida, in cui la mdp panoramicando passa da una costruzione antica dove l’uomo sta per essere ucciso, a una strada moderna, con degli autobus e una moschea sullo sfondo), Esther, a sera, chiede al re che il giorno successivo abbia luogo un altro massacro: secondo il regista, in poche righe, il testo biblico mostra tutte le contraddizioni del potere.

L’epilogo mostra, in un lungo cameracar per le strade di Haifa, dove ad angoli ancestrali si alternano altri moderni, gli interpreti principali camminare e riflettere criticamente sul ruolo interpretato, sul senso della vendetta, sull’”utopia” che era Israele, sulle proprie origini.

Tutti gli attori sono ebrei, ma ciascuno di diversa nazionalità: chi egiziano, chi ungherese, etc, e benché il film sia interamente parlato in ebraico, ciascun attore lo pronuncia con la propria cadenza. Si potrebbe dire che Gitai attui col cinema l’operazione che Deleuze rintracciava nella letteratura degli autori minori: Kleist, Kafka..etc. Essi fanno “balbettare” la propria lingua, quasi che le fossero stranieri, come esuli, e si ritaglino nelle proprie opere una sorta di idioletto. Gitai, che ha vissuto come esule tra il suo paese, la Francia, gli USA, la Germania, ha fatto egli stesso un cinema esule e riflessivo, che pone interrogativi, che rimette in discussione non la tradizione in sé, ma piuttosto la rianalizza per rianalizzare il presente (per farlo “balbettare”, verrebbe da dire), come accade, appunto, in Esther, parlato in ebraico, che, come ricorda lo stesso autore in un’intervista, è una lingua in cui manchi una vera e propria coniugazione verbale del presente, possendo, al contrario, numerose forme al passato, e, al contempo, gravida di una sorta di utopia e tensione al futuro.

Aleksandra, il film di Aleksandr Sokurov

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Aleksandra, il film di Aleksandr Sokurov

Aleksandra è il film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov e con protagonisti Galina Vishnevskaija, Vasili Shevtsov, Raisa Gichaeva, Andreij Bogdanov, Aleksandr Kladko, Alekseij Nejmijshev.

La trama del film Aleksandra: In un accampamento di soldati russi, nella Cecenia dei nostri giorni, un’anziana donna, Aleksandra Nikolaevna, arriva a far visita a suo nipote Denis, ufficiale dell’esercito. Trascorre con lui qualche giorno. Quanto basta a farle scoprire un mondo a lei sconosciuto, fatto di uomini soli, senza calore né conforto. A pochi chilometri di distanza, al fronte, si combatte ogni giorno tra la vita e la morte. Eppure le donne del luogo non hanno perduto il loro antico senso di ospitalità. E i soldati, tutti i soldati, sono soltanto ragazzi impauriti.. La protagonista del film è la cantante Galina Vishnevskaya, vedova del grande violoncellista Rostropovich su cui Sokurov ha girato quasi contemporaneamente una delle sue elegie documentarie.

Aleksandra, l’analisi

“La guerra inizia dove finisce la ragione”, recita la frase di lancio di Aleksandra, film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov (già autore di Madre e Figlio, Moloch, Arca Russa, per citare solo alcuni dei suoi lavori più recenti), e uscito da noi quest’anno in pochissime sale solo a merito della Movimento film.

Sokurov non ci mostra mai direttamente la guerra nella sua ultima opera (salvo, forse, per quei fuochi che Aleksandra vede nottetempo in lontananza), semmai ci mostra i suoi effetti: la fine della ragione, appunto, le case lacerate dalle bombe a Gronzyj, la durezza degli uomini costretti ad essere macchine per uccidere che non possono dar voce ai propri sentimenti o a quanto ancora posseggono di umano, e in ultimo la ricerca innocente, semplice (e perciò tanto più assurda e stridente con l’orrore della guerra) di contatti umani da parte della protagonista, donna anziana dall’incendere lento e pesante in un microcosmo di giovani uomini veloci e costretti alla più assoluta efficienza.

Fin dalle primissime inquadrature di Aleksandra in cui esce da una camionetta per incontrare gli uomini che la scorteranno all’accampamento, Aleksandra Nikolaevna (il cui nome riecheggia forse non a caso quello completo del regista: Aleksandr Nikolaevič) è una outsider. Ancora sul veicolo la vediamo di spalle, in decadrage, ovvero spostata rispetto all’asse centrale dell’inquadratura (e già basterebbe questo a connotare un primo “spiazzamento”), mentre si guarda attorno.

Aleksandra scende dalla camionetta, la macchina da presa panoramica lentamente e quasi impercettibilmente da destra a sinistra, catturando lo sguardo corrucciato della donna (bravissima e intensa la Vishnevskaija, moglie del noto violoncellista Rostropovich) la cui presenza appare, già da questo incipit, scollata dall’ambiente circostante: un paesaggio rurale scosso dal vento, con due giovani che chiacchierano tra loro.

Ma Aleksandra è fuori luogo per un motivo più profondo: a spingere la donna all’accampamento è semplicemente l’affetto familiare (uno dei temi centrali nella filmografia di Sokurov: Madre e figlio, Padre e figlio), il desiderio di rivedere Denis, laddove gli uomini dell’accampamento sono lì per compiere il loro dovere di soldati: distruggere.

Forse chiunque, in ogni guerra diventa uno straniero e un estraneo, non comprensibile, non raggiungibile, un diverso col quale la comunicazione è difficile o impossibile, come per il giovane ceceno che si rifiuta di vendere le sigarette alla russa Aleksandra. Un estraneo è un nemico, anche, da privare della vita senza rimorso né sentimenti e in modo semplice, meccanico. Del resto basta schiacciare il grilletto, come Aleksandra comprende maneggiando un fucile scarico insieme a Denis che con incredibile (e paradossale in quel contesto) dolcezza di nipote le mostra le armi e i veicoli in una sequenza che quasi urta, proprio per lo stridore che si crea tra la curiosità innocente della vecchina, la tenerezza del giovane ufficiale nei confronti di lei (la prende in braccio) e gli strumenti di morte che li attorniano.

Eppure Aleksandra, grazie al suo essere decisamente “fuori luogo”, è capace di piccoli atti di dolcezza che sembrerebbero impossibili in quel contesto, come quando offre un po’ di torta a delle giovanissime sentinelle (una sequenza bellissima, dal sapore crepuscolare –“le buone cose di pessimo gusto”- esaltata dai toni rosacei della fotografia di Aleksandr Burov, che scopre un bergmaniano cielo chiazzato di nubi), e soprattutto quando parla con un’altra outsider, dell’etnia nemica: un’anziana cecena, ex insegnante di nome Malika.

La stessa Malika, che offre un tè ad Aleksandra, non riesce a capacitarsi di come i giovani siano stati cambiati dalla crudeltà della guerra. “I buoni son diventati cattivi, non solo le case sono state distrutte, la vita è stata messa sottosopra, i santi diventano diavoli”, dice la cecena alla russa. Ecco perché non ci sono scene di battaglia nel film: la battaglia è interiore, la guerra è dappertutto, fatalmente instillata nell’animo umano sconvolto, lacerato come le case di Gronzyj, una lacerazione di cui sembrano partecipare anche alcune inquadrature del film, realizzate con lenti distorcenti che alterano (sembra stiano per “strappare”, quasi) lo spazio davanti alla macchina da presa.

Eppure, qualcosa di buono rimane:  il tentativo laborioso di intrecciare dei legami a dispetto di tutto attraverso piccoli gesti (la treccia che Denis fa ad Aleksandra, l’abbraccio della russa e della cecena, la già ricordata offerta della torta alle sentinelle, il consiglio che l’anziana russa dà a un giovane ceceno: pregare Dio perché conceda la saggezza e la consapevolezza che la forza non sta nelle armi). Piccoli gesti che davanti alla macchina da presa sembrano (o sono) eccezionali in mezzo all’orrore, un po’ come i raggi di sole che illuminavano il volto del figlio piangente per la perdita della madre in Madre e figlio.

A differenza di certi suoi lavori precedenti, qui, Sokurov, sperimenta forse meno a livello tecnico (mi riferisco, ad esempio alle inquadrature distorte e private di profondità in Madre e figlio o al piano sequenza ininterrotto della durata di un’ora e mezza nell’Hermitage di San Pietroburgo per Arca Russa), ma ciò non toglie che questo, con la sua intensità poetica, sia uno dei suoi lavori migliori, che ha ricevuto, fra l’altro, il premio Robert Bresson alla Mostra del Cinema di Venezia.

 

Freaks: la recensione del cult horror di Tod Browning

Freaks: la recensione del cult horror di Tod Browning

Uscito nel 1932 e diretto da Tod Browning, Freaks è un film maledetto, scandaloso e rivoluzionario, che nel tempo si è imposto come un cult imprescindibile della storia del cinema. Lontano dagli stereotipi dell’horror classico, il film utilizza il mondo del circo come palcoscenico per raccontare una vicenda di amore, inganno e vendetta, ma soprattutto per scardinare le ipocrisie della società.

Girato con veri “fenomeni da baraccone”, Freaks scosse profondamente il pubblico dell’epoca, al punto da essere censurato, tagliato e vietato in diversi Paesi. Oggi, a quasi un secolo di distanza, conserva intatta la sua forza disturbante e la sua lucidità polemica, confermandosi un’opera unica e coraggiosa.

Trama: amore, tradimento e vendetta sotto il tendone del circo

All’interno di un circo popolato da artisti deformi e bizzarri, il nano Hans si innamora della trapezista Cleopatra, bellissima donna “normale” che però è interessata soltanto alla sua eredità. In combutta con l’amante Hercules, la trapezista progetta di sposare Hans per poi ucciderlo.

La fidanzata del nano, Frieda, cerca invano di metterlo in guardia, finché la verità viene a galla. Gli altri freaks, traditi e offesi dall’inganno, decidono di vendicarsi. In una sequenza finale tra le più agghiaccianti della storia del cinema, Cleopatra e Hercules vengono puniti con mutilazioni che li riducono a caricature grottesche e mostruose, ribaltando il concetto stesso di “diversità”.

Un film disturbante e coraggioso

Alla sua uscita, Freaks fu accolto come un’opera scandalosa e inguardabile. MGM impose tagli drastici, riducendo la pellicola di oltre 30 minuti e privandola di molte scene finali. In numerosi Paesi fu vietato per decenni: nel Regno Unito fino al 1964, nella Germania nazista fino al 1945, e in Italia addirittura fino agli anni Settanta.

Ciò che spaventava non erano gli effetti speciali – assenti – ma la realtà stessa: Browning scelse veri freaks per interpretare i personaggi, mostrandoli senza pietismi né artifici di trucco. La forza disturbante del film nasce dalla sua autenticità, dal mostrare senza filtri corpi considerati “mostruosi” e dall’accusare implicitamente la società che li emarginava.

La vera mostruosità è la “normalità”

Il messaggio di Freaks è ancora oggi attualissimo: i veri mostri non sono gli emarginati del circo, ma le persone “normali” che tradiscono, umiliano e sfruttano i più deboli. Hans e i suoi compagni sono vittime di una società ipocrita, ma trovano nell’unione la forza di ribellarsi.

Browning, che conosceva bene l’ambiente circense avendovi lavorato in gioventù, racconta questo microcosmo senza idealizzarlo né giudicarlo, restituendone le contraddizioni e la forza umana. Nel film riecheggiano grandi figure dell’immaginario horror – da Frankenstein al Fantasma dell’Opera, fino a The Elephant Man – accomunate dall’idea che la paura nasca dalla diversità e dall’incapacità di accettarla.

L’eredità di un film maledetto

Freaks fu un flop al botteghino e segnò la fine della carriera hollywoodiana di Tod Browning, ostracizzato dopo le polemiche. Ma con il passare degli anni, il film è stato riscoperto e rivalutato come un capolavoro incompreso, capace di influenzare intere generazioni di registi e di diventare un punto di riferimento imprescindibile per l’horror e non solo.

La sua capacità di unire intrattenimento, allegoria sociale e riflessione sulla diversità lo rende un’opera radicale, ancora oggi disturbante, ma anche profondamente umana. Un classico che non smette di inquietare e far riflettere.

Poltergeist: la recensione del cult horror di Tobe Hooper prodotto da Steven Spielberg

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Uscito nel 1982, Poltergeist è uno dei film horror più iconici della storia del cinema. Diretto da Tobe Hooper ma fortemente influenzato dalla visione produttiva di Steven Spielberg, il film rappresenta un raro esempio di equilibrio tra fiaba nera e blockbuster hollywoodiano. Con un incasso di oltre 74 milioni di dollari a fronte di un budget di 10,7, si impose subito come un successo mondiale e divenne un punto di riferimento per il genere horror soprannaturale.

Ancora oggi, la storia della famiglia Freeling perseguitata da presenze maligne all’interno della propria casa mantiene intatto il suo fascino, grazie a un mix di tensione, innovazione e tematiche universali che hanno ispirato intere generazioni di registi.

Trama: la famiglia Freeling e le presenze dell’aldilà

Steve e Diane Freeling vivono con i figli Carol Anne, Robbie e Dana in una tranquilla cittadina americana. Una notte, la piccola Carol Anne comincia a parlare con il televisore, annunciando ai genitori che “sono arrivati”. Da quel momento, la famiglia è vittima di fenomeni sempre più inquietanti, fino alla scomparsa della bambina, risucchiata da forze misteriose ma ancora udibile dall’interno della casa.

Disperati, i genitori si rivolgono prima a una parapsicologa e poi a un’esperta medium per tentare di riportare Carol Anne indietro e liberare la casa dalla maledizione. Ciò che ne deriva è una lotta disperata contro forze sovrannaturali che sfidano le leggi della ragione.

Poltergeist tra fiaba nera e blockbuster familiare

La grande forza di Poltergeist sta nella sua capacità di proporsi come un horror “per famiglie”. Nonostante la componente spaventosa, la pellicola mantiene un’impronta fiabesca: bambini come protagonisti, atmosfere domestiche, un male che irrompe nel quotidiano e lo contamina. È una fiaba malefica, confezionata con lo stile di un grande prodotto hollywoodiano ma capace di conservare un’anima inquietante.

Il televisore diventa simbolo di contatto con l’ignoto, anticipando tematiche che segneranno il cinema degli anni a venire: da Videodrome di David Cronenberg a Ringu di Hideo Nakata. Allo stesso tempo, la figura di Carol Anne richiama altri bambini “medium” della storia del cinema, come Danny di Shining.

Spielberg e Hooper: un equilibrio irripetibile

Nonostante i ruoli ben definiti, è impossibile non notare l’impronta di Steven Spielberg nella costruzione del film. L’universo domestico, l’innocenza dei bambini e l’uso spettacolare degli effetti speciali richiamano direttamente lo stile del regista di E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo.

Tobe Hooper, celebre per Non aprite quella porta, porta invece in dote il suo sguardo crudele e il suo gusto per l’orrore viscerale. L’incontro tra le due visioni genera un equilibrio raro: un film che riesce a essere terrificante e popolare allo stesso tempo, senza mai cadere nella volgarità o nella pura exploitation.

Un cult immortale dell’horror

Grazie al successo commerciale e al forte impatto culturale, Poltergeist è diventato un cult assoluto. La sua influenza è riscontrabile in innumerevoli opere successive, dal cinema alle serie TV, e la sua iconografia – dalla piccola Carol Anne che parla con lo schermo televisivo fino alla vendetta finale degli spiriti – è ormai entrata nell’immaginario collettivo.

Il film ha avuto diversi sequel e un remake, ma resta l’originale di Hooper e Spielberg a incarnare quell’equilibrio perfetto tra intrattenimento, paura e riflessione sociale. Un titolo imprescindibile per comprendere l’evoluzione dell’horror contemporaneo.

The Haunting (Gli Invasati): recensione del cult horror di Robert Wise

Uscito nel 1963 e diretto da Robert Wise, The Haunting (Gli Invasati) è tratto dal romanzo The Haunting of Hill House di Shirley Jackson ed è considerato uno dei capisaldi assoluti del cinema di fantasmi. Con un cast che comprende Julie Harris, Claire Bloom, Richard Johnson e Russ Tamblyn, il film ha saputo ridefinire l’immaginario della “casa stregata”, imponendosi come una delle opere più influenti e raffinate della storia del genere horror.

Con la sua ambientazione suggestiva e l’uso sapiente di suoni e atmosfere, il film non si limita a raccontare una storia di presenze soprannaturali, ma esplora le paure profonde e le fragilità psicologiche dei personaggi, aprendo la strada a un filone che avrebbe segnato il cinema degli anni Sessanta e oltre.

Trama: Hill House e i segreti della villa maledetta

La storia ruota attorno al dottor Markway, studioso di fenomeni paranormali che decide di condurre una ricerca in una villa abbandonata e temuta dalla popolazione locale: Hill House. Per le sue indagini recluta tre persone: Eleanor (Julie Harris), fragile e sensibile; Theo (Claire Bloom), medium dal carattere enigmatico; e Luke (Russ Tamblyn), giovane erede della villa.

Ben presto, i quattro si trovano intrappolati in un ambiente che sembra vivo e ostile. La casa respira, emana calore e gelo, si piega e si dilata come fosse un organismo dotato di volontà propria. Eleanor diventa progressivamente il centro della vicenda, divisa tra suggestione e possessione, vittima di un luogo che non smette di insinuarsi nella sua mente e nelle sue emozioni.

Una casa che diventa organismo vivente

Uno degli elementi più innovativi di The Haunting è la rappresentazione della casa stessa come entità organica. Robert Wise trasforma corridoi, scale e porte in strumenti di tensione narrativa, capaci di minacciare i protagonisti più dei fantasmi stessi. Hill House diventa così la vera antagonista: un ambiente che agisce come un personaggio, minaccioso e ambiguo.

Questa concezione avrebbe influenzato profondamente il cinema horror successivo, aprendo la strada a decine di film incentrati su case maledette e spazi domestici che si trasformano in luoghi di terrore.

Robert Wise e l’arte della suspense psicologica

La grandezza del film non risiede tanto negli effetti visivi – volutamente limitati – quanto nell’uso del sonoro e del non detto. Rumori inspiegabili, voci, colpi improvvisi e silenzi angoscianti sono i veri protagonisti. Wise costruisce la tensione giocando sull’ambiguità: ciò che accade è frutto di fenomeni paranormali o delle allucinazioni di Eleanor?

La fotografia di David Boulton, con ombre e prospettive inquietanti, e le musiche sperimentali di Humphrey Searle, realizzate anche con incisioni a rovescio, rafforzano l’atmosfera perturbante. L’accenno al rapporto ambiguo tra Eleanor e Theo aggiunge inoltre una dimensione trasgressiva e psicologica, rara per l’epoca.

Un cult immortale dell’horror

The Haunting è oggi riconosciuto come uno dei capisaldi dell’horror moderno. Non solo ha ispirato film successivi come Poltergeist o The Conjuring, ma ha anche dato vita a reinterpretazioni dirette, dal remake del 1999 alla serie Netflix Hill House di Mike Flanagan.

Con questa pellicola, Robert Wise – regista eclettico capace di spaziare dalla fantascienza (Ultimatum alla Terra) al musical (Tutti insieme appassionatamente), fino al kolossal (Star Trek: The Motion Picture) – dimostra ancora una volta il suo talento nel coniugare generi diversi con la stessa brillantezza e profondità.

Shrooms – trip senza ritorno: recensione del film

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Shrooms – trip senza ritorno: recensione del film

Shrooms – trip senza ritorno  è il film horror del 2006 diretto da Paddy Breathnach e con protagonisti Lindsey Haun, Jack Huston, Max Kasch, Alice Greczyn, Robert Hoffm.

Shrooms – trip senza ritorno, la trama

Un gruppo di baldi giovani americani vanno nella lontana Irlanda per andare nei boschi a caccia di funghetti allucinogeni. Tara(Lindsey Haun) finirà per ingerire un fungo velenoso , che secondo leggende metropolitane, è in grado di conferire il dono della preveggenza. In tutto ciò i ragazzi iniziano a morire misteriosamente: sarà colpa delle misteriose presenze che abitano il bosco?

Shrooms – trip senza ritorno, il film

Grazie ad un pretesto abbastanza demente da far concorrenza a Hostel, siamo catapultati per l’ennesima volta, e in maniera assolutamente non innovativa, all’interno di un contesto boschereccio, ove pupi e donzelle vengono assassinati uno ad uno in maniera piuttosto noiosa e poco divertente.

Il regista, alla sua prima esperienza con il cinema horror, non sa creare luoghi originali, e non riesce a gestire il meccanismo “allucinazione-realtà” su cui il film dovrebbe imperniarsi, risultando così solo ridondante e scontato sin dall’inizio.

La droga (e non è ben inteso il giudizio morale che scaturisce a proposito delle sostanze stupefacenti) è usata come pretesto per giustificare presenze maligne e confondere la realtà con l’illusione: peccato che grazie ai pessimi effetti speciali girati low budget e la prevedibilità di tutto il film, il pretesto che avrebbe potuto esser uno spunto quantomeno discreto per creare un buon prodotto, diventa soltanto parte di un film privo di interesse e di ragion d’essere.

Di Mariani Bino

Le cronache dei morti viventi di George Romero

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Le cronache dei morti viventi di George Romero

Le cronache dei morti viventi è diretto da George Romero con protagonista Michelle Morgan, Joshua Closè, Shawn Roberts e Joe Dinicol.

 

Sinossi
Un gruppo di ragazzi, intenti a girare un film horror indipendente, si ritrovano coinvolti inevitabilmente in una situazione che sta sconvolgendo gli Stati Uniti: i morti tornano in vita, e Jason(Closè), decide di filmare il caos e la violenza che esplodono durante il loro cammino.

Analisi

Le cronache dei morti viventi A due anni di distanza dalla Terra dei morti viventi, Romero, dedito al (sotto)genere degli zombi -da egli stesso promulgato- torna ad inscenare soggetti che proliferano di morti viventi. Ma l’ingegnosità del regista sembra inesauribile, e il quinto capitolo della saga degli zombi, prende una piega del tutto nuova, inserendosi direttamente nella linea che da Cannibal Holocaust porta a Cloverfield, passando per  The Blair witch project  e REC.

Un filone che mira ad unire la tecnica documentaristica al genere horror, e che con le possibilità del digitale, si sviluppa all’insegna della sperimentazione di nuove situazioni. Ed è in questo contesto che Romero rinnova il genere zombi movie, mettendo in scena momenti del tutto inediti e mai banali, confermando l’acume e la creatività che gli appartengono e la consapevolezza dei meccanismi del cinema dell’orrore.

week end al cinema 18/12

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di Francesco D’Occhio

Natale a Beverly Hills
: Due storie si intrecciano sotto il sole di Beverly Hills.
Carlo (Christian De Sica) ritrova per caso Cristina (Sabrina Ferilli) vecchio amore che aveva abbandonato quando era incinta di 7 mesi. Il figlio Lele ha ora come padre putativo Aliprando (Massimo Ghini) che è stato vicino al ragazzo e alla madre per tanto tempo.
Purtroppo per Carlo presto dovrà riconfrontarsi col suo passato…
Serena e Marcello (Michelle Hunziker/ Alessandro Gassman) festeggiano separatamente l’addio al celibato prima di sposarsi. Purtroppo Serena a causa di una sbornia, crede di aver fatto l’amore con Rocco, un uomo conosciuto fuori dal locale dove festeggiava, quest’ultimo innamoratosi di lei cercherà in tutti i modi di mettere i bastoni tra le ruote e le farà credere di aver passato veramente la notte con lui.
Ventiseiesimo cinepattone che puntuale come tutti gli anni giunge in una moltitudine di sale alle soglie del natale. Per la prima volta dopo l’abbandono di Boldi non vi è Fabio de Luigi mentre per la prima volta vi partecipa la coppia di figli d’arte Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi.

week end al cinema 10/12

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Di Francesco D’Occhio


Dieci Inverni: Siamo nel 1999 a Venezia e due studenti fuori sede, Camilla e Silvestro si conoscono su un vaporetto. Lei lo ospita nel suo appartamento, nelle vicinanze della città lagunare.
Lui è sfacciato, lei è introversa e timida.
Anche se in casa di lei non si concretizzerà nulla, qualcosa nasce.
I due si separeranno per rincontrarsi ancora molte volte per 10 anni ancora, fino a condividere esperienze a Mosca.
Opera prima per Valerio Mieli supportato dalla fotografia di Marco Onorato, già al lavoro per “Gomorra” che punta alla rivisitazione dell’amore distaccandosi dal filone “moccia” per riallacciarsi ad uno più maturo simile al “Un’Amore” di Tavarelli.
Nei panni dei due protagonisti i bravi Michele Riondino e Isabella Ragonese chiamati a interpretare un percorso di crescita e di sentimenti che va dall’adolescenza alla quasi maturità, appunto, Dieci Inverni.

week end al cinema 04/12

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Di Francesco D’Occhio

A Serious Man: Nel 1967 il professore Larry Gopnik è in un periodo nero.
La moglie lo ha lasciato perché innamorata di un collega, uno studente lo ricatta, riceve lettere minatorie e l’affascinante vicina non fa altro che prendere il sole nuda.
Ormai senza speranza l’uomo decide di rivolgersi a tre rabbini per chiedere consiglio.
I fratelli Coen firmano un lungometraggio dai toni sarcastici in cui un uomo in fondo buono vede tutto il male ritorcersi contro lui ad ogni suo gesto.
Presentato con successo al Toronto International Film Festival e al Festival Internazionale di Roma.

week end al cinema 27/11

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di Francesco D’Occhio

 

La dura verità: Abby Richter produce un programma televisivo (The Ugly Truth, da qui il titolo del film) che visti i bassi ascolti decide di puntare su un nuovo opinionista, tale Mike Chadway, che con un atteggiamento cinico non farà che sparlare del gentil sesso descrivendone i difetti e quello che gli uomini pensano seriamente delle donne.
L’audience del programma aumenta sensibilmente e costringe la produttrice a trattenere l’antipatico opinionista, al contempo decide anche di mettere in pratica i consigli di Mike col suo vicino Colinm di cui è invaghita da tempo.
Ennesimo lungometraggio sulla differenza tra i sessi, sarà stavolta il rude Mike o il dolce Colin a conquistare il cuore della protagonista?

The A-Team

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Robin Hood

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Iron Man 2

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L’apprendista Stregone

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L’apprendista Stregone

Il trailer ufficiale di L’apprendista Stregone, il film fantasy con Nicolas Cage e Monica Bellucci. L’apprendista Stregone è distribuito da Walt Disney Pictures Italia.

Il film è vagamente ispirato al segmento L’apprendista stregone del film musicale d’animazione Disney Fantasia, che a sua volta si basa sull’omonimo poema sinfonico del 1890 di Paul Dukas, ispirato all’omonima ballata del 1797 di Johann Wolfgang von Goethe.

La pellicola è un film avventura in cui un mago e il suo sventurato apprendista si ritrovano al centro dell’antico conflitto fra bene e male. Balthazar Blake (Nicolas Cage) è un maestro della magia che vive nell’odierna Manhattan e che intende difendere la città dalla sua nemesi per eccellenza, Maxim Horvath (Alfred Molina). Ma per farlo Balthazar ha bisogno di aiuto, e recluta quindi ave Stutler (Jay Baruchel), un ragazzo apparentemente normale ma che possiede doti nascoste, sottoponendolo ad un folle addestramento per fargli apprendere il più in fretta possibile tutti i segreti della magia. In questo nuovo ruolo di apprendista stregone, Dave dovrà fare appello a tutto il suo coraggio per sopravvivere all’ addestramento, arrestare le forze del male e conquistare il cuore della ragazza che ama.

Amabili resti (The Lovely Bones): trailer del film di Peter Jackson

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Guarda il trailer ufficiale di Amabili resti (The Lovely Bones), il nuovo film del regista Premio Oscar Peter Jackson con protagonista Saoirse Ronan, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo. Nel cast anche Mark Wahlberg, Susan Sarandon e Stanley Tucci.

Legion

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Inception

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Avatar: trailer del kolossal di James Cameron

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Avatar: trailer del kolossal di James Cameron

Guarda il trailer ufficiale del kolossal Avatar l’epica avventura di James Cameron Avatar, il film di maggior successo di tutti i tempi e vincitore dell’Academy Award nel 2009. Un nuovo trailer e un nuovo poster celebrano il ritorno nelle sale del film del 2009.

Scritto e diretto dal premio Oscar James Cameron, Avatar è interpretato da Sam Worthington, Zoe Saldaña, Stephen Lang, Michelle Rodriguez e Sigourney Weaver. Il film è stato prodotto da James Cameron e Jon Landau. Candidato a nove Academy Award®, tra cui miglior film e miglior regia, il film ha vinto tre premi Oscar per la migliore fotografia, scenografia ed effetti speciali.

Trailer originale in Inglese