A due anni di distanza dalla sua
uscita in Francia, arriva anche in Italia Séraphine di
Martin Provost. Séraphine ha raccolto un
grande successo in patria, aggiudicandosi ben sette premi César,
tra cui Miglior Film, Miglior Sceneggiatura – scritta dal regista
assieme a Marc Abdelnour – e Miglior Attrice – la belga Yolande
Moreau. E ha fatto riscoprire la figura e l’opera della pittrice
naif Séraphine de Senlis, attiva tra le due guerre.
In Séraphine siamo
in Francia, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Séraphine
Louis (Yolande Moreau), una serva non più giovane,
si dedica con abnegazione al suo lavoro, sopportando fatica e
umiliazioni. Ma nella sua vita non c’è solo questo. Nel chiuso
della sua stanza, Séraphine dipinge, perché – dice – questa è la
missione affidatale dagli angeli, le cui voci l’accompagnano da
sempre. A cambiare la sua vita è l’incontro con il collezionista
d’arte tedesco Wilhelm Uhde (Ulrich Tukur) –
amante della pittura naif e scopritore di Rousseau – presso il
quale Séraphine presta servizio. Per caso Uhde scopre il talento
della donna e la incoraggia a dipingere. Tra i due nasce un forte
legame ma, lo scoppio della Prima guerra mondiale riporta Uhde in
Germania. Al suo ritorno in Francia, il collezionista si imbatte
nuovamente nei dipinti di Séraphine e decide di sostenerla, anche
economicamente. Nei primi anni ’30, però, Uhde, a causa della
difficile congiuntura economica, non può più farsi carico delle
spese di Séraphine ed è costretto a rimandare la
mostra a lei dedicata. La pittrice cade allora in un profondo stato
confusionale, che la porterà ad essere rinchiusa nell’ospedale
psichiatrico di Clermont de-l’Oise, dove morirà nel ’42.
Séraphine, il film
La pellicola celebra dunque questa
donna, che sentiva di dover compiere una missione, dettatale da
potenze superiori, di cui era puro strumento. Celebra soprattutto
un talento naturale, che rischiava di restare sconosciuto, a causa
della condizione sociale dell’artista, ultima tra gli ultimi perché
povera, donna e pazza. Ma il talento, evidentemente, va oltre tutto
ciò. Séraphine però non ha i toni della
celebrazione. Non è retorico. Anzi, si adegua alla protagonista,
alla sua modestia: mostra il lavoro costante e instancabile di una
donna semplice, che vuole dedicarsi a ciò che per lei è vita:
la pittura. C’è una sceneggiatura costruita su episodi di vita
quotidiana di una donna qualunque, una serva. Episodi non
eclatanti, senza colpi di scena o sensazionalismi. Una donna che
però, insospettabilmente, ha qualcosa di speciale.
Séraphine dipinge per necessità: per lei l’arte è
un moto insopprimibile dell’animo e del corpo. E’ esigenza fisica,
come quella di toccare le foglie e abbracciare gli alberi. Anzi,
quasi un naturale proseguimento di quell’esperienza. Provost
sottolinea quest’aspetto con suggestive inquadrature di
Séraphine immersa nella natura, tra i boschi della
campagna francese, lì dove raccoglie la materia prima per i suoi
colori. Quindi campi lunghi, che la includono in quel tutto nel
quale trova tranquillità e quiete. Nell’arte che nasce dalla natura
la pittrice traspone la gioia di quei momenti, ma trova anche una
catarsi al suo travaglio interiore. Questo valore catartico e il
suo rapporto viscerale, corporeo con la tela ricordano – o
precorrono, vista l’epoca – quelli di Pollock),
A dare forza a
Séraphine, senza dubbio, l’ottima interpretazione
di Yolande Moreau, che abilmente passa dal tono dimesso della serva
a quello ispirato dal furor artistico della pittrice;
dall’involontaria ironia alla collera, alla commozione. La macchina
scruta da vicino il volto della donna, per rivelarne la
complessità. Emblematico lo sguardo di Séraphine/Yolande, spesso
rapito dall’altrove che la accompagna, ma anche mobile, intenso,
mutevole; spia di quel disordine mentale che la condurrà in
manicomio. Misurata ed efficace anche l’interpretazione di
Ulrich Tukur, nel ruolo di Uhde. L’attore dà corpo
a un personaggio più enigmatico rispetto a quello della
protagonista, ma anch’egli preda di conflitti interiori, tenuti
nascosti (l’omosessualità, il senso di colpa, un carattere
scostante, la condizione di straniero). Proprio questo mondo
interiore inconfessabile e questa diversità, o divergenza dal
canone sociale lo accomunano a Séraphine.
La pellicola ha un ritmo lento, non
incalzante: il regista sembra non voler disturbare gli attori,
invaderne troppo il campo d’azione con interventi drastici. Li
segue con estremo rispetto. Così come non vuole da loro
interpretazioni sopra le righe, eccessive, ma piuttosto – lo
dichiara lui stesso in un’intervista – “trattenute”. Il risultato è
senz’altro notevole e colpisce proprio per questa sua non
invadenza, che rispecchia anche il temperamento di
Séraphine: dimesso, ma determinato.
Séraphine patisce forse qualche lungaggine,
ma ciò non intacca l’efficacia complessiva dell’opera. Quella che
Provost ci offre, infatti, è un’occasione da cogliere: oggi che non
siamo più abituati a questo slow cinema, quanto piuttosto a
montaggi incalzanti, ritmi veloci, primi piani con luci spietate
sui volti degli attori, colpi di scena. Grazie al cinema francese,
con Séraphine, possiamo invece immergerci di nuovo
in un film “a misura d’uomo”. Scelta che, peraltro, va di pari
passo con l’epoca trattata, in cui tutto scorreva più lento, più
semplice, meno convulso. Un invito, dunque, anche a recuperare
questi ritmi, nel cinema come nella vita.