Le due vie del
destino, tratto dalla vera storia di Eric Lomax, diventata
anche un’autobiografia, ha due anime: romantica e atrocemente
tragica e resta in bilico tra queste due vie, lasciandole entrambe
poco approfondite in favore di un racconto di dolore, sì, ma anche
di buoni sentimenti. La vicenda del protagonista – guerra e tortura
subita, vendetta o perdono, epilogo – si dipana in modo fin troppo
prevedibile, tanto consolatorio e buonista, da sembrare
irrealistico, sebbene ispirato a una storia vera. A ciò
contribuisce una sceneggiatura lacunosa, che non mostra il maturare
delle decisioni, l’evolversi dei rapporti, ma piuttosto abbandona
gli eventi a un accadere meccanico.
Ne Le due vie del
destino Eric Lomax (Colin
Firth) è un soldato britannico, fatto prigioniero dai
giapponesi durante la Seconda Guerra mondiale e mandato in un campo
di lavoro in Tailandia, a costruire la cosiddetta “Ferrovia della
morte”. Qui assiste all’orrore ed è vittima di torture per aver
costruito clandestinamente una radio. Anni dopo, in patria incontra
Patti (Nicole Kidman) e con lei ritrova una
normalità, ma i fantasmi del passato restano. Quando Patti viene a
conoscenza di quanto Eric ha vissuto e del fatto che uno dei suoi
aguzzini è ancora vivo, decide di farglielo sapere, per aiutarlo a
chiudere i conti col suo passato.
Fotografia patinata, apertura da
perfetta pellicola romantica: un gentleman scozzese con
l’ossessione dei treni e l’incontro con la donna della sua vita.
Poi i demoni del passato si riaffacciano, attraverso flashback che
illustrano la prigionia di Eric. Ma il regista non vuole far troppo
male allo spettatore, manca il vero pugno allo stomaco. È questa la
scelta dell’australiano Jonathan Teplitzky, al suo
quarto lavoro. In alcune scene di tortura o pestaggio, ad esempio,
si concentra sul volto dell’aguzzino e sostituisce il sonoro
realistico con un tappeto musicale enfatico, o mostra i risultati
delle torture, ma non le torture stesse. Non vediamo poi, se non in
qualche fugace scena, la quotidianità della vita nel campo, il vero
lavoro forzato, la morte. Ci si concentra su singoli episodi, ma
manca un contesto dettagliato, necessario per creare una reale
partecipazione.
Anche il filone narrativo che
riguarda la coppia non è sufficientemente approfondito: alla
Kidman, di fatto, un ruolo di moglie più marginale di quanto
ripetute dichiarazioni all’interno del film le riconoscano. Il
romanticismo dei primissimi piani non basta a rendere il vero
spessore di una storia d’amore certamente complessa.
Il valore del film sta dunque –
oltre che nella scelta di una pagina poco nota del secondo
conflitto mondiale, raccontata al cinema solo da Il
ponte sul fiume Kwai – nell’interpretazione di Firth,
che abilmente si cala nel complesso universo di Lomax, rendendone
il caleidoscopio di stati d’animo, come anche in quella di Jeremy
Irvine – Lomax da giovane. Peccato che la retorica prevalga
sull’emozione.
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