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Videocracy – Basta apparire: il film diretto da Erik Gandini

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Videocracy – Basta apparire: il film diretto da Erik Gandini

Videocracy – Basta apparire è il film del 2009 diretto da Erik Gandini: “Lo spettacolo è il Capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”

Videocracy – Basta apparire, la trama:  Il film documenta alcuni aspetti della tv italiana, delle reti mediaset, i provini e i tentativi compiuti da un ragazzo per diventare un’icona dello spettacolo televisivo. Vengono raccontate le vicende del fotografo/ricattatore Fabrizio Corona e dello scopritore di talenti Lele Mora.

Videocracy – Basta apparire, l’analisi

Videocracy – Basta apparire è un invisibile. Ha avuto un passaggio al festival di Venezia, e ci si aspetterebbe ora di vederlo regolarmente distribuito per le sale del nostro paese. Non è così. I cinema che lo proiettano attualmente nella Capitale, nel giorno in cui scrivo (3 ottobre 2009)  sono appena due.

Perché, dunque, questo film è un “invisibile”? Presto detto. Il film parla di qualcosa che scotta: il potere delle immagini, e nello specifico delle immagini televisive. Insomma, della videocrazia. Ragioni sufficienti per far sì che tanto mamma RAI quanto Mediaset si siano rifiutate di mandare in onda il trailer del film, e adesso sono poche le sale che lo proiettano.

Del resto, è normale che dia fastidio un film che si scaglia contro il mondo delle immagini in particolare televisive e sul potere che esse esercitano nei confronti di: a) un qualsiasi giovane della provincia italiana che sogni una carriera al di là del tubo catodico; b) vip quando sono fatti oggetto di gossip e dunque ricattabili; c) tutti, dal produttore di programmi televisivi al fruitore degli stessi.

Di questo meccanismo perverso, dello strapotere delle immagini, qualcuno ha saputo approfittare: il fotografo Fabrizio Corona, la cui vicenda di ricattatore dei vip tramite immagini compromettenti viene raccontata nel film. Corona si autodefinisce come moderno Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a se stesso. E c’è poi Lele Mora, lo scopritore di talenti amico di Corona, nonché dell’attuale premier, che mostra orgoglioso il suo telefonino con immagini di croci celtiche, fasci littori, e in sottofondo l’mp3 di “Faccetta nera”. È un uomo di potere, di crazia, anzi della videocrazia, del governo delle immagini: per diventare/essere una persona di strepitoso successo in televisione occorre conoscerlo.

Per essere invece una presentatrice del meteo di Rete4, quello successivo al tg di Emilio Fede, occorre passare per il “Billionaire”, la discoteca di Flavio Briatore. E ci sono poi i provini per le veline della trasmissione “Striscia la notizia”…

In Videocracy – Basta apparire diretto dal bergamasco esule in Svezia Erik Gandini c’è tutto questo e anche altro. Vi si mostra infatti con chiarezza come le immagini, e in particolare le immagini della televisione dei nostri tempi siano non solo uno strumento di condizionamento per le masse e i singoli aspiranti divi televisivi, ma anche per coloro che divi lo sono già. Lo spettacolo, parafrasando Debord, è un insieme di relazioni che si costruiscono a ogni livello della nostra società, e che dette relazioni sono influenzate dalle immagini che la videocrazia propone impone dispone.

Tutto insomma è determinato dalle immagini. Invadenti. Sfacciate. Suadenti. Quando seducono l’everyman con la promessa di paradisi concreti, immanenti, ultraedonistici, del warholiano quarto d’ora di celebrità.

Le reti televisive esercitano dunque un potere che manipola le coscienze instillandovi i propri sogni di edonismo. Di questo potere gli ambasciatori sono in Italia sia la RAI, ma specialmente Mediaset, il cui fondatore e azionista di maggioranza è l’attuale capo del governo Silvio Berlusconi, l’uomo politico che incarna al meglio il legame tra le immagini e il potere, attraverso l’uso che ha fatto e continua a fare di entrambe.

Le immagini del film sono non di rado sgranate o altre volte comunque sporche, pastose, usurate, come se ci trovassimo a riprendere con una telecamera ciò che passa sullo schermo televisivo. Mi viene di accostare le immagini sgranate ai  “retini” in bella vista dei fumetti giganti di Roy Lichtenstein, stadio primordiale della vita delle immagini, e le immagini sporche e usurate a quelle di Warhol: immagini già passate, fagocitate dallo/sullo schermo, digerite e instillate nel cervello dell’everyman spettatoriale.

Videocracy – Basta apparire di Gandini tocca dunque dei temi scottanti, coi quali è necessario fare i conti, ma purtroppo alla sua operazione (che comunque, ripeto, è lodevole nella scelta dei temi e per la chiarezza con i quali essi sono esposti) manca una maggiore quantità di mordente, o la volontà di addentrarsi in maniera più profonda in quelli che sono i meccanismi profondi che reggono tutto lo strapotere mediatico di cui si parla nel film, quali sono le sue dinamiche al di là di quei casi narrati nel film e che al pubblico italiano sono già tristemente noti (Corona, Mora, etc).

Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov

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Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov

Il colore del melograno (Sayat Nova) (Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova) è il film del 1968 diretto da Sergej Paradjanov

Nel tempio del cinema vi sono immagini, luci, realtà. Paradjanov
È stato il maestro di questo tempio
.”
Jean-Luc Godard

Il colore del melograno (Sayat Nova)
(Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova)
Anno: 1968
Diretto da: Sergej Paradjanov
Con: Sofiko Chiaureli, Melkon Aleksanyan, Vilen Glastyan, Georgi Gegechkory.

Sinossi: Il film è la biografia di Sayat Nova, poeta armeno del XVIII secolo, ma la sua vita non è qui raccontata in maniera tradizionale, bensì attraverso dei tableaux che ne rievocano in maniera metaforica e surreale le varie fasi: infanzia e adolescenza, servizio del principe e amore proibito per la di lui figlia, convento e morte per mano dei soldati persiani di Agha Mohammed Khan.

Analisi: Ci sono molti modi per raccontare una storia. E poi, chi dice che al cinema si debbano solo raccontare delle storie o raccontarle in un certo modo? Si pensa, per tradizione consolidata, a un film che sia articolato come racconto, come prosa narrativa. Ma ci sono anche film che ricordano più le enciclopedie (Greenaway), e c’era chi, come Pasolini, tra il ’65 e il ’71 parlava di un cinema di poesia.

Il colore del melograno

Questo film del georgiano di origini armene Sergej Paradjanov è probabilmente un esempio di cinema di poesia.

Sayat Nova è considerato il maggiore poeta armeno (ma si dovrebbe piuttosto parlare di “ashug”, qualcosa di simile a un trovatore), e il film si ripropone di visualizzarne (più che narrarne) la vita facendo ricorso al simbolismo e alla metafora, utilizzando, cioè, dei procedimenti tipici del linguaggio poetico.

In una delle prime sequenze vediamo il poeta bambino che, affascinato dai libri, ne dispone a centinaia sui tetti di un convento, per poi su questi stessi tetti distendersi e spalancare le braccia come in una crocifissione: è già una prefigurazione metaforica del suo futuro martirio. Ancora, vedere la mano di Sayat Nova bambino “schiacciata” tra due libri mentre un prete gli raccomanda di leggere per la gente, è il correlativo oggettivo della poesia come missione e come fardello.

Quando, nella prima parte del film, ci viene mostrata l’infanzia di Sayat, essa è introdotta da una didascalia con una citazione del poeta, che recita: “Dai colori e dagli aromi di questo mondo, la mia fanciullezza trasse una lira da poeta, e me la offrì”. I riti religiosi, il lavoro dei tintori e quello dei monaci bibliotecari,  il riposo nei bagni pubblici: tutto ciò è mostrato come manifestazione del mondo coi suoi colori agli occhi del poeta bambino.

Per tutto il film, Paradjanov ci mostra direttamente “i colori e gli aromi” di quel mondo fisico che dovette alimentare l’ispirazione poetica di Sayat Nova, e lo fa senza utilizzare una logica discorsiva o narrativa in senso classico, preferendo piuttosto fare poco ricorso alla parola e tentando di dare corpi e immagini visive a quelle sensazioni che la poesia può evocare.

Anche l’amore tra il poeta e la figlia del principe è reso in chiave simbolica, attraverso sguardi e gesti ripetuti lentamente come in un rituale, così come la morte del poeta (che avvenne per mano di soldati persiani), è resa attraverso una sequenza di gesti e l’immagine di Sayat disteso sul pavimento attorniato da candele su cui scendono dei galli che svolazzando si bruciano.

Ho scritto più sopra “rituale”. È questa l’impressione dominante che si ha quando si guarda questo film: quella di trovarsi di fronte a un rituale in cui ogni gesto sembra ispirato da un processo profondo, ogni azione è in sé altamente simbolica di una qualche altra realtà che la precede, e il gesto fisico è spiritualizzato.

Ciò avvicina la modalità di rappresentazione di questo film a quella del teatro No giapponese, mentre le inquadrature, frontali e a macchina da presa fissa, sembrano riportare alle illustrazioni medioevali piatte e senza prospettiva, in cui corpi e oggetti sono collocati in una dimensione altra, in uno spazio non percepibile, come sospeso e onirico.

Non stupisce che un film del genere, in cui domina una componente spirituale e un approccio surreale alle tradizioni culturali del popolo armeno, sia dispiaciuto, alla sua uscita, ai burocrati e ai potenti di quella che allora (1968) si chiamava URSS. Il governo sovietico (che obbligò tra l’altro il regista a modificare il titolo originario “Sayat Nova” in Il colore del melograno) esercitò infatti notevoli pressioni sull’artista Paradjanov, accusandolo di aver deviato enormemente dai canoni del realismo socialista, per poi condannare anche l’uomo a cinque anni in un campo di riabilitazione con l’accusa di omosessualità e furto. Contro la condanna si mossero alcuni artisti e colleghi registi, e Paradjanov fu liberato, ma gli fu negato, per alcuni anni, di dirigere altri film.

Attualmente, Il colore del melograno amatissimo per la sua forza visionaria da molti cineasti tra cui Fellini e Tarkovskij, è difficilmente reperibile, fatte salve le edizioni in DVD della Ruscico e della Kino.

Forse che agli artisti che in vita hanno scontato l’oppressione della censura e le pressioni dei burocrati, tocchi anche affrontare, dopo morti, la beffa di un mercato che si dice libero e invece ha vincoli particolarmente restrittivi?

Allora quest’opera, come altri invisibili, sconta lo stesso destino del poeta bambino, consapevole che la poesia è bellissima missione, ma anche fardello e martirio, e conferma che i veri poeti, anche quelli dello schermo, sono quelli scomodi anche dopo tanto tempo.

 

Il grande silenzio: il film di Philip Groning

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Il grande silenzio (tit. or. Die grosse stille) è il film del 2005 diretto da Philip Gröning con protagonisti monaci della grand Chartreuse di Grenoble.

Il grande silenzio, la trama

L’ordine dei Certosini è ritenuto una delle confraternite più rigide della Chiesa Cattolica Romana. Nascosta dagli occhi del pubblico, la vita quotidiana dei monaci segue le regole ed i rituali secolari dell’ordine. I visitatori ed i turisti sono tenuti fuori dai locali del monastero. Non esistono di fatto pellicole sui monaci. L’ultima ripresa avvenne nel 1960 quando due giornalisti furono ammessi nel monastero. Non gli fu però concesso di riprendere i monaci. 19 anni dopo il suo primo incontro con l’attuale Priore Generale dell’ordine, al regista Philip Gröning fu dato il permesso di girare un film sulla vita dei monaci.

Questo unico permesso di girare è il risultato di una lunga e leale relazione tra Philip Gröning e il Priore Generale. Il contratto prevede che per almeno 7 anni non verrà permesso di girare alcun altro film nel monastero. Comunque, considerato che fino a questo momento non era mai stato dato il permesso di girare, questo film potrebbe rimanere unico. Philip Gröning ha vissuto nel monastero ed ha seguito i monaci con la telecamera. Il regista ha sperimentato la stessa vita di un recluso, divenendo parte del rituale e della vita quotidiana, ed ha potuto scoprire così il mondo dei monaci e dei novizi che conducono una vita tra antichi riti e moderne conquiste.

Il Grande silenzio, l’analisi

Non è facile parlare di Il grande silenzio. Non è mai facile parlare di un film. In primis, per una differenza di codici: il film ha un codice basato su una scrittura per immagini in movimento e suoni, riprendendo le parole di Bresson, mentre le recensioni o i saggi hanno un altro codice che è quello della scrittura propriamente detta.

Nel caso specifico si tratta di un film in cui la parola è pressoché totalmente assente, come già il titolo suggerisce. I monaci della grand Chartreuse nel film non parlano, fatte salve le sequenze delle preghiere, o quella posta verso la fine in cui un monaco cieco dice di non essere addolorato della propria cecità perché gioioso nel suo accostarsi a Dio.

Groning ha compiuto un’impresa folle, al limite dell’assurdo: un film di due ore e quaranta, non parlato, sulla vita dei monaci della gran Chartreuse, e realizzato con pochi mezzi, senza luci e con una sola telecamera, dove predominano le inquadrature fisse e a volte si ripetono situazioni simili.

Ma l’assurdità dell’impresa di Groning è pienamente giustificata dal contesto particolare in cui egli si è trovato a girare. Già nel 1984 il regista tedesco aveva chiesto ai monaci della certosa di effettuare delle riprese all’interno della stessa, ma gli fu detto che sarebbe stato possibile solo di lì a 16 anni, poiché non si sentivano, a loro dire, ancora pronti. Il regista fu richiamato 16 anni dopo. Le clausole: il silenzio, che i monaci certosini osservano e di cui Groning partecipa, e la povertà di mezzi.

Parlare del Verbo o delle sue manifestazioni, senza fare ricordo al verbo inteso come voce o racconto, (poiché non c’è qui una trama, ma un insieme di sequenze e situazioni) è comunque impresa coraggiosa, una ragione di più per vedere questo film.

Il grande silenzio è quasi un film dogma, per la castità e la povertà di mezzi con cui è girato, ma ne esce fuori del cinema verità, quasi. Davanti all’occhio vitreo della telecamera i monaci pregano, insieme o in solitudine, leggono, accolgono novizi, si tagliano i capelli, cucinano, curano piante e animali, riparano scarpe e vestiti, officiano rituali.

I vari atti quotidiani dei monaci sono di tanto intercalati da sequenze di primi piani fissi di alcuni di essi, inquadrature dell’ambiente naturale, o cartelli su fondu nero che riportano citazioni bibliche.

Non c’è alcun vezzo formale volto a impreziosire o rivestire di ulteriore significato ciò che viene ripreso. I soli prodigi tecnici che si vedono non sono neppure tra i più eclatanti: qualche effetto di pellicola invecchiata, fotografia sgranata, obiettivi grandangolari per esasperare la profondità o volere andare più addentro a ciò che viene mostrato.

È un assurdo, si è detto più sopra. E non poteva essere altrimenti. Perché questo film, che nel suo essere costituisce un absurdum, documenta un qualcosa che già è assurdo. Perché decidere di recidere pressoché totalmente (fatto salvo un solo computer di cui si occupa un solo monaco) il legame col mondo esterno, andandosi a isolare tra le alpi francesi, perché condurre un’esistenza basata solo su meditazione, preghiera, silenzio, lavoro, perché rinunciare a quanto sta fuori e approdare a uno stile di vita così scarno? Per fede, sembra dire Goring a mezzo delle didascalie che riportano citazioni bibliche, la più ricorrente delle quali, significativamente, è tratta dal libro del profeta Geremia: “Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”.

Era già Kierkegaard a parlare della fede come un assurdo, e un legame con l’Assoluto che sia a propria volta assoluto. Absolutum, in latino, ovvero, sciolto da tutto e tutti, radicalmente, come i monaci della certosa.

Per fede, e per rivolta, verrebbe da dire, opponendo alla frenesia del mondo la serenità contemplativa, dedicandosi a ogni atto, anche il più banale e quotidiano con attenzione e cura, come fosse prezioso.

Il grande silenzio, a metà tra Malick e Tarkovskij

Pur avendo come suo centro di base la fede in un Dio, non si tratta di un film religioso come siamo abituati a vederne. Ciò che è trascendente non appare, la fede è costantemente presente, ma mai se ne parla direttamente. Essa è ciò che scorre come sotterraneo alle immagini del film, piuttosto. Immagini che in sé non documentano alcuna realtà trascendente, ma anzi una quotidiana, pacificata realtà del tutto immanente e fortemente materica: ne sono testimonianza i vari soffermarsi della macchina da presa -con uno sguardo che potrebbe richiamarci alla mente Malick o Tarkovskij– sugli ambienti naturali (distese innevate, piante, corsi d’acqua), o i vari oggetti. Non solo: le attività dei monaci che ci vengono mostrate sono per lo più azioni semplici, di lavoro: segare dei tronchi, spalare la neve. Ma li vediamo anche giocare come bambini quando scivolano su un pendio innevato…

La stessa reiterazione dei più semplici atti quotidiani ha qualcosa del rituale: una ritualità dell’immanente, vissuto dai monaci come fosse manifestazione del trascendente.

È curioso, a primo impatto, che si documenti una realtà immanente in maniera così scabra e rosselliniana, per dire di uomini così votati a ciò che li trascende. Ma forse è proprio il loro modo di rapportarsi a quell’immanenza che Groning si prova a catturare, pur sapendo che non ha a disposizione altro che la propria telecamera, e che egli, non è altro che un uomo, come tutti dotato solo dei sensi per conoscere. E ciò rende comunque questa sua impresa affascinante. Che ci sia riuscito o meno è un altro discorso, e determinare ciò sta, inevitabilmente, al singolo spettatore, sulla base di come accosta questo film, che è sicuramente complesso nella sua essenzialità.

Esther, il film del 1986 diretto da Amos Gitai

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Esther è il film del 1986 diretto da Amos Gitai e con protagonisti Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen, Sara Cohen e Juliano Mer.

  • Anno: 1986
  • Diretto da: Amos Gitai
  • Con: Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen,
    Sara Cohen, Juliano Mer.

“Non opprimete e non sfruttate lo straniero; voi conoscete l’animo dello straniero,
giacché voi stessi siete stati stranieri nel paese d’Egitto.”
Esodo 23:9

Esther, la trama

Esther è basato sulla storia biblica del libro di Ester. Al tempo in cui i giudei sono sotto il dominio persiano, il re Assuero di Susa sceglie come moglie una giovane giudea, Esther.

Sotto consiglio del sacerdote Mardocheo, suo zio, la donna tiene nascosta la propria origine al sovrano. Aman, uno dei dignitari di corte, ordina la persecuzione dei giudei, poiché non sembrano riconoscere altra autorità fuorchè il proprio Dio, come Mardocheo, che sventa un complotto ai danni del re. Aman intende uccidere il sacerdote, ma Esther rivela al re i piani di Aman, che viene messo a morte. Mardocheo ed Esther, ottengono dal re che i giudei possano organizzarsi e difendersi dalle persecuzioni: in breve tempo, coloro che dapprima erano stati perseguitati divengono persecutori.

Esther, l’analisi

Non sono molti i casi della storia del cinema in cui un regista alla sua opera prima riesca a essere, pur tra le acerbità di vario tipo che contraddistinguono gli esordi, intenso e ricco nell’ispirazione, appassionato e asciutto al contempo. Direi che Esther, di Amos Gitai, rientra in questa categoria. Il film è uscito in cofanetto dalla Rarovideo in edizione restaurata e accompagnato dagli altri due capitoli di quella che è considerata la trilogia dell’esilio nell’opera del cineasta di Haifa.

Gitai afferma di essere rimasto colpito dal fatto che nel libro biblico di Ester non si nomina direttamente “Dio” e che voleva rintracciare in esso qualcosa dell’ebreo contemporaneo, laico. Egli riprende il testo in maniera sostanzialmente fedele, ma la sua operazione diviene particolarmente interessante alla luce del fatto che la storia narrata è quella di un popolo perseguitato che diviene persecutore a propria volta, ed Esther diviene a propria volta sanguinaria ordinando il massacro di altri “nemici” dei giudei. Ciò è particolarmente interessante, e coraggioso, se si pensa che Gitai non cela i riferimenti all’attualità di quella terra costantemente promessa e costantemente insanguinata che è la Palestina e quello stato in qualche modo sempre utopico che è Israele, dove accade che i confini tra persecutori e perseguitati siano estremamente labili e fluttuanti.

E Gitai, che è nativo di Haifa (dove il film è stato girato), città nel nord di Israele, mette in discussione, pone quesiti, rimette in gioco la storia e la tradizione affrontando sempre criticamente il presente del suo paese che egli certamente ama, cortocircuitando col suo cinema le distinzioni tra generi, lingue, tecniche. Esther è girato con una tecnica particolare: si tratta infatti di una serie di tableaux (ispirati alle miniature persiane, di cui posseggono l’impianto ieratico) in cui la macchina da presa si muove poco, effettuando delle carrellate.

Le inquadrature del film sono centripete, e ciò che fornisce dinamicità ai quadri sono le azioni degli attori e gli splendidi effetti di luce della fotografia di Herni Alekan, che permea gli oggetti e i colori sgargianti di una patina magica e irreale.  Gitai ha sempre ammesso (e i suoi film lo dimostrano) di preferire le riprese lunghe, i piani-sequenza, poiché più delle inquadrature brevi cui tanto linguaggio televisivo ci ha abituati, sanno restituire la complessità del reale. E’ interessante, questo, se pensiamo al fatto che il suo paese è (pur-troppo) spesso al centro degli obiettivi televisivi, oggetto di servizi a ripetizione, in cui la realtà è frammentata in una serie di informazioni il cui senso sembra già dato una volta per tutte e si rende impermeabile alle interpretazioni.

Esther, la messa in scena 

Nella messa in scena di Gitai di Esther, coi personaggi in costume storico, ci sono però degli elementi stranianti, brechtiani, che fanno saltare il gap temporale tra il tempo in cui si svolge la storia e il tempo in cui il film è stato girato. Quando i personaggi si aggirano infatti per le strade dissestate di Haifa o le sue rovine delle sue mura, la mdp include spesso elementi (intenzionalmente) anacronistici: cavi elettrici, pali del telefono, palazzi moderni. Ciò fa effettivamente deflagrare il confine tra il tempo della storia narrata e la situazione in cui è stata girata. Quel che Gitai vuole offrirci, non è una mera ricostruzione storica, ma una riflessione sul presente. Ci fa sentire il dispositivo cinematografico, attraverso quelli che potrebbero sembrare dei “fianchi aperti” se si trattasse di un normale film a soggetto biblico-storico. Brechtianamente, invece, siamo mantenuti vigili con un occhio alla storia e l’altro alle condizioni reali, attuali, in cui essa è stata girata. È lo stesso per un personaggio che appare più volte in diverse vesti (mendicante, banditore, commerciante, etc) intervenendo a spiegare, come una sorta di cantastorie, alcuni punti della storia, e lo fa guardando in macchina, coinvolgendo direttamente lo spettatore.

Quando Aman viene giustiziato (sequenza splendida, in cui la mdp panoramicando passa da una costruzione antica dove l’uomo sta per essere ucciso, a una strada moderna, con degli autobus e una moschea sullo sfondo), Esther, a sera, chiede al re che il giorno successivo abbia luogo un altro massacro: secondo il regista, in poche righe, il testo biblico mostra tutte le contraddizioni del potere.

L’epilogo mostra, in un lungo cameracar per le strade di Haifa, dove ad angoli ancestrali si alternano altri moderni, gli interpreti principali camminare e riflettere criticamente sul ruolo interpretato, sul senso della vendetta, sull’”utopia” che era Israele, sulle proprie origini.

Tutti gli attori sono ebrei, ma ciascuno di diversa nazionalità: chi egiziano, chi ungherese, etc, e benché il film sia interamente parlato in ebraico, ciascun attore lo pronuncia con la propria cadenza. Si potrebbe dire che Gitai attui col cinema l’operazione che Deleuze rintracciava nella letteratura degli autori minori: Kleist, Kafka..etc. Essi fanno “balbettare” la propria lingua, quasi che le fossero stranieri, come esuli, e si ritaglino nelle proprie opere una sorta di idioletto. Gitai, che ha vissuto come esule tra il suo paese, la Francia, gli USA, la Germania, ha fatto egli stesso un cinema esule e riflessivo, che pone interrogativi, che rimette in discussione non la tradizione in sé, ma piuttosto la rianalizza per rianalizzare il presente (per farlo “balbettare”, verrebbe da dire), come accade, appunto, in Esther, parlato in ebraico, che, come ricorda lo stesso autore in un’intervista, è una lingua in cui manchi una vera e propria coniugazione verbale del presente, possendo, al contrario, numerose forme al passato, e, al contempo, gravida di una sorta di utopia e tensione al futuro.

Aleksandra, il film di Aleksandr Sokurov

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Aleksandra, il film di Aleksandr Sokurov

Aleksandra è il film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov e con protagonisti Galina Vishnevskaija, Vasili Shevtsov, Raisa Gichaeva, Andreij Bogdanov, Aleksandr Kladko, Alekseij Nejmijshev.

La trama del film Aleksandra: In un accampamento di soldati russi, nella Cecenia dei nostri giorni, un’anziana donna, Aleksandra Nikolaevna, arriva a far visita a suo nipote Denis, ufficiale dell’esercito. Trascorre con lui qualche giorno. Quanto basta a farle scoprire un mondo a lei sconosciuto, fatto di uomini soli, senza calore né conforto. A pochi chilometri di distanza, al fronte, si combatte ogni giorno tra la vita e la morte. Eppure le donne del luogo non hanno perduto il loro antico senso di ospitalità. E i soldati, tutti i soldati, sono soltanto ragazzi impauriti.. La protagonista del film è la cantante Galina Vishnevskaya, vedova del grande violoncellista Rostropovich su cui Sokurov ha girato quasi contemporaneamente una delle sue elegie documentarie.

Aleksandra, l’analisi

“La guerra inizia dove finisce la ragione”, recita la frase di lancio di Aleksandra, film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov (già autore di Madre e Figlio, Moloch, Arca Russa, per citare solo alcuni dei suoi lavori più recenti), e uscito da noi quest’anno in pochissime sale solo a merito della Movimento film.

Sokurov non ci mostra mai direttamente la guerra nella sua ultima opera (salvo, forse, per quei fuochi che Aleksandra vede nottetempo in lontananza), semmai ci mostra i suoi effetti: la fine della ragione, appunto, le case lacerate dalle bombe a Gronzyj, la durezza degli uomini costretti ad essere macchine per uccidere che non possono dar voce ai propri sentimenti o a quanto ancora posseggono di umano, e in ultimo la ricerca innocente, semplice (e perciò tanto più assurda e stridente con l’orrore della guerra) di contatti umani da parte della protagonista, donna anziana dall’incendere lento e pesante in un microcosmo di giovani uomini veloci e costretti alla più assoluta efficienza.

Fin dalle primissime inquadrature di Aleksandra in cui esce da una camionetta per incontrare gli uomini che la scorteranno all’accampamento, Aleksandra Nikolaevna (il cui nome riecheggia forse non a caso quello completo del regista: Aleksandr Nikolaevič) è una outsider. Ancora sul veicolo la vediamo di spalle, in decadrage, ovvero spostata rispetto all’asse centrale dell’inquadratura (e già basterebbe questo a connotare un primo “spiazzamento”), mentre si guarda attorno.

Aleksandra scende dalla camionetta, la macchina da presa panoramica lentamente e quasi impercettibilmente da destra a sinistra, catturando lo sguardo corrucciato della donna (bravissima e intensa la Vishnevskaija, moglie del noto violoncellista Rostropovich) la cui presenza appare, già da questo incipit, scollata dall’ambiente circostante: un paesaggio rurale scosso dal vento, con due giovani che chiacchierano tra loro.

Ma Aleksandra è fuori luogo per un motivo più profondo: a spingere la donna all’accampamento è semplicemente l’affetto familiare (uno dei temi centrali nella filmografia di Sokurov: Madre e figlio, Padre e figlio), il desiderio di rivedere Denis, laddove gli uomini dell’accampamento sono lì per compiere il loro dovere di soldati: distruggere.

Forse chiunque, in ogni guerra diventa uno straniero e un estraneo, non comprensibile, non raggiungibile, un diverso col quale la comunicazione è difficile o impossibile, come per il giovane ceceno che si rifiuta di vendere le sigarette alla russa Aleksandra. Un estraneo è un nemico, anche, da privare della vita senza rimorso né sentimenti e in modo semplice, meccanico. Del resto basta schiacciare il grilletto, come Aleksandra comprende maneggiando un fucile scarico insieme a Denis che con incredibile (e paradossale in quel contesto) dolcezza di nipote le mostra le armi e i veicoli in una sequenza che quasi urta, proprio per lo stridore che si crea tra la curiosità innocente della vecchina, la tenerezza del giovane ufficiale nei confronti di lei (la prende in braccio) e gli strumenti di morte che li attorniano.

Eppure Aleksandra, grazie al suo essere decisamente “fuori luogo”, è capace di piccoli atti di dolcezza che sembrerebbero impossibili in quel contesto, come quando offre un po’ di torta a delle giovanissime sentinelle (una sequenza bellissima, dal sapore crepuscolare –“le buone cose di pessimo gusto”- esaltata dai toni rosacei della fotografia di Aleksandr Burov, che scopre un bergmaniano cielo chiazzato di nubi), e soprattutto quando parla con un’altra outsider, dell’etnia nemica: un’anziana cecena, ex insegnante di nome Malika.

La stessa Malika, che offre un tè ad Aleksandra, non riesce a capacitarsi di come i giovani siano stati cambiati dalla crudeltà della guerra. “I buoni son diventati cattivi, non solo le case sono state distrutte, la vita è stata messa sottosopra, i santi diventano diavoli”, dice la cecena alla russa. Ecco perché non ci sono scene di battaglia nel film: la battaglia è interiore, la guerra è dappertutto, fatalmente instillata nell’animo umano sconvolto, lacerato come le case di Gronzyj, una lacerazione di cui sembrano partecipare anche alcune inquadrature del film, realizzate con lenti distorcenti che alterano (sembra stiano per “strappare”, quasi) lo spazio davanti alla macchina da presa.

Eppure, qualcosa di buono rimane:  il tentativo laborioso di intrecciare dei legami a dispetto di tutto attraverso piccoli gesti (la treccia che Denis fa ad Aleksandra, l’abbraccio della russa e della cecena, la già ricordata offerta della torta alle sentinelle, il consiglio che l’anziana russa dà a un giovane ceceno: pregare Dio perché conceda la saggezza e la consapevolezza che la forza non sta nelle armi). Piccoli gesti che davanti alla macchina da presa sembrano (o sono) eccezionali in mezzo all’orrore, un po’ come i raggi di sole che illuminavano il volto del figlio piangente per la perdita della madre in Madre e figlio.

A differenza di certi suoi lavori precedenti, qui, Sokurov, sperimenta forse meno a livello tecnico (mi riferisco, ad esempio alle inquadrature distorte e private di profondità in Madre e figlio o al piano sequenza ininterrotto della durata di un’ora e mezza nell’Hermitage di San Pietroburgo per Arca Russa), ma ciò non toglie che questo, con la sua intensità poetica, sia uno dei suoi lavori migliori, che ha ricevuto, fra l’altro, il premio Robert Bresson alla Mostra del Cinema di Venezia.

 

Freaks: recensione del film horror di Tod Browning

Freaks: recensione del film horror di Tod Browning

Freaks è il film Horror del 1932, vero e proprio cult, di Tod Browning con protagonisti nel cast Wallace Ford, Leila Hyamas, Olga Baclanova e Rosco Ates.

Trama del film Freaks

Tra gli artisti di un circo che ha tra le sue attrazioni esseri bizzarri e deformi, nascono relazioni morbose. Il nano Hans è innamorato della bella Cleopatra, una donna “normale” e avvenente, che lavora nel medesimo circo come trapezista. In realtà, la trapezista è interessata solo al denaro di Hans e progetta con il suo amante – il forzuto del circo, Hercules – di ucciderlo per godersene l’eredità.

La fidanzata di Hans, Frieda, anch’essa affetta da acondroplasia, lo mette in guardia su Cleopatra perché diffida di lei. Ciò malgrado si arriva al matrimonio tra Hans e Cleopatra, che continua ad intrattenere la sua relazione con Hercules. Ma qui, con grande sgomento di Cleopatra, i Freaks che avevano scoperto il tradimento e i veri sentimenti che Cleopatra e il suo amante nutrivano per loro, si ribellano e portano a compimento la loro atroce vendetta: dopo un inseguimento tra i più terrificanti della storia del cinema Cleopatra ed il “forzuto” ricevono la loro punizione.

I Freaks si accaniscono a torturarli e mutilarli riducendo lui a un grasso eunuco e lei ad una tale deformità che in futuro sarebbe stata presentata al pubblico come la “donna gallina”

Analisi del film Horror Freaks

Comunque  se ne parli la storia del genere dell’orrore ha vissuto momenti sconvolgenti nell’arco di tutto un secolo di vita del cinematografo. Molto spesso questi momenti erano strettamente legati all’uscita di film che per un verso o nell’atro scioccavano la sale stracolme di gente inorridita di fronte a spettacolo molto spesso troppo orrorifici da poter essere fruiti e “sopportati”.

Se film come L’esorcista o Shinning hanno provocato nell’opinione pubblica e critica sgomento, di sicuro un titolo ben meno noto ma altrettanto spaventoso diede inizio a questa serie di film “scandalo”. Stiamo parlando del bel ma “brutto” Freaks di Tod Browning, uno che di horror ne mastica abbastanza, a cui ha dedicato gran parte della sua carriera e come non poterlo allora citare in questa nostra amata rubrica.

Il Freaks del regista è un film altamente disturbato, flop al botteghino, bollato come un’opera inguardabili a causa dei suoi contenuti estremi, maledetto e censurato tanto da levargli ben 30 minuti e ridurlo a poco più di 65  senza scene finali e con una misera inquadratura, che però rende pienamente giustizia alla storia dei personaggi.

Il film, visto ben 76 anni dopo, conserva ancora quel potenziale visivo che tanto ha scomodato e che difficilmente risulta essere un film godibile dal punto di vista puramente estetico, forse con il senno di poi, ma va anche detto  che forse qualcuno in quegli anni ha avuto la coda di paglia di fronte alla lezione di vita del regista.

In Freaks, i veri mostri sono le persone cosiddette normali –  che ingannano, feriscono, mettendo al bando chi è più brutto o semplicemente chi è affetto da una forma di nanismo, o qualsivoglia connotato non esteticamente presentabile, trattandolo peggio di un animale e infierendo sulla sua sensibilità e sulla sua umanità. Polemica questa, che come anticipato prima, bruciò qualche coda di paglia, direi molte; tanto scandaloso da essere bandito  in Inghilterra per trent’anni.

Tutto questo perché non esistono effetti speciali o trucco, tutto ciò che la macchina da presa ci mostra è reale. Freaks è semplicemente uno spaccato dell’ambiente circense, ambiente tra l’altro ben conosciuto dal regista avendovi lavorato per molti anni durante la gioventù, un microcosmo di umanità diversa, dove i fenomeni da baraccone, gli scherzi di natura, i Freaks appunto, ci sono mostrati per quello che sono, senza pietismi. Le gemelle siamesi, la donna barbuta, l’uomo torso, l’uomo serpente e le ragazze macrocefale con le teste a spillo sono realmente così come li vediamo, senza ricorrere all’artificio di nessun trucco. E’ nello stesso modo, con la stessa semplicità Tod Browing raccoglie  spezzettati delle vere sembianze che si nascondono sotto un bel visino e sotto una montagna di muscoli; è li che cova il vero mostro, come lo erano le persone qualunque per Frankenstein, come per il Fantasma dell’Opera o The Elephant Man Alla base di tutta questa mostruosità che dimostra il genere umano c’è: la paura per la diversità.

È l’essere diverso che ci spaventa e per questo va rifiutato e messo al bando; non siamo capaci di accettare le persone per quello che sono,  e non siamo neanche disposti a vedere, o meglio a credere che qualcosa di buono possa  celarsi sotto l’aspetto esteticamente diverso, estranio. Molte sono le figure classiche del cinema horror che vengono citate sotto questa tema ricorrente e molti altri si rifaranno ai personaggi del circo dei Freaks, tanto da diventare un vero e proprio classico del genere.

Freaks in definitiva non mostra niente di così inguardabili come all’epoca si cercò di far credere…forse il film ha mostrato la vera natura di noi uomini che dietro a ipocrisie nascondiamo la paura di aprirci al diverso.

Freaks

Curiosità sul film Freaks

Si tratta, sotto molto aspetti, di un’opera anomala e in un certo senso anche maledetta (all’interno del panorama cinematografico degli anni in cui fu prodotta), circondata fin dalla sua uscita da un’aura di mistero, incubo e paura. In Inghilterra ne fu vietata la visione per circa trent’anni

Il film deve gran parte della sua celebrità anche alla presenza nel cast di veri freaks: termine che in maniera assolutamente cruda definisce nella lingua inglese persone con gravi deformità fisiche.

Concepito inizialmente come film horror per risollevare le sorti della compagnia Metro-Goldwyn-Mayer, alla sua uscita viene invece dapprima rinnegato dalla stessa società di produzione e poi drasticamente censurato.

In realtà la pellicola – che narra le vicende in un circo di un gruppo di teatranti ostacolati da una cinica rivale – non analizza in maniera né impietosa né elogiativa la triste e mostruosa condizione dei protagonisti. Il film si presenta invece come un’amara, caustica ma anche toccante allegoria sulla “diversità”, affermando che talvolta è proprio dietro la “normalità” che si nasconde la vera “mostruosità”.

A seguito di immani contestazioni avute dopo la proiezione della prima, il regista Tod Browning (al quale Hollywood chiuse le porte dopo questo film, forse proprio a causa della sua vicenda maledetta), dovette tagliare quasi mezz’ora di pellicola. Vi erano stati persino casi di gente che si era sentita male alla visione delle scene raccapriccianti, quali ad esempio la mutilazione di Olga perpetrata dai freaks per vendetta e la castrazione del forzuto amante di lei, il quale nella scena finale del film compariva effemminato e cantava in falsetto. Dopo la visione del film una donna subì un aborto spontaneo.

Il film fu vietato dalla Germania nazista dal 1933 al 1945, nel Regno Unito la visione fu vietata fino al 1964, fu vietata la visione nella città di Cleveland negli Stati Uniti e anche nell’Italia fascista fu vietata la proiezione. Il film uscì in Italia solo all’inizio degli anni 70, e solo in televisione, dopo essere stato doppiato su richiesta della RAI.

Poltergeist: il film diretto da Tobe Hopper

Poltergeist: il film diretto da Tobe Hopper

Poltergeist è il film horror del 1982 diretto da Tobe Hopper con protagonisti nel cast Graig T. Nelson, JoBeth Willims, Dominique Dunn, Oliver Robins e Heather O’Rourke.

La trama di Poltergeist

In una tranquilla cittadina vive una famiglia composta da Steve e Diane ed i loro figli: Carol Anne, Robbie e Dana. Tutto procede tranquillo finché un giorno i genitori trovano Carol Anne a parlare da sola davanti al televisore, e comunica loro che “sono arrivati”. Da quel momento strani fenomeni cominciano a verificarsi nella loro casa.

La famiglia non sembra tanto spaventata fino a quando Carol Anne scompare nel nulla, anche se la sua voce continua a sentirsi all’interno della casa. Il padre chiama allora una parapsicologa, che dopo aver visto tutto ciò che accade in quella casa, con la stanza di Carol Anne che nel frattempo è totalmente invasa da fenomeni paranormali, si dichiara incapace di fronte a tante stranezze, ma dice di conoscere la persona adatta a risolvere il mistero.

Poltergeist, da un’idea di Steven Spielberg

Poltergeist è un horror per famiglie, è una fiaba malefica, confezionata sì come un blockbuster, ma costruita con tatto e grande stile. Inoltre rappresenta uno dei rari casi in cui il connubio produttore/regista diventa straordinariamente fruttuoso. Ma arriviamo all’analisi pura del film.

La pellicola rappresenta una vera opera anticipatrice di tematiche fondamentale che negli anni successivi dominerà la scena: il televisore, mezzo con cui forze sconosciute possono trovare accesso al nostro mondo, come avveniva per esempio in film successivi quali  Ringu di Hideo NakataVideodrome d iDavid Cronenberg. Inoltre, possiamo notare ma in questo caso al contrario come la bambina Carol Anne, protagonista e tramite del male richiami un’altra figura ambigua del cinema del terrore: il Danny di Shining di Stanley Kubrick (non a caso amico e mentore di Steven Spielberg).

Nonostante i ruoli distinti e ben definiti(almeno in didascalia) fra regia e produzione, non possiamo non notare lo zampino dello Spielberg di “Incontri ravvicinati” ed “E.T.” il quale dispiega il suo meglio, ovvero racconti ad effetti fantastici che vedono come protagonisti i bambini, veri emblemi d’innocenza in tutto il miglior cinema spielberghiano. Dal canto suo Tobe Hooper, ha messo a disposizione della storia tutta la sua dimestichezza con il terrore, la critica sociale e gli effetti truculenti, che vanno a formare un equilibrio davvero irripetibile.

Poltergeist è dunque l’esito dei diversi temperamenti dei due cineasti americani, i quali hanno saputo garantire un raro equilibrio tra le diverse tendenze e i diversi generi di cui l’opera è contaminata. Per questo motivo e grazie al successo il film è diventano negli anni un vero Cult da non perdere e da cui trarre ispirazione.

Curiosità: da notare l’impressionante uso di gadget del film Star Wars dell’amico Lucas. Tutto sommato Poltergeist, che evidenzia l’equilibrio fra le due menti registiche, diventa motivo di distinzione fra le due carriere dei sudetti autori: Spielberg per la prima volta fa vedere il suo talento produttivo dando la vita ad un prodotto che è diventato subito un successo di pubblico, e confermandosi fra l’olimpo dei più potenti; L’ Hopper, invece, successivamente remerà per quasi tutta la sua carriera ai margini, non a caso il suo più grande successo è appunto Perltergeist.

Titolo originale Poltergeist

Regista Tobe Hopper
Produzione Metro-Goldwyn-Mayer (MGM)
Scritto da Story
Steven Spielberg
Screenplay
Steven Spielberg
Michael Grais
Mark Victor
Cast Graig T. Nelson – Steve Freeling
JoBeth Willims – Diana Freeling
Dominique Dunn – Dana Freeling
Oliver Robins – Robbie Freeling
Heather O’Rourke – Carol Anne Freeling
Musica Jarry GoldSmith
Distribuzione Metro-Goldwyn-Mayer (MGM)
Uscita USA 06 Giugno 1982
Uscita Italia Warner Home video
Durata 114 minuti
Budget 10.700.000 $
Incasso totale 74.000.000 $

The Haunting: il film cult di Robert Wise

The Haunting: il film cult di Robert Wise

The Haunting (Gli Invasati) è il film cult del 1963 di Robert Wise con protagonisti Julie Harris, Claire Bloom, Richard Johnson e Russ Tamblyn.

Anno: 1963

Sinossi

Diretto da: Robert Wise

Con: Julie Harris,Claire Bloom,Richard Johnson,Russ Tamblyn. In una villa disabitata da tempo si verificano inspiegabili fenomeni paranormali. La gente del luogo è terrorizzata e così viene reclutato un esperto della cosa: il dottor Markway. Per studiare meglio i fenomeni, costui si installa nell’abitazione in compagnia di tre donne, due delle quali sono medium. Dal romanzo The Haunting of Hill House di Shirley Jackson.

The Haunting (Gli Invasati)

In una ideale classifica dei film di fantasmi – o, più in generale, del cinema di paura – The Haunting Gli invasati, per ogni cinefilo che si rispetti figurerebbe sicuramente ai primi posti, se non sul podio,  certamente nei primi dieci. Il film parte dal presupposto di iniziare un filone che successivamente negli anni 60 in poi dominerà parecchio il genere dell’orrore: La casa organica. Una narrazione in cui la casa che dovrebbe essere qualcosa di caldo e accogliente, assume una vitalità proprio diventando qualcosa di cui aver paura e da cui difendersi. Sotto questo profilo i suoi spazi e le sue dimensioni vengo percepite dai personaggi che la abitano come dei veri e proprio sistemi organici indipendenti, che si muovono e respirano, e talvolta emanano addirittura calore o gelo.

Partendo da questo input, pur senza trascurare la dimensione visiva (corridoi, porte, scale), R. Wise, abilmente, come in pochi sanno fare,  punta sulla colonna sonora, su voci e rumori attraverso i quali la casa maledetta s’impossessa dei suoi visitatori e spaventa gli spettatori. Giocato sull’omissione, il dubbio, l’incertezza, il film rimane ambivalente, sul doppio binario dell’obiettività e della soggettività (soprattutto di Eleanor/Harris), senza decidere mai se gli avvenimenti straordinari, o paranormali, vissuti dai personaggi sono il risultato di un’azione dell’ambientare o il frutto della sensibilità ipereccitata di qualcuno di loro.

Fotografia di David Boulton, musiche di Humphrey Searle con ricorso a effetti elettronici e a scale musicali incise a rovescio, diventano qualcosa di veramente straordinario per gli scenari orrorifici che fanno di questa opere davvero un capostipite del genere, confermando Robert Wise come un regista che magistralmente amalgama suoni, storia, scenografia, emozioni, sentimenti, scandali (particolare riferimento al rapporto fra la protagonista Eleonor e Theo che talvolta diventa quasi un connubio amoroso) portandolo fra i miti del genere, sottolineandone la capacità di sbalzare da un genere a l’altro, mantenendo sempre la stessa brillantezza e lo stesso talento.

Ricordiamo per chi non lo sapesse che Robert Wise è autore dei famosi: The Day the Earth stood Still (Ultimatum alla Terra), The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente), Something for the Birds (Lassù qualcuno mi ama), Star Trek. Vincitore di quattro premi oscar.

Titolo originale   The Haunting
Regista   Robert Wise
Produzione   Argyle Enterprises
Scritto da   Shirley Jackson
Nelson Gidding
Cast   Julie Harris – Eleanor ‘Nell’ Lance
Claire Bloom – Theodora ‘Theo
Richard Johnson – Dr. John Markway
Russ Tamblyn – Luke Sanderson
 
Musica   Humphrey Searle  
Distribuzione   Metro-Goldwyn-Mayer (MGM)  
Uscita USA   18 September 1963  
Uscita Italia   Warner Home video  
Durata   112 minuti  
Budget   1.500.000 $  
Incasso totale    

Shrooms – trip senza ritorno: recensione del film

Shrooms – trip senza ritorno: recensione del film

Shrooms – trip senza ritorno  è il film horror del 2006 diretto da Paddy Breathnach e con protagonisti Lindsey Haun, Jack Huston, Max Kasch, Alice Greczyn, Robert Hoffm.

Shrooms – trip senza ritorno, la trama

Un gruppo di baldi giovani americani vanno nella lontana Irlanda per andare nei boschi a caccia di funghetti allucinogeni. Tara(Lindsey Haun) finirà per ingerire un fungo velenoso , che secondo leggende metropolitane, è in grado di conferire il dono della preveggenza. In tutto ciò i ragazzi iniziano a morire misteriosamente: sarà colpa delle misteriose presenze che abitano il bosco?

Shrooms – trip senza ritorno, il film

Grazie ad un pretesto abbastanza demente da far concorrenza a Hostel, siamo catapultati per l’ennesima volta, e in maniera assolutamente non innovativa, all’interno di un contesto boschereccio, ove pupi e donzelle vengono assassinati uno ad uno in maniera piuttosto noiosa e poco divertente.

Il regista, alla sua prima esperienza con il cinema horror, non sa creare luoghi originali, e non riesce a gestire il meccanismo “allucinazione-realtà” su cui il film dovrebbe imperniarsi, risultando così solo ridondante e scontato sin dall’inizio.

La droga (e non è ben inteso il giudizio morale che scaturisce a proposito delle sostanze stupefacenti) è usata come pretesto per giustificare presenze maligne e confondere la realtà con l’illusione: peccato che grazie ai pessimi effetti speciali girati low budget e la prevedibilità di tutto il film, il pretesto che avrebbe potuto esser uno spunto quantomeno discreto per creare un buon prodotto, diventa soltanto parte di un film privo di interesse e di ragion d’essere.

Di Mariani Bino

Le cronache dei morti viventi di George Romero

Le cronache dei morti viventi di George Romero

Le cronache dei morti viventi è diretto da George Romero con protagonista Michelle Morgan, Joshua Closè, Shawn Roberts e Joe Dinicol.

 

Sinossi
Un gruppo di ragazzi, intenti a girare un film horror indipendente, si ritrovano coinvolti inevitabilmente in una situazione che sta sconvolgendo gli Stati Uniti: i morti tornano in vita, e Jason(Closè), decide di filmare il caos e la violenza che esplodono durante il loro cammino.

Analisi

Le cronache dei morti viventi A due anni di distanza dalla Terra dei morti viventi, Romero, dedito al (sotto)genere degli zombi -da egli stesso promulgato- torna ad inscenare soggetti che proliferano di morti viventi. Ma l’ingegnosità del regista sembra inesauribile, e il quinto capitolo della saga degli zombi, prende una piega del tutto nuova, inserendosi direttamente nella linea che da Cannibal Holocaust porta a Cloverfield, passando per  The Blair witch project  e REC.

Un filone che mira ad unire la tecnica documentaristica al genere horror, e che con le possibilità del digitale, si sviluppa all’insegna della sperimentazione di nuove situazioni. Ed è in questo contesto che Romero rinnova il genere zombi movie, mettendo in scena momenti del tutto inediti e mai banali, confermando l’acume e la creatività che gli appartengono e la consapevolezza dei meccanismi del cinema dell’orrore.

week end al cinema 18/12

di Francesco D’Occhio

Natale a Beverly Hills
: Due storie si intrecciano sotto il sole di Beverly Hills.
Carlo (Christian De Sica) ritrova per caso Cristina (Sabrina Ferilli) vecchio amore che aveva abbandonato quando era incinta di 7 mesi. Il figlio Lele ha ora come padre putativo Aliprando (Massimo Ghini) che è stato vicino al ragazzo e alla madre per tanto tempo.
Purtroppo per Carlo presto dovrà riconfrontarsi col suo passato…
Serena e Marcello (Michelle Hunziker/ Alessandro Gassman) festeggiano separatamente l’addio al celibato prima di sposarsi. Purtroppo Serena a causa di una sbornia, crede di aver fatto l’amore con Rocco, un uomo conosciuto fuori dal locale dove festeggiava, quest’ultimo innamoratosi di lei cercherà in tutti i modi di mettere i bastoni tra le ruote e le farà credere di aver passato veramente la notte con lui.
Ventiseiesimo cinepattone che puntuale come tutti gli anni giunge in una moltitudine di sale alle soglie del natale. Per la prima volta dopo l’abbandono di Boldi non vi è Fabio de Luigi mentre per la prima volta vi partecipa la coppia di figli d’arte Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi.

week end al cinema 10/12

 

Di Francesco D’Occhio


Dieci Inverni: Siamo nel 1999 a Venezia e due studenti fuori sede, Camilla e Silvestro si conoscono su un vaporetto. Lei lo ospita nel suo appartamento, nelle vicinanze della città lagunare.
Lui è sfacciato, lei è introversa e timida.
Anche se in casa di lei non si concretizzerà nulla, qualcosa nasce.
I due si separeranno per rincontrarsi ancora molte volte per 10 anni ancora, fino a condividere esperienze a Mosca.
Opera prima per Valerio Mieli supportato dalla fotografia di Marco Onorato, già al lavoro per “Gomorra” che punta alla rivisitazione dell’amore distaccandosi dal filone “moccia” per riallacciarsi ad uno più maturo simile al “Un’Amore” di Tavarelli.
Nei panni dei due protagonisti i bravi Michele Riondino e Isabella Ragonese chiamati a interpretare un percorso di crescita e di sentimenti che va dall’adolescenza alla quasi maturità, appunto, Dieci Inverni.

week end al cinema 04/12

Di Francesco D’Occhio

A Serious Man: Nel 1967 il professore Larry Gopnik è in un periodo nero.
La moglie lo ha lasciato perché innamorata di un collega, uno studente lo ricatta, riceve lettere minatorie e l’affascinante vicina non fa altro che prendere il sole nuda.
Ormai senza speranza l’uomo decide di rivolgersi a tre rabbini per chiedere consiglio.
I fratelli Coen firmano un lungometraggio dai toni sarcastici in cui un uomo in fondo buono vede tutto il male ritorcersi contro lui ad ogni suo gesto.
Presentato con successo al Toronto International Film Festival e al Festival Internazionale di Roma.

week end al cinema 27/11

 

di Francesco D’Occhio

 

La dura verità: Abby Richter produce un programma televisivo (The Ugly Truth, da qui il titolo del film) che visti i bassi ascolti decide di puntare su un nuovo opinionista, tale Mike Chadway, che con un atteggiamento cinico non farà che sparlare del gentil sesso descrivendone i difetti e quello che gli uomini pensano seriamente delle donne.
L’audience del programma aumenta sensibilmente e costringe la produttrice a trattenere l’antipatico opinionista, al contempo decide anche di mettere in pratica i consigli di Mike col suo vicino Colinm di cui è invaghita da tempo.
Ennesimo lungometraggio sulla differenza tra i sessi, sarà stavolta il rude Mike o il dolce Colin a conquistare il cuore della protagonista?

The A-Team

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Robin Hood

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Iron Man 2

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L’apprendista Stregone

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L’apprendista Stregone

Il trailer ufficiale di L’apprendista Stregone, il film fantasy con Nicolas Cage e Monica Bellucci. L’apprendista Stregone è distribuito da Walt Disney Pictures Italia.

Il film è vagamente ispirato al segmento L’apprendista stregone del film musicale d’animazione Disney Fantasia, che a sua volta si basa sull’omonimo poema sinfonico del 1890 di Paul Dukas, ispirato all’omonima ballata del 1797 di Johann Wolfgang von Goethe.

La pellicola è un film avventura in cui un mago e il suo sventurato apprendista si ritrovano al centro dell’antico conflitto fra bene e male. Balthazar Blake (Nicolas Cage) è un maestro della magia che vive nell’odierna Manhattan e che intende difendere la città dalla sua nemesi per eccellenza, Maxim Horvath (Alfred Molina). Ma per farlo Balthazar ha bisogno di aiuto, e recluta quindi ave Stutler (Jay Baruchel), un ragazzo apparentemente normale ma che possiede doti nascoste, sottoponendolo ad un folle addestramento per fargli apprendere il più in fretta possibile tutti i segreti della magia. In questo nuovo ruolo di apprendista stregone, Dave dovrà fare appello a tutto il suo coraggio per sopravvivere all’ addestramento, arrestare le forze del male e conquistare il cuore della ragazza che ama.

Amabili resti (The Lovely Bones): trailer del film di Peter Jackson

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Guarda il trailer ufficiale di Amabili resti (The Lovely Bones), il nuovo film del regista Premio Oscar Peter Jackson con protagonista Saoirse Ronan, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo. Nel cast anche Mark Wahlberg, Susan Sarandon e Stanley Tucci.

Legion

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Inception

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Avatar: trailer del kolossal di James Cameron

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Avatar: trailer del kolossal di James Cameron

Guarda il trailer ufficiale del kolossal Avatar l’epica avventura di James Cameron Avatar, il film di maggior successo di tutti i tempi e vincitore dell’Academy Award nel 2009. Un nuovo trailer e un nuovo poster celebrano il ritorno nelle sale del film del 2009.

Scritto e diretto dal premio Oscar James Cameron, Avatar è interpretato da Sam Worthington, Zoe Saldaña, Stephen Lang, Michelle Rodriguez e Sigourney Weaver. Il film è stato prodotto da James Cameron e Jon Landau. Candidato a nove Academy Award®, tra cui miglior film e miglior regia, il film ha vinto tre premi Oscar per la migliore fotografia, scenografia ed effetti speciali.

Trailer originale in Inglese

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