In Disastro a
Hollywood Un produttore cinematografico d’eccezione
(Robert
De Niro) ci accompagna per una settimana nel difficile
mondo di Hollywood. Lo seguiamo nelle varie tappe delle sue
giornate, tra figli, ex mogli amiche e ex mogli ancora amate che
però non riescono ad avere la meglio sul proprio lavoro, tra star
capricciose, festival imminenti e major tiranne.
Un affresco asciutto e a tratti
eccessivo del mondo del cinema, quello dell’industria, che si
nasconde agli occhi del pubblico, quello delle star capricciose (un
inedito e divertente Bruce Willis nella parte di se stesso), dei
registi divisi tra l’arte e il mercato, della produttrice rigida
che ‘o fai come dico, o mi prendo il tuo film’, delle piccole
grandi tragedie di quelli che lo star system proprio non lo reggono
e decidono di uscirne definitivamente (vedi il produttore suicida)
… e tra tutti il produttore, diventato quasi atarassico a tutte le
sue incombenze, che si barcamena tra tutti cercando di non
soccombere.
Disastro a Hollywood
– Un affresco asciutto e a tratti eccessivo del mondo del
cinema
Film ironico ma distaccato, il
punto di vista è quello di un osservatore superiore, che guarda i
personaggi alle prese con i loro meschini problemi, trattandoli con
freddezza, senza scendere nel dettaglio psicologico, ma
semplicemente raccontando quello che succede quasi in maniera
documentaristica. E meno male. Il film scorre via, senza pretese, e
senza una storia di fondo, solo problemi su difficoltà dai quali il
nostro eroe alla fine verrà sopraffatto. Cast d’eccezione: oltre a
De Niro,
Sean Penn e Bruce Willis nei panni di se stessi,
Robin Wright,
Stanley Tucci,
Kristen Stewart, Catherine Keener,
John Turturro.
Uno sfavillio di luce galattica
avvolge lo spettatore che si lascia prendere da una storia di
nascita e origini. Ancora una volta, come già accaduto per il
Batman
di Christopher Nolan, per il restyling del mito
si torna alle origini dell’uomo (o nel caso, del vulcaniano), alla
nascita e all’educazione, per capire i ruoli i rapporti i
sentimenti che legano gli eroi che tante avventure hanno
attraversato insieme sull’enterprise tra tv e cinema in
Star Trek.
J.J. Abrams orchestra tutto con maestria ed
equilibrio, misurando emozione e phatos, adrenalina e battaglie,
prediligendo lo spostamento della camera al cut della pellicola,
per farci seguire con lo sguardo, per accompagnarci nei meandri di
una storia bella e ben raccontata, da un punto di vista visivo ma
soprattutto da quello narrativo, merito di due sceneggiatori di
tutto rispetto Roberto Orci e Alex Kurtzman che insieme
avevano già dato prova di sapere il fatto loro con transformers,
usando la commedia per entrare nell’action puro e per arrivare
attraverso di esso ai sentimenti primordiali del bene e del male,
dimensioni talvolta banalizzate ma sempre attuali.
Star Trek –
Uno sfavillio di luce galattica avvolge lo spettatore
Merito anche di un cast
convincente, Star Trek si dipana in
tutta la sua notevole durata, senza pesare minimamente sullo
spettatore, dosando con reminiscenze (oso dire) kubrickiane
riferimenti ben più calzanti e vicini come star wars e coinvolgendo
lo spettatore che esce dalla sala soddisfatto, con gli occhi pieni
di immagini poderose ed emozionanti.
“Voglio il
sangue…” adrenalinico e a tratti malinconico X-Men le
origini – Wolverine di Gavin Hood,
perfettamente interpretato da Hugh Jackman, è uno dei film più attesi della
stagione, e finalmente dal 29 maggio abbiamo potuto vederlo in
tutto il suo ruvido splendore.
Una storia triste quella di Jimmy
Logan, alias Wolverine, costretto all’esilio e alla fuga, in
continua ricerca di se stesso e di una sua nemesi che potrà forse
un giorno liberarlo dal suo senso di colpa. Una Nemesi che ben
presto scoprirà essere sempre stata al suo fianco, impersonata
Victor Creed/Sabretooth, suo simile ma completamente abbandonato ai
suoi istinti, che Logan tenta costantemente di domare.
X-Men le origini –
Wolverine – “Voglio il sangue…” adrenalinico e a tratti
malinconico il Wolverine di Gavin Hood
Un lunga ricerca, interiore ed
esteriore, che porterà Logan lontano dal Mondo, solo per rientrarvi
bruscamente quando la sua tranquillità verrà compromessa dagli
intrighi del villain di turno, il colonnello Striker, già visto in
X2, principale fautore del mito che diventerà Wolverine, l’uomo
bestia indistruttibile munito di scintillanti artigli di
adamantio.
Difficile però parlare di controllo
tra esplosioni colossali e scontri leggendari, doti sovrumane,
brama di vendetta e di potere. E proprio così che X-Men le
origini – Wolverine si presenta, un grande blockbuster di
intrattenimento con un grande potenziale purtroppo inespresso per
fare spazio al glamour di muscoli e frasi un po’ costruite.
Un Hugh Jackman in forma smagliante (anche
troppo) da volto e voce ad un anti-eroe fondamentalmente buono, che
ha sentimenti ed umanità ma che ha anche una forte dose di sensi ed
istinto da animale, un anti-eroe indistruttibile in maniera
indirettamente proporzionale alla sua anima lacerata dalle guerre,
dalla sofferenza, dal rimorso, dalla voglia di fuggire ma quella
ancora più grande di trovare un posto nel mondo. Un film che si
pone a metà tra cine-fumettone e a film più ambizioso, una bella
storia ma che non lascia traccia. Niente di serio insomma, ma allo
stesso tempo niente di faceto, in piena corrispondenza con la
dualità di un personaggio che Jackman interpreta con diligenza.
La regia di Gavin
Hood in X-Men le origini – Wolverine si
fa sentire e funziona per il genere, cerca di conciliare il momento
drammatico con quello più spettacolare che grazie a lui è
spettacolarizzato. Interessante la cerchia di comprimari che si
stringono intorno all’eroe di adamantio, spicca su tutti Victor
Creed/ Sabretooth, interpretato da un ottimo Liev Schreiber, che qualche volta mette ko il
collega artigliato non solo letteralmente ma anche sulla scena, ma
belli sono i personaggi di Silver Fox (Lynn
Collins) e dello scarmigliato Gambit (Taylor
Kitsch), sicuramente il più coreografico ma anche meno
credibile. Lavoro di routine invece per Danny
Huston, alias Colonnello Striker, l’algida disumanità
dell’uomo fa contrasto con le emozioni del mutante introducendo un
tema che è caro agli X-Men e che è stato ampiamente dispiegato
nella trilogia dedicata agli uomini straordinari (specialmente nel
primo e secondo capitolo).
Arriva al cinema distribuito
da Universal Pictures State of Play – scopri la
verità, il film drammatico diretto da Kevin
Macdonald, e con protagonisti un cast d’eccezione composto
da Russell Crowe e
Ben Affleck.
In State of Play – scopri
la verità Crowe interpreta il reporter Cal McCaffrey che,
grazie alla sua scaltrezza, si ritrova a risolvere un mistero di
delitti e collusione nel quale sono coinvolti alcuni dei politici e
degli uomini d’affari più promettenti del paese. Il membro del
congresso degli Stati Uniti Stephen Collins (Ben
Affleck), bello e imperturbabile, è il futuro del suo
partito politico: onorevole eletto, è il presidente di un comitato
che supervisiona la spesa della difesa. Tutti gli occhi sono
puntati su questo astro nascente che dovrebbe rappresentare il suo
partito nella prossima corsa alla Casa Bianca. Tutto questo finché
la sua assistente/addetta alle ricerche ed amante viene brutalmente
assassinata e segreti seppelliti da tempo cominciano a tornare alla
luce.
“I bravi giornalisti non
hanno amici, ma solo fonti”. In questa frase della direttrice di
The Washington Globe (l’attrice
Helen Mirren), lo spirito del thriller al veleno
“State of Play”, per l’ottima regia di Kevin McDonald, con un Russell Crowe superlativo.
L’attore Premio Oscar è un veterano
reporter di Washington alle prese con una serie di omicidi
collegati con un astro nascente della politica interpretato da
Ben Affleck.
Crowe torna a fare scintille nel suo ruolo, vero e
appassionato, di un uomo comune, fuori moda, interessato a far bene
il proprio lavoro, che vuole trovare il cuore della notizia senza
scorciatoie. Convince Affleck, come Robin Wright nei panni di sua moglie.
Brava Rachel McAdams che nel thriller è una blogger
del W. Globe, un po’ ingenua ma agguerrita, mentre si conferma
fuoriclasse di sempre Helen Mirren che dirige il
giornale con piglio british.
Duplicity, cioè doppio gioco, malafede ma
anche inganno spionaggio e tradimento. Questi gli ingredienti del
film che, ahimè, vengono meno alle premesse. Un film scritto e
diretto da Tony Girloy (Michael
Clayton) promette assai più di quanto in questo caso
non mantenga. Un uomo e una donna si incontrano e passano una notte
insieme, senza pensare che quella sarà l’inizio di una pseudo-
storia infinita che non si vede l’ora che finisca.
Girato in moltissime locations,
Duplicity assume colori e sapori diversi
per ogni posto che le due spie, Clive Owen e Julia
Roberts (già coppia super sexy in Closer),
attraversano nel corso del loro “colpo” per vivere felici e
contenti, combattendo contro la connaturata forma mentis della spia
che li obbliga a non fidarsi nemmeno l’uno dell’altra. I loro
viaggi, nel tempo e nello spazio, sono accompagnati da un
esasperato affastellamento di gap temporali e un uso dello split
screen fastidioso fino all’inutile che frammenta lo sguardo come a
voler economizzare il tempo mostrando più cose insieme, senza una
vera e propria funzione narrativa.
Una storia complicata che in
maniera complicata viene raccontata. E’ vero, lo spettatore
smaliziato riesce ad entrare nei cunicoli stretti e intricati delle
narrazioni più complesse, ma in questo cosa un montaggio
approssimativo confonde davvero lo spettatore calibrando male il
ritmo e bruciando il colpo di scena finale che pure è ad
effetto. Nonostante una regia poco organica il film è scritto
benissimo ed interpretato ancora meglio dagli attori, su tutti i
comprimari Tom Wilkinson e Paul
Giamatti.
Augurandoci che Michael
Clayton sia la regola e
Duplicity l’eccezione, Tony
Gilroy delude come regista ma mantiene alto l’onore dello
scrittore di L’Avvocato del Diavolo, la
trilogia di Bourne
e altri.
Gangester movie
(RocknRolla) strampalato quello di Guy Ritchie dove improbabili cattivi si
mescolano a traditori e a boss opportunisti. Un debito da saldare,
una truffa subita, un gruppo di malviventi e una contabile molto
sexy quanto determinata sono gli ingredienti di una scoppiettante
commedia travestita da un action-gangster-movie, dove tutto sembra
quello che alla fine non è. Abbandonate le 300 spade alle
Termopili, Gerard Butler è decisamente convincente nel
ruolo di One Two, seriosamente sarcastico. Nel cast anche la bella
e sensuale
Thandie Newton nei panni della contabile del boss
doppiogiochista Tom Wilkinson/Lenny Cole.
RocknRolla: crimine e illegalità nei bassifondi londinesi
RocknRolla
racconta il modo criminale e dei bassifondi della Londra
contemporanea, dove il mercato immobiliare è diventato il business
più importante, anche più di quello della droga e i criminali ne
sono gli imprenditori più entusiasti. Ma chiunque voglia entrare in
questo mercato – dal piccolo malvivente One Two (Gerard
Butler), al misterioso miliardario russo Uri Obomavich
(Karel Roden) – deve fare i conti con un solo
uomo: Lenny Cole (Tom Wilkinson). Gangster della
vecchia guardia, Lenny sa come arrivare ai suoi obiettivi e tiene
per il collo tutti i burocrati, gli intermediari o i criminali che
contano.
Basta solo una telefonata e Lenny
può far scomparire ogni impedimento burocratico. Ma come gli dice
sempre il suo braccio destro Archy (Mark
Strong), Londra è a un punto di svolta nella malavita,
con i grandi criminali che vengono dall’Est, i criminali affamanti
e disperati della strada e tutti che vogliono cambiare le regole
del commercio e del crimine. Con la quantità di soldi che circola,
tutto il mondo criminale di Londra vuole prendere parte agli
affari. Ma mentre i grandi nomi del mondo del crimine ed i piccoli
criminali si battono per ottenere il dominio, l’affare
multimilionario finisce nelle mani di una rockstar drogata
(Toby Kebbell) – il figliastro di Lenny che era
stato creduto morto ma che invece è assolutamente vivo.
Come è ormai segno distintivo di
Guy Ritchie, il film si basa su una buona regia
scandita da un montaggio che in poche battute riesce a rendere
completamente il complesso di una scena. Esempio ne è la scena di
sesso tra Butler e la Newton, efficace e divertente insieme.
Presentato nella sezione Proiezioni Speciali del Festival
Internazionale del film di Roma, la pellicola ha
riscosso successo presso coloro che hanno avuto la possibilità di
vederla, purtroppo messo in programma per poche repliche. Uscirà al
cinema questo fine settimana, dopo un’anteprima tenutasi lunedì 20
aprile all’UGC Cinemas.
Un monumento vivente del cinema
come Clint Eastwood non può sbagliare un colpo,
nemmeno raccontando una storia semplice, e molto americana, come il
suo ultimo Gran Torino. Clint questa
volta si mette nei panni di Walt Kowalski, veterano della guerra in
Corea, razzista, nazionalista, ultra-conservatore, con la bandiera
americana che sventola sul suo portico, probabilmente elettore di
Bush figlio per ben due volte, incompreso dai suoi figli (e nuore
vipere e nipoti opportunisti), presta le sue uniche attenzioni alla
sua Gran Torino del ‘72, frutto di una vita
passata a lavorare per la Ford, portandolo ad un’avversione
naturale verso chiunque si permetta il lusso di comprare auto che
non siano americane (i figli in primis).
Ha messo su una corazza così dura
che è (quasi) impossibile scalfirla, deve proteggersi in
continuazione dai musi gialli che hanno messo piede nel
suo quartiere e ora sono i suoi vicini di casa. Ma ecco che i due
ragazzi Hmong che gli abitano accanto riescono a fare breccia nel
suo animo: sebbene abbiano la stessa età dei suoi nipoti, Sue e
Thao non si sono lasciati corrompere dalla civiltà consumistica
occidentale, ma hanno saputo conservare e rispettare le loro
tradizioni asiatiche, così come Walt avrebbe voluto facessero i
suoi nipoti.
Clint
Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima
produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui
al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue
convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con
quello che è adesso. Ma il regista, vera e propria leggenda del
cinema, riesce con un’essenzialità incredibile a portare sullo
schermo pregiudizi, conflitti, relazioni, conversioni. Prende tutta
l’umanità che lo circonda, nella maniera più essenziale possibile,
e la trasforma in una poesia ruvida ma vibrante, concisa ma pregna
di emozione.
Reduce dal trionfo di
Million Dollar Baby e dal suo
straordinario dittico bellico, Flags of Our
Fathers e Lettere da Iwo
Jima, Eastwood torna nella provincia americana, che
sembra non stancarsi mai di raccontare con un occhio saggio ma
spietato. Che sia poi un testamento di revisionismo personale non
c’è da escluderlo, dal momento che nella vita vera, l’uomo Clint Eastwood è sempre stato un
repubblicano convinto, non troppo diverso dal protagonista del
film, tuttavia, forse proprio come Walt, nella sua maniera
granitica e introversa, il regista sembra porsi domande anche sulla
sua stessa vita, sul suo modo di affrontare le cose, sulle
posizioni sempre molto nette nella sua carriera. Questo aspetto
personale si è sempre scontrato con la grande sensibilità che ha
dimostrato nel corso di una carriera in continuo crescendo. Un
netto passo in avanti da quell’attore belloccio con “sole due
espressioni”.
La narrazione di Gran
Torino è seguita in maniera semplice e lineare, i dialoghi
sono cuciti addosso al personaggio (gag strepitose sono quelle tra
Walt e il barbiere di origini italiane) e gli eventi portano
naturalmente a un climax di tensione che si scioglie in lacrime
amare. Nessun effetto speciale, flashback, flashforward, nessuna
inquadratura manieristica, eppure il grande cinema si riconosce in
questo film: la semplicità è sempre la miglior scuola.
Che vuol dire quando lui non ci
chiama, non ci dice mai Ti Amo, non ci vuole sposare…? La risposta
che danno Greg Behrendt e Liz Tuccillo nel loro libro “He’s Just
Not That Into You: The No-Excuses Truth to Understanding Guys” è
che La verità è che non gli piaci abbastanza. Su
questo binario iniziale muove il film di Ken Kwapis (Licenza di
matrimonio), tratto dall’omonimo best-seller degli sceneggiatori di
Sex and tha City(la serie).
La verità è che non gli piaci abbastanza, la
trama
La verità è che non gli
piaci abbastanza è la storia di Gigi che è una frana con
gli uomini e non riesce a percepire e leggere bene i “segnali”
di Conor che lungi dall’essere interessato da Gigi, corre
dietro ad Anna che invece comincia una relazione adulterina con
Ben, marito di Janine che è amica di Gigi e di Beth, la quale è
fidanzata da 7 anni con Neil che si rifiuta di sposarla e così via.
Storie parallele che si intrecciano mostrando le relazioni d’amore
nel loro nascere, costruirsi, nel loro disfarsi, nella loro
sostanza di compromesso armonico tra le due parti. Un film
intessuto sulla regola che tutte le persone sono uguali e si
comportano, davanti alle medesime situazioni, allo stesso modo. Una
regola che finisce con l’essere infranta poiché alla fine della
storia, chi merita un premio lo riceve, chi si ama davvero resta
insieme, chi invece ha distrutto resta solo e chi invece è stato
lasciato trova la forza di ricominciare e di ricostruire la propria
vita.
La verità è che non gli
piaci abbastanza, in 129 minuti, dipana le sue storie con
freschezza senza mai eccedere nel patetismo o nel romanticismo
smielato, strizzando un occhio allo spettatore che ride dei
personaggi ma ride anche di sé, rispecchiandosi in alcune delle
situazioni rappresentate. Il film ha il suo punto di forza in un
cast stellare, dove la frangia femminile fa la parte del leone
comprendendo:
Jennifer Connelly, Jennifer Aniston,
Scarlett Johansson,
Drew Barrymore (anche produttrice), Busy
Philipps. A queste bellissime si contrappongono
Ben Affleck, Justin Long,
Bradley Cooper, Kevin Connolly.
Forte soprattutto di una
sceneggiature brillante di Abby Kohn e Marc Silverstein, il film
tira dritto per tutta la sua durata, senza stancare, risultando
divertente e alla fine non troppo retorico. Interessante è la
struttura simile a documentario di costume sulle esperienze
sentimentali delle persone comuni, interessante soprattutto perché
alla fine mopstra che lo stereotipo sociale per cui è sempre e solo
la donna a soffrire per amore, viene a cadere. Il film dunque non è
parziale ma paritario e mostra molte situazioni reali rendendo così
persone hollywoodiane, personaggi reali. La verità è che
non gli piaci abbastanza si conclude con l’implicita
riflessione che non è vero che La verità è che non gli piaci
abbastanza, ma che ogni storia è a se stante, ed ogni reazione
umana dipende da una coscienza diversa, da un percorso individuale,
che qualche volte finisce con l’essere condiviso dall’altro.
Scritto e diretto da David
S. Goyer, acclamato sceneggiatore dei Batman di Nolan.
Il mai nato si presenta come un horror
riuscito, che a classici temi di fantasmi, della compresenza del
mondo dei morti con quello dei vivi, associa volti nuovi, come
quello di Odette Yustman, simbologie e credenze di
connessioni tra i gemelli, e temi caratterizzanti, come il
misticismo e la cabala ebraica e il tema dell’esorcismo che rimanda
a ben più noti e riusciti film di genere.
La trama de Il mai
nato si dipana nell’atmosfera fredda e invernale del
film, dondogli insolita solidità considerando il genere che spesso
e volentieri non da molte spiegazioni. Goyer cerca di dare
profondità alla storia anche attraverso il tempo arrivando
addirittura a scomodare un bambino morto ad Auswitz. Resta un film
di non troppo ampio respiro, pieno di ogni stereotipo tipico del
genere, ma si distingue dai vari Scary Movie che non danno troppo
importanza alla trama.
Il mai nato
si presenta come un horror riuscito
Straordinario come di consueto
Gary Oldman, che tolti i panni dell’ormai
commissario Gordon, indossa quelli del coraggioso rabbino
esorcista. Interessante e mai scontata è l’idea del male che
si nutre della paura della propria vittima, metafora, anche se un
po’ troppo stiracchiata, del momento storico che vive il mondo.
E se tutte le favole che si leggono
ad alta voce prendessero vita propria entrando nel nostro mondo?
Questo diventa un grande problema per Mortimer Folchart, rilegatore
e, si scoprirà in seguito, lingua di fata, capace di dar vita a ciò
che legge. Il problema è ancora maggiore quando per ogni
personaggio che viene fuori dai libri, una persona del mondo reale
vi finisce dentro. Ed è questo il motore di Inkheart – La
leggenda di cuore d’inchiostro: la ricerca decennale di un
famigerato libro che prima ha sputato fuori buoni e cattivi, e poi
ha risucchiato dentro la moglie di Mortimer, detto Mo.
Il cinema ha sempre attinto dalla
letteratura, sia per quanto riguarda i soggetti da trattare, sia
per le storie vere e proprie che vengono narrate, basti pensare a
La Storia
Infinita, e al legame che si crea tra il piccolo
lettore Bastian e il regno di Fantasia. E proprio una relazione
simile lega Mo e Inkheart, ma laddove Bastian è affascinato dal
libro e volle continuare a leggere, per Mo la lettura diventa un
peso, un fardello troppo pesante, e che infatti suo malgrado
passerà alla figlia.
Inkheart La leggenda di cuore
d’inchiostro il fantasy tra fiaba e narrazione
Inkheart – La leggenda di
cuore d’inchiostro, pur avendo dell’ottimo materiale per
una storia se non Infinita, quantomeno Fantastica, crolla su se
stesso. Quando tutto è possibile, ma niente è permesso, quando il
super eroe con i super poteri ha già le sue responsabilità e non
deve rendersene conto durante il viaggio, il meccanismo si inceppa
e si hanno risultati come Inkheart, che purtroppo
per gli appassionati del genere non ha sostanza, anche se bisogna
riconoscere che è la dimostrazione di come si possano realizzare
begli effetti visivi senza budget astronomici.
Un cast avvero eccezionale con
Brendan Fraser e Helen Mirren non basta a far decollare
Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro che
cerca di portare lo spettatore al gran finale trascinandosi dietro
stralci di tensione mal formulata e che promette di esplodere alla
fine ma che invece crolla su se stesso lasciando l’ormai smaliziato
spettatore a bocca asciutta.
I love
Shopping –
Isla Fisher interpreta Rebecca Bloomwood, shopping dipendente e
giornalista in attesa del grande incarico presso una prestigiosa
rivista di moda.
I love
Shopping, tratto dal best seller omonimo si
Sophie Kinsella, è una commedia mediamente divertente, leggera e
con il lietofine romantico. Seppure ricorda Il diavolo veste Prada,
per la forte presenza del mondo della moda nella storia, il film ha
ben poco delle atmosfere raffinate e super griffate della pellicola
di Frankel. La storia si risolve in un finale buonista in cui tutti
hanno ciò che vogliono e gli errori sono ripagati a prezzo
scontato, cosa che nella vita reale non esiste, ma trattandosi del
meraviglioso modno della celluloide, tutto è concesso.
Isla Fisher interpreta una Shopaholic, una
maniaca dello shopping, delle spese inutile e superflue che
sembrano tuttavia vitali. Anche se non è tra le commedie più
brillanti degli ultimi anni, il film gode di una certa freschezza
per l’interpretazione della protagonista e per la rappresentazione
caricaturale di Robert Stanton nei panni del
funzionario che cerca in tutti i modi di far quadrare i conti della
signorina Bloomwood, merito del regista P.J. Hogan
(Il matrimonio del mio migliore amico) che sa bene come fare
commedia.
Operazione
Valchiria di Brian Singer riporta al
cinema un genere di guerra che da molto tempo non si vedeva sugli
schermi, un tipo di film che mette da parte ogni giudizio morale e
che si fa intrattenimento, senza snaturare il genere classico.
Singer mostra la sua personalità, ma lo fa con misura, lasciando
andare avanti la storia, che per struttura e scrittura, corredata
anche da un ottimo cast, parla da solo e lo fa decisamente
bene.
Operazione
Valchiria racconta di uno dei tanti colpi di stato
che furono tentati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.
Come ha detto lo stesso regista, un film che ambisce ad
intrattenere anche se se ne conosce la fine. Infatti, Singer ha
fatto ironicamente riferimento al
Titanic di James Cameron, che ha sbancato i botteghini di tutto
il mondo pur se il pubblico sapeva come sarebbe andato a
finire.
Messi da parte per una volta gli
orrori contro gli ebrei il film racconta di come, seppure nella
follia generale della Germania nazista, non tutti i generali
(interpretati da
Tom Cruise,
Bill Nighy tra gli altri) di Hitler fossero come lui;
proprio una battuta di
Kenneth Branagh lo dice: “dobbiamo dimostrare alla
storia che non tutti eravamo con lui”.
Un film gradevole, che pur svelando
dall’inizio il suo finale non scarseggia di tensione e ritmo, ben
costruiti dal regista che per una volta si è prostrato al genere
confezionando un film che seppure non rimarrà nella storia del
cinema, resta un momento godibile di intrattenimento.
Operazione Valchiria è stato girato con
fondi tedeschi.
Metti la strepitosa capacità
espressiva di un Jim Carrey. Metti una situazione da manuale di
sceneggiatura, col ribaltamento di una situazione iniziale nel suo
contrario. Metti che gli americani le commedie le sanno fare con la
stessa serietà di un melodramma epico. Ed ecco Yes
man, film brillante, portatore di una ventata di ottimismo
che rispecchia la volontà del nuovo cinema americano di lasciarsi
dietro anni di terrorismo e guerre chimiche per lasciarsi andare a
un sorriso a trentadue denti. La parola Sì diventa in questa
pellicola simbolo di cambiamento, di una speranza riposta nel
futuro, di un accettare entusiasticamente ciò che la vita propone
di giorno in giorno.
Yes Man
Da impiegato divorziato che rifiuta
a priori ogni occasione di vivere, mettendo addirittura a
repentaglio i propri affetti, Carl (Jim
Carrey) si lascia convincere da un vecchio amico (il
cui incontro è però abbastanza forzato) a partecipare a una
chiassosa e grottesca convention di un mezzo santone che predica la
via del Sì per aprirsi al meglio alla vita. Un po’ scettico, Carl
comincia il suo percorso di conversione che lo porterà a trovare
l’amore, consolidare le sue amicizie, e persino ad avanzare di
carriera, il tutto in una serie di situazioni comiche e
paradossali, che solo la bravura di Jim Carrey riesce a sostenere.
Perfetta comprimaria risulta essere
Zooey Deschanel, l’eccentrica donna di cui
Jim Carrey si innamora, bislacca almeno quanto
lui (i testi delle canzoni che suona con la sua band sono una
piccola chicca), diventa la protagonista di un amore che non vuole
essere melenso e stucchevole, ma stravagante e libero almeno quanto
i due personaggi.
Ma si sa, in ogni commedia buonista
che si rispetti, c’è sempre la morale sottesa a chiudere i giochi:
non sempre si può dire sempre di sì a priori, rischiando di fare
quel che non si vuole; le scelte si devo fare sempre con la piena
consapevolezza. Solo così si può veramente dire di sì alla
vita.
Cosa accadrebbe se le persone,
invece di invecchiare, ringiovanissero? È proprio questa la storia
di Benjamin Button, nato vecchio con gli acciacchi del tempo, ma
con un animo giovane e curioso. Un film che dall’inizio annuncia la
sua fine, inevitabile, anche per chi, come Benjamin, ha avuto una
vita diversa, straordinaria. Tratto dal racconto di
Francis Scott
Fitzgerald, Il curioso caso di
Benjamin Button racconta vita ed avventure di
Benjamin, che pur vedendo il mondo da una prospettiva diversa,
resta un essere umano, con debolezze e pregi, doti e difetti.
Diretto di David
Fincher, che aveva lasciato il pubblico incollato alle
poltrone dei cinema con Zodiac, bello seppur a tratti pesante,
Il curioso caso di Benjamin
Button esce dai canoni del regista,
diventando un prodotto anonimo nelle mani della storia stessa, vero
punto di forza della pellicola. Una regia impersonale quindi, che
lascia un po’ a bocca asciutta i cultori dell’ottimo regista di
Seven e Fight Club.
Lascia indifferente anche la fotografia candidata all’Oscar di
Claudio Miranda, fedelissimo di Fincher, che pure
in Panic Room aveva svolto un bel lavoro, ma che in Benjamin Button
osa troppo e sfiora la finzione, soprattutto nelle scene in cui si
vuole ricreare la luce dell’”ora magica”.
Buona prova del cast:
Brad Pitt comincia ad abituare il suo pubblico a
grandi interpretazioni, anche se qui non è all’altezza del suo
ruolo in Jesse James che gli fruttò la Coppa Volpi a Venezia;
Cate
Blanchett, semplicemente bellissima, eterea ed
evanescente resta una delle regine del cinema; notevole anche
l’interpretazione di Tilda Swinton che porta con sé un fascino
d’altri tempi.
La sceneggiatura, nelle mani di
Eric Roth, premio
Oscar per Forrest Gump, mostra con
misura e poesia, senza mai scadere nel romanticismo scontato,
un’esistenza particolare, vite che si intrecciano per trovarsi a
metà strada, attraverso un diario, un racconto che è allo stesso
tempo una scoperta e una riflessione sulla vita, sul suo valore,
sulla sua fugacità. Il curioso caso di Benjamin
Button ha riscontrato un notevole successo di
critica, ma un entusiasmo tiepido da parte del pubblico
d’Oltreoceano. Candidato a 13 premi Oscar tra cui: Miglior Film,
Miglior Regia, Miglior attore protagonista, Miglior attrice non
protagonista, Miglior Sceneggiatura, Miglior Fotografia.
Lasciami
entrare – Dal 1897, data di uscita di
Dracula di Bram Stoker,
ad oggi, molti sono stati gli scrittori ed i registi che si sono
lasciati ispirare dal grandissimo romanzo gotico dello scrittore
irlandese. Chi più chi meno, tutti hanno mantenuto i tratti
affascinanti del terribile e sanguinario conte Dracula, pur con
nomi diversi e varianti tra il serio ed il faceto. Tuttavia, mai
come nel caso di Lasciami Entrare
(Låt den rätte komma in di
Thomas Alfredson), il
mito del vampiro è stato stravolto ed allo stesso tempo conservato
con tali tratti di grazia e gradevolezza.
Lasciami
entrare racconta la storia di una bambina, una
piccola vampira, che viene accudita da un uomo (probabile che non
si tatti del padre), che la notte caccia per lei, affinché possa
sopravvivere. Questo piccolo gioiello svedese conserva una fedeltà
quasi romantica al romanzo e, pur sembrando un film che starebbe
bene nella selezione delle pellicole per il Giffoni Film Festival,
assume tratti inquietanti ed allo stesso tempo misteriosi, uscendo
dal genere splatter- horror che purtroppo imperversa nelle sale
cinematografiche, per elevarsi ad un horror, oserei dire raffinato,
raccontato con toni intimisti ma freddo nel rappresentare la ferina
violenza che caratterizza la natura della piccola protagonista.
L’inquietudine del titolo
(Lasciami
entrare)si concentra in due
scene, in cui Eli la vampira chiede ad Oscar di invitarla ad
entrare, altro tratto di fedeltà letterale al romanzo originale.
L’interpretazione delle conseguenze di un ingresso, per così dire,
senza invito, passate sotto silenzio in Stoker, vengono
interpretate qui in maniera inquietante, senza però scadere nello
splatter, mantenendo ancora una volta una delicatezza più unica che
rara in film con questa tematica. Anche la potenzialità sessuale e
sensuale del vampiro, viene affrontata qui in toni teneri e
delicati, soprattutto a causa della giovane età dei personaggi.
Lasciami entrare
è godibile, anche per chi non ama l’horror, che pur
distanziandosi dal genere, vi rimane perfettamente
collocabile.
Australia, il ritorno al cinema di
Luhrmann è stato
presentato anche come il ritorno del grande e romantico genere
epico drammatico di cui esempio memorabile nella storia del cinema
è Gone with the Wind.
Tuttavia, pur comprendendo tutti
gli elementi necessari, quali una donna un uomo una terra selvaggia
una guerra, non riesce a legare tutto in un corpus
omogeneo. La storia è avvincente e ben scritta, ma presenta
troppi tempi morti. In molti momenti sembra che il film sia finito,
sia da un punto di vista della risoluzione della trama, che anche
dalle splendide inquadrature ad allargare che Luhrmann ci somministra in
alto dosaggio per tutto il film.
Splendida interpretazione è offerta
dalla terra madre del regista,
l’Australia, bellissima e selvaggia, ma
anche crudele e fertile ossimoricamente insieme; la luce del
tramonto su cui si apre il film accompagna tutta la storia con i
suoi toni caldi così come l’affascinante figura del vecchio
aborigeno, spirito guida del giovane protagonista, ma anche
preservatore della terra e della magia di quei luoghi. Australia è
sicuramente una lettera d’amore del regista alla sua patria, come
già hanno detto in molti, e questo è visibile dalla presentazione
del titolo che giganteggia sullo schermo e nella sala, dalla scelta
di rendere personaggio narratore e filo conduttore il piccolo
aborigeno “mezzo-sangue” che rappresenta l’unione delle due razze,
ma anche tutti gli infiniti e insanabili strupri che l’uomo bianco
ha operato sulle persone e sulle terre in tutta la storia del
mondo.
L’Australia, bellissima e
selvaggia, ma anche crudele e fertile ossimoricamente
insieme
Leit Motiv del film è Over the
Rainbow dal film The Wizard of Oz, che
assume il preciso significato dei sogni che si possono realizzare
così come avverrà alla fine. Dopotutto se Luhrmann ha fatto cantare
a ballerine di can-can e bohemien canzoni come The Show Must Go On
oppure Heros, è accettabile anche questa scelta musicale che, oltre
ad accordarsi col tema, evita anche l’anacronismo, dato che i fatti
del film cominciano nel 1939, anno di uscita di The
Wizard of Oz.
Assolutamente perfetti i due
protagonisti, Nicole Kidman e Hugh
Jackman, nei loro ruoli, ed esilarante è il dialogo
iniziale riguardo ai cavalli che l’altezzosa Lady Ashley legge in
doppio senso. In definitiva un film che presenta l’unica
grande pecca nella regia. Luhrmann, nato come regista di teatro,
dimostra di sapersi muovere decisamente bene negli spazi ristretti
della sua trilogia della tenda rossa (Ballroom: gara di
ballo; Romeo + Giulietta; Moulin Rouge!). Tuttavia è molto più difficile gestire
una scenografia che, nel caso di Australia, diventa
personaggio.
E’ stato
presentato alla Festa del cinema di Roma
Appaloosa, il film diretto da Ed
Harris con protagonisti oltre al noto attore anche
Viggo Mortensen e
Jeremy Irons.
In
Appaloosa Due amici,
Viggo Mortensen e Ed Harris, vagano per il vecchio
west portando la giustizia laddove ce n’è bisogno, così arrivano ad
Appaloosa, una piccola città dove un cattivissimo
Jeremy Irons se ne infischia delle leggi e fa a modo
suo. I due pistoleri si insedieranno nella cittadina e cercheranno
di portare la pace fino a che un ingresso in scena inaspettato
cambierà le cose e soprattutto i rapporti tra i due personaggi.
Sulla scia dei
western originari, strizzando l’occhio allo spaghetti western per
l’ironia con cui è trattata la materia, Appaloosa è un film
piacevole, scritto in maniera eccellente da Robert Knott e da Ed
Harris e diretto in maniera classica e lineare dallo stesso Harris
anche protagonista. Basandosi su una storia semplice e tradizionale
il racconto viene messo in scena passando per tutti i punti
classici che caratterizzano il genere: l’amicizia tra due uomini,
un cattivo senza scrupoli, una donna che “si mette in mezzo”.
Appaloosa, una piccola città dove un cattivissimo
Jeremy Irons se ne infischia delle leggi
L’elemento che
però rende il film particolarmente appetibile è proprio l’ironia
con cui è affrontata la storia, con due attori,
Mortensen e Harris, come al solito in grande
forma. Molto bello anche il personaggio della Zellweger, una donna
indecisa e “libertina”, sicuramente un personaggio anomalo rispetto
ai cliché di genere.
Il film ha aperto le sezione
Proiezioni Speciali del Festival del Film di Roma, uno dei pochi
film godibili che sono stati presentati alla manifestazione, fa
dell’ironia e della splendida scrittura i suoi punti forti.
Dalla pièce teatrale di Noel
Coward, un bel film sulle dinamiche familiari, e su come sia
difficile conciliare aspetti diversi di persone che si ritrovano a
convivere forzatamente. Regine della scena sono la bella Jessica Biel, novella sposina di Ben
Barnes, detentrice delle easy cirtues, i
facili costumi del titolo, e l’eccezionale Kristin Scott Thomas, nervosa e dittatrice
madre di Barnes. A completare i quadro uno sciatto e depresso
Colin Firth nei panni del padre reduce di
guerra e Kris Marshall, comprimario che resta
impresso in qualunque sua performance (Love
Actually, Funeral Party) che qui interpreta il
maggiordomo complice della bella americana trapiantata nelle fredda
e nebbiosa campagna inglese.
In Un matrimonio
all’inglese un giovane appartenente alla borghesia inglese, durante
i suoi viaggi incontra un bellissima e giovane vedova americana, se
ne innamora e la sposa, ma viene il momento di presentarla alla
propria famiglia e proprio in questi casi, le cose non vanno sempre
bene. Sulla scia di Ti presento i miei, un’altra sulle dinamiche
familiari, questa volta però raffinata dalla postdatazione degli
eventi, ambientati all’inizio del XX secolo.
Un matrimonio all’inglese, il
film
Tutto sembra
cominciare bene per i novelli sposi, almeno fino a che le due
donne, madre e moglie, si dichiarano guerra con colpi bassi e gag
esilaranti. Una commedia ironica e divertente con un finale a
sorpresa che intesse nella trama una vena malinconica rappresentata
da Firth, decisamente in grande forma. Da notare anche la
performance della Biel, lasciate alle spalle le serie tv e le
commedie demenziali, regala un bel ritratto di donna indipendente e
ribelle, affiancata da una sempre splendida Kristin Scott Thomas. Barnes, reduce dalle
battaglie di Narnia, e prossimamente al cinema nei panni di Dorian
Grey (ancora al fianco di
Firth) risulta un po’ offuscato da tanta bravura.
Un
matrimonio all’inglese, scritto e girato da
Stephan Elliott, che si basa soprattutto sui
personaggi, su una buona scrittura e sulla campagna inglese, sempre
in ottima forma. Piacevole, sicuramente tra i più belli visti a
Roma nella Selezione Ufficiale del Festival Internazionale del
film.
Basato sul libro di Amanda Foreman,
La Duchessa è un sontuoso film che
racconta le vicende private e pubbliche di Georgiana Spencer
sposata duchessa del Devonshire. Regina della scena, in splendidi
corsetti e eccentriche acconciature, è la regina hollywoodiana dei
film in costume, Keira Knightley. Il film, diretto con classica
eleganza da Saul Dibb, si basa appunto sulla
vicenda storica di Georgiana, e percorre le pagine della biografia
a lei dedicata dalla Foreman.
Il personaggio di questa donna
moderna e forte, seppure intrappolata nelle rigide regole
dell’etichetta emerge on estrema chiarezza e forza dalla splendida
interpretazione della Knightley che ancora una volta si dimostra
interprete sensibile e sicura, anche per personaggi complessi come
era questo il caso. Parlando di Georgiana Spencer non si può non
parlare della sua più illustre discendente, Lady Diana Spencer, la
sfortunata principessa del Galles, che pure visse nell’amore della
gente e nel disamore di chi invece avrebbe dovuto amarla di più,
proprio come succede alla protagonista del film, che si trova a
condividere la casa e il marito con quella che paradossalmente si
rivela essere la sua migliore amica.
La Duchessa, il film
Intrappolata in un matrimonio senza
amore, molto diverso da quello che lei sperava, Georgiana si
rifugia nella vita pubblica, diventando be presto regina delle
feste dell’alta società londinese e maestra di moda, sfoggiando
abiti sempre più vistosi e sfarzosi che finiscono per dettare legge
in fatto di moda. Anche nella vita politica, la duchessa diventa un
personaggio di spicco, quando decide di sostenere la campagna
elettorale del suo amate segreto, interpretato da Dominic Cooper, già visto in Mamma Mia!
come promesso sposo. Al fianco di Keira, un’eccezionale
Ralph Finnies nei panni del Duca di Devonshire fa
sfoggio della sua elegante figura e del suo sguardo di ghiaccio che
gli valgono un’interpretazione eccellente, decisamente
notevole.
Anche se nel complesso il film
appare non pienamente compiuto per quello che riguarda la regia,
classica ma a tratti quasi timida di Dibb, è notevole per
l’apparato scenografico, costumi compresi di Michael O’Connor e per
le interpretazioni dei due protagonisti. Nel cast anche Haley Atwell nei panni di Bess Foster, amante
del duca e amica della duchessa, e la sempre splendida
Charlotte Rampling che invece interpreta la madre
di Georgiana.
Dalla pietra miliare del cinema di
genere fantascientifico, ecco Ultimatum alla
terra, di Derrickson, remake
dell’omonimo film del 51 di Robert Wise.
La trama del nuovo Ultimatum alla
terra
Klaatu è un alieno che giunge sulla
Terra per avvertire il genere umano che verrà presto sterminato da
una civiltà superiore, se non interrompe immediatamente la
distruzione del pianeta.
Nonostante il genere possa
promettere il meglio agli spettatori visionari, il film di
Derrickson
si basa principalmente sul contatto umano dell’alieno, incarnato
daKeanu Reeves,
ormai avvezzo a sorgere da sostanze gelatinose in condizioni quasi
embrionali. Se all’epoca di Wise, in piena Guerra Fredda
l’ultimatum dell’alieno Klaatu era rivolto principalmente ai
conflitti ai quali l’uomo è notoriamente incline, questo remake,
fedeli ai tempi che cambiano e alle esigenze dei nuovi spettatori,
parla di crisi globale, includendo la distruzione del pianeta non
solo per i conflitti, ma soprattutto per l’eccessiva sfruttamento
che l’uomo ne fa.
Tematiche politiche quindi, che mai
come in questo periodo di profonda crisi paragonato al ’29 sono
attuali, e riescono ad accendere l’attenzione dello spettatore.
All’ottusità dei soldati, rappresentati in maniera quasi
caricaturale, ecco ergersi per per contrasto la figura della
dottoressa Benson (Jennifer Connelly) che riesce a
scongiurare la fine del pianeta, non con la diplomazia né con il
cervello, ma con il cuore, grazie alla sua rappacificazione con il
figliastro (Jaden
Smith).
Ultimatum alla
terra è un film che quindi più che sugli effetti
speciali, pur di ottima fattura, basa il suo punto di forza
sull’ottimistica seppur amara considerazione che l’uomo può
salvarsi solo da solo, e proprio in questo momento, quando si è
sull’argine, sul ciglio della distruzione totale, può cambiare e
diventare migliore. Nel cast anche Katie Bathes,
nei panni del segretario di stato USA.
Mamma mia che
musical! E’ proprio il caso di dirlo. Donna, una donna di
mezza età con un passato da figlia dei fiori, sta preparando il
matrimonio per la sua unica figlia della quale non si conosce il
padre. La fanciulla, desiderosa di conoscere il suo genitore,
invita tre possibili candidati alla carica di “padre” al
matrimonio, innescando una sorta di commedia degli equivoci…
La storia è solo un pretesto
abbastanza pittoresco per mettere in scena un divertentissimo,
quasi pacchiano, musical scandito dalle leggendarie canzoni degli
ABBA, che magari quelli della mia generazione non conoscono bene,
fatta eccezione forse, solo per Mamma Mia!, ma che
quelli un pochino più grandi, hanno canticchiato al cinema insieme
alla spumeggiante, eccessiva, sopra le righe, sempre eccezionale
& Co.
I colori dell’isola greca di
sposano con le belle e irriverenti coreografie per incorniciare
numeri memorabili come quello di Mamma Mia!,
oppure di Dancing Queen, o ancora la struggente e bellissima scene
di The Winner takes it all.
Straordinario il cast femminile
(Meryl
Streep,
Amanda Seyfried) che illumina la scena senza lasciare spazio ai
maschietti che quasi sono relegati a grigie comparse nello
sfavillante luccichio di Meryl Julie e Christine. Eccezionali
Dynimite Girl.
L’ultimo lavoro di Clint Eastwood,
Changeling, uscito da poco nelle sale
italiane ha tutte le caratteristiche per arrivare lontano. Il film
racconta la storia vera di Christine Collins (Angelina
Jolie), giovane madre sola alla quale viene rapito suo
figlio di 9 anni, Walter. La donna combatterà contro tutti per
riavere suo figlio, e quando la polizia le restituisce un bambino
che non è il suo, lei sfiderà le istituzione, e la polizia in
primis, per raggiungere il suo obbiettivo. Pellicola toccante a
tratti straziante ma che lascia una forte impronta nell’ultima
inquadratura di una Angie/Christine che ha ritrovato la speranza di
poter riabbracciare un giorno il suo Walter.
Changeling, il film
Come ormai ci ha abituati da tempo,
Clint Eastwood realizza una pellicola di
grande spessore umano, ma soprattutto di grande valenza tecnica
supportato da una forte sceneggiatura di J. Michael
Straczynski e da un cast eccellente, su tutti la
splendida protagonista Jolie che offre una performance toccante e
rabbiosa, intensa ed emozionante, molto convincente, e già si parla
di secondo Oscar, per lei che ha ricevuto già la statuetta per il
ruolo in Ragazze Interrotte nel 1999.
In quello che può essere letto come
una specie di manifesto femminista, dove una donna sola combatte
contro un sistema ottuso per i propri scopi e il proprio diritto a
essere madre, Clint Eastwood impianta la sua
visione del mondo, dura, irreprensibile e spietata, sfoderando però
una grandissima sensibilità nella rappresentazione di questa donna,
appoggiandosi anche ad una interprete in stato di grazia. In una
recente intervista, la Jolie ha dichiarato non senza emozione di
essersi ispirata a sua madre, da poco scomparsa, per interpretare
la decisa e battagliera Signora Collins. Il risultato è strepitoso
a l’attrice dimostra grande padronanza del metodo per riuscire ad
attingere alle proprie emozioni e trasformarle in arte in maniera
così autentica.
È incredibile la versatilità
dell’attrice che negli ultimi anni ha lavorato in progetti
assolutamente differenti, a partire da
Beowulf di Robert
Zemeckis, in cui ha lavorato a stretto contatto con
computer grafica ed effetti speciali, passando poi per l’action più
puro e fisico di Wanted – Scegli il tuo
destino, di Timur Bekmambetov. Nella
sua prima collaborazione con Eastwood, la Jolie dimostra davvero di
riuscire ad interpretare ogni tipo di ruolo con grande gravità e
convinzione.
Clint Eastwood racconta l’America
Nonostante il film sembra
discostarsi leggermente dalla sua filmografia direttamente
precedente, il fatto che Changeling sia
basato su una storia vera continua a collocare il regista in quel
racconto della realtà, della società americana attraverso
molteplici lenti: le storie, i tempi, le classi sociali e le
persone comuni che, in situazioni particolari, diventano piccoli e
grandi eroi nazionali.
Oltre ad Angelina Jolie nel cast anche l’ottimo
John Malkovich nei panni dell’integerrimo
reverendo Briegleb, Jeffrey Donovan, Jason Butler
Harner. L’impronta di Clint si nota dunque, e non solo
nella composizione del film ma anche nella colonna sonora, scritta
da lui, che ricorda molto quella di un suo film fortunata e
bellissimo film precedente, Mystic River.
Con grande sorpresa per il tema trattato e la scelta narrativa,
Clint Eastwood racconta la maternità, l’America,
le sua contraddizioni, e in Changeling lo
fa con una rinnovata delicatezza di linguaggio e stilistica.
Il più nero episodio della saga
dell’uomo pipistrello sta imperversando nelle sale di tutto il
mondo, sbriciolando record di incassi come fossero biscotti e
lasciando dietro di sé una lunghissima scia di spettatori
entusiasti ed ammirati. Il Cavaliere
Oscuro, uscito in Italia il 23 luglio, è l’ultimo
lavoro di Chris Nolan, ma chi l’avesse già visto
può tranquillamente parlare di opera d’arte. Una Gotham buia e
cattiva è lo sfondo della caccia al Joker, un criminale folle e
terribile, che alleatosi con i clan mafiosi della città vuole
distruggere l’unico baluardo di speranza che ancora resiste nella
corrotta Gotham City: Batman.
Ancora una volta Nolan sradica il genere fumettistico dalle sue
più profonde convenzioni e trasforma il film in un capolavoro per
interpretazioni attoriali, effetti meccanici e soprattutto
movimenti di macchina. La mdp vola su grattacieli attraverso la
città in mezzo alla gente per raccontarci una storia di paura e di
duplicità, di dubbi e di contrasti, facendoci immergere ancor di
più nella oscura mente di Bruce Wayne. Se in Batman
Begins infatti abbiamo scoperto le radici e le
motivazioni dell’uomo, in questo nuovo capitolo riusciamo ad
entrare nella mente dell’eroe, quello che non esita a farsi cattivo
per salvare la sua città. Batman è l’eroe che Gotham merita, ma non
quello di cui ha bisogno, queste parole pronunciate dall’ormai
commissario Gordon sono il riassunto dei tormenti interiori, sono
la risoluzione dell’eterno contrasto tra luce ed ombra nell’animo
di wayne/batman. Un film che passerà alla storia non solo per i
risultar al box office.
Il Cavaliere Oscuro,
giustizia e follia secondo Christopher Nolan
Anche in questo film, come nel
terzo Spiderman, i cattivi sono tre
(Joker, Due facce/Dent e la mafia), ma la profonda differenza con
l’uomo ragno è la perfetta funzionalità di ogni individualità a
formare un disegno coerente e splendidamente scritto, teso e
accattivante, mai scontato, fino alla fine. Se Christian Bale si conferma lo splendido
interprete di tutte le sue performance, così come i mostri sacri
Morgan
Freeman,
Michael Caine e Gary Oldman, è davvero interessante vedere
come i cattivi, Heath Ledger e Aaron Eckhart siano magistralmente in grado di
interpretare personaggi complessi e duplici nel loro squilibrio,
entrambi speculari rispetto al loro nemico giurato.
Se in Harvey (due facce)Dent, la
duplicità, la tendenza ad ascoltare la parte oscura di sé, emerge
piano e resta alla fine non pienamente espressa anche se
completamente motivata, in Joker il discorso sulla duplicità appare
riduttivo. Ledger è bambino e omicida, divertente e terrificante
sin dalla sua prima apparizione, dalla sua prima vittima, è un
agente del caos, come egli stesso si definisce, colui che entra nel
sistema per distruggerlo, colui che sovverte le regole provando
piacere nella sofferenza altrui, gioca con la morte e spinge fino
al limite la parte buona di Batman.
Tuttavia il suo grande errore è
quello di sottovalutare l’essere umano, Joker alla fine conterà sul
libero arbitrio dei cittadini, dando per scontato il loro
comportamento, anche lui alla fine si baserà su una regola, e
questo sancirà la sua sconfitta. Splendido e terrificante insieme,
il Joker di Heath Ledger da nuova linfa, nuova
immagine ad un personaggio che relegato sulle pagine dei fumetti
aveva perso il suo spessore emotivamente destabilizzante.
Ancora una volta James
Newton Howard e Hans Zimmer ci immergono
nella Gotham dark di Nolan con una colonna sonora da brivido che
lascia trasparire le personalità diverse dei due compositori e allo
stesso tempo le fonde in tracce emozionanti che trasportano lo
spettatore coinvolgendolo sia emotivamente che mentalmente.
Il Cavaliere Oscuro è dedicato alla
compianta memoria di Heath Ledger, già leggenda, e di un operatore
morto durante le riprese.
Prima di recensire l’ultima fatica
di M. Night
Shyamalan abbiamo aspettato di sondare un po’ il
terreno, e di sentire un po’ in giro cosa ne pensasse sia la
critica più autorevole sia lo spettatore medio.
Le reazioni sono state molto
diverse: c’è chi osanna l’ennesimo capolavoro del regista indiano,
chi invece dichiara il totale fallimento dell’opera tacciando il
film di banalità nei contenuti e nei pretesti drammaturgici.
E venne il giorno
non è sicuramente tra i migliori di Shyamalan. I
dialoghi sono abbastanza scontati, per non dire totalmente fuori
luogo in più di una occasione, gli attori sono per la maggior parte
monolitici. Dopo la splendida interpretazione in The
Departed, che gli ha fruttato addirittura una candidatura agli
Oscar, Mark Walberg delude (c’è chi dice che sia
stato scelto apposta e che il suo personaggio sia volutamente
“imbranato”, c’è chi invece sostiene un madornale errore nella
scelta del protagonista); la bella Zooey Deschanel non fa altro che abbagliare il
pubblico con il suo sguardo ceruleo, merito di madre natura e non
certo di una sua particolare capacità recitativa. Spicca tra tutti
John Leguizamo, che interpreti un mafioso
(Carlito’s way di Brian de
Palma), un nano ubriaco (Moulin
Rouge! di Baz Luhrmann) o un giovane veronese violento
(Romeo+Giulietta ancora di
Luhrmann), quest’attore regala sempre performances intense e di
alto livello.
Da un punto di vista tecnico
E venne il giorno è comunque perfetto, il regista
di Il sesto senso e di Signs ci da ancora una volta prova della sua
profondissima conoscenza del mezzo cinematografico. Shyamalan è
capace di fare appello alla parte più oscura dell’animo umano
risvegliando paure che solo maestri come Hitchcock riescono
tutt’oggi a smuovere.
Il vero pregio di questo film è
proprio questo: un meccanismo della suspence costruito in maniera
magistrale, che incolla lo spettatore alla poltrona fino alla fine
e lo lascia senza respiro fino all’uscita dalla sala. Fare paura
con niente, questa è stata la grande opera di Shyamalan con
E venne il giorno. Non ci sono mostri, non ci sono
catastrofi naturali evidenti, solo il vento d’incubo che porta con
sè la più spaventosa e la più terribile delle minacce: la perdita
dell’istinto di sopravvivenza. Non c’è niente di più
soprannaturale, niente che fino oggi sia stato portato al cinema ha
minato così nel profondo la sicurezza che si ha guardando su uno
schermo una storia che non ci appartiene. Shoccante.
Arrivata La mummia – La
tomba dell’Imperatore Dragone, terzo capitolo la saga
moderna sui cacciatori di mummie più famosa del globo lascia
l’amaro in bocca a tutti gli aficionados di Rick O’Connell e
consorte.
Questo terzo episodio vede un ormai
in pensione Rick O’Connell che cerca di adattarsi alla
normalità della vita quotidiana, cercando di mettere da parte il
suo spirito di avventura. La bella Evelyn, in questo episodio
interpretata da Maria Bello che sostituisce la splendida Rachel Weisz, invece vive di ricordi,
scrivendo romanzi che parlano delle sue avventure passate, e
leggendoli in club per signore. A riportare nella vita dei coniugi
annoiati un po’ di sale è Alex, il loro unico figlio, cresciuto con
la stessa passione dei genitori per l’avventura e per i guai.
La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone, il film
Ricco di spunti narrativi, questo
film promette assai più di quanto non mantenga. Infatti, pur
basandosi su un’idea fondante buona, la scrittura del film lascia
parecchio a desiderare. I personaggi non sono all’altezza dei due
capitoli precedenti, né lo sforzo della Bello riesce nel suo
intento. Molto brava nelle parti drammatiche, attrice di grande
sensibilità, si trova a sostenere una parte che non le si addice,
sia perché la Evelyn O’Connell della Weisz era più
altezzosa e raffinata, meglio accostandosi così al carattere ruvido
del suo partner maschile, sia perché la scrittura non le è stata
d’aiuto rendendola più che ironica, a tratti ridicola.
Anche l’eroe protagonista, un
Brendan Frazer/Rick O’Connell leggermente
sottotono, non stupisce né colpisce come in passato, ancora una
volta a causa di una storia scritta approssimativamente. Oltre alla
conferma del divertente personaggio di John
Hannah, ancora una volta nei panni dell’imbranato
Jonathan Carnahan, che a dispetto dell’andamento
globale resta una figura godibile e demenziale quanto basta, le new
entry non sono da considerarsi di grande rilievo, fatta eccezione
ovviamente per i
Michelle Yeoh, una delle regine del cinema orientale,
e per Jet Li, perfido Imperatore Dragone.
La storia d’amore tra il giovane
Alex(Luke Ford) e la bella figlia immortale
(Isabella Leong) della sacerdotessa/strega,
seppure suggerita sin dall’inizio, non è spiegata dagli eventi, e
viene messa in scena senza una vera e propria causa scatenante.
Inoltre, anche il contrasto generazionale, l’astio che c’è tra
genitori e figli, non viene approfondito, pur essendo uno spunto
interessante, un tema originale trattandosi di un film
d’azione.
E proprio l’azione sicuramente non
manca. Seppure con una scrittura (di Alfred Gough
e Miles Millar) lasciata quasi al caso, il film
mantiene una sua godibilità estetica, essendo gli effetti speciali
sapientemente utilizzati. Merito del talento del regista,
Rob Cohen (The Fast and The
Furious), per gli action-movies, che riesce a tenere
l’attenzione desta anche con degli strumenti così poco
affilati.
Stephen Sommers,
regista e scrittore delle due pellicole precedenti, compare come
produttore e c’è notizia di una sua sceneggiatura dal titolo La
Mummia: la tomba dell’Imperatore Dragone non accreditata e datata
2001 (!).
Dopo un tremendo nubifragio, una
fittissima ed anomala nebbia (mist del titolo) scende su una
cittadina americana. Questo il misterioso prologo di
The Mist, che vede tornare alla regia
Frank Darabon (Le
ali della libertà), dopo quasi dieci anni
dall’uscita di
Il Miglio Verde. Proprio come dieci anni fa, il
regista si occupa della trasposizione di un romanzo di Stephen King, anche se ne modifica l’andamento
e soprattutto il finale, con l’entusiasta approvazione di King
stesso.
La pubblicità di The
Mist ci ha fatto credere che il film fosse l’ennesimo
splatter-horror fantascientifico con disgustosi mostri che divorano
indifesi esseri umani. Tuttavia il film non si risolve affatto in
questo. Con un lavoro di scrittura molto accurato, anche se a
tratti didascalico, Darabon entra nel
supermercato, scena principale del film, ed osserva le persone da
vicino. Frequenti infatti, molto più del necessario, i primi piani.
Quello che viene fuori è l’incondizionata e ingiustificabile
cattiveria umana. In The Mist, oltre ai
terribili mostri nascosti nella nebbia, sono gli esseri umani che
mostrano la loro peggiore essenza, la loro mostruosità. Numerose le
caratteristiche del racconto che ricordano la presenza di
King alla base della storia, come l’esistenza di
un mondo parallelo ed ostile, oppure come la figura della fanatica
religiosa (una Marcia Gay Harden particolarmente
in forma, inquietante), che genera il panico e che scatena la
violenza degli uomini contro i loro simili, indice efficace di
quello che nella cronaca quotidiana è l’integralismo religioso.
I tipi, i caratteri umani vengono
messi in scena nelle loro peggiori varianti, tutti i difetti
dell’uomo vengono portati a galla dalle circostanze, anche se non
manca poi l’eroe, l’uomo integerrimo e coraggioso, che cerca di
risolvere le cose nella maniera più ragionevole possibile. Proprio
questa figura, il protagonista, sarà quello punito nella maniera
più crudele alla fine del film, e non dagli extraterrestri. Finale
pessimistico, quindi, per un film che pur avendo qualche momento di
tensione, può essere considerato un horror perché fa paura, ma
anche perché mette a nudo l’essere umano nelle sue sfaccettature
peggiori, e genera appunto orrore e senso di distacco nello
spettatore.
Con un discreto risultato al box
office il film si posiziona al quinto posto nella classifica
italiana dei film più visti. La resa del film è basata
esclusivamente su inquadrature ravvicinate con cambi frequentissimi
di fuoco, probabilmente con l’intento di pilotare l’attenzione
dello spettatore a seguire gli spostamenti dell’azione nello stesso
quadro, ma che non sono al servizio della storia.
The Mist
potrebbe essere molto di più di un horror poiché mette nudo i moti
dell’animo umano, prevalentemente cattivo, tuttavia il suo limite
risiede nel voler spiegare attraverso i dialoghi ciò che le
immagini e la storia mostrano in modo molto più efficace. La
cattiveria, la violenza, mostrate nella loro crudeltà non hanno
bisogno di essere spiegate, si mostrano autonomamente nella loro
incomprensibilità.
Il film di
Maria Sole Tognazzi si presenta autonomamente dal
titolo “L’uomo che ama”, e se c’è
qualcosa di chiaro in questo film è appunto questo: il
protagonista, Pierfrancesco Favino, è innamorato. Tuttavia
nessuna buona storia può reggersi solo su un presupposto, infatti
Favino, non solo ama, ma soffre, piange e fa
soffrire.
Un film presuntuoso per come si
presenta: un saggio sull’amore visto dall’uomo. In realtà si
risolve in un racconto per immagini che smarrisce il filo
conduttore facendo smarrire anche lo spettatore, una serie di
lunghe passeggiate e di docce che vedono come protagonista
Favino che si barcamena tra una bellissima ed
innamoratissima Bellucci che soffre, ed una misteriosa e sfuggente
Rappoport che fa soffrire.
Annunciato come un film innovativo
che dovrebbe mostrare l’altra metà dell’amore, si risolve nella
fiera della banalità: anche l’uomo soffre, anche la bellissima
viene lasciata, l’amore viene e va. Niente di eccezionale anche da
un punto di vista della regia da videoclip della
Tognazzi. L’uomo che ama è capace
di affossare anche attori bravi come
Favino, ormai lanciato verso una carriera
internazionale, e la Rappoport che aveva offerto una splendida
prova ne La Sconosciuta di
Tornatore. Deludente soprattutto perché scelto per
inaugurare la sezione Premiere del Festival di Roma.
La distruzione, quindi, come la
creazione, è uno dei mandati della natura
(Sade, La filosofia del Boudoir)
Il fatto che esistano dei bisogni
sessuali negli esseri umani e negli animali è spiegato in biologia
con la assunzione di un «istinto sessuale», per analogia con
l’istinto di nutrizione (nel caso della fame). Il linguaggio d’ogni
giorno, per quanto concerne i bisogni sessuali, non possiede una
parola che corrisponda a «fame», mentre la scienza fa uso, a questo
proposito, del termine «libido».
(Freud, Le aberrazioni sessuali)
“La borghesia non può più in alcun
modo liberarsi della propria sorte […] e […] qualunque cosa un
borghese faccia, sbaglia”
(Pasolini, Teorema)
Escono a distanza di poco tempo,
1974 e 1975, forse i due film in assoluto più estremi che la
storia cinematografica del nostro paese abbia mai visto.
Si tratta di La grande abbuffata di Marco Ferreri e Salò o le 120
giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
Molto spesso parte della critica ha accostato questi film per i
loro tratti in comune.
Se indubbiamente i due film presentano aspetti simili in certe
situazioni rappresentate, nei temi e negli assunti che li
muovono, diverse sono invece sono le premesse ideologiche e
tematiche, nonché gli sviluppi espressivi e le strategie
linguistiche messe in atto dai due autori, entrambi passati alla
storia come provocatori e fustigatori di costumi.
Vediamo brevemente le trame di entrambi i film.
La grande abbuffata. Quattro uomini
-un pilota di linea, un giudice, un produttore televisivo, un
ristoratore- si chiudono in una villa nei pressi di Parigi al fine
uccidersi mangiando oltremisura. A loro si unirà poi una maestra
d’asilo. Uno per volta moriranno tutti, mentre la maestra si
rinchiuderà nella villa.
Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il film è basato sull’opera del marchese De Sade Le 120 giornate di
Sodoma, ma trasposto nella Repubblica Sociale Italiana.
Quattro signori, rappresentanti altrettanti aspetti del potere
(Eccellenza, Monsignore, Presidente, Duca) si riuniscono in una
villa in compagnia di altrettante meretrici (tre di loro
ecciteranno dei signori mediante racconti, mentre la quarta le
accompagnerà al pianoforte).I signori rapiscono un gruppo di
ragazze e ragazzi tra le brigate partigiane per disporne
crudelmente e indiscriminatamente attuando su di essi atroci
perversioni, seviziandoli e torturandoli. Il regolamento stilato
dai quattro signori proibisce ogni insubordinazione, l’assoluta
obbedienza e le pratiche religiose punibili con la morte, nonché i
coiti tra individui di sesso diverso. Durante l’orgia finale di
sesso e violenza, due giovani collaborazionisti dei signori
improvvisano maldestramente qualche passo di valzer.
Sono evidenti i nodi comuni alle
due pellicole. Entrambe fanno leva sull’eccesso (e infatti il
Monsignore di Salò commenta il crudele regolamento stilato dai
quattro signori con la frase “Tutto è buono quando è eccessivo”).
La prima pone l’accento sugli eccessi alimentari (ma non manca
l’aspetto sessuale, proprio dell’altro film), l’altra sugli eccessi
sessuali (ma non manca l’aspetto del cibo, dominante in quella di
Ferreri). C’è forse un dato ulteriore, che accomuna queste
due opere, ma tale dato è assunto e sviluppato in maniera
differente dai due registi: il loro fondo critico nei confronti di
alcuni aspetti caratteristici della società neocapitalistica, quali
l’edonismo antiumanitario, assoluto e indiscriminato, e
l’altrettanto assoluta opulenza, nonché le perversioni spesso
represse. Benché l’acredine e il piglio provocatorio sia
comune a entrambi i film (e pressoché anche all’intero opus dei due
autori), scrivevo poco più sopra che diversa è invece la modalità
con cui la critica viene messa in atto dai due registi.
La grande abbuffata (di cui Pasolini stesso aveva scritto sulla
rivista “Cinema Nuovo” nel numero di settembre-ottobre 1974,
elogiandone alcuni aspetti e rimproverando invece l’arbitrarietà e
la mancanza di articolazione dei principi metafisici e metaforici
che sembrano aleggiare nel film, già colti da Maurizio Grande) si
presenta, così come altri film del secondo Ferreri (dopo la fase di
“commedie nere” quali La donna scimmia e L’ape regina), quale film
“eventico” o fenomenologico, un po’ come il precedente Dillinger è
morto (1968) o il successivo L’ultima donna (1978).
Non si può dire che in questi film vi sia una trama, intesa in
senso tradizionale, come intreccio dove a un conflitto iniziale
debbano seguire azioni che conducano al suo scioglimento, ma
piuttosto una serie di eventi, atti (più che azioni drammaticamente
dette) interpolati a una situazione di base pressoché priva di
intreccio.
Del resto, quello della trama così intesa è un concetto forse più
proprio di certa letteratura (il romanzo classico), o al limite di
buona parte del teatro (almeno fino a Beckett escluso), mentre non
è necessariamente attributo specifico del cinematografo.
Nel caso specifico di questo film, la situazione di base è presto
detta e potrebbe essere liquidata in due righe: quattro amici
appartenenti alla borghesia medio-alta compiono un quadruplice
pantagruelico suicidio. Tutto il resto di ciò che vediamo nel film,
dalla passione del pilota Marcello per le macchine d’epoca, alle
inclinazioni artistiche del produttore Michel che suona il piano o
improvvisa dei passi di danza, ai siparietti del cuoco Ugo che
imita il Brando de Il padrino, non è che una serie di eventi
accessori a quella situazione di base che segue il suo proprio
clinamen del tutto indisturbata e in maniera inarrestabile, come
inarrestabile è l’orgia gastronomica dei protagonisti. Tali eventi
accessori, del resto, non contraddicono, non ostacolano, ma neppure
accelerano l’iter della situazione di base.
D’altro canto Ferreri non ci lascia spiegazioni palesi del perché i
suoi quattro protagonisti decidano di darsi ad eccessi alimentari
fino a morirne. Probabilmente, non ne abbiamo bisogno. Egli non
voleva fornirci che un apologo, privo di scavo psicologico (e del
resto i personaggi –sempre che a Ferreri interessi ciò che siamo
soliti definire “personaggio”- mantengono i nomi degli attori che
li interpretano: Ugo-Tognazzi; Michel-Piccoli; Philippe-Noiret;
Marcello-Mastroianni; Andreà-Ferreol), dove i protagonisti sono
presentati dapprima come esemplari della borghesia medio-alta,
ritratto ognuno nel suo ambiente personale, grigio, vacuo,
squallido, ed osservati poi nella villa solo nel loro comportamento
(con sguardo eventico, dicevamo), come animali.
Risultano illuminanti a questo proposito le parole del regista:
“Nel mio film il mangiare diventa l’ultima speranza e disperazione
presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici
particolari ho voluto rappresentare, come davanti allo specchio,
dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui
sentimenti ed è per questo che ho voluto fare un opera fisiologica.
(…) Ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non
al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di
questa vita”.
Ed ecco, non è che il corpo l’unica tragica realtà di questa vita,
allo stesso modo che per gli animali, così per gli uomini:
l’assunto materialista di Ferreri è semplicissimo, tale che non
necessita di spiegazioni logiche, quasi una tautologia.
Ma cosa accade quando è un borghese -ovvero un appartenente a
quella classe che fa dell’autosufficienza, dell’autoconservazione,
dell’integrità morale spesso paralizzante, dell’abbondanza i propri
modus vivendi- a realizzare questa “tragica realtà” del corpo?
Un borghese non può che accostarsi ad essa in maniera
automaticamente perversa, poiché si riappropria del naturale e
delle sue uniche tragiche certezze (il corpo e il suo
sostentamento) in maniera violenta ed eccessiva: egli è un complice
della società dei consumi e della sua cultura (quella delle norme
per il giudice interpretato da Noiret, quella dello spettacolo per
il produttore Piccoli, quella del benessere alimentare e del
successo dei personaggi di Tognazzi e Mastroianni), per cui il
ritorno alla natura e all’animalità fisiologica –che è anche, come
vedremo successivamente, un regressus ad uterum o ad nihil- non può
attuarsi più secondo le norme (borghesi) della autoconservazione,
ma attraverso la pulsione di morte in pieno disprezzo verso il
proprio essere.
Se i protagonisti ferreriani appaiono in certo qual modo come folli
o masochistici latori di un disprezzo antiumanitario, i
quattro signori del film pasoliniano sono inequivocabilmente dei
sadici, mossi anch’essi da disprezzo. La differenza più evidente
tra i quattro protagonisti ferreriani e i quattro signori del film
di Pasolini è che questi ultimi sono uomini di Potere. Ma se
Ferreri, per sua stessa affermazione, non ha voluto tanto
rappresentare dei significati metaforici (quelli che del resto
Pasolini, nel suo articolo su La grande abbuffata, aveva criticato
come inerti e arbitrari perché non compiutamente articolati),
Pasolini invece si serve almeno di due livelli metaforici.
Il primo è quello del sesso inteso come metafora dei rapporti di
potere, come dominio diretto esercitato da alcuni individui sul
corpo di altri (simile in questo, a un altro film maledetto,
anch’esso, come Salò, uscito postumo: Querelle di Fassbinder).
Un sesso non più vissuto –come accadeva nella Trilogia della vita
(Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una
notte) in maniera totalmente naturale, sempre gioiosa anche nelle
sue manifestazioni che la nostra cultura tende a demonizzare (il
poeta omosessuale e i tre giovani ne Il fiore delle mille e una
notte, ad esempio), ma esclusivamente come borghese possesso, dove
gli atti sessuali non hanno mai come fine il piacere che da essi
–naturalmente- deriva, ma il piacere che deriva dall’infliggerlo
come crudeltà alle loro vittime. Del resto, la sessualità dei
quattro signori, appare come perversa perché ancora –Freud alla
mano- infantile (anale-escrementizia), o consumata sui corpi morti
delle vittime nel finale.
Anche i quattro personaggi del film ferreriano, hanno, a ben
vedere, una sessualità ancora infantile: evidente nel giudice
Philippe che chiede alla maestra Andreà di sposarlo dopo che questa
gli ha praticato un rapporto orale (stesso atto che abbiamo visto
compiere precedentemente –ed è significativo- dalla sua balia), o
nel fallocentrismo latente di Marcello, o in Ugo, che muore
ingurgitando un enorme paté facendosi masturbare da Andreà.
In oltre, benché i personaggi de La grande abbuffata non siano
visti secondo un modello tradizionale di scavo psicologico, è pur
vero che molti tratti del film sono leggibili secondo certi
parametri della letteratura psicoanalitica e antropologica.
In questo senso mi sembrano illuminanti le teorie di Abraham
riprese poi da André Green.
Abraham distingue due modalità nella fase orale dello sviluppo
della libido: la prima in cui prevale la suzione (del seno
materno); la seconda (che corrisponde alla sottrazione del seno
materno) in cui prevale il piacere di mordere e lacerare che
corrisponde alla fase sadico-orale.
I personaggi ferreriani apparirebbero dunque tutti appartenenti
alla seconda fase descritta da Abraham: essi sembrano sfogare il
piacere di mordere e lacerare legato alla fase sadico orale
connessa alla sottrazione del seno materno. Il giudice Philippe
(rimasto sessualmente puer, come notava Pasolini), d’altro canto
muore proprio dopo aver ingurgitato un gigantesco budino a forma di
seno. Potremmo dire, in termini psiconanalitici, che egli ha
realizzato il desiderio di incorporazione del seno materno proprio
di quella fase dello sviluppo della libido. La figura materna del
film è naturalmente il personaggio della maestra Andreà, che
accompagna i quattro nel loro disfacimento, che è dunque anche una
sorta di regressus ad uterum, simile (ma più cruento) a quello dei
personaggi del successivo Chiedo asilo, che nel finale ritornano
alle acque –materne- del mare.
Veniamo ora al secondo livello metaforico del film di Pasolini, che
è quello della Storia. Il romanzo di Sade, autore settecentesco,
trasposto nella Repubblica Sociale, coi quattro signori che citano
a più riprese anche scrittori posteriori al tempo in cui il film è
ambientato, non è un gratuito gioco colto d’autore.
Questa operazione può intendersi meglio alla luce dell’Abiura dalla
trilogia della vita scritta dal poeta friulano all’indomani
dell’uscita del film, protestando contro la falsa tolleranza che
aveva scavalcato la lotta per la liberazione sessuale e il
proliferare dei film boccacceschi usciti a seguito della sua
trilogia.
In essa, Pasolini scrive fra l’altro: “Il crollo del presente
implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di
insignificanti e ironiche rovine.”
È l’amara constatazione di un intellettuale che si rende conto che
le armi della propria logica, della sua cultura e della sua
coscienza storica non sono sufficienti a contrastare l’orrore del
suo tempo, poiché il presente mantiene un terrificante rapporto di
specularità col passato, e il Potere omologante di oggi, della
neocapitalistica società dei consumi, non è diverso da quello
fascista, come non è diverso dai crudeli personaggi sadiani: essi
hanno come unico fine il dominio pieno e antiumanitario degli
esseri umani.
Notava giustamente Moravia a proposito del film che in esso
Pasolini si è servito “di Sade come di una pietra da lanciare
contro la società italiana, con l’intento provocatorio di farla
uscire allo scoperto, fuori dalla sua corruzione e dalla sua
contraddittoria condanna dell’omosessualità.”
Lo sguardo di Pasolini è qui, in questo suo ultimo film, amaro più
che altrove. La logica stessa, che egli adoperava da intellettuale
per fustigare i costumi, non è che un prodotto della società
dominante, un ulteriore strumento di tirannia di cui essa si serve
per stabilire delle norme, discriminando ciò che è logico e ciò che
non lo è. Ecco allora dove risiede la differenza sostanziale che
separa il film di Pasolini da quello di Ferreri. Quest’ultimo ha lo
sguardo di un entomologo o di un etologo, e come tale non riconosce
alcuna logica alla cosiddetta società civile ma neppure –a livello
metafisico- alla realtà stessa (ed era Pasolini stesso a notarlo,
nell’articolo più volte citato su La grande abbuffata: “una
contestazione assoluta, che mette in scacco «globalmente» la logica
del reale, non ammettendo la possibilità di alcun genere di
logica”): per Ferreri l’uomo non è aristotelicamente animale
razionale, e dunque egli non può dare spiegazioni logiche né alla
naturalezza del corpo (tanto nella sua creazione che nel suo
disfacimento inteso anche come regressus ad uterum), né del
quadruplice suicidio pantagruelico da lui messo in scena.
Pasolini ha invece l’amarezza di chi ha creduto fermamente, da
intellettuale, che la logica e la ragione potessero essere
ristabilite, con passione civile, anche lì dove sembravano “regnare
l’arbitrarietà e il mistero”, benché la logica borghese del buon
senso comune sia stata da lui criticata in più occasioni
(l’episodio del film Le streghe “La terra vista dalla luna”,
“Teorema”). Quella di Pasolini è una presa di coscienza da parte di
un uomo, come scriveva Moravia “tradito dal suo paese”, per il
quale ha lottato con forte passione, suo modo, ma ne è stato come
respinto per la sua diversità morale e sessuale. Quella diversità
sessuale che la società italiana borghese gli aveva fatto sentire
come nemica, in un senso di colpa latente.
Anche il linguaggio è usato nei film in maniera differente: se per
i protagonisti di Ferreri il linguaggio è quello della chiacchiera
(heideggerianamente, il linguaggio del “si dice”) tipicamente
borghese, usato come funzione meramente fatica (e forse in questo
legato al puro piacere di dire, e perciò alla fase orale), i
signori del film di Pasolini citano a memoria Baudelaire,
Nietzsche, Klossowski: sono uomini di potere che hanno fagocitato
la cultura dei pensatori “incendiari” di otto e novecento.
La condanna del Salò di Pasolini riguarda dunque in maniera
specifica il Potere e la società borghese, quella di Ferreri certi
aspetti della cultura borghese, ma il suo film appare distante da
possibili visioni in termini politici o di lotta di classe (poiché
da entomologo che non crede all’animale razionale, semplicemente,
da anarchico disincantato non può credere neppure all’animale
politico, ma solo all’animale in quanto tale?) e dunque la sua
condanna viene ad assumere tinte metafisiche e kafkiane, come di
un’oppressione dalla quale non è dato uscire, ma alla quale ci si
può solo arrendere senza troppe rimuginazioni, come fosse “l’unica
tragica realtà di questa vita”, la nostra stessa esistenza corporea
che conosce la creazione come il disfacimento.
Festen (Dogme
#1-Festen, Dan., Sve., 1998) è il primo film girato secondo i
dettami del manifesto del movimento Dogma 95. I
primi ad aderire al movimento, oltre al regista del film in
questione Thomas Vinterberg e all’altro firmatario del
manifesto (detto “voto di castità”) Lars Von Trier, furono Kristian
Levring e Soren Kragh-Jacobsen.
Come è noto, il manifesto si
proponeva di contrastare una certa tendenza del cinema che siamo
soliti definire mainstream, rinunciando agli effetti speciali, agli
investimenti ad alto budget, alle luci, a musiche non diegetiche,
etc… , reagendo così anche all’impiego delle tecnologie digitali in
uso nei film hollywoodiani e indicando una proposta alternativa di
uso delle nuove tecnologie.
Eppure non si può non essere
iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema
anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti,
semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città. (Enrico
Ghezzi)
Analizzando qui una sequenza del
film, mi propongo di rintracciarne le affinità di tipo tecnico e
linguistico con tutta una serie di altri canali mediatici
storicamente e linguisticamente diversi da quello cinematografico
in senso tradizionale. Da qualche tempo a questa parte si assiste
infatti a quella che alcuni critici e teorici dei media hanno
definito nei modi più diversi “contaminazione”, “ibridazione”,
“intersezione”, “rimediazione”, etc… tra i linguaggi dei media così
come storicamente li conosciamo e il nuovo volto che essi stanno
assumendo nell’era del digitale.
Come nota giustamente Sanfilippo
nel suo saggio La mimesi come produzione, i primi “film dogma”
Festen e Idioti (Dogme #2-Idioterne, Dan., Sve.,
Fra., Ola., Ita., 1998) sono spie di un nuovo corso della
produzione cinematografica che “cerca di attestare il suo potere
mimetico non attraverso l’ideologia dell’illusione referenziale ma
imitando alcune pratiche diacritiche del video amatoriale”.
In tal senso, l’operazione svolta
da Vinterberg con Festen si configurerebbe dunque come la ricerca
di una strategia narrativa, espressiva mimetica diversa da quella
dell’illusione referenziale del cinema classico e dell’attuale
cinema mainstream, che sembra trovare il proprio corrispettivo
linguistico appunto nelle varie pratiche attuali di video
amatoriale.A questo proposito è necessario innanzitutto guardare al
modo in cui i registi firmatari del manifesto si accostano al nuovo
mezzo digitale, e dunque la telecamera da essi scelta.
Vintenberg usa delle telecamere da
consumer più che da prosumer (e in tal senso la sua scelta
apparirebbe, almeno sotto questo aspetto, più radicale di quella di
Von Trier, che invece usa per il suo Idioti una telecamera
analogica tradizionale da cui elimina però le lenti anamorfiche).
Ne consegue un diverso modo di girare, di inquadrare, di narrare.
Lo stesso Von Trier propone come nuovo termine atto a definire le
operazioni da lui svolte in quanto operatore: “puntare”, più che un
“inquadrare”.
L’operazione svolta da Vinterberg con Festen
Viene messa da parte la
regolarità del découpage tradizionale, e il modo di girare sembra
farsi più sensibile alle tentazioni del caso. Mi sembra che ritorni
a questo proposito un’affermazione di Godard, che vale la pena
citare per intero: “Ci sono grosso modo due generi di cineasti.
Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che
camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene
attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d’improvviso la
testa e girarla ora a sinistra ora a destra e cogliere con una
serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I
secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul
punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film le
inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle
dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi si troverà
un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla
tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di
macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma
con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang).”
Ciò è simile a quanto possono
trovarsi a fare coloro i quali usano la videocamera compatta o
qualsiasi strumento da consumer o videoamatore (oggi anche i più
avanzati modelli di telefoni cellulari). Un videoamatore
probabilmente non si dà tanto pensiero di ottenere un’inquadratura
corretta o un corretto découpage secondo le regole della grammatica
cinematografica. La sua attenzione è invece di volta in volta
attirata da questo o da quell’elemento, da questa o quella
situazione, in maniera più o meno casuale e imprevedibile.
Credo che in effetti Vinterberg
somigli ai cineasti che camminano a testa bassa. Non sembra
curarsi, proprio come un cineamatore della precisione delle
inquadrature offrendo un decoupage disparato ma sensibilissimo alla
tentazione del caso. Vengo ora all’analisi di una sequenza del film
che mi sembra particolarmente rappresentativa di quanto appena
enunciato.
È la sequenza in cui Kristian, dopo
essere stato scacciato dal fratello Mikhael, rientra nella sala
dove si sta festeggiando il sessantesimo compleanno di suo padre,
tra parenti e amici, dinanzi ai quali ha accusato il genitore di
aver abusato sessualmente di lui e della sorella (ora morta
suicida) da bambini, e ora accusa violentemente la madre di essere
rimasta indifferente di fronte alle atrocità compiute dal marito
sui figli.
Kristian rientra nell’Hotel dove si
tiene il festeggiamento, e si dirige con decisione verso la sala da
pranzo. Un montaggio parallelo ci mostra il percorso di Kristian e
ciò che avviene nella sala del festeggiamento, dove sua nonna sta
cantando una canzone di fronte ai commensali. Il momento in cui
Kristian rientra nell’Hotel è ripreso con una macchina a mano
particolarmente vivace: la macchina inquadra dall’alto il pomello
della porta ruotato da Kristian. Quando questi entra, la mdp lo
riprende dapprima frontalmente, poi lo segue lasciandocene
intravedere la quinta. Nel momento in cui la porta viene aperta c’è
un sensibile aumento di illuminazione, così forte (e brutalmente
inelegante, sporco) da non lasciarci percepire in maniera netta i
contorni dell’ambiente. Stacco. Si torna alla sala da pranzo, dove
la nonna di Kristian, inquadrata in MF in piedi di spalle sta
cantando davanti ai commensali. A uno stacco segue un primo piano
della donna ripresa di profilo. Dopo un altro stacco vediamo
Kristian, inquadrato prima –wellesianamente- dal basso e poi di
spalle a MF percorrere i corridoi dell’albergo e aprire le porte
che conducono alla sala dove si tiene il ricevimento.
Segue un’altra inquadratura in PP
del profilo della nonna di Kristian, poi un’altra inquadratura di
Kristian di spalle mentre apre una seconda porta, ripresa con una
lente a focale corta che distorce le linee dell’inquadratura,
quindi di nuovo un’inquadratura di Kristian ripreso dal basso, e un
PP della nonna nella sala da pranzo pressoché identico al
precedente. A questo punto la mdp propone un ulteriore primo piano
della nonna ma da una diversa angolazione, inquadrando il volto
della donna frontalmente. Dopo un breve zoom all’indietro, la mdp,
seguendo, quasi, il rumore della porta della sala da pranzo mentre
viene aperta, panoramica brutalmente a schiaffo verso sinistra, per
farci scoprire la sorgente del rumore: è Kristian, che appena
rientrato, si dirige nuovamente verso il suo posto a tavola e
facendo tentennare il bicchiere per richiamare l’attenzione degli
ospiti, si accinge a riprendere il suo j’accuse nei confronti della
madre. Uno stacco in jump-cut (che viola per altro la regola dei
30°) ci mostra Kristian in MF mentre riprende la parola, ma a
questo punto una nuova panoramica a schiaffo verso destra scopre il
fratello di lui Mikhael che prontamente si accinge a scacciare
nuovamente Kristian dalla sala, aiutato da altri due invitati.
Stacco sul nero dell’abito di uno degli invitati.
La macchina riprende ora
lateralmente Kristian che si dimena mentre viene portato con forza
verso l’uscita della sala. Segue un PP che include Kristian e
Mikhael, poi un PPP del padre dei due mentre chiede che il figlio
sia allontanato. Dopo un altro stacco ecco un CM della tavolata,
che include sul fondo il gruppo di invitati che trascinano a viva
forza Kristian fuori dalla porta. Stacco. Altro primo piano di
Kristian fuori dalla porta. Stacco. Un invitato, ripreso dal basso,
che si oppone a Kristian e chiude la porta della sala. La mdp
inquadra per qualche istante la porta chiusa. Panoramica a schiaffo
verso destra. Stacco. Segue un primo piano del padre di Kristian,
che esprime la sua costernazione per l’episodio e invita la madre
perché riprenda a cantare.
Anche da questa descrizione si può
evincere come il modo di girare di Vinterberg costituisca qualcosa
di profondamente diverso rispetto alla cinematografia mainstream, e
come egli si accosti invece a certe soluzioni del video amatoriale,
con il loro carico di disattenzioni, sporcature e quanto la
grammatica cinematografica considera “errori”. Ne sono
testimonianza, ad esempio, i succitati movimenti di panoramica a
schiaffo, sporchi, ineleganti, così come alcuni stacchi di
montaggio (la jump cut su Kristian che riprende posto a tavola, e
lo stacco conclusivo sul volto del padre), nonché le sensibilissime
variazioni nei toni della luce: una per tutte, le sovraesposizioni
che si verificano quando i personaggi aprono delle porte.
Tutto ciò arriva a configurare,
come sostiene Sanfilippo nel saggio più sopra citato, come una
strategia mimetica alternativa e un regime di enunciazione altro
rispetto a quello convenzionalmente stabilitosi nella narrazione
cinematografica. Sanfilippo parla infatti di “sguardo soggetto”,
indicando con ciò la figura produttrice dell’enunciazione che
imprime una forte soggettività alla visione (a differenza di un
enunciatore “oggettivo”, ma che non è ancorabile a una coscienza
soggettiva vera e propria, che fa anche trasparire l’attività del
processo di produzione del racconto. Con le dovute cautele, credo
che tale discorso sia paragonabile a quello fatto a suo tempo da
Pasolini a proposito della soggettiva libera indiretta.
Si tratta sostanzialmente della
presa di possesso da parte di un narratore-autore (letterario,
cinematografico, etc.) del discorso di un personaggio della sua
opera, facendo sì che questo influenzi linguisticamente la stessa
modalità di esposizione del narratore. Pasolini sosteneva che
cinematograficamente si può giungere ciò quando lo stile del
film è influenzato dallo stato d’animo dominante di uno dei
personaggi e che ciò consenta al regista una certa libertà
linguistica e tecnica provocatoria, anche a prezzo di rompere il
tabù del cinema classico che vuole che non si avverta la presenza
della macchina da presa.
La macchina di Vinterberg, invece,
“si sente”, e in maniera forte, quasi avesse fatto propria la
soggettività ribelle di Kristian, e si sente fino a far coincidere
il poverismo ascetico-asettico del Dogma con una forte matrice
metalinguistica e materica. Nel film di Vinterberg infatti le
inquadrature sono sporche, sgranate o sovraesposte, e si vedono,
per un attimo, operatori in campo. I contorni delle inquadrature si
sfaldano per effetto delle sfocature e delle sovraesposizioni fino
a non poter più discernere in maniera netta campo e fuori campo.
Come per Kristian tutto deve essere rivelato sfidando il padre,
così per Vinterberg (e il suo operatore Dod Mantle) tutto diventa
inquadrabile, da tutto la telecamera può essere attirata, proprio
come l’occhio del cineamatore più sprovveduto ma sensibilissimo
alle tentazioni di una realtà in fieri.
Benedetto Alessandro Sanfilippo, La
mimesi come produzione, in Passages. Drammaturgie di confine, a
cura di Antonella Ottai, Bulzoni Editore, Roma. In realtà non si
può parlare di macchina da presa in senso stretto, essendo il film
girato con una telecamera digitale. Per ragioni di comodità qui
viene comunque usata la sigla “mdp”. Pier Paolo Pasolini, Empirismo
eretico, Garzanti, Milano.
La sequenza presa in questione è
tratta dal film Flags of Our Father, e l’analisi proposta si
sviluppa tramite un lavoro comparativo tra la sequenza del
film e alcune sequenze tratte dal videogame di guerra Call
of Duty; scopo di tale lavoro è quello di individuare
assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in
questione avvalorando la tesi di una reciproca influenze tra i due
mezzi analizzati mediata dallo sviluppo della computer grafica, e
il conseguente cambiamento dell’estetica, del film e del videogame,
proprio in virtù dell’influenza sopracitata.
La lunga sequenza dello sbarco
Prendiamo in esame la lunga
sequenza dello sbarco delle truppe americane sull’isola giapponese
di Iwo Jima, teatro di violenti scenari di
guerra, spesso accostata da molta critica alla sequenza dello
sbarco in Normandia girata da Spielberg (che
figura come produttore del film di Eastwood ) per Salvate il soldato Ryan. Tale affermazione
risulta approssimativa nel momento in cui non tiene conto della
spettacolarizzazione operata da Eastwood, il quale, diversamente dall’autore
di Lo squalo, ricostruisce interi scenari in computer grafica,
svincolando spesso la mdp dal suo referente indicale e puntando
invece su una ricostruzione di intere scene in post-produzione; in
tal senso, l’operazione compiuta accosta il film alle modalità di
creazione operata dai videogame; ovviamente non ci sarebbe
nulla di particolare se tale intervento si limitasse ad una mera
ricostruzione ex-novo operata dalla computer grafica: in realtà il
film di Eastwood merita un approfondimento nel momento
in cui egli sembra ricalcare alcune modalità di riprese
tipiche dei giochi di guerra FPS (first person shooter).
Ad avvalorare ciò, l’uso frequente
di soggettive, o semi-soggettive dei militari intenti a far fuoco,
o le numerose scene -caratteristiche proprio di questo genere di
gioco- in cui il regista posiziona l’arma in diagonale nella parte
bassa dell’inquadratura. Un espediente quest’ultimo tipico dei
giochi FSP, ove lo scopo è ovviamente quello di creare
un’interazione visiva tra lo schermo e il giocatore. Partendo da
tali presupposti, è facile intuire il perché Clint Eastwood abbia usufruito di tali
artifici compositivi: l’intento del regista è, in una prima
analisi, quello di rendere lo spettatore partecipe alla guerra,
liberandolo dalla sua condizione di spettatore passivo e
immettendolo direttamente nello scenario di guerra, in una
posizione che lo interpella e lo chiama in causa rendendolo attivo
al limite delle possibilità offerta dallo schermo. Il passo
successivo di un’operazione del genere è senz’altro il cinema 3d e
le nuove forme ludiche di tipo interattivo(quelle offerte dal
videogame appunto).
A livello puramente formale quindi, il
lavoro del regista si configura come una ripresa dei codici del
linguaggio dei FPS game, rivolgendosi allo spettatore -nei momenti
che rappresentano la guerra- instaurando un rapporto di
interazione: tal interazione è spronata esclusivamente
dall’impianto visivo ed esclude il coinvolgimento fisico, il quale
è invece una prerogativa del videogame (gamepad). Per esemplificare
tutto ciò basti mettere a confronto le immagini qui riportate
per capire quanto le modalità di ripresa del film di Eastwood siano debitrici al videogame FPS: le
riprese in first person del videogame si configurano nel film come
delle soggettive, le quali però, non appartenendo a nessuno(non
vediamo quasi mai chi regge l’arma), elevano il ruolo dello
spettatore a protagonista in prima persona (figure 2A e 2B); si
tratta di “soggettive intercambiabili che rendono lo spazio una
risultante dell’incrocio fra i diversi punti di vista dei
personaggi in gioco” e trovano le proprie origini nel
videogame; anche i numerosi sguardi in macchina (figure 4A e 4B) da
parte di terzi, che nel videogioco si rivolgono al character
guidato dal player, nel film si rivolgono direttamente allo
spettatore; laddove quindi, le modalità di ripresa del videogame
vanno ad interpellare il giocatore, il film mettendo in scena i
medesimi schemi compositivi attiva direttamente lo
spettatore/giocatore rendendolo player del film e della guerra
inscenata. Come precedentemente affermato, il rapporto di
influenza tra cinema e videogame non è unilaterale; laddove
il cinema va alla ricerca di espedienti visivi coinvolgenti propri
dei videogiochi, è anche vero che sempre più spesso i videogame
vanno verso una teatralizzazione propria del film, soffermandosi
sempre di più sulla storia e costruendo sequenze sempre più
realistiche che, svincolate dal gioco, si configurano come delle
vere e proprie sequenze filmiche.
Di conseguenza il videogame esplora
nuove possibilità, caratterizzando maggiormente i personaggi e gli
scenari, proprio forte della fascinazione subita dal cinema. In tal
senso basti confrontare un trailer di un film con i nuovi trailer
dei videogame per capire quanto queste due arti visuali guardino
l’una all’altra. Detto ciò, possiamo dedurre che, se il videogame
tende verso il cinema cercando in esso la possibilità di rendere il
gioco più realistico, il cinema da parte sua sembra che aspiri alle
possibilità ludiche offerte dal videogame, come se volesse
–paradossalmente- svincolarsi dagli intenti realistici per favorire
una forma che miri invece ad un rapporto più interattivo con lo
spettatore(vedi in tal senso il grande successo dei nuovi film in
3d).
Rapporto dialettico il film di
Eastwood instauri con il videogame
Proprio partendo da tale
considerazione cerchiamo di capire che tipo di rapporto dialettico
il film di Eastwood instauri con il videogame. A
prescindere dagli elementi prettamente formali, la scelta di
Eastwood di far riferimento all’estetica del
videogame va inquadrata all’interno del contesto e del tessuto
narrativo del film stesso: il film infatti non è altro che il
racconto di un falso storico, e va a distruggere uno dei simboli
americani (la fotografia dei Marines che piantano la bandiera sulla
collina di Iwo Jima). In tal caso, potremmo azzardare dicendo che
la guerra rappresentata da Clint Eastwood non poteva essere del tutto
realistica (come lo era invece la sequenza d’apertura di Salvate il soldato Ryan), in quanto lo stesso
film si snoda attorno all’immagine falsa della fotografia. Un film
dunque che si presenta come un gioco sull’immagine (quello della
fotografia che in realtà un falso), e come l’immagine di un
gioco(la rappresentazione dei soldati americani che piantano la
seconda bandiera). Ovvero: Clint Eastwood si diverte a smontare la
fotografia e con essa il mezzo fotografico e le sue capacità
documentaristiche e mette in scena la “recita” dei militari che
inscenano la seconda volta la conquista di Iwo Jima piantando una seconda bandiera.
Di conseguenza a tale
considerazione viene messa in gioco la dicotomia finzione-realtà,
sia in rapporto alle immagini sia a livello. La trama stessa si
impernia sul rapporto tra finzione e realtà, e tale rapporto
ovviamente trova riscontro nella nostra sequenza, dal momento in
cui questa, forte della computer grafica che impera in maniera
evidente, invece di adottare un approccio documentaristico(vedi
Redacted), fa affidamento appunto all’iperrealismo
ricreato dal computer, con un virtuosismo tale che va a discostarsi
dalla realtà stessa, stravolgendola e rendendo invece la sequenza
più vicina ad uno dei tanti momenti che si vivono giocando a Call
of Duty e giochi affini. È come se il regista, partendo da una
considerazione che va ad abbattere e contestare la veridicità del
mezzo (sempre riferimento alla fotografia), avesse scelto anche
formalmente un tipo di immagine che, scevra dal suo indice di
riferimento, manifestasse la perdita del luogo reale e palesasse la
sua inadeguatezza ad elevarsi a mezzo testimoniale.