Nel mondo di Blade Runner
2049 non esiste internet. Tutto ciò che le persone
sono è affidato ai ricordi, al potere della memoria, all’essenza di
umanità che dovrebbe abitare in ogni essere umano. Ma che succede
se l’umano e il sintetico si fondono fino a confondersi? Dove
finisce e dove comincia il diritto a essere umani, più umani
dell’umano?
La mano di Denis, i pensieri di Ridley
Con una preziosa operazione
commerciale, Denis Villeneuve, reduce dal trionfo
di Arrival, racconta il
sequel di uno dei pilastri del cinema di genere, lo sci-fi noir che
ha ridefinito il look degli anni ’80, sotto la regia di
Ridley Scott. In questa seconda storia, legata
a doppio filo all’avventura di Rick Deckard, Scott
figura in qualità di produttore esecutivo, e il
film risente pesantemente della sua recente ossessione: il rapporto
tra creatura e creatore. Come anticipato in
Prometheus/Alien: Covenant, anche
questo film si propone di raccontare i gradi di separazione tra
colui che dà vita e colui che la riceve, come dono, e che pian
piano se ne appropria arrogandosi il diritto di creare a sua
volta.
Una solida sceneggiatura
Accanto a ciò che sembra caro al
vecchio
Ridley, fa capolino la sensibilità registica
di Villeneuve. Il regista canadese prende in mano
responsabilità e aspettative e restituisce sullo schermo una
sceneggiatura solida, lontana dalla semplice e paventata
‘operazione nostalgia’, che motiva la sua notevole durata
(2 ore e 43 minuti) con un racconto scandito da una serie di nodi,
di momenti chiave, di circostanze che pretendono il tempo loro
necessario senza troppa fretta, come un sospiro che libera il petto
solo se preso a pieni polmoni, dilatato nel tempo.
La luce di
Deakins
L’altro grande artefice del film è
però Roger
Deakins, il direttore della fotografia che con una
tavolozza con pochissimi colori, realizza un affresco ricchissimo,
con profondità e spessore, plasmando la luce attraverso gli scenari
dorati e abbacinanti della Los Angeles desertica, passando per le
asettiche stanze degli edifici affastellati nelle città, fino alla
scala di grigi che dal freddo della pioggia sfocia, di nuovo, nelle
atmosfere aranciate della dimora di Wallace
(Jared
Leto), il fabbricante di replicanti a metà tra guru
salvifico e insaziabile creatore di schiavi.
Ryan Gosling protagonista di Blade
Runner 2049
Queste luci, che solo in pochi
momenti si concedono al fluo dei neon, sono attraversate dall’eroe
silente dei nostri giorni, quel
Ryan Gosling che per caratteristiche
espressive ricorda i grandi protagonisti dei noir di una volta:
intenso, meditabondo, meno tormentato del noto Deckard ma
altrettanto dedito al suo lavoro, alla sua caccia da Blade
Runner.
È però innegabile che, con
l’entrata in scena di
Harrison Ford, che torna a vestire uno dei
personaggi che lo hanno già consegnato all’immortalità (dopo
Han Solo e Indiana
Jones), tutti i riflettori si puntano sul suo volto,
in cui ogni ruga, ogni leggero movimento espressivo, emana carisma,
qualità che nessuna scuola di recitazione può insegnare, una dote
innata che si sprigiona nello stesso momento in cui l’attore
compare nel quadro.
Il rovesciamento
Il rapporto tra K e Deckard però
non è soltanto quello generazionale, in cui il giovane si
rispecchia nel vecchio, ma si rivela essere un’attenta costruzione
di rimandi in cui i caratteri si capovolgono ed entrambi finiscono
per attraversare il terreno del dubbio, mettendo in crisi le
proprie certezze, radicate nel primo, acquisite nel secondo. La
prospettiva del protagonista viene sovvertita e tutto, in
Blade Runner 2049, sembra fluire fuori dagli
argini, verso un futuro tutto da scrivere.
Il valore dei ricordi
La ricerca della propria identità
attraverso il ricordo e la memoria diventa quindi la chiave non
solo per capire se siamo umani (‘Come si capisce se un ricordo
è autentico o impiantato?’), ma anche il mezzo attraverso cui
il regista ci riporta, come già fatto in
Arrival, alla nostra più profonda
auto-coscienza.
In questa misura la portata
filosofica di Blade Runner 2049 non è
assolutamente inferiore a quella del primo film, semplicemente è
manifesta, meno contorta e arrotolata intorno alle anime dei
personaggi, anime di sangue e muscoli, ma anche anime meccaniche
che anelano a un riconoscimento dell’esistenza.
L’auto-affermazione
E tuttavia che esistenza può essere
quella di una macchina, destinata alla morte (come l’uomo
d’altronde), costruita per obbedire, per eseguire e per terminare i
propri cugini meno ‘perfetti’? K non si pone domande, anche se lui
stesso desidera il contatto, il legame affettivo, e abbraccia
questa necessità proprio quando sembra che le sue certezze vengano
messe in discussione. La vera natura degli esseri viventi, in pelle
o sintetici che siano, non sembra quindi essere legata alla natura
stessa, quanto alla percezione di essa e fino a che esisterà la
speranza in una vita autentica, sarà sempre più tenace il tentativo
di raggiungere l’auto-affermazione.
La firma di Denis Villeneuve
Con la sua attenta e misurata
presenza, Denis Villeneuve riesce a non soccombere
alle necessità di spettacolarità di cui si carica Blade
Runner 2049, integrando nel suo stile le esigenze
produttive, artistiche e i dovuti tributi al passato, eleganti,
precisi, senza mai lasciarsi andare al revival, ma anzi, costruendo
un ulteriore futuro sporco, vecchio e sofferente, sotto la continua
pioggia di città senza sole.
“Lei non vivrà” era la battuta
simbolica che rimbombava in chiusura del classico del
1982 e che risuona, poderosa, nel corso delle
quasi tre ore di storia, accompagnando K, seguendo i suoi passi,
rendendo consapevole lo spettatore che, in fondo, nessuno vive in
eterno, nessuno sa quanto tempo ha con un’altra persona, e quindi,
che importanza può avere la durata di una vita se non la si
trascorre alla ricerca (o alla rivendicazione) di ciò che ci rende,
non solo esseri viventi, ma umani?

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