La prima impressione che si evince da LEGION è una semplice e chiara considerazione: il genere apocalittico non pare proprio voler tramontare. Dopo i vari titoli che si sono occupati di scenari della medesima fattispecie, come il recentissimo The Book of Eli (da noi tradotto maldestramente CODICE GENESI), il cinema Hollywoodiano sembra non volersi fermare a sfornare film di questa caricatura.
Ma dietro a tanta perseveranza in genere dovrebbe esserci quantomeno un riscontro sul mercato, o (sarebbe la cosa migliore) un avvicendarsi di opere di una certa levatura artistica. Se nel film precedentemente citato dei Fratelli Hughes almeno si poteva riscontrare il loro indubbio talento e la bravura di certi attori protagonisti, in questo caso ahimè siamo di fronte a, vale la pena di dirlo, un totale disastro per l’appunto apocalittico. Sin dall’inizio appare chiaro il limite registico che introduce una seppur buona interpretazione di Paul Bettany. Nel deserto del Mojave uno squallido ristorante diventa l’epicentro del giudizio finale per la Terra; Los Angeles, 23 dicembre. Dio si è stancato delle malefatte umane e ha sguinzagliato sulla Terra una legione di angeli per portare l’Apocalisse. L’arcangelo Michael, però, non è d’accordo e vuole salvare l’umanità. Nonostante il buon presupposto, del tutto ottimistico che l’uomo merita di essere salvato, il film a stento decolla.
Questo fallimento è dovuto a molti aspetti. In primis senza alcun dubbio, la mancata costruzione di una vera e propria climax d’assedio. Infatti, la vicenda ruota tutta intorno ad un’area di servizio nel deserto, dove vive Bob Hanson (Dennis Quaid), proprietario di un ristorante isolato, Charlie (Adrianne Palicki), la bella cameriera del ristorante, prossima al parto del nuovo messia, Sandra e Howard (Kate Walsh e Jon Tenney) e alla loro figlia adolescente Audrey (Willa Holland), capitati lì inseguito alla rottura della proprio autovettura e bloccati in attesa che il figlio di Bob, Jeep (Lucas Black), ripari la loro automobile. Mentre in casi esemplari come GLI UCCELLI del maestro Hitchcock, il film faceva leva su un carico di tensione che culminava con una insostenibilità dovuta appunto alla costruzione di una climax d’assedio elevatissima, in questo caso il film è ingabbiato in un forzato tentativo di moralizzare il prossimo e perde di vista gli aspetti fondamentali che rendono un film di questo tipo (in)sostenibile. Poi si vanno ad aggiungere la poca originalità del pretesto, ossia proteggere il parto di un bambino che dovrebbe rappresentare l’unico baluardo di un’umanità ormai allo sbando, e la poca credibilità del tentativo retorico del mezzo cinematografico. Peccato perché i presupposti per un buon film almeno nella base di partenza c’erano tutti.
Nuoce gravemente a LEGION anche una precaria regia che amalgama malamente le varie vicissitudini che accompagnano i personaggi. Alcune note positive si possono riscontrare nell’efficace scelta iniziale di utilizzare la comunicazione come primo segnale di isolamento, la comparsa di un’insolita vecchietta che da il via alle danze, e la scena del bambino che da un punto di vista spettacolare sono di grande effetto. In ultimo la volontà di rifarsi all’iconografia rinascimentale dei due arcangeli tipica dei dipinti di quel periodo. In definitiva, LEGION è un film molto debole che rasenta il ridicolo in alcune scene lasciando poco margine ad una riflessione di altro genere.











Per queste ragioni, l’Academy (che ha saggiamente atteso la deadline per la consegna delle schede di voto, indicando in questo modo di non considerare responsabili tutti i realizzatori del film, ma soltanto l’autore del gesto) ha deciso che Chartier non sarà presente alla cerimonia di premiazione che si svolgerà domenica 7 marzo. Questo significa che, nel caso The Hurt Locker dovesse vincere, Chartier ovviamente non salirà sul palco per ritirare la statuetta, che invece gli verrebbe consegnata in seguito. La soluzione è un compromesso anche accettabile per Chartier, considerando che qualcuno lo voleva anche eliminare dalla lista dei nominati (in cui aveva fatto peraltro molta fatica a entrare).





Il romanzo dell’autrice inglese è uscito nel 2007 nel Regno Unito, diventando subito un piccolo cult per gli appassionati del genere. Il romanzo, rivolto a un pubblico tardo-adolescenziale, è uscito da poco anche negli Stati Uniti, e ha suscitato l’interesse di vari studios cinematografici.
Immaginate una prigione vivente, così vasta da contenere corridoi e foreste, città e mari. Immaginate un prigioniero senza ricordi, certo di provenire da Fuori, anche se la prigione è sigillata da secoli e soltanto un uomo – per metà vero e per metà leggenda – è mai evaso. Immaginate una ragazza in un grande maniero, in una società che ha proibito il tempo, imprigionando tutti in un mondo seicentesco ma controllato dai computer; condannata a un matrimonio che non vuole, coinvolta in una congiura assassina che teme e desidera allo stesso tempo. Uno dei due è dentro, l’altra è fuori. Ma entrambi in catene. Immaginate una guerra che ha scavato la Luna, sette anelli a forma di teschio che contengono anime, una nave volante e una muraglia ai confini del mondo. Immaginate l’impensabile. Immaginate Incarceron.








