Il grande silenzio (tit. or. Die grosse
stille) è il film del 2005 diretto da Philip Gröning con
protagonisti monaci della grand Chartreuse di Grenoble.
Il grande silenzio, la trama
L’ordine dei Certosini è ritenuto
una delle confraternite più rigide della Chiesa Cattolica Romana.
Nascosta dagli occhi del pubblico, la vita quotidiana dei monaci
segue le regole ed i rituali secolari dell’ordine. I visitatori ed
i turisti sono tenuti fuori dai locali del monastero. Non esistono
di fatto pellicole sui monaci. L’ultima ripresa avvenne nel 1960
quando due giornalisti furono ammessi nel monastero. Non gli fu
però concesso di riprendere i monaci. 19 anni dopo il suo primo
incontro con l’attuale Priore Generale dell’ordine, al regista
Philip Gröning fu dato il permesso di girare un film sulla vita dei
monaci.
Questo unico permesso di girare è
il risultato di una lunga e leale relazione tra Philip Gröning e il
Priore Generale. Il contratto prevede che per almeno 7 anni non
verrà permesso di girare alcun altro film nel monastero. Comunque,
considerato che fino a questo momento non era mai stato dato il
permesso di girare, questo film potrebbe rimanere unico. Philip
Gröning ha vissuto nel monastero ed ha seguito i monaci con la
telecamera. Il regista ha sperimentato la stessa vita di un
recluso, divenendo parte del rituale e della vita quotidiana, ed ha
potuto scoprire così il mondo dei monaci e dei novizi che conducono
una vita tra antichi riti e moderne conquiste.
Il Grande silenzio, l’analisi
Non è facile parlare
di Il grande silenzio. Non è mai facile
parlare di un film. In primis, per una differenza di codici: il
film ha un codice basato su una scrittura per immagini in movimento
e suoni, riprendendo le parole di Bresson, mentre le recensioni o i
saggi hanno un altro codice che è quello della scrittura
propriamente detta.
Nel caso specifico si tratta di un
film in cui la parola è pressoché totalmente assente, come già il
titolo suggerisce. I monaci della grand Chartreuse nel film non
parlano, fatte salve le sequenze delle preghiere, o quella posta
verso la fine in cui un monaco cieco dice di non essere addolorato
della propria cecità perché gioioso nel suo accostarsi a Dio.
Groning ha compiuto un’impresa
folle, al limite dell’assurdo: un film di due ore e quaranta, non
parlato, sulla vita dei monaci della gran Chartreuse, e realizzato
con pochi mezzi, senza luci e con una sola telecamera, dove
predominano le inquadrature fisse e a volte si ripetono situazioni
simili.
Ma l’assurdità dell’impresa di
Groning è pienamente giustificata dal contesto particolare in cui
egli si è trovato a girare. Già nel 1984 il regista tedesco aveva
chiesto ai monaci della certosa di effettuare delle riprese
all’interno della stessa, ma gli fu detto che sarebbe stato
possibile solo di lì a 16 anni, poiché non si sentivano, a loro
dire, ancora pronti. Il regista fu richiamato 16 anni dopo. Le
clausole: il silenzio, che i monaci certosini osservano e di cui
Groning partecipa, e la povertà di mezzi.
Parlare del Verbo o delle sue
manifestazioni, senza fare ricordo al verbo inteso come voce o
racconto, (poiché non c’è qui una trama, ma un insieme di sequenze
e situazioni) è comunque impresa coraggiosa, una ragione di più per
vedere questo film.
Il grande silenzio
è quasi un film dogma, per la castità e la povertà di mezzi
con cui è girato, ma ne esce fuori del cinema verità, quasi.
Davanti all’occhio vitreo della telecamera i monaci pregano,
insieme o in solitudine, leggono, accolgono novizi, si tagliano i
capelli, cucinano, curano piante e animali, riparano scarpe e
vestiti, officiano rituali.
I vari atti quotidiani dei monaci
sono di tanto intercalati da sequenze di primi piani fissi di
alcuni di essi, inquadrature dell’ambiente naturale, o cartelli su
fondu nero che riportano citazioni bibliche.
Non c’è alcun vezzo formale volto a
impreziosire o rivestire di ulteriore significato ciò che viene
ripreso. I soli prodigi tecnici che si vedono non sono neppure tra
i più eclatanti: qualche effetto di pellicola invecchiata,
fotografia sgranata, obiettivi grandangolari per esasperare la
profondità o volere andare più addentro a ciò che viene
mostrato.
È un assurdo, si è detto più sopra.
E non poteva essere altrimenti. Perché questo film, che nel suo
essere costituisce un absurdum, documenta un qualcosa che già è
assurdo. Perché decidere di recidere pressoché totalmente (fatto
salvo un solo computer di cui si occupa un solo monaco) il legame
col mondo esterno, andandosi a isolare tra le alpi francesi, perché
condurre un’esistenza basata solo su meditazione, preghiera,
silenzio, lavoro, perché rinunciare a quanto sta fuori e approdare
a uno stile di vita così scarno? Per fede, sembra dire Goring a
mezzo delle didascalie che riportano citazioni bibliche, la più
ricorrente delle quali, significativamente, è tratta dal libro del
profeta Geremia: “Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato
sedurre”.
Era già Kierkegaard a parlare della
fede come un assurdo, e un legame con l’Assoluto che sia a propria
volta assoluto. Absolutum, in latino, ovvero, sciolto da tutto e
tutti, radicalmente, come i monaci della certosa.
Per fede, e per rivolta, verrebbe
da dire, opponendo alla frenesia del mondo la serenità
contemplativa, dedicandosi a ogni atto, anche il più banale e
quotidiano con attenzione e cura, come fosse prezioso.
Il grande silenzio, a metà tra
Malick e Tarkovskij
Pur avendo come suo centro di base
la fede in un Dio, non si tratta di un film religioso come siamo
abituati a vederne. Ciò che è trascendente non appare, la fede è
costantemente presente, ma mai se ne parla direttamente. Essa è ciò
che scorre come sotterraneo alle immagini del film, piuttosto.
Immagini che in sé non documentano alcuna realtà trascendente, ma
anzi una quotidiana, pacificata realtà del tutto immanente e
fortemente materica: ne sono testimonianza i vari soffermarsi della
macchina da presa -con uno sguardo che potrebbe richiamarci alla
mente Malick o Tarkovskij– sugli
ambienti naturali (distese innevate, piante, corsi d’acqua), o i
vari oggetti. Non solo: le attività dei monaci che ci vengono
mostrate sono per lo più azioni semplici, di lavoro: segare dei
tronchi, spalare la neve. Ma li vediamo anche giocare come bambini
quando scivolano su un pendio innevato…
La stessa reiterazione dei più
semplici atti quotidiani ha qualcosa del rituale: una ritualità
dell’immanente, vissuto dai monaci come fosse manifestazione del
trascendente.
È curioso, a primo impatto, che si
documenti una realtà immanente in maniera così scabra e
rosselliniana, per dire di uomini così votati a ciò che li
trascende. Ma forse è proprio il loro modo di rapportarsi a
quell’immanenza che Groning si prova a catturare, pur sapendo che
non ha a disposizione altro che la propria telecamera, e che egli,
non è altro che un uomo, come tutti dotato solo dei sensi per
conoscere. E ciò rende comunque questa sua impresa affascinante.
Che ci sia riuscito o meno è un altro discorso, e determinare ciò
sta, inevitabilmente, al singolo spettatore, sulla base di come
accosta questo film, che è sicuramente complesso nella sua
essenzialità.