Stephen Daldry è
un uomo di teatro, un produttore, con una carriera relativamente
breve da regista cinematografico. Ma coi suoi 4 film finora si è
sempre (solo) guadagnato delle nomination all’Oscar. La ragione di
questo, checché si dica delle pellicole, alcune delle quali hanno
suscitato e suscitano dibattiti e talvolta aspre critiche e
polemiche, va ricercata nella sua capacità di fondere le vicende
private, personali dei protagonisti su cui si sofferma il suo acuto
sguardo, approfondendole e facendo appassionare ad esse lo
spettatore, con la dimensione pubblica, lo sfondo storico sociale
di quelle storie, che finisce per essere in qualche misura
protagonista e non resta mai esclusivamente uno sfondo.
È stato questo, ad esempio, uno dei
punti di forza del suo esordio cinematografico:
Billy Elliot, che inquadrava perfettamente la
vicenda personale del piccolo Billy, in lotta per diventare un
ballerino contro il volere della sua famiglia di minatori, nel
contesto sociale dell’Inghilterra thatcheriana degli anni ’80. Ma
in altri casi, per questo è stato anche criticato. C’è chi lo ha
accusato di utilizzare la leva dei sentimenti per “ammorbidire” il
giudizio storico sull’Olocausto col suo The
Reader, e chi ha definito eccessivamente retorico il suo
sguardo nell’ultima fatica
Molto forte, incredibilmente vicino, nonché
poco rispettoso nell’accostarsi a un evento tragico della
nostra storia recente come l’11 settembre. Ad ogni modo, questo
gentleman inglese di cinquantun anni è riuscito nella non facile
impresa di conquistare l’Academy di Hollywood, che gli ha sempre
riservato un posto in lizza per gli Oscar, tributandogli un
indiscusso riconoscimento. Ed è anche grazie a lui se due
talentuose attrici come Nicole Kidman e Kate Winslet hanno potuto
stringere tra le mani l’ambita statuetta hollywoodiana.
Stephen Daldry e il teatro
Gli inizi della carriera di
Stephen Daldry, inglese del Dorset, sono tutti
teatrali. Dopo la laurea all’università di Sheffield, infatti,
dirige spettacoli in numerosissimi teatri inglesi, fino ad
approdare, nel 1992, al londinese Royal Court Theatre, che dirigerà
per molti anni. Alcuni dei suoi spettacoli approdano anche a
Broadway, come accade per An Inspector Calls , che tra ’93
e ’94 gli frutta il Laurence Olivier Award, il Drama Desk Award e
il Tony Award come miglior regista teatrale. E poi con altri
successi come Via Dolorosa, mentre il nome di Daldry
comincia a risuonare in tutto il mondo. In Inghilterra è anche al
Gate Theatre e al Royal National Theatre, dove ottiene grande
riscontro di critica e pubblico con Machinal.
Nel 2000, dopo il cortometraggio
Eight, arriva l’esordio cinematografico vero e
proprio, che rivela sensibilità e acutezza del regista inglese.
Billy Elliot è uno riuscitissimo esordio, che
diventa anche un piccolo caso cinematografico. Ottiene il BAFTA
Award come miglior film e nomination all’Oscar per la regia di
Stephen Daldry, per l’attrice non
protagonista (Julie Walters) e per la sceneggiatura di Lee Hall.
Il film è così fortunato che Daldry deciderà di portarlo
anche nei teatri sotto forma di musical. Riscuoterà ancora un
grande successo, vincendo il Tony Award nel 2009 e sbarcando a
Broadway. Ciò che ha fatto la fortuna di questa pellicola, che
potremmo definire un piccolo capolavoro, è proprio l’abile connubio
di cui abbiamo parlato in apertura.
Tanti infatti i temi che vengono
affrontati grazie alla doppia prospettiva individuale e sociale: la
forza della passione che porta a realizzare ciò che sembrava
irrealizzabile (in questo caso la passione è quella di Billy per la
danza); la libertà individuale e la possibilità di emancipazione,
contro ogni determinismo sociale; il tema dell’omosessualità e del
pregiudizio all’interno delle piccole comunità, anche della
civilissima Inghilterra; una riflessione sulla necessità di trovare
nuove strade, quando un modello sociale ed economico (come quello
dell’Inghilterra fatta di industrie e miniere, prima dell’era
Thatcher) entra in crisi; le contraddizioni e le difficoltà messe
in luce da questa crisi. Per raccontare tutto ciò, Stephen
Daldry si avvale di un’ottima sceneggiatura, di un giovane
e talentuoso protagonista come
Jamie Bell, di una grande attrice inglese come
Julie Walters, che interpreta la maestra di
danza di Billy, colei che lo incoraggerà a seguire la sua passione,
ma anche di un bravissimo Gary Lewis, nel ruolo del padre. La
colonna sonora a base di Clash e quant’altro sia attinente
all’epoca e al tema trattato fanno il resto, permettendo a Daldry
di confezionare una commedia godibilissima e che fa riflettere al
tempo stesso.
Il drammatico e toccante The Hours
Due anni dopo il regista del Dorset
tenta il bis con un’operazione ambiziosa: la trasposizione
cinematografica di un romanzo di Michael Cunningham da cui trae il
drammatico e toccante The Hours: tre donne in
epoche diverse, accomunate da un libro, Mrs. Dalloway, e
non solo, sono il pretesto per riflettere sulla condizione
femminile, ma più in generale su ciò che accade quando l’esistenza
che conduciamo non ci soddisfa più, ci sentiamo schiacciati da
essa, oppressi da ruoli che interpretiamo, ma che non ci
appartengono. Le tre protagoniste della pellicola si trovano quindi
a fare scelte importanti, in un contesto sociale che non sembra
aver subìto grandi mutamenti nel corso dei decenni. Si tratta di
Nicole Kidman nei panni della scrittrice Virginia
Woolf, in un’interpretazione che le vale l’Oscar, di
Julianne Moore che interpreta Laura, mentre
una
Meryl Streep sempre in ottima forma è Clarissa. Tutte e tre le
attrici ottengono l’Orso d’Oro a Berlino e l’operazione può
considerarsi ottimamente riuscita. Per Daldry un’altra nomination
all’Oscar come miglior regista.
Fa molto discutere, coniugando
ancora una volta grandi eventi storici e “piccole” storie private
il successivo The Reader, che pone al centro la
vicenda di un adolescente e la sua storia d’amore con una donna
vent’anni più grande di lui, ma tratta anche il tema
dell’Olocausto. Nella seconda parte del film, infatti, la donna,
Hanna/Kate
Winslet, si scopre essere una ex SS, che deve subire
un processo per la morte di trecento ebrei. Dunque una realtà
complessa che ha per protagonisti personaggi altrettanto complessi,
di cui Stephen Daldry indaga le molte
sfaccettature e ci mostra l’evoluzione nel tempo. Hanna è allo
stesso tempo donna avvinta da passione per il giovane Michael, come
per i libri; ma anche aguzzina, assieme ad altre colleghe, di
trecento donne ebree; e poi ancora vittima di un sistema che fa di
lei il capro espiatorio (le colleghe del campo fanno in modo
che ogni responsabilità cada su di lei); e donna schiacciata da
sensi di colpa e debolezze. Kate Winslet le dà corpo
magistralmente, meritando senza dubbio la statuetta che le
viene assegnata dall’Academy, così come il Golden Globe e l’EFA. L
o stesso Michael, interpretato da David Kross (e, da adulto, da
Ralph Fiennes) è un personaggio con luci ed ombre: si lascia
prendere dalla passione per questa donna, che sembra amare, ma allo
stesso tempo è colui che può scagionarla e sceglie di non farlo. È
in un certo senso un altro percorso di formazione, come era stato
quello di Billy Elliot, seppur in un contesto del
tutto diverso. Grande Storia e storie di singoli individui, ma
siamo in ogni caso di fronte a un film e ad un regista che senza
dubbio vogliono farci riflettere, come già era accaduto in passato,
e restituirci una realtà che va oltre ogni rigido schematismo,
tornando ad affrontare ancora una volta, con sguardo problematico,
il tema dell’Olocausto. Anche stavolta arriva per Daldry la
nomination all’Oscar come miglior regista, ma il nostro non
acciuffa il premio.
Nel 2011 Stephen
Daldry, non pago delle sfide raccolte finora, decide di
cimentarsi con un altro grande evento tragico della nostra storia,
l’attentato alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre. E per
farlo sceglie la chiave che ormai conosciamo. Protagonista del suo
Molto forte, incredibilmente vicino, ancora
tratto da un testo come i due lavori precedenti, è un ragazzino,
Oskar/Thomas Horn, che si trova alle prese con quanto di più
difficile e doloroso ci sia da accettare nella vita, specie se si è
così giovani: la morte del proprio genitore. Infatti il padre di
Oskar, interpretato da
Tom Hanks, è morto proprio nelle Torri l’11
settembre. Dunque, un pezzo importante di storia, visto attraverso
la lente di un percorso individuale, di un’esperienza formativa di
crescita per un giovane ragazzo. Il film, presentato fuori concorso
al Festival di Berlino e poi candidato agli Oscar come miglior
pellicola e per la migliore interpretazione da non protagonista
(Max Von Sydow), è stato tacciato da alcuni di eccessiva retorica e
di solleticare un po’ troppo le corde sentimentali dello
spettatore, anche potenziando il riferimento all’11 settembre
rispetto al romanzo di Jonathan Safran Foer da cui la pellicola è
tratta. Staremo a vedere quale sarà il giudizio del pubblico
italiano, che la vedrà in sala dal prossimo 23 maggio.