C’è una cascata di lettere. Sono
tante, tutte bianche, con il sigillo di ceralacca. Sono lettere
diaboliche, che contengono oscenità, ma ancora nessuno lo sa.
Quello che però ci viene detto, all’inizio di
Cattiverie a domicilio, è che “questa è
una storia più vera di quanto si pensi”. E allora bisogna prestare
la massima attenzione. Perché il film di Thea
Sharrock, pur essendo in costume e ambientato
nell’Inghilterra degli anni ’20, sembra raccontarci qualcosa che
ancora oggi accade, ma con strumenti diversi. Se prima c’era un
foglio bianco e una penna velenosa attraverso cui imprimere fiumi
di parolacce, insulti e caroselli di epiteti molto fantasiosi,
adesso ci sono i social network che danno massima libertà di
espressione (a volte purtroppo).
La ragione dietro un palese
atteggiamento di sfogo non è cambiata nonostante gli anni e ha
radici diverse: c’è chi lo fa per colmare la noia o
l’insoddisfazione, magari riversando la propria frustrazione sulle
bacheche di Facebook o attraverso commenti sotto i post di qualcun
altro, e c’è chi – come nel caso della Edith di
Cattiverie a domicilio – lo fa per
liberarsi da uno stato di repressione vissuto fra le mura di una
casa che più sembra una prigione. La regista, perciò, partendo da
una storia dal respiro universale e attuale, costruisce una
commedia irriverente d’effetto pur con qualche incrinatura in
alcuni passaggi di sceneggiatura, e il cui baricentro emotivo è
affidato da un lato a Edith, interpretata da una sempre brava
Olivia Colman, e dall’altro a Rose, nel cui
ruolo calza più che bene Jessie Buckley.
Cattiverie a domicilio è scritto da Jonny Sweet e
arriva nelle sale dal 18 aprile.
Cattiverie a domicilio, la
trama
Littlehampton, 1922. La guerra è
finita da poco. Nella cittadina inglese è arrivata Rose, una donna
irlandese che dice d’essere vedova, con la figlia e il nuovo
compagno. Su di lei i paesani ne dicono di cotte e di crude. Questo
perché la donna è sfacciata, non ha peli sulla lingua e per di più
bestemmia anche. Lì, invece, la parola di Dio è come oro colato.
Non sono ammesse parole e atteggiamenti che non si confacciano a
una signora per bene. Come Edith, che vive in una famiglia guidata
dalle parole Bibbia e non può permettersi errori. Il padre, il
signor Swan, ce l’ha in pugno. Casa, chiesa, pulizie, al massimo un
incontro con le amiche per giocare a carte. Se esce fuori dai
margini pre-impostati, rischia di ricopiare stralci del Sacro
Testamento per ore. Edith e Rose, pur agli antipodi, un tempo erano
persino amiche, prima che un forte litigio le separasse. Un legame
che era nato dalla volontà dell’una e dell’altra di supportarsi a
vicenda: eppure Edith, a Rose, sotto sotto, la invidiava. Perché
Rose non aveva costrizioni, Edith sì. E quando a quest’ultima
iniziano ad arrivare lettere piene di estreme volgarità, provocando
un grosso scandalo a Littlehampton, e un infarto alla madre, la
colpa ricade subito sulla straniera. L’associazione è automatica,
non c’è via di scampo. Meno male che qualcuno, al comando di
Polizia, crede alla sua innocenza. Il problema, però, è che è una
donna.

Edith e Rose, due facce della
stessa medaglia
Per comprendere al meglio Cattiverie
a domicilio, bisogna inquadrare il contesto storico del periodo,
che in realtà parla tanto anche dell’oggi. La religione, all’epoca,
era l’occhio scrutatore e giudicante di una società a lei
assoggettata, con l’unica missione di seguire rigorosamente i
precetti della Chiesa senza battere ciglio. Le donne non erano ben
viste e non avevano alcun diritto né di replica né di libertà.
Confinate in casa per essere domestiche obbedienti, oppresse e
nulla di più. È in questa atmosfera rigida e bigotta che è immersa
la cittadina di Littlehampton, dove l’elemento scomodo è Rose,
iconoclasta per eccellenza che, come un terremoto,
provoca chiacchiericcio e vergogna poiché non omologata. Lei è
dissidente, insolente e ha un linguaggio colorito, tutte
caratteristiche che la fanno scontrare con il perbenismo vigente
nella cittadina in cui si è trasferita. Rose poi, a differenza
delle sue compaesane, non è imprigionata in alcun ruolo.
È libera,
spudoratamente sincera con gli altri, e nessuna regola domina la
sua vita. A farle da contraltare è invece Edith e la sua famiglia,
che vanno a rappresentare la società puritana di quei tempi (ma un
po’ anche dei nostri), con le sue idiosincrasie, ligia al dovere e
fastidiosamente devota. L’esistenza di Edith gira intorno al padre
padrone, il quale non ammette sbagli o comportamenti fuori posto.
Una figura che il film tenta in tutti i modi di distruggere,
facendosi spesso beffa di lui. Ma è proprio in
Edith, in realtà, che va riflettendosi il detto
“l’apparenza inganna”. È infatti attraverso il suo
sfaccettato personaggio che il film consacra i temi su cui si
fonda: emancipazione femminile e sociale. Perché
Edith, all’insaputa di tutti, è la prima anticonformista. Non
diciamo altro, solo che il finale contiene una delle scene più
forti e belle dell’intero film, racchiudendone tutto il suo senso
più profondo.
Fra ironia e dramma
E così Thea Sharrock e Jonny Sweet,
con battute al fulmicotone, espressioni volgari dall’ironia
pungente e molto a fuoco e sequenze dal puro divertissement –
bilanciate da momenti più drammatici – puntano con decisione il
dito contro una società da un lato non ancora completamente
progredita che continua a fare danni a causa di una mentalità
distorta e dall’altro innapagata e infelice. Ricordandoci, però,
che si è sempre in tempo per rompere gli schemi e ribellarsi. Le
risate, nonostante le tematiche delicate di cui si fa portatrice la
narrazione, restano comunque primarie, perché alla base
Cattiverie a domicilio sfrutta al massimo
il suo tono da black comedy, senza rinunciare agli inserti più
seri, che nel contrasto scatenano lunghe parentesi di
riflessione.
Alcuni difetti si
riscontrano invece nel filone mystery del film, che pur
stuzzicando inizialmente il pubblico si esaurisce già nel secondo
atto con la scoperta del mittente delle lettere, smorzando l’ansia
dell’attesa. Non stando più in piedi, alcuni eventi progrediscono
suscitando molto meno interesse nello spettatore, ma nel complesso
Cattiverie a domicilio riesce a ultimare
il suo discorso senza sfaldarsi. La pellicola firmata da Sharrock,
pur dunque con qualche sbavatura, funziona, mantenendo il suo
equilibrio nella messa in scena e riuscendo nell’intento di non
farsi dimenticare con facilità.