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Rachel Weisz e la casa dei sogni

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Mentre sta per fare il suo ritorno nelle sale italiane con Amabili resti…Rachel Weisz ha accettato di entrare a far parte di Dream House, un thriller della Universal di cui vi abbiamo più volte accennato.

Diretto da Jim Sheridan e scritto da David Loucka, il film vede Daniel Craig nei panni di un uomo che con la famiglia decide di fuggire dalla frenesia di New York e di stabilirsi in una bella casa del New England; una casa che però ha un passato inquietante che tornerà a perseguitare i nuovi inquilini.

Rachel Weisz sarà la moglie del personaggio di Craig, mentre Naomi Watts è confermata nei panni della loro ambigua nuova vicina di casa. Le riprese avranno inizio il prossimo weekend in quel di Toronto.

Fonte: Variety

Penelope Cruz per il nuovo film di Lars Von Trier

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Potrebbe essere Penelope Cruz la protagonista del nuovo, annunciato lavoro di Lars von Trier, il “film catastrofico dai risvolti psicologici” intitolato Melancholia.

Secondo le prime indiscrezioni, l’attrice spagnola sarebbe stata nel mirino di von Trier fin dalla fase di ideazione del film – che si dovrebbe girare tra Germania e Svezia entro la fine dell’anno e che dovrebbe avere già assicurato un posto a Cannes del 2011 – e avrebbe già ceduto alle lusinghe del regista.

Il regista danese ha mantenuto negli ultimi mesi il massimo riserbo sulla trama del film, non aggiungendo nulla rispetto alle prime dichiarazioni ma limitandosi a sottolineare, con la consueta provocatoria ironia, che questa volta nel suo cinema “non ci saranno lieti fine.”

Across the genre

La sequenza presa in analisi è tratta dal film Across the Universe, in particolare l’analisi proposta si sviluppa tramite  un lavoro comparativo tra una sequenza del film e un videoclip dei Green Day Wake me up When September Ends; scopo di tale lavoro è quello di individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in questione, e nel caso particolare non solo di immagini mostrate, ma anche di storie raccontate, avvalorando la tesi di una reciproca influenza tra i due mezzi presi in considerazione mediata dalla contaminazione reciproca che generi e linguaggi attraversano e “che va innanzitutto nella direzione di un collage multimediale” [1]

La scena considerata, quella del funerale del fidanzato della protagonista Lucy (Evan Rachel Wood), comincia dall’arrivo della notizia della morte al fronte del giovane. La sequenza accompagnata da un brano dei Beatles ha un significato conchiuso che sta a sé esattamente come un video musicale, e questo per ogni segmento del film. Le canzone in questione è Let it Be, del 1970 (composta principalmente da Paul McCartney anche se viene come da consuetudine attribuita al duo compositivo Lennon/McCartney), alla quale sono accostate le immagini prima di Lucy sconvolta e scene di guerriglia urbana nelle quali si nota un ragazzino cantare e poi le scene montate in parallelo di due funerali, quello del giovane marines, e quello del bambino di colore visto cantare in precedenza, in qualche modo legato ad un atro protagonista del film, Jojo.

Il videoclip, diretto da Michael Perlmutter, racconta invece la vicenda di una giovane coppia che viene separata dalla decisione di lui di rispondere alla chiamata dello Zio Sam. La canzone del gruppo statunitense, malinconica, che parla di memoria e ricordi e di tempi felici passati troppo in fretta, viene raccontata proprio con la storia dei ragazzi che all’inizio sono felici insieme e poi separati dalla guerra.

Anche se non è detto che la storia del video finisca come quella del film (la canzone, e con essa il video, finisce prima che possa finire anche la storia raccontata), notevole è l’impronta che il primo, del 2005, ha lasciato nel secondo, del 2007. E’ impossibile non ricordare il primo guardando l’altro sia per la presenza, non trascurabile, di Evan Rachel Wood, che interpreta entrambi, sia per tutto il bagaglio tecnico che i due prodotti hanno in comune. Oltre all’evidente adozione, in entrambi i casi di un montaggio parallelo, straordinario è il lavoro sulla fotografia, calda e luminosa nelle scene gioiose per entrambi, tendente al verde e decisamente più cupa nelle scene di guerra. Non può esserci esempio più chiaro di come due generi, che dovrebbero parlare lingue diverse su supporti diversi, riescono invece a darsi mutuo soccorso per uno sviluppo di entrambi verso nuove forme espressive, il cinema usando il digitale e il compositing a tratti esasperato, il video adottando una narrazione di eventi ed uno stile registico tipicamente cinematografici.

Il collage multimediale di cui sopra è proprio questa mescolanza, questa contaminatio che si verifica sempre più di frequente, e che in film musicali, quali Across the Universe, non può fare a meno di essere debitrice del genere più prossimo al musical, il videoclip. Molteplici infatti sono gli esempi di registi che passano dall’uno all’altro genere, tra i più disinvolti sicuramente Michael Gondry, e con risultati eccellenti, vedi il piccolo gioiello Eternal Sunshine of the Spotless Mind[2]. Tuttavia in questo caso, i numeri musicali prendono il sopravvento su tutto, addirittura sulla (debole) trama che li attraversa. Il film si riduce ad essere un percorso, la presentazione di un momento nel suo svolgersi, nella sua immediatezza. Al contrario di Garrone che in Primo Amore elimina, come fa il suo protagonista, tutto il superfluo fino a raggiungere ciò che è davvero importante, quasi un’operazione beckettiana di sintesi e straniamento dalla concretezza del proprio essere, qui la regista Julie Taymor, lavora per accumulo, realizzando “un film visionario e psichedelico raccontato dai Beatles, i cui testi acquisiscono nuova linfa, con uno sguardo al passato e uno al presente”[3].

Il musical moderno, diverso dai molteplici made in MGM degli anni ’40 e ‘50, consente questo lavoro di accumulo, ma difficilmente si riesce a trovare l’armonia tra musica ed eccessi grafici e scenografici, come invece accade con splendente efficacia in Moulin Rouge (2001 di Baz Luhrmann). A giustificare lo slegamento dei segmenti in Across the Universe può intervenire, solo in parte, l’ingombrante (perché celebre) colonna sonora che sovrasta storia ed interpretazioni.

Il tipo di rapporto dialettico che il film istaura con il videoclip sta alla base della contaminazione tra i generi, e qui non si parla più in maniera ristretta di generi cinematografici, ma si ci riferisce appunto ai diversi generi di intrattenimento/media che vengono proposti e si moltiplicano grazie proprio all’introduzione del digitale e al nuovo e ampissimo ventaglio di possibilità che una mente fantasiosa riesce a concepire.

Si tratta dunque di uno snaturamento del mezzo cinematografico oppure di un completamento, come dichiara Metz, della sua intrinseca natura onirica? Guardando ad Across the Universe si direbbe che sebbene la contaminatio sia un mezzo espressivo produttivo, restano comunque ben definiti i campi per ogni singola manifestazione artistico –comunicativa, cioè esistono, nonostante la labilità dei confini tra gli uni e gli altri, ambiti riservati alle storie da cinema, raccontate per il cinema, e invece ambiti, non meno validi, che si prestano a raccontare, come per la storia dei Green Day, un breve stralcio che può avere o meno uno sviluppo di spazio e tempo insieme ad un senso compiuto, come può essere un cortometraggio o un videoclip.

[1] G.D. Fragapane, Tra Fotografia e Cinema. Nuovi spazi nell’era digitale in Passages, drammatugie di confine a cura di A.Ottai pag. 6.

[2]Brutalmente tradotto in italiano con Se mi lasci ti cancello con due protagonisti eccezionali, Jim Carrey e Kate Winslet che ha ricevuto una nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista. Il film ha inoltre vinto una statuetta per miglior sceneggiatura originale.

[3] Mattia Nicoletti in http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=49437

Reitman dirigerà Ghostbusters 3

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Buone notizie per i fan della saga di Ghostbusters. Intervistato da MTV, il veterano Ivan Reitman ha confermato che sarà lui a dirigere Ghostbusters 3,  il terzo episodio della saga di Ghostbusters.

Ivan non ha voluto entrare nel merito della storia, che secondo le ultime voci vedono il vecchio team di Ghostbusters fare da mentori a dei ragazzi volenterosi, ma ha detto che gli sceneggiatori Lee Eisenberg e Gene Stupnitsky sono già al lavoro su una seconda stesura. A suo parere, la prima conteneva già trovate “molto fighe”.

Se tutto va bene, le riprese del terzo Ghostbusters 3 sono previste per l’anno prossimo.

Fonte: MTV / Comingsoon.net

Sigourney Weaver parla

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Dopo anni di attesa Ghostbusters 3 è stato finalmente ufficializzato, ma ciononostante sono ancora molti i dubbi intorno a questo sequel. A rivelare oggi qualche informazione in più è Sigourney Weaver, che nel pieno della promozione di Avatar ha risposto anche a qualche domanda riguardante Ghostbusters, mostrando un mix di scetticismo e entusiasmo.

Leggiamo quindi le dichiarazioni della Weaver prima di commentarle:

Temo proprio che il film si farà. Spero che la gente sia contenta. Non so se ne farò parte, ho ricevuto un paio di telefonate per leggere lo script. So che il figlio del mio personaggio, Oscar, che avevo rapito, è cresciuto diventando uno dei nuovi Ghostbusters. Potrei partecipare, non ci vedo niente di sbagliato anche se non penso che avrei una grande parte. Penso invece che Bill Murray ne abbia a che fare di più, sapete, potrebbe essere un fantasma.

Harold Ramis parla di Ghostbusters 3

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Harold Ramis parla di Ghostbusters 3, il terzo film sugli Acchiappafantasmi, spiffera qualche novità sul cast e racconta un episodio legato al suo personaggio, Egon… E’ il momento giusto per fare più domande possibili alle star di Ghostbusters riguardo a Ghostbusters 3: sta infatti uscendo il Blu-Ray del primo film e tra poco arriverà il nuovo videogame, e quindi sembrano tutti molto disponibili a parlare del nuovo film, il cui script – ad opera di Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy – sta per essere ultimato. Tenendo conto che su questo script dovranno dire la loro (approvandolo) Bill Murray, Harold Ramis, Ivan Reitman, Dan Aykroyd e la Sony/Columbia, ecco che le cose si fanno più delicate. Per fortuna sembra che siano tutti interessati a riportare sul grande schermo la serie, in particolare Harold Ramis, che così ha detto a Comingsoon.net:

Io ho scritto la storia del nuovo film assieme a Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy. Io e Dan Aykroyd abbiamo fatto da consulenti per la storia. Stiamo aspettando di vedere la prima bozza e capire a che punto siamo. Tutti (compresi Bill Murray e Ernie Hudson) vogliono tornare sul set, hanno tutti detto che lo faranno. Nessuno di noi ha firmato un contratto per ora – nessuno di noi – ma lo spirito è quello di fare davvero qualcosa.

Ramis ha parlato anche del suo personaggio, Egon, a Empire, raccontando quella che potrebbe essere una scena del film:

Mi interessa molto l’idea di dove sia finito Egon. Ha lavorato all’Istituto Internazionale della Scienza Immaginaria a Ginevra. Ha sviluppato una logica post-razionale, non-conclusiva per poter ragionare sui problemi del caos. Qualcuno gli chiede “cosa significa?” e lui risponde: “Non ci sono modelli spaziali, concettuali o intellettuali per descriverlo, quindi non lo sappiamo.” Egon è diventato una persona astratta: non sa neanche lui cosa sta facendo!

Sempre nello stesso articolo, riportato da Slashfilm, Dan Aykroyd spiega di sperare che Alyssa Milano interpreti nel film lo stesso personaggio introdotto nel nuovo videogame (e da lei doppiato), cioè la Dottoressa Ilyssa Selwyn, descritta come “un personaggio legato a una storia d’amore”, e aggiunge che anche Eliza Dushku dovrebbe far parte del cast.

Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters 3

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Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters 3 a  confermato il ritorno anche di Sigourney Weaver nel cast, inoltre vuole che ci siano anche Alyssa Milano e Eliza Dushku, e pensa a Harold Ramis come regista…

L’attore ha spiegato che la Sony sta premendo l’acceleratore sul progetto, e si sbilancia parlando anche di riprese: “Penso che inizieremo a girare molto presto, forse già in inverno”. Ma per girare un film servono un regista e un cast: sembra che la Sony stia facendo di tutto per ottenerli piuttosto in fretta. Ivan Reitman, regista dei primi due film, non potrà partecipare perché è “troppo impegnato nel ruolo di mega-produttore di film”, ma c’è una buona possibilità (almeno per quanto riguarda i desideri di Aykroyd) che sia Harold Ramis a dirigerlo. Ramis ha appena girato Anno Uno, commedia comica scritta proprio dagli sceneggiatori di Ghostbusters 3: “Ha un mucchio di cose in ballo, ma sarebbe grandioso vederlo lavorare a questo film.”

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince): recensione del DOC

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è il documentario-evento presentato alla IV edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione L’altro cinema – Extra diretta da Mario Sesti. Ribattezzato da molti il “film perduto” di Martin Scorsese, l’opera nasce come omaggio all’amico Steven Prince, personaggio controverso e carismatico, noto per la piccola parte in Taxi Driver ma soprattutto per una vita che sembra più incredibile di qualsiasi sceneggiatura.

Il film ha una doppia anima: da un lato c’è l’originale American Boy girato da Martin Scorsese nel 1978, dall’altro c’è il ritorno alla ribalta di Prince grazie a Tommy Pallotta, che più di trent’anni dopo decide di riprenderlo in primo piano, alternando le sue nuove confessioni alle immagini di repertorio. Il risultato è un ritratto che sfida i confini tra cinema, memoria e mito personale.

Il film perduto di Martin Scorsese

Nel 1978 Martin Scorsese era reduce dal successo di Taxi Driver e immerso in un periodo creativo febbrile. In quel contesto realizzò Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince), un documentario notturno in cui, circondato da amici e conoscenti, Prince raccontava la sua vita come in un flusso ininterrotto di aneddoti. Non c’era trama, non c’era costruzione narrativa: c’era solo un uomo che, seduto di fronte alla macchina da presa, snocciolava episodi di eccessi, dipendenze, avventure borderline, con uno stile che oscillava tra il confessionale e il teatrale.

Quel film divenne presto materiale di culto. In parte perché era difficile da reperire, in parte perché le storie raccontate da Prince avevano una forza tale da travalicare la dimensione documentaria. Non a caso, alcuni registi se ne lasciarono ispirare: Quentin Tarantino prese spunto da uno degli aneddoti più celebri – la rianimazione improvvisata con un’iniezione di adrenalina – per trasformarlo in una delle scene-icona di Pulp Fiction.

Il ritorno di Steven Prince

Dopo oltre trent’anni di silenzio, l’opera “nascosta” di Scorsese torna a vivere grazie a Tommy Pallotta, che decide di incontrare nuovamente Prince e di metterlo ancora una volta al centro della scena. L’operazione ha un fascino particolare: il tempo è passato, i capelli sono diventati bianchi, qualche ruga è comparsa, ma la vitalità e la follia che avevano reso il protagonista un’icona non sembrano essersi spente.

Il nuovo documentario alterna i racconti odierni con le immagini del film di Scorsese. Questo montaggio parallelo crea un dialogo tra passato e presente, tra il mito costruito negli anni Settanta e l’uomo che oggi si guarda indietro con un bicchiere di vino in mano. Il risultato è una riflessione sul tempo, sulla memoria e sul ruolo del racconto come strumento per dare senso all’esistenza.

Una vita più incredibile di una sceneggiatura

Ciò che colpisce in Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è la natura straordinaria delle esperienze narrate. Le vicende di Steven Prince – fatte di droga, alcol, incontri con figure eccentriche e colpi di fortuna inverosimili – sembrano uscite da una sceneggiatura di Hollywood. Eppure non sono finzione: sono la sua vita reale.

Seduto in poltrona, con lo stesso piglio sfrontato e ironico di un tempo, Prince affronta i ricordi con una leggerezza che disarma. Non c’è alcun compiacimento né pentimento, solo la consapevolezza che l’esistenza va vissuta giorno per giorno, che l’oggi conta più del domani. È questa filosofia istintiva, al limite del nichilismo, a renderlo un personaggio affascinante e al tempo stesso disturbante.

Cinema, mito e memoria

Il documentario non si limita a ricostruire la biografia di Prince: diventa anche una riflessione sul rapporto tra cinema e realtà. Il volto di Steven, ieri e oggi, testimonia come il cinema possa trasformare una persona comune in un personaggio mitico, capace di influenzare l’immaginario collettivo ben oltre la propria vicenda personale.

L’alternanza tra le immagini dirette da Scorsese e quelle girate da Pallotta mostra inoltre come la macchina da presa non sia solo strumento di registrazione, ma anche di reinvenzione. Prince diventa una sorta di “icona pop vivente”, figura sospesa tra verità e leggenda, simbolo di una generazione che ha fatto della trasgressione e dell’eccesso il proprio marchio distintivo.

Conclusione

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è molto più di un documentario su un personaggio fuori dagli schemi: è un viaggio nella memoria, nella cultura pop e nel potere del cinema di trasformare la vita in racconto e il racconto in mito.

Steven Prince appare come un sopravvissuto, un uomo che ha attraversato gli inferni della dipendenza e della notte americana senza mai perdere quella vitalità ironica che lo rese indimenticabile già agli occhi di Scorsese.

Il documentario di Pallotta, in dialogo costante con quello di Scorsese, ci restituisce un ritratto contraddittorio e affascinante, capace di far riflettere sul tempo che passa e sulla possibilità del cinema di preservare, amplificare e a volte reinventare le vite che incontra.

L’incredibile viaggio della Tartaruga, il DOC di Nick Stringer

L’incredibile viaggio della Tartarug è il documentario diretto da Nick Stringer e presentato al Festival di Roma nella sezione Alice nella Città, racconta la straordinaria avventura di una piccola tartaruga marina che, seguendo il cammino dei suoi antenati, attraversa l’Atlantico per poi tornare sulla spiaggia in cui è nata.

La trama di L’incredibile viaggio della Tartaruga, il DOC di Nick Stringer

Nata su una spiaggia della Florida, la tartaruga protagonista intraprende un percorso epico: segue la Corrente del Golfo fino ai ghiacci del nord, nuota nell’Atlantico del Nord, raggiunge le coste africane e infine ritorna nel luogo natale per deporre le uova. Un viaggio pieno di pericoli e scoperte, tra cui i cambiamenti climatici e l’impatto ambientale provocato dallo scioglimento dei ghiacci. Solo una tartaruga marina su mille riesce a sopravvivere a questa incredibile traversata.

Girato nell’arco di cinque anni e prodotto tra Austria e Regno Unito, L’incredibile viaggio della Tartaruga non è soltanto un documentario naturalistico ma un’opera che combina rigore scientifico, potenza visiva e sensibilità narrativa. Nick Stringer sceglie di adottare un punto di vista intimo e immersivo: non osserviamo il mare da spettatori esterni, ma lo percorriamo insieme alla tartaruga protagonista, accompagnandola in ogni fase della sua esistenza.

Un viaggio tra meraviglia e sopravvivenza

Il film affascina per la bellezza delle immagini, che spaziano dai fondali oceanici alle coste selvagge, ma colpisce anche per la capacità di trasmettere il senso di vulnerabilità e resistenza insito nella vita di queste creature. Ogni incontro – con predatori, correnti, ostacoli ambientali – diventa occasione per riflettere sulla fragilità della natura e sul delicato equilibrio degli ecosistemi marini.

La voce narrante, affidata in Italia a Paola Cortellesi (nell’originale a Miranda Richardson), non si limita a descrivere: accompagna con tono partecipe e al tempo stesso sobrio, evitando di appesantire le immagini con didascalismi. È un racconto che parla tanto agli adulti quanto ai più piccoli, trovando un equilibrio raro tra divulgazione e poesia.

Dal punto di vista estetico, il documentario si distingue per un montaggio che alterna sequenze spettacolari, girate con tecnologie subacquee all’avanguardia, a momenti più intimi e contemplativi. Questa scelta narrativa restituisce sia la dimensione epica del viaggio sia quella quotidiana, fatta di piccoli gesti di sopravvivenza.

Ma l’opera non si limita a incantare: pone interrogativi urgenti sul presente e sul futuro. La tartaruga diventa simbolo della lotta per la vita in un ambiente naturale minacciato dai cambiamenti climatici e dall’impatto dell’uomo. Così, mentre racconta la ciclicità della vita e il ritorno alle origini, L’incredibile viaggio della Tartaruga suggerisce anche la necessità di custodire e proteggere quel fragile equilibrio che rende possibile il ciclo stesso della natura.

In definitiva, il documentario di Nick Stringer è un film che emoziona, informa e fa riflettere. È un viaggio che parla di resistenza, memoria e continuità, e che riesce a rendere universale la vicenda di una piccola tartaruga marina, trasformandola in una metafora del nostro rapporto con il pianeta.

Panic Attack – short film

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Panic Attack – short film

Mad Men – Stagione 1: recensione della serie con Jon Hamm

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Mad Men Stagione 1, è l’acclamata prima stagione dello show che ha debuttato nel 2007 ideato da Matthew Weiner con protagonisti Jon Hamm, Elisabeth Moss, Vincent Kartheiser, January Joners e Christina Hendricks.

La trama di Mad Men – Stagione 1

Vita morte e miracoli degli agenti pubblicitari della Sterling Cooper, agenzia newyorkese ove nascono e si sviluppano amori, tradimenti, conflitti, accordi e disaccordi: dalla doppia vita di Don Draper alla scalata sociale di Peggy Olsen e sullo sfondo l’America di Kennedy e Nixon.

L’analisi della prima stagione di Mad Men

Dopo la collaborazione con I Soprano, Matthew Weiner torna alle prese con le serie televisive, ideando un prodotto che si discosta dalle produzioni più attigue: partendo da una macrostruttura di base, la serie di Weiner crea micro vicende e gestisce una serie di personaggi che in soli 13 episodi acquistano un notevole spessore. Le storie dei personaggi sono ricondotte all’interno dell’agenzia pubblicitaria Cooper, che a sua volta è incastrata all’interno del sistema socio-economico che regola i rapporti e le vicende stesse: ogni movimento compiuto dai protagonisti è il riflesso del processo evolutivo in atto nell’America negli anni ’60.

L’impianto corale è ricostruito in primo piano con uno sfondo che richiama continuamente i movimenti americani, come la campagna elettorale e la lotta per la presidenza tra Nixon e Kennedy. La grande forza della serie sta nell’acuta ricostruzione dell’ambiente e delle vicissitudini della società americana in quegli anni, riprodotta in maniera minuziosa attraverso lo sviluppo di personaggi che incarnano vizi e virtù della società. Mad men si colloca nel passaggio tra l’entusiasmo per il sogno americano e il completo fallimento dei personaggi che lo inseguono; riflesso dunque  della disillusione prodotta dalla caduta dei miti su cui l società si fondava. L’ american way of life e l’idea di una famiglia in stile spot pubblicitario, sono completamente spazzate via dalle nevrosi e dalle reali insicurezze che caratterizzano i protagonisti.

Un punto di la svolta decisiva per la cultura americana

La serie tv si pone dunque in un punto che è la svolta decisiva per la cultura americana: se da una parte abbiamo la tendenza dei personaggi al perfezionismo maniacale a alla cura delle apparenze, residuo di quella mentalità bigotta destinata a subire un tremendo scacco, dall’altra abbiamo in contrasto la liberalizzazione della sessualità e la nascita dei costumi e della cultura hippie, in cui Draper si imbatte e si scontra inevitabilmente. Da un lato Betty Draper, moglie di un agente pubblicitario di successo, impeccabile nella sua immagine e nel suo ruolo di madre e moglie, frutto di quella tendenza al perbenismo forzato che causa ansie spasmodiche e conflitti interiori; dall’altro l’amante dello stesso Don, personaggio dedotto dai movimenti femministi e dalla deregulation dei costumi sessuali, che verso la fine degli anni sessanta muovono i primi passi.

Ma il vero personaggio che meglio incarna le critiche ai ruoli cui la donna è costretta – nonché personaggio complesso e magistralmente dipinto – è Peggy Olsen, che, determinata e conscia della sua intelligenza, riesce ad ottenere ruoli all’interni della compagnia, che fino ad allora erano riservati soltanto agli uomini. Vero protagonista della storia, personaggio in conflitto con se stesso e con la realtà circostante, che incarna lo spaccato cui la società sta andando in contro, è Don Draper, in bilico tra l’accettazione della morale americana e il netto rifiuto di questa; egli che rinnegando il suo passato ha rinnegato quel pezzo di storia che ha contribuito alla nascita di questo stile di vita tanto ambito; egli che in continua fuga dall’asfissiante vita famigliare ogni volta vi fa ritorno frustrato dal tedio e da un’inesauribile insoddisfazione personale.

Inevitabile il drammatico scacco subito – e da Draper in primis e dai co-protagonisti in maniera non meno grave – nel finale delle serie: scacco necessario che spazza via in maniera drastica i falsi valori su cui si poggiano le certezze della società, creando un punto di svolta che parte dal tacito nonché ineluttabile e fatale fallimento corale.

Videocracy – Basta apparire di Erik Gandini

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Videocracy – Basta apparire (2009), diretto dal regista bergamasco Erik Gandini, è uno dei documentari più discussi e controversi del cinema italiano contemporaneo. Presentato in anteprima al Festival di Venezia, il film affronta senza filtri il rapporto tra televisione, immagine e potere nell’Italia di inizio Duemila, in un’epoca in cui il piccolo schermo non era solo intrattenimento, ma la vera arena politica e culturale del Paese.

Attraverso volti emblematici come Fabrizio Corona, “fotografo-ricattatore” autoproclamatosi Robin Hood, e Lele Mora, talent scout vicino a Silvio Berlusconi, Gandini mostra l’altra faccia dello spettacolo televisivo: un sistema che seduce, manipola e condiziona aspiranti star, vip e spettatori. Il suo titolo – Videocracy – rimanda a un concetto preciso: il governo delle immagini, dove apparire conta più che essere, e la televisione diventa lo strumento privilegiato di un potere che invade ogni aspetto della società.

Videocracy – Basta apparire, la trama:  Il film documenta alcuni aspetti della tv italiana, delle reti mediaset, i provini e i tentativi compiuti da un ragazzo per diventare un’icona dello spettacolo televisivo. Vengono raccontate le vicende del fotografo/ricattatore Fabrizio Corona e dello scopritore di talenti Lele Mora.

Videocracy – Basta apparire è un “invisibile”. Presentato al Festival di Venezia nel 2009, ci si sarebbe aspettati di vederlo regolarmente distribuito nelle sale italiane, e invece la sua uscita fu limitata a poche copie e proiezioni sporadiche.

Perché? La risposta è semplice: il film affronta un tema che scotta, il potere delle immagini televisive. La videocrazia. Non a caso sia RAI sia Mediaset si rifiutarono di trasmetterne il trailer, e poche sale accettarono di programmarlo.

Il documentario mostra come il potere delle immagini agisca a diversi livelli:

  • sul giovane di provincia che sogna una carriera in tv,

  • sui VIP resi ricattabili dal gossip,

  • su produttori e spettatori che restano parte di un meccanismo perverso.

Il potere delle immagini

Di questo sistema hanno saputo approfittare alcuni personaggi chiave. Corona, ad esempio, racconta senza remore di essere un “Robin Hood” che ruba ai ricchi per dare a se stesso. Mora, invece, appare come un vero mediatore di potere: mostra con orgoglio il suo cellulare pieno di immagini di simboli fascisti, mentre in sottofondo risuona Faccetta nera.

E ancora: per diventare una “meteorina” di Rete4 bisogna passare per il “Billionaire” di Flavio Briatore, mentre i provini per le veline di Striscia la notizia diventano il rito di passaggio verso una carriera televisiva.

Gandini e la videocrazia

Erik Gandini, regista bergamasco da anni residente in Svezia, mostra come le immagini televisive siano diventate strumento di condizionamento non solo per chi aspira a diventare famoso, ma anche per chi lo è già. Parafrasando Debord, lo spettacolo è un insieme di relazioni sociali mediate dalle immagini, e in Italia questo legame tra immagini e potere è incarnato dall’uomo politico che più di tutti ha fatto della tv il suo strumento: Silvio Berlusconi.

Le reti televisive, specialmente Mediaset, diffondono un modello di edonismo che manipola coscienze e desideri, promettendo all’“everyman” un quarto d’ora di celebrità, warholiano e illusorio.

Estetica e limiti del film

Le immagini del film sono volutamente sgranate, sporche, pastose, come se fossero riprese di uno schermo televisivo. Richiamano i retini pop di Lichtenstein o le immagini usurate di Warhol: fotogrammi già consumati e riutilizzati, digeriti e instillati nello spettatore.

Videocracy – Basta apparire affronta temi scottanti e necessari, e ha il merito di metterli a nudo con chiarezza. Tuttavia, alla sua operazione manca un vero affondo critico sulle dinamiche profonde dello strapotere mediatico: Gandini si limita a mostrare i casi noti (Corona, Mora) senza andare oltre. L’opera resta comunque preziosa come testimonianza di un’epoca in cui lo spettacolo e il potere politico si sono fusi in un unico dominio: quello delle immagini.

Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov

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Il colore del melograno (Sayat Nova, titolo originale modificato dalle autorità sovietiche in Brotseulis kvaviloba – Sayat Nova) è il capolavoro del 1968 diretto da Sergej Paradjanov. L’opera racconta la vita del poeta armeno del XVIII secolo Sayat Nova, non attraverso una narrazione tradizionale ma tramite una serie di tableaux viventi, ricchi di simbolismo e visioni oniriche. Infanzia e adolescenza, il servizio presso il principe, l’amore proibito per sua figlia, il ritiro in convento e infine la morte per mano dei soldati persiani: ogni fase dell’esistenza del poeta è evocata per immagini, in una dimensione rituale e metaforica che trascende il realismo narrativo.

Un cinema di poesia

Ci sono molti modi per raccontare una vita. Chi ha detto che al cinema sia necessario attenersi a una narrazione lineare? Il colore del melograno è probabilmente uno degli esempi più limpidi di “cinema di poesia”. Paradjanov sceglie di non “raccontare” ma di visualizzare l’esistenza del poeta attraverso il linguaggio della metafora, dei simboli e delle immagini frontali, sospese, fuori dal tempo.

Sayat Nova, considerato il più grande poeta armeno, apparteneva alla tradizione degli ashughi, simili ai trovatori occidentali. Paradjanov, più che restituire una biografia fedele, cerca di tradurre in immagini l’essenza della sua poesia, evocandone l’universo interiore.

Simbolismo e ritualità

Una delle prime sequenze mostra Sayat bambino che dispone libri sui tetti di un convento e vi si stende sopra con le braccia aperte, in un’immagine che anticipa il suo futuro martirio. In un’altra scena, la mano del giovane poeta rimane schiacciata tra due volumi mentre un sacerdote lo esorta a leggere “per il popolo”: un gesto che diventa correlativo oggettivo della poesia come missione e al tempo stesso come fardello.

Il film alterna riti religiosi, mestieri quotidiani, gesti intimi, restituendo i “colori e gli aromi” del mondo che formò l’immaginazione poetica di Sayat Nova. L’amore per la figlia del principe è reso con sguardi e movimenti rituali, mentre la morte del poeta è rappresentata da immagini di forte potenza visionaria, come il suo corpo disteso tra candele mentre galli, svolazzando, finiscono per bruciarsi.

Un linguaggio tra oriente e occidente

L’impressione dominante è quella di assistere a un rituale. Ogni gesto, ogni oggetto, sembra spiritualizzato e rimandare a una realtà altra. Le inquadrature frontali, quasi bidimensionali, ricordano le miniature medievali e il teatro Nō giapponese, più che il cinema narrativo occidentale. Lo spazio diventa così sospeso, onirico, irriducibile a un tempo realistico.

Un film censurato e scomodo

Non stupisce che un’opera di questo tipo, impregnata di spiritualità e surrealismo, abbia incontrato l’ostilità dell’URSS. Il governo sovietico impose la modifica del titolo originario Sayat Nova in Il colore del melograno e accusò Paradjanov di essersi discostato dal realismo socialista. Le pressioni non si fermarono al piano artistico: il regista venne condannato a cinque anni in un campo di prigionia con accuse infondate di omosessualità e furto. Solo grazie alla mobilitazione di artisti e colleghi venne liberato, ma per anni gli fu impedito di lavorare.

Eredità e riscoperta

Oggi Il colore del melograno è considerato un caposaldo della storia del cinema, amato e lodato da autori come Tarkovskij e Fellini per la sua potenza visionaria. Rimane però un film difficile da reperire, disponibile soprattutto in edizioni DVD della Ruscico e della Kino.

Il destino dell’opera sembra riflettere quello stesso di Sayat Nova: la poesia come missione e insieme martirio. Paradjanov conferma così che i veri poeti – anche quelli del cinema – sono sempre scomodi, capaci di inquietare e di resistere al tempo e alla censura.

Il grande silenzio: recensione del film di Philip Groning

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Il grande silenzio (Die grosse Stille), diretto da Philip Gröning nel 2005, è un’opera rara e radicale che ha segnato un punto di svolta nel cinema documentario contemporaneo. Girato all’interno del monastero della Grande Chartreuse, nei pressi di Grenoble, il film porta sullo schermo la quotidianità dei monaci certosini, una delle comunità religiose più severe e impenetrabili della Chiesa cattolica. Per la prima volta, la macchina da presa riesce a penetrare questo universo chiuso e silenzioso, mostrando al pubblico un mondo sospeso nel tempo, dove la preghiera, il lavoro manuale e la contemplazione scandiscono ogni gesto.

Il progetto nacque da un rapporto di lunga fiducia: Gröning aveva chiesto ai certosini già negli anni ’80 di poter filmare la loro vita, ma l’autorizzazione arrivò soltanto 16 anni dopo. Una volta ottenuto il permesso, il regista trascorse mesi nel monastero, vivendo alle stesse condizioni dei monaci, senza troupe, senza luci artificiali, immerso nella stessa routine di austerità e silenzio. Questa scelta radicale conferisce al film un carattere unico: non un semplice documentario, ma un’esperienza sensoriale che immerge lo spettatore nella spiritualità quotidiana dei certosini.

Con i suoi 160 minuti privi quasi del tutto di dialoghi, basati su immagini contemplative e su suoni essenziali, Il grande silenzio non racconta una storia tradizionale ma trasmette un’esperienza: il ritmo del tempo, la ripetizione dei riti, la solennità della natura, la quiete interiore. È un cinema che abbandona la parola per ritrovare il senso profondo dell’immagine e del silenzio, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi a una dimensione meditativa e ipnotica, fuori dal tempo e dalle distrazioni del mondo moderno.

L’ordine certosino e l’eccezionalità del film

L’ordine dei Certosini è considerato una delle confraternite più rigide della Chiesa cattolica. La loro vita quotidiana, scandita da regole secolari, è rimasta a lungo nascosta agli occhi esterni. I turisti non hanno accesso ai loro spazi, e prima di Gröning le riprese all’interno della certosa erano state pressoché inesistenti.

Questo film rappresenta quindi un documento unico, frutto di una relazione di fiducia costruita negli anni tra il regista e il Priore Generale dell’ordine. Il contratto siglato stabiliva che per almeno sette anni nessun altro avrebbe potuto girare nella Grande Chartreuse: un’esclusiva che ha reso l’opera ancora più preziosa e irripetibile.

Gröning non si è limitato a osservare: ha condiviso la vita monastica, partecipando al silenzio e alla disciplina del convento, diventando parte integrante del contesto che stava filmando.

L’analisi: il cinema come esperienza

Non è facile parlare di Il grande silenzio. Non lo è mai quando si affronta un film che rifiuta i codici narrativi tradizionali. Qui la parola è quasi del tutto assente, eccezion fatta per le preghiere corali o per la toccante testimonianza di un monaco cieco che, verso la fine, afferma di non provare dolore per la sua cecità, ma gioia nell’avvicinarsi a Dio.

Gröning ha compiuto un’impresa estrema: un film di due ore e quaranta senza dialoghi, girato con una sola telecamera, senza luci artificiali, basato su inquadrature fisse e sulla ripetizione di gesti quotidiani. Una scelta che, se da un lato appare assurda, dall’altro si giustifica pienamente nel contesto monastico.

Un cinema povero, ma essenziale

Il film si avvicina per rigore al “dogma”, ma ciò che ne emerge è un cinema di pura osservazione, quasi cinéma vérité. Davanti all’obiettivo i monaci pregano, leggono, cucinano, si prendono cura delle piante e degli animali, riparano scarpe e vestiti. Ogni gesto, anche il più banale, è investito di significato.

La narrazione è scandita da primi piani, sequenze dell’ambiente naturale e cartelli su fondo nero con citazioni bibliche. Non ci sono virtuosismi formali: solo qualche effetto di pellicola invecchiata o l’uso del grandangolo per sottolineare la profondità.

Il film appare come un “assurdo”, perché racconta un’esistenza che agli occhi del mondo moderno può sembrare altrettanto assurda: un taglio netto con il mondo esterno, una vita dedicata a preghiera, meditazione e silenzio.

Tra Malick e Tarkovskij

Pur centrato sulla fede, Il grande silenzio non è un film religioso in senso convenzionale. Ciò che è trascendente non viene mai mostrato, ma resta implicito, come una corrente sotterranea che attraversa immagini fortemente immanenti: la neve, le piante, i corsi d’acqua, gli oggetti quotidiani, i gesti ripetuti dei monaci.

Il linguaggio visivo richiama a tratti Malick e Tarkovskij, per la capacità di cogliere la spiritualità nel dettaglio naturale e nel rito quotidiano. Perfino i momenti di gioco dei monaci – come quando scivolano su un pendio innevato – diventano parte di un rituale dell’immanente che allude al trascendente.

Conclusione

Con Il grande silenzio, Gröning ha realizzato un’opera che non si limita a documentare: offre un’esperienza di immersione totale in un mondo fuori dal tempo, in cui la vita scorre lontana dal frastuono contemporaneo.

Che lo spettatore vi colga un’esperienza mistica o semplicemente un affascinante esercizio di osservazione dipende dalla sua sensibilità. Ma ciò che resta è la forza di un cinema che riesce, con mezzi poverissimi, a restituire la densità spirituale di una vita interamente dedicata al silenzio e alla contemplazione.

Esther, il film del 1986 diretto da Amos Gitai

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Esther è il film del 1986 diretto da Amos Gitai e con protagonisti Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen, Sara Cohen e Juliano Mer.

  • Anno: 1986
  • Diretto da: Amos Gitai
  • Con: Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen,
    Sara Cohen, Juliano Mer.

“Non opprimete e non sfruttate lo straniero; voi conoscete l’animo dello straniero,
giacché voi stessi siete stati stranieri nel paese d’Egitto.”
Esodo 23:9

Esther, la trama

Esther è basato sulla storia biblica del libro di Ester. Al tempo in cui i giudei sono sotto il dominio persiano, il re Assuero di Susa sceglie come moglie una giovane giudea, Esther.

Sotto consiglio del sacerdote Mardocheo, suo zio, la donna tiene nascosta la propria origine al sovrano. Aman, uno dei dignitari di corte, ordina la persecuzione dei giudei, poiché non sembrano riconoscere altra autorità fuorchè il proprio Dio, come Mardocheo, che sventa un complotto ai danni del re. Aman intende uccidere il sacerdote, ma Esther rivela al re i piani di Aman, che viene messo a morte. Mardocheo ed Esther, ottengono dal re che i giudei possano organizzarsi e difendersi dalle persecuzioni: in breve tempo, coloro che dapprima erano stati perseguitati divengono persecutori.

Esther, l’analisi

Non sono molti i casi della storia del cinema in cui un regista alla sua opera prima riesca a essere, pur tra le acerbità di vario tipo che contraddistinguono gli esordi, intenso e ricco nell’ispirazione, appassionato e asciutto al contempo. Direi che Esther, di Amos Gitai, rientra in questa categoria. Il film è uscito in cofanetto dalla Rarovideo in edizione restaurata e accompagnato dagli altri due capitoli di quella che è considerata la trilogia dell’esilio nell’opera del cineasta di Haifa.

Gitai afferma di essere rimasto colpito dal fatto che nel libro biblico di Ester non si nomina direttamente “Dio” e che voleva rintracciare in esso qualcosa dell’ebreo contemporaneo, laico. Egli riprende il testo in maniera sostanzialmente fedele, ma la sua operazione diviene particolarmente interessante alla luce del fatto che la storia narrata è quella di un popolo perseguitato che diviene persecutore a propria volta, ed Esther diviene a propria volta sanguinaria ordinando il massacro di altri “nemici” dei giudei. Ciò è particolarmente interessante, e coraggioso, se si pensa che Gitai non cela i riferimenti all’attualità di quella terra costantemente promessa e costantemente insanguinata che è la Palestina e quello stato in qualche modo sempre utopico che è Israele, dove accade che i confini tra persecutori e perseguitati siano estremamente labili e fluttuanti.

E Gitai, che è nativo di Haifa (dove il film è stato girato), città nel nord di Israele, mette in discussione, pone quesiti, rimette in gioco la storia e la tradizione affrontando sempre criticamente il presente del suo paese che egli certamente ama, cortocircuitando col suo cinema le distinzioni tra generi, lingue, tecniche. Esther è girato con una tecnica particolare: si tratta infatti di una serie di tableaux (ispirati alle miniature persiane, di cui posseggono l’impianto ieratico) in cui la macchina da presa si muove poco, effettuando delle carrellate.

Le inquadrature del film sono centripete, e ciò che fornisce dinamicità ai quadri sono le azioni degli attori e gli splendidi effetti di luce della fotografia di Herni Alekan, che permea gli oggetti e i colori sgargianti di una patina magica e irreale.  Gitai ha sempre ammesso (e i suoi film lo dimostrano) di preferire le riprese lunghe, i piani-sequenza, poiché più delle inquadrature brevi cui tanto linguaggio televisivo ci ha abituati, sanno restituire la complessità del reale. E’ interessante, questo, se pensiamo al fatto che il suo paese è (pur-troppo) spesso al centro degli obiettivi televisivi, oggetto di servizi a ripetizione, in cui la realtà è frammentata in una serie di informazioni il cui senso sembra già dato una volta per tutte e si rende impermeabile alle interpretazioni.

Esther, la messa in scena 

Nella messa in scena di Gitai di Esther, coi personaggi in costume storico, ci sono però degli elementi stranianti, brechtiani, che fanno saltare il gap temporale tra il tempo in cui si svolge la storia e il tempo in cui il film è stato girato. Quando i personaggi si aggirano infatti per le strade dissestate di Haifa o le sue rovine delle sue mura, la mdp include spesso elementi (intenzionalmente) anacronistici: cavi elettrici, pali del telefono, palazzi moderni. Ciò fa effettivamente deflagrare il confine tra il tempo della storia narrata e la situazione in cui è stata girata. Quel che Gitai vuole offrirci, non è una mera ricostruzione storica, ma una riflessione sul presente. Ci fa sentire il dispositivo cinematografico, attraverso quelli che potrebbero sembrare dei “fianchi aperti” se si trattasse di un normale film a soggetto biblico-storico. Brechtianamente, invece, siamo mantenuti vigili con un occhio alla storia e l’altro alle condizioni reali, attuali, in cui essa è stata girata. È lo stesso per un personaggio che appare più volte in diverse vesti (mendicante, banditore, commerciante, etc) intervenendo a spiegare, come una sorta di cantastorie, alcuni punti della storia, e lo fa guardando in macchina, coinvolgendo direttamente lo spettatore.

Quando Aman viene giustiziato (sequenza splendida, in cui la mdp panoramicando passa da una costruzione antica dove l’uomo sta per essere ucciso, a una strada moderna, con degli autobus e una moschea sullo sfondo), Esther, a sera, chiede al re che il giorno successivo abbia luogo un altro massacro: secondo il regista, in poche righe, il testo biblico mostra tutte le contraddizioni del potere.

L’epilogo mostra, in un lungo cameracar per le strade di Haifa, dove ad angoli ancestrali si alternano altri moderni, gli interpreti principali camminare e riflettere criticamente sul ruolo interpretato, sul senso della vendetta, sull’”utopia” che era Israele, sulle proprie origini.

Tutti gli attori sono ebrei, ma ciascuno di diversa nazionalità: chi egiziano, chi ungherese, etc, e benché il film sia interamente parlato in ebraico, ciascun attore lo pronuncia con la propria cadenza. Si potrebbe dire che Gitai attui col cinema l’operazione che Deleuze rintracciava nella letteratura degli autori minori: Kleist, Kafka..etc. Essi fanno “balbettare” la propria lingua, quasi che le fossero stranieri, come esuli, e si ritaglino nelle proprie opere una sorta di idioletto. Gitai, che ha vissuto come esule tra il suo paese, la Francia, gli USA, la Germania, ha fatto egli stesso un cinema esule e riflessivo, che pone interrogativi, che rimette in discussione non la tradizione in sé, ma piuttosto la rianalizza per rianalizzare il presente (per farlo “balbettare”, verrebbe da dire), come accade, appunto, in Esther, parlato in ebraico, che, come ricorda lo stesso autore in un’intervista, è una lingua in cui manchi una vera e propria coniugazione verbale del presente, possendo, al contrario, numerose forme al passato, e, al contempo, gravida di una sorta di utopia e tensione al futuro.

Aleksandra, il film di Aleksandr Sokurov

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Aleksandra è il film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov e con protagonisti Galina Vishnevskaija, Vasili Shevtsov, Raisa Gichaeva, Andreij Bogdanov, Aleksandr Kladko, Alekseij Nejmijshev.

La trama del film Aleksandra: In un accampamento di soldati russi, nella Cecenia dei nostri giorni, un’anziana donna, Aleksandra Nikolaevna, arriva a far visita a suo nipote Denis, ufficiale dell’esercito. Trascorre con lui qualche giorno. Quanto basta a farle scoprire un mondo a lei sconosciuto, fatto di uomini soli, senza calore né conforto. A pochi chilometri di distanza, al fronte, si combatte ogni giorno tra la vita e la morte. Eppure le donne del luogo non hanno perduto il loro antico senso di ospitalità. E i soldati, tutti i soldati, sono soltanto ragazzi impauriti.. La protagonista del film è la cantante Galina Vishnevskaya, vedova del grande violoncellista Rostropovich su cui Sokurov ha girato quasi contemporaneamente una delle sue elegie documentarie.

Aleksandra, l’analisi

“La guerra inizia dove finisce la ragione”, recita la frase di lancio di Aleksandra, film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov (già autore di Madre e Figlio, Moloch, Arca Russa, per citare solo alcuni dei suoi lavori più recenti), e uscito da noi quest’anno in pochissime sale solo a merito della Movimento film.

Sokurov non ci mostra mai direttamente la guerra nella sua ultima opera (salvo, forse, per quei fuochi che Aleksandra vede nottetempo in lontananza), semmai ci mostra i suoi effetti: la fine della ragione, appunto, le case lacerate dalle bombe a Gronzyj, la durezza degli uomini costretti ad essere macchine per uccidere che non possono dar voce ai propri sentimenti o a quanto ancora posseggono di umano, e in ultimo la ricerca innocente, semplice (e perciò tanto più assurda e stridente con l’orrore della guerra) di contatti umani da parte della protagonista, donna anziana dall’incendere lento e pesante in un microcosmo di giovani uomini veloci e costretti alla più assoluta efficienza.

Fin dalle primissime inquadrature di Aleksandra in cui esce da una camionetta per incontrare gli uomini che la scorteranno all’accampamento, Aleksandra Nikolaevna (il cui nome riecheggia forse non a caso quello completo del regista: Aleksandr Nikolaevič) è una outsider. Ancora sul veicolo la vediamo di spalle, in decadrage, ovvero spostata rispetto all’asse centrale dell’inquadratura (e già basterebbe questo a connotare un primo “spiazzamento”), mentre si guarda attorno.

Aleksandra scende dalla camionetta, la macchina da presa panoramica lentamente e quasi impercettibilmente da destra a sinistra, catturando lo sguardo corrucciato della donna (bravissima e intensa la Vishnevskaija, moglie del noto violoncellista Rostropovich) la cui presenza appare, già da questo incipit, scollata dall’ambiente circostante: un paesaggio rurale scosso dal vento, con due giovani che chiacchierano tra loro.

Ma Aleksandra è fuori luogo per un motivo più profondo: a spingere la donna all’accampamento è semplicemente l’affetto familiare (uno dei temi centrali nella filmografia di Sokurov: Madre e figlio, Padre e figlio), il desiderio di rivedere Denis, laddove gli uomini dell’accampamento sono lì per compiere il loro dovere di soldati: distruggere.

Forse chiunque, in ogni guerra diventa uno straniero e un estraneo, non comprensibile, non raggiungibile, un diverso col quale la comunicazione è difficile o impossibile, come per il giovane ceceno che si rifiuta di vendere le sigarette alla russa Aleksandra. Un estraneo è un nemico, anche, da privare della vita senza rimorso né sentimenti e in modo semplice, meccanico. Del resto basta schiacciare il grilletto, come Aleksandra comprende maneggiando un fucile scarico insieme a Denis che con incredibile (e paradossale in quel contesto) dolcezza di nipote le mostra le armi e i veicoli in una sequenza che quasi urta, proprio per lo stridore che si crea tra la curiosità innocente della vecchina, la tenerezza del giovane ufficiale nei confronti di lei (la prende in braccio) e gli strumenti di morte che li attorniano.

Eppure Aleksandra, grazie al suo essere decisamente “fuori luogo”, è capace di piccoli atti di dolcezza che sembrerebbero impossibili in quel contesto, come quando offre un po’ di torta a delle giovanissime sentinelle (una sequenza bellissima, dal sapore crepuscolare –“le buone cose di pessimo gusto”- esaltata dai toni rosacei della fotografia di Aleksandr Burov, che scopre un bergmaniano cielo chiazzato di nubi), e soprattutto quando parla con un’altra outsider, dell’etnia nemica: un’anziana cecena, ex insegnante di nome Malika.

La stessa Malika, che offre un tè ad Aleksandra, non riesce a capacitarsi di come i giovani siano stati cambiati dalla crudeltà della guerra. “I buoni son diventati cattivi, non solo le case sono state distrutte, la vita è stata messa sottosopra, i santi diventano diavoli”, dice la cecena alla russa. Ecco perché non ci sono scene di battaglia nel film: la battaglia è interiore, la guerra è dappertutto, fatalmente instillata nell’animo umano sconvolto, lacerato come le case di Gronzyj, una lacerazione di cui sembrano partecipare anche alcune inquadrature del film, realizzate con lenti distorcenti che alterano (sembra stiano per “strappare”, quasi) lo spazio davanti alla macchina da presa.

Eppure, qualcosa di buono rimane:  il tentativo laborioso di intrecciare dei legami a dispetto di tutto attraverso piccoli gesti (la treccia che Denis fa ad Aleksandra, l’abbraccio della russa e della cecena, la già ricordata offerta della torta alle sentinelle, il consiglio che l’anziana russa dà a un giovane ceceno: pregare Dio perché conceda la saggezza e la consapevolezza che la forza non sta nelle armi). Piccoli gesti che davanti alla macchina da presa sembrano (o sono) eccezionali in mezzo all’orrore, un po’ come i raggi di sole che illuminavano il volto del figlio piangente per la perdita della madre in Madre e figlio.

A differenza di certi suoi lavori precedenti, qui, Sokurov, sperimenta forse meno a livello tecnico (mi riferisco, ad esempio alle inquadrature distorte e private di profondità in Madre e figlio o al piano sequenza ininterrotto della durata di un’ora e mezza nell’Hermitage di San Pietroburgo per Arca Russa), ma ciò non toglie che questo, con la sua intensità poetica, sia uno dei suoi lavori migliori, che ha ricevuto, fra l’altro, il premio Robert Bresson alla Mostra del Cinema di Venezia.

 

Freaks: la recensione del cult horror di Tod Browning

Uscito nel 1932 e diretto da Tod Browning, Freaks è un film maledetto, scandaloso e rivoluzionario, che nel tempo si è imposto come un cult imprescindibile della storia del cinema. Lontano dagli stereotipi dell’horror classico, il film utilizza il mondo del circo come palcoscenico per raccontare una vicenda di amore, inganno e vendetta, ma soprattutto per scardinare le ipocrisie della società.

Girato con veri “fenomeni da baraccone”, Freaks scosse profondamente il pubblico dell’epoca, al punto da essere censurato, tagliato e vietato in diversi Paesi. Oggi, a quasi un secolo di distanza, conserva intatta la sua forza disturbante e la sua lucidità polemica, confermandosi un’opera unica e coraggiosa.

Trama: amore, tradimento e vendetta sotto il tendone del circo

All’interno di un circo popolato da artisti deformi e bizzarri, il nano Hans si innamora della trapezista Cleopatra, bellissima donna “normale” che però è interessata soltanto alla sua eredità. In combutta con l’amante Hercules, la trapezista progetta di sposare Hans per poi ucciderlo.

La fidanzata del nano, Frieda, cerca invano di metterlo in guardia, finché la verità viene a galla. Gli altri freaks, traditi e offesi dall’inganno, decidono di vendicarsi. In una sequenza finale tra le più agghiaccianti della storia del cinema, Cleopatra e Hercules vengono puniti con mutilazioni che li riducono a caricature grottesche e mostruose, ribaltando il concetto stesso di “diversità”.

Un film disturbante e coraggioso

Alla sua uscita, Freaks fu accolto come un’opera scandalosa e inguardabile. MGM impose tagli drastici, riducendo la pellicola di oltre 30 minuti e privandola di molte scene finali. In numerosi Paesi fu vietato per decenni: nel Regno Unito fino al 1964, nella Germania nazista fino al 1945, e in Italia addirittura fino agli anni Settanta.

Ciò che spaventava non erano gli effetti speciali – assenti – ma la realtà stessa: Browning scelse veri freaks per interpretare i personaggi, mostrandoli senza pietismi né artifici di trucco. La forza disturbante del film nasce dalla sua autenticità, dal mostrare senza filtri corpi considerati “mostruosi” e dall’accusare implicitamente la società che li emarginava.

La vera mostruosità è la “normalità”

Il messaggio di Freaks è ancora oggi attualissimo: i veri mostri non sono gli emarginati del circo, ma le persone “normali” che tradiscono, umiliano e sfruttano i più deboli. Hans e i suoi compagni sono vittime di una società ipocrita, ma trovano nell’unione la forza di ribellarsi.

Browning, che conosceva bene l’ambiente circense avendovi lavorato in gioventù, racconta questo microcosmo senza idealizzarlo né giudicarlo, restituendone le contraddizioni e la forza umana. Nel film riecheggiano grandi figure dell’immaginario horror – da Frankenstein al Fantasma dell’Opera, fino a The Elephant Man – accomunate dall’idea che la paura nasca dalla diversità e dall’incapacità di accettarla.

L’eredità di un film maledetto

Freaks fu un flop al botteghino e segnò la fine della carriera hollywoodiana di Tod Browning, ostracizzato dopo le polemiche. Ma con il passare degli anni, il film è stato riscoperto e rivalutato come un capolavoro incompreso, capace di influenzare intere generazioni di registi e di diventare un punto di riferimento imprescindibile per l’horror e non solo.

La sua capacità di unire intrattenimento, allegoria sociale e riflessione sulla diversità lo rende un’opera radicale, ancora oggi disturbante, ma anche profondamente umana. Un classico che non smette di inquietare e far riflettere.

Poltergeist: la recensione del cult horror di Tobe Hooper prodotto da Steven Spielberg

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Uscito nel 1982, Poltergeist è uno dei film horror più iconici della storia del cinema. Diretto da Tobe Hooper ma fortemente influenzato dalla visione produttiva di Steven Spielberg, il film rappresenta un raro esempio di equilibrio tra fiaba nera e blockbuster hollywoodiano. Con un incasso di oltre 74 milioni di dollari a fronte di un budget di 10,7, si impose subito come un successo mondiale e divenne un punto di riferimento per il genere horror soprannaturale.

Ancora oggi, la storia della famiglia Freeling perseguitata da presenze maligne all’interno della propria casa mantiene intatto il suo fascino, grazie a un mix di tensione, innovazione e tematiche universali che hanno ispirato intere generazioni di registi.

Trama: la famiglia Freeling e le presenze dell’aldilà

Steve e Diane Freeling vivono con i figli Carol Anne, Robbie e Dana in una tranquilla cittadina americana. Una notte, la piccola Carol Anne comincia a parlare con il televisore, annunciando ai genitori che “sono arrivati”. Da quel momento, la famiglia è vittima di fenomeni sempre più inquietanti, fino alla scomparsa della bambina, risucchiata da forze misteriose ma ancora udibile dall’interno della casa.

Disperati, i genitori si rivolgono prima a una parapsicologa e poi a un’esperta medium per tentare di riportare Carol Anne indietro e liberare la casa dalla maledizione. Ciò che ne deriva è una lotta disperata contro forze sovrannaturali che sfidano le leggi della ragione.

Poltergeist tra fiaba nera e blockbuster familiare

La grande forza di Poltergeist sta nella sua capacità di proporsi come un horror “per famiglie”. Nonostante la componente spaventosa, la pellicola mantiene un’impronta fiabesca: bambini come protagonisti, atmosfere domestiche, un male che irrompe nel quotidiano e lo contamina. È una fiaba malefica, confezionata con lo stile di un grande prodotto hollywoodiano ma capace di conservare un’anima inquietante.

Il televisore diventa simbolo di contatto con l’ignoto, anticipando tematiche che segneranno il cinema degli anni a venire: da Videodrome di David Cronenberg a Ringu di Hideo Nakata. Allo stesso tempo, la figura di Carol Anne richiama altri bambini “medium” della storia del cinema, come Danny di Shining.

Spielberg e Hooper: un equilibrio irripetibile

Nonostante i ruoli ben definiti, è impossibile non notare l’impronta di Steven Spielberg nella costruzione del film. L’universo domestico, l’innocenza dei bambini e l’uso spettacolare degli effetti speciali richiamano direttamente lo stile del regista di E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo.

Tobe Hooper, celebre per Non aprite quella porta, porta invece in dote il suo sguardo crudele e il suo gusto per l’orrore viscerale. L’incontro tra le due visioni genera un equilibrio raro: un film che riesce a essere terrificante e popolare allo stesso tempo, senza mai cadere nella volgarità o nella pura exploitation.

Un cult immortale dell’horror

Grazie al successo commerciale e al forte impatto culturale, Poltergeist è diventato un cult assoluto. La sua influenza è riscontrabile in innumerevoli opere successive, dal cinema alle serie TV, e la sua iconografia – dalla piccola Carol Anne che parla con lo schermo televisivo fino alla vendetta finale degli spiriti – è ormai entrata nell’immaginario collettivo.

Il film ha avuto diversi sequel e un remake, ma resta l’originale di Hooper e Spielberg a incarnare quell’equilibrio perfetto tra intrattenimento, paura e riflessione sociale. Un titolo imprescindibile per comprendere l’evoluzione dell’horror contemporaneo.

The Haunting (Gli Invasati): recensione del cult horror di Robert Wise

Uscito nel 1963 e diretto da Robert Wise, The Haunting (Gli Invasati) è tratto dal romanzo The Haunting of Hill House di Shirley Jackson ed è considerato uno dei capisaldi assoluti del cinema di fantasmi. Con un cast che comprende Julie Harris, Claire Bloom, Richard Johnson e Russ Tamblyn, il film ha saputo ridefinire l’immaginario della “casa stregata”, imponendosi come una delle opere più influenti e raffinate della storia del genere horror.

Con la sua ambientazione suggestiva e l’uso sapiente di suoni e atmosfere, il film non si limita a raccontare una storia di presenze soprannaturali, ma esplora le paure profonde e le fragilità psicologiche dei personaggi, aprendo la strada a un filone che avrebbe segnato il cinema degli anni Sessanta e oltre.

Trama: Hill House e i segreti della villa maledetta

La storia ruota attorno al dottor Markway, studioso di fenomeni paranormali che decide di condurre una ricerca in una villa abbandonata e temuta dalla popolazione locale: Hill House. Per le sue indagini recluta tre persone: Eleanor (Julie Harris), fragile e sensibile; Theo (Claire Bloom), medium dal carattere enigmatico; e Luke (Russ Tamblyn), giovane erede della villa.

Ben presto, i quattro si trovano intrappolati in un ambiente che sembra vivo e ostile. La casa respira, emana calore e gelo, si piega e si dilata come fosse un organismo dotato di volontà propria. Eleanor diventa progressivamente il centro della vicenda, divisa tra suggestione e possessione, vittima di un luogo che non smette di insinuarsi nella sua mente e nelle sue emozioni.

Una casa che diventa organismo vivente

Uno degli elementi più innovativi di The Haunting è la rappresentazione della casa stessa come entità organica. Robert Wise trasforma corridoi, scale e porte in strumenti di tensione narrativa, capaci di minacciare i protagonisti più dei fantasmi stessi. Hill House diventa così la vera antagonista: un ambiente che agisce come un personaggio, minaccioso e ambiguo.

Questa concezione avrebbe influenzato profondamente il cinema horror successivo, aprendo la strada a decine di film incentrati su case maledette e spazi domestici che si trasformano in luoghi di terrore.

Robert Wise e l’arte della suspense psicologica

La grandezza del film non risiede tanto negli effetti visivi – volutamente limitati – quanto nell’uso del sonoro e del non detto. Rumori inspiegabili, voci, colpi improvvisi e silenzi angoscianti sono i veri protagonisti. Wise costruisce la tensione giocando sull’ambiguità: ciò che accade è frutto di fenomeni paranormali o delle allucinazioni di Eleanor?

La fotografia di David Boulton, con ombre e prospettive inquietanti, e le musiche sperimentali di Humphrey Searle, realizzate anche con incisioni a rovescio, rafforzano l’atmosfera perturbante. L’accenno al rapporto ambiguo tra Eleanor e Theo aggiunge inoltre una dimensione trasgressiva e psicologica, rara per l’epoca.

Un cult immortale dell’horror

The Haunting è oggi riconosciuto come uno dei capisaldi dell’horror moderno. Non solo ha ispirato film successivi come Poltergeist o The Conjuring, ma ha anche dato vita a reinterpretazioni dirette, dal remake del 1999 alla serie Netflix Hill House di Mike Flanagan.

Con questa pellicola, Robert Wise – regista eclettico capace di spaziare dalla fantascienza (Ultimatum alla Terra) al musical (Tutti insieme appassionatamente), fino al kolossal (Star Trek: The Motion Picture) – dimostra ancora una volta il suo talento nel coniugare generi diversi con la stessa brillantezza e profondità.

Shrooms – trip senza ritorno: recensione del film

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Shrooms – trip senza ritorno  è il film horror del 2006 diretto da Paddy Breathnach e con protagonisti Lindsey Haun, Jack Huston, Max Kasch, Alice Greczyn, Robert Hoffm.

Shrooms – trip senza ritorno, la trama

Un gruppo di baldi giovani americani vanno nella lontana Irlanda per andare nei boschi a caccia di funghetti allucinogeni. Tara(Lindsey Haun) finirà per ingerire un fungo velenoso , che secondo leggende metropolitane, è in grado di conferire il dono della preveggenza. In tutto ciò i ragazzi iniziano a morire misteriosamente: sarà colpa delle misteriose presenze che abitano il bosco?

Shrooms – trip senza ritorno, il film

Grazie ad un pretesto abbastanza demente da far concorrenza a Hostel, siamo catapultati per l’ennesima volta, e in maniera assolutamente non innovativa, all’interno di un contesto boschereccio, ove pupi e donzelle vengono assassinati uno ad uno in maniera piuttosto noiosa e poco divertente.

Il regista, alla sua prima esperienza con il cinema horror, non sa creare luoghi originali, e non riesce a gestire il meccanismo “allucinazione-realtà” su cui il film dovrebbe imperniarsi, risultando così solo ridondante e scontato sin dall’inizio.

La droga (e non è ben inteso il giudizio morale che scaturisce a proposito delle sostanze stupefacenti) è usata come pretesto per giustificare presenze maligne e confondere la realtà con l’illusione: peccato che grazie ai pessimi effetti speciali girati low budget e la prevedibilità di tutto il film, il pretesto che avrebbe potuto esser uno spunto quantomeno discreto per creare un buon prodotto, diventa soltanto parte di un film privo di interesse e di ragion d’essere.

Di Mariani Bino

Le cronache dei morti viventi di George Romero

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Le cronache dei morti viventi è diretto da George Romero con protagonista Michelle Morgan, Joshua Closè, Shawn Roberts e Joe Dinicol.

 

Sinossi
Un gruppo di ragazzi, intenti a girare un film horror indipendente, si ritrovano coinvolti inevitabilmente in una situazione che sta sconvolgendo gli Stati Uniti: i morti tornano in vita, e Jason(Closè), decide di filmare il caos e la violenza che esplodono durante il loro cammino.

Analisi

Le cronache dei morti viventi A due anni di distanza dalla Terra dei morti viventi, Romero, dedito al (sotto)genere degli zombi -da egli stesso promulgato- torna ad inscenare soggetti che proliferano di morti viventi. Ma l’ingegnosità del regista sembra inesauribile, e il quinto capitolo della saga degli zombi, prende una piega del tutto nuova, inserendosi direttamente nella linea che da Cannibal Holocaust porta a Cloverfield, passando per  The Blair witch project  e REC.

Un filone che mira ad unire la tecnica documentaristica al genere horror, e che con le possibilità del digitale, si sviluppa all’insegna della sperimentazione di nuove situazioni. Ed è in questo contesto che Romero rinnova il genere zombi movie, mettendo in scena momenti del tutto inediti e mai banali, confermando l’acume e la creatività che gli appartengono e la consapevolezza dei meccanismi del cinema dell’orrore.

week end al cinema 18/12

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di Francesco D’Occhio

Natale a Beverly Hills
: Due storie si intrecciano sotto il sole di Beverly Hills.
Carlo (Christian De Sica) ritrova per caso Cristina (Sabrina Ferilli) vecchio amore che aveva abbandonato quando era incinta di 7 mesi. Il figlio Lele ha ora come padre putativo Aliprando (Massimo Ghini) che è stato vicino al ragazzo e alla madre per tanto tempo.
Purtroppo per Carlo presto dovrà riconfrontarsi col suo passato…
Serena e Marcello (Michelle Hunziker/ Alessandro Gassman) festeggiano separatamente l’addio al celibato prima di sposarsi. Purtroppo Serena a causa di una sbornia, crede di aver fatto l’amore con Rocco, un uomo conosciuto fuori dal locale dove festeggiava, quest’ultimo innamoratosi di lei cercherà in tutti i modi di mettere i bastoni tra le ruote e le farà credere di aver passato veramente la notte con lui.
Ventiseiesimo cinepattone che puntuale come tutti gli anni giunge in una moltitudine di sale alle soglie del natale. Per la prima volta dopo l’abbandono di Boldi non vi è Fabio de Luigi mentre per la prima volta vi partecipa la coppia di figli d’arte Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi.

week end al cinema 10/12

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Di Francesco D’Occhio


Dieci Inverni: Siamo nel 1999 a Venezia e due studenti fuori sede, Camilla e Silvestro si conoscono su un vaporetto. Lei lo ospita nel suo appartamento, nelle vicinanze della città lagunare.
Lui è sfacciato, lei è introversa e timida.
Anche se in casa di lei non si concretizzerà nulla, qualcosa nasce.
I due si separeranno per rincontrarsi ancora molte volte per 10 anni ancora, fino a condividere esperienze a Mosca.
Opera prima per Valerio Mieli supportato dalla fotografia di Marco Onorato, già al lavoro per “Gomorra” che punta alla rivisitazione dell’amore distaccandosi dal filone “moccia” per riallacciarsi ad uno più maturo simile al “Un’Amore” di Tavarelli.
Nei panni dei due protagonisti i bravi Michele Riondino e Isabella Ragonese chiamati a interpretare un percorso di crescita e di sentimenti che va dall’adolescenza alla quasi maturità, appunto, Dieci Inverni.

week end al cinema 04/12

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Di Francesco D’Occhio

A Serious Man: Nel 1967 il professore Larry Gopnik è in un periodo nero.
La moglie lo ha lasciato perché innamorata di un collega, uno studente lo ricatta, riceve lettere minatorie e l’affascinante vicina non fa altro che prendere il sole nuda.
Ormai senza speranza l’uomo decide di rivolgersi a tre rabbini per chiedere consiglio.
I fratelli Coen firmano un lungometraggio dai toni sarcastici in cui un uomo in fondo buono vede tutto il male ritorcersi contro lui ad ogni suo gesto.
Presentato con successo al Toronto International Film Festival e al Festival Internazionale di Roma.

week end al cinema 27/11

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di Francesco D’Occhio

 

La dura verità: Abby Richter produce un programma televisivo (The Ugly Truth, da qui il titolo del film) che visti i bassi ascolti decide di puntare su un nuovo opinionista, tale Mike Chadway, che con un atteggiamento cinico non farà che sparlare del gentil sesso descrivendone i difetti e quello che gli uomini pensano seriamente delle donne.
L’audience del programma aumenta sensibilmente e costringe la produttrice a trattenere l’antipatico opinionista, al contempo decide anche di mettere in pratica i consigli di Mike col suo vicino Colinm di cui è invaghita da tempo.
Ennesimo lungometraggio sulla differenza tra i sessi, sarà stavolta il rude Mike o il dolce Colin a conquistare il cuore della protagonista?

L’apprendista Stregone

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Il trailer ufficiale di L’apprendista Stregone, il film fantasy con Nicolas Cage e Monica Bellucci. L’apprendista Stregone è distribuito da Walt Disney Pictures Italia.

Il film è vagamente ispirato al segmento L’apprendista stregone del film musicale d’animazione Disney Fantasia, che a sua volta si basa sull’omonimo poema sinfonico del 1890 di Paul Dukas, ispirato all’omonima ballata del 1797 di Johann Wolfgang von Goethe.

La pellicola è un film avventura in cui un mago e il suo sventurato apprendista si ritrovano al centro dell’antico conflitto fra bene e male. Balthazar Blake (Nicolas Cage) è un maestro della magia che vive nell’odierna Manhattan e che intende difendere la città dalla sua nemesi per eccellenza, Maxim Horvath (Alfred Molina). Ma per farlo Balthazar ha bisogno di aiuto, e recluta quindi ave Stutler (Jay Baruchel), un ragazzo apparentemente normale ma che possiede doti nascoste, sottoponendolo ad un folle addestramento per fargli apprendere il più in fretta possibile tutti i segreti della magia. In questo nuovo ruolo di apprendista stregone, Dave dovrà fare appello a tutto il suo coraggio per sopravvivere all’ addestramento, arrestare le forze del male e conquistare il cuore della ragazza che ama.