E’ una Jessica Hausner allegra e loquace quella che si presenta
alla Casa del Cinema in Roma forte anche delle critiche molto
positive che sta ricevendo il suo “Lourdes” in giro per il
mondo.
Ad accompagnarla, il Presidente nazionale dell’Unitalsi Antonio
Diella e il distributore e amministratore delegato di Cinecittà
Luce Luciano Sovena.
Jessica Hausner parla di Lourdes
Paranormal Activity: recensione del film Oren Peli
Prima di ogni cosa, Paranormal Activity è senza alcun dubbio l’esempio più eclatante di come una sana e costruttiva campagna virale possa essere remunerativa sul piano degli incassi e eccezionale sul piano dell’attenzione proiettata verso il titolo. Detto ciò, fermo restando che non è un cattivo film per chi fosse alla ricerca di facili emozioni , va anche detto che non vale la nomea di nuovo Blair Witch Project e senz’altro in nessun caso, né nell’uno né nell’altro si è stati e si è di fronte al miracolo. Per molti motivi.
Uno. Se nel primo caso si era di fronte ad un nuovo e sensazionale modo di vedere il cinema e la visione, in questo caso siamo già ad un quinto/sesto tentativo in pochi anni. Due. Anche se il film presenta alcune sequenze molto efficaci e sorprendenti non è per nulla dotato di una struttura narrativa ,perlomeno sostenibile per 86 minuti. Tre. Visivamente parlando dice tutto di già visto e nulla di veramente nuovo. Nessuna qualsivoglia caratterizzazione dei personaggi.
Traendo le conclusioni verrebbe da chiedersi se questo non è solo il frutto di un sorprendente e divino piano commerciale messo in atto, e che in sostanza, levando il fumo non vi sia nient’altro da mettere sotto i denti ma soltanto misere briciole da sgranocchiare.
Paranormal Activity, il film
Di un film come questo, a low Budget, ci si aspetta almeno nella parte narrativa e registica il moto pulsante del racconto, ma è proprio in questo il limite maggiore per il film. Totalmente privo di una vera e propria struttura (si ha la sensazione di vagare fra atteggiamenti, attimi ed emozioni totalmente slegate le une dalle altre), sicuramente avrebbe aiutato o quanto meno non sarebbe stato male aggiungere qualche altro personaggio, a parte la figura dello studioso che forse non è sfruttata al meglio. Invece, si ha solo la geniale intuizione di soffermarsi (mentre si è nel pieno della notte in una camera) sul quel bel espediente che è il fuoricampo e che gente come Shyamalan, Hitchcock, lo stesso Spielberg, Polanski, hanno reso terrificantemente sublime. Qui diventa a tratti interessante, ma poi senza sostegno narrativo si perde su se stesso e diventa frutto di un protrarsi dell’attesa che rivelerà solo gli ultimi buoni dieci minuti di paura.
La più grande delusione di Paranormal Activity, è proprio nell’aspettativa che tenta di creare e che si concretizza solo come suddetto in un’unica bella sequenza. Pochissimo per un film che attraverso il fuoricampo dovrebbe creare un crescendo di tensione insostenibile e che dovrebbe culminare con il momento rivelatore per l’intera trama e il film. In sostanza l’unica nota positiva che si ha è il finale che non risulta per niente scontato e che forse diventa l’unico momento in cui il fuori campo diventa insostenibile.
Lourdes – recensione del film di Jessica Hausner
Lourdes – Dopo una sfilza di premi ricevuti in giro per l’Europa tra i quali, ahimè, è mancato quello a Venezia, sbarca l’11 febbraio 2010 (stesso giorno della prima visione di Bernadette a Lourdes) nei cinema nostrani l’ultima creatura di Jessica Hausner, talentuosa regista austriaca arrivata al suo terzo lungometraggio. Lourdes è la storia di Christine che trascorre la sua vita su una sedia a rotelle a causa di sclerosi multipla. Recatasi a Lourdes per un pellegrinaggio religioso, si scopre dopo pochi giorni miracolata ed in grado di camminare.
Christine dovrà quindi affrontare la gelosia e l’ammirazione degli altri pellegrini ma anche l’amore di un affascinante membro dell’Ordine di Malta, che incomincerà a interessarsi a lei dopo la miracolosa guarigione. Allo stesso tempo il comitato medico preposto all’esame dei presunti miracoli, resta incerto in quanto la malattia alla quale è soggetta la ragazza è imprevedibile e legata anche a rapidi quanto brevi miglioramenti. Già dal precedente film “Hotel”, la Hausner sembra prediligere ambienti chiusi e situazioni soffocanti, non a caso entrambe le protagoniste sotto una parvenza distaccata nascondono un animo sensibile ma anche forte.
Lourdes
pone interessanti questioni senza però conferirne un aspetto
preciso ma preferendo stimolare nello spettatore una riflessione
sui contenuti filosofici – religiosi del lungometraggio.
La protagonista Christine non esce mai di casa, le uniche
possibilità di “svago” sono i viaggi di pellegrinaggio.
Con uno spirito disincantato e non profondamente devoto affronta il viaggio a Lourdes con le insicurezze tipiche di chi vive in uno stato di disabilità e non riesce a trovare le risposte nella chiesa. “Perché è successo proprio a me?” – “Perché alcuni guariscono e altri no?” , il lungometraggio ci mostra crudelmente come un prete che accompagna il gruppo della ragazza non riesca a trovare risposte esaurienti a questi quesiti, risultando spesso evasivo e involontariamente ironico.
“Se il Signore è buono e contemporaneamente onnipotente perché non guarisce tutti? Forse non è buono ma cattivo” questo si chiede uno dei tanti credenti accorsi nelle piscine miracolose di Lourdes, la Hausner ci trasmette quindi tutte le perplessità di chi, magari anche più volte all’anno, compie viaggi della speranza e col tempo vede scemare quest’ultime, ma ci mostra anche l’ipocrisia di tanti che a dispetto di dettami cattolici ben precisi non si fanno problemi a sbeffeggiare il prossimo se “miracolato”, il tutto è girato con tanta naturalezza e originalità con uno stile che ricorda molto Dreyer e Bresson ma anche Bunuel citato dalla stessa regista.
Lourdes
Maria, una giovane e bella volontaria che accudisce Christine durante tutte le giornate a Lourdes è l’archetipo della sua vita ideale, socievole e allegra, preferisce frequentare i suoi coetanei, è attratta dall’affascinante guardia dell’Ordine di Malta ed è sfuggevole nei confronti della malattia della protagonista, durante il film l’invidia farà un tragitto andata e ritorno nel rapporto tra i due personaggi e Christine si appoggerà alla signora Hartl, burbera e solitaria vecchietta senza alcun malanno fisico che tenta a Lourdes di ritrovare un senso alla sua vita o quella che nel film viene sbandierata più volte come “cura dell’anima” dal sacerdote di turno.
Alla fine Christine, nonostante un repentino peggioramento delle sue condizioni fisiche, sentirà la necessità di non abbandonare i suoi sogni e di credere nel “miracolo”, mantenendo intatto la positività che l’aveva contraddistinta.
Bangkok Dangerous: recensione del film con Nicolas Cage
Bangkok Dangerous rappresenta l’ennesima operazione (fallita) di remake di film asiatici made in USA. Il film infatti ricalca l’omonimo film del 1999, anch’esso diretto dai fratelli Pang (Oxyde e Danny).
Certo, tra il film di dieci anni fa e questo, le differenze di budget sono evidenti. Basti ricordare che il ruolo del protagonista – Joe – è interpretato dal pagatissimo Nicolas Cage. Non è difficile immaginare – leggendo il titolo – che lo scenario del film sia proprio Bangkok. In questo paradiso arriva il killer professionista Joe, ingaggiato dal boss Surat per fare fuori quattro suoi antagonisti.
Bangkok Dangerous
Per portare a termine la sua missione, Joe decide di assoldare il ladruncolo Kong. La svolta sarà l’incontro con la farmacista sordomuta Fon, della quale Joe si innamora. E tanto basta per fargli mettere in discussione il suo modo di vivere schivo e solitario. Le vicende si complicano quando il boss Surat decide di liberarsi di lui.
Bangkok Dangerous è un film brutale, crudo, che non si fa mancare momenti di puro splatter. La produzione hollywoodiana e la sceneggiatura rivisitata da Jason Richman, non arricchiscono la pellicola del 1999. Ritmo e tensione infatti appaiono pressoché identici, anche se per quanto alcune scene siano inverosimili, la spettacolarità non manca.
La trama è già vista: uno spietato killer in piena crisi esistenziale si redime e trova anche l’amore. Banale, troppo. Neanche Nicolas Cage appare in gran spolvero. In evidente imbarazzo, Cage risulta pesante e poco credibile. Un remake evitabile, che consiglio di evitare.
Alvin Superstar 2 – recensione del film con Jason Lee
Alvin Superstar 2 – Dagli anni ’60 con i primi dischi, agli anni ’80 con la serie aniata fino al 2007 con il primo lungometraggio a loro dedicato Alvin, Simon e Theodore sono dei Chipmunks di successo, vuoi per la loro età che abbraccia più di una generazione, vuoi per il loro innato talento a cacciarsi nei guai. Ed ora eccoli in un nuovo Squeakquel, non un sequel o un prequel, ma qualcosa di personalizzato nel quale, dopo una prima esperienza in solitaria, ritornano sul grande schermo con le Chippettes, il loro corrispetivo al femminile, grintose colorate e…neanche a dirlo, canterine.
E fondamentalmente questo secondo film dedicato alle stelline del rock si riduce a questo, l’incontro tra i due schieramenti e il conseguente, sebbene breve, scontro che porterà poi all’inevitabile amicizia tra ‘maschietti e femminucce’. Non c’è niente che non ci sia già stato, nè altre cose in più: solo i piccoli scoiattolini che si affacciano alla vita degli umani, vanno a scuola e affrontano le loro paure, sempre cercando di tenere unita quella loro famiglia atipica ma affiatata.
Alvin Superstar 2
Di più e più lunghi i numeri musicali, perchè se nel primo film erano in tre, adesso sono in sei a far ballare ugole e piedini sulla scena. E se è vero che il film presenta una sceneggiatura quasi abbozzata che lascia correre gli eventi senza una vera e propria sostanza, è pur vero che i personaggi hanno il loro fascino, sono pur sempre dolci e piccoli batuffoli di pelo e si potrebbe essere nel giusto se si afferma che nonostante i citrici più snob possano storcere il naso, il film porterà al cinema un bel po’ di gente.
Il quarto tipo: recensione del film con Milla Jovovich
Il quarto tipo – Prendendo in considerazione l’idea che mai come adesso siamo di fronte ad una contaminazione fra due tipologia di film ben differenti (Fiction e Doc), e fermo restando che nella storia questa pseudo contaminazione era già avvenuta a vari livelli sia da una parte che dall’altra, ecco ora siamo davvero arrivati ad un inedita estensione di questa contaminazione dove la realtà e la finzione si mischiano in maniera totalmente angosciosa ed inquietante.
Avevamo ampiamente avuto modo di vedere esempi quali District 9 e Cloverfield, ma questa operazione è qualcosa che va oltre la rappresentazione stessa della storia in modalità documentaristica, qui siamo di fronte all’utilizzo vero e proprio di materiale registrato dalla protagonista della storia che anch’essa appare nel film intervistata dal regista stesso della pellicola e che nella finzione è interpretata da Milla Jovovich.
Il quarto tipo
La storia è quella di una psicologa americana – Abbey Tyler- che durante una ricerca su una serie di disturbi del sonno che affliggevano alcuni abitanti della città di Nome, in Alaska, si trovò di fronte a una serie di coincidenze inspiegabili e fu vittima in prima persona di eventi particolarmente traumatici.
Durante il suo studio la dottoressa Tyler registrò molte delle sedute di ipnosi con supporti audio e video che il regista abilmente e in maniera del tutto inedita, monta ed accosta in modo diretto (tramite lo split screen) con la ricostruzione cinematografica, quasi a voler creare una sorta di parallelo fra il mondo reale e quello di finzione, in cui il labile confine che divide i due mondi diventa pressoché inesistente. In questo caso siamo di fronte ad un film che è visibilmente tratto da una storia vera, senza nessun affabulazione di sorta. E la sensazione è quella di non potersi dissociare dal film e dalla sua rappresentazione, perché non è finzione.
Il risultato è un’opera che, a prescindere dalle opinioni in merito al tema dei rapimenti alieni, è profondamente inquietante e riesce ad aprire la porta a dubbi e interrogativi che l’uomo e la nostra società bigotta cercano di accantonare e di rimuovere o ancor peggio di nascondere. Sotto l’aspetto linguistico, il film segue un buon ritmo sin dall’inizio, veicolando abilmente (va detto)la tensione dello spettatore, fortemente incuriosito (paurosamente) dal materiale della psicologa, soprattutto dall’intervista con la vera Tyler che come una voce narrante racconta gli accadimenti così come sono avvenuti. Ma ancor più interessante è il fatto che di fronte a tutto ciò, il film non cerca mai di giudicare o di prendere una posizione netta e chiara. Per spiegare ciò la frase di chiusura è emblematica: “Alla fine siete voi padroni di credere o non credere”. Con quest’ultimo accenno, con astuzia e caparbietà, Osunsanmi lascia a noi la facoltà di esprimerci, rendendo il gioco ancora più indecifrabile e rendendo l’Audiance tremendamente attivo.
In chiusura, il riferimento alla pazzia o comunque al malessere interiore dei protagonisti e le continue panoramiche sulle montagne innevate e l’ambientazione in genere, rimandano a quelle “….montagne della follia” ed al genio del suo autore, H.P. Lovecraft, padre incontrastato di certa letteratura fantastica.
Il mondo dei replicanti – recensione
Il mondo dei replicanti – C’era una volta Sigmund Freud che nella sua opera “Totem e tabù” dichiarava: «l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza» – sicurezza che in Surrogates gli uomini sembrano aver trovato in macchine che rispecchiano i loro canoni estetici e se ne vanno in giro in loro vece a vivere la vita, mentre l’operatore, comodamente rilassato nell’imperturbabilità della propria casa, controlla ogni sua movenza.
Il mondo dei replicanti: il film
La vicenda prende le mosse dall’uccisione del figlio del dottor Lionel Canter (James Crownell), uno dei principali artefici del progetto Surrogates. Sulle tracce del suo assassino, si mettono i detective dell’FBI Greer (Bruce Willis) e Peters (Radha Mitchell) che indagheranno sui segreti della VSI, azienda produttrice dei robot-surrogati. In un mondo ormai privo di crimine, una serie inaspettata di morti di operatori, collegati al proprio surrogato, desta non poche perplessità, generando psicosi. Si è diffuso un virus che mette a rischio la vita degli operatori e dei surrogati a loro connessi. Le vicende del detective Greer si intrecciano con la sua vita personale, in particolare è in primo piano il rapporto conflittuale con la moglie Maggie (Rosamund Pike), ormai intrinsecamente legata a proprio surrogato.
La donna entra in crisi proprio quando un malvivente distrugge il suo “replicante”, costringendola a ritornare alla vita fuori dalla sicurezza di casa sua. Maggie è così costretta a tornare sulla strada e a mettersi alla ricerca della verità. In questo mondo di automi, la minaccia non viene da un altro pianeta. Il nemico non è l’alieno malvagio che vuole impadronirsi del nostro pianeta (come in “La guerra dei mondi”), il nemico – in questo caso – è dentro di noi ed è, quindi, più pericoloso: siamo noi stessi che abbiamo deciso di non vivere la nostra vita e delegato macchine “perfette”, ma senz’anima, a farsi carico dei rischi della quotidianità.
Il mondo dei replicanti diretto da Jonathan Mostow, è uscito nelle sale italiane l’8 gennaio di quest’anno ed è subito entrato nella classifica dei primi dieci film del mese più visti al cinema. Mostow vince al botteghino, confezionando un buon action-movie adrenalinico, che – tuttavia – vede nella povertà di spunti introspettivi e nella superficialità dell’analisi di tematiche antropologiche il suo più grande limite.
Di Antonio Adelfio
Tra le nuvole – recensione del film di Jason Reitman
Il vincitore della seconda edizione del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico capitolino con una commedia (Tra le nuvole) dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del Festival per The Departed.
In Tra le nuvole Clooney è un uomo che si occupa di licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di scapolo impenitente.
Tra le nuvole – recensione del film di Jason Retman
Scrivendo magistralmente e dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con leggerezza. Come già ci ha abituati in passato con Juno e Thank You for Smoking, Reitman constuisce la storia su solide premesse (in genere la presentazine del personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento di Renato Polselli
Riti magie nere e segrete orge nel trecento è il film cult del 1973 diretto da Renato Polselli e vede protagonisti nel cast gli attori Rita Calderoli, Mickey Hargiay, Consolata Maschera.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento, la trama
A dispetto del titolo, il film non si svolge nel trecento ma nel contesto contemporaneo; nei sotterranei di un castello si compiono numerosi omicidi sacrificali e riti segreti atti a risvegliare la strega Isabella, morta sul rogo secoli prima.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento, l’analisi
Polselli, regista prolifero dedito al genere erotico, si prodiga questa volta verso il l’horror, non esente ovviamente da contaminazioni del genere a lui caro; l’elemento “osé” è ora marginale e ora protagonista, in sequenze sminuite da una vena comica-probabilmente attuata per aggirare la censura-e di debole impatto visivo.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento, girato nella duecentesca cittadina de L’Aquila, vive delle suggestioni suggerite dalle ambientazioni medievali, che si confanno al classico intreccio che muove il film: streghe e magie tornano dunque a vivere-e morire- all’interno delle mura del castello abruzzese.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento oscilla tra horror ed erotismo: la
chiave del tutto risiede nel “piacere pazzo che uccide”, frase
emblematica(anche se pronunciata in un contesto recitativo
piuttosto scandente), che giustifica la presenza dei due generi di
cui sopra, i quali vanno a compenetrarsi in maniera piuttosto
equilibrata e talvolta seducente.
Nella trama classica, la mancanza del regista, sta nel momento in
cui egli ricade nei cliché del genere: uomini con ridicoli mantelli
e fulmini a ciel sereno imperano all’interno del film, creando
talvolta momenti che sfiorano il ridicolo; a proposito di ciò non
bisogna dimenticare che la tradizionale trama del La maschera del
demonio, non aveva impedito a Mario Bava di costruire un film
assolutamente innovativo, sia nell’eleganza formale sia nelle
tematiche.
Nonostante tutto all’interno del film non mancano sequenze seducenti, come il rogo delle donne da parte degli abitanti del paese, che contribuisce a creare un continuum tra passato e presente; bisogna inoltre riconoscere il fascino del montaggio(merito dello stesso regista), che alterna immagini sacre e profane attuando contrasti visivi suggestivi, sminuiti però dalla ridondanza con cui viene ripetuto ed ostentato e dai colori pop che spesso stonano inesorabilmente con l’ambientazione. Un prodotto tuttavia personale, sicuramente apprezzato dai fautori del genere.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento, curiosità
Curiosità: il film è stato realizzato nel 1971, inizialmente con il titolo La reincarnazione; distribuito nelle sale soltanto due anni dopo, pensato per inserirsi nel genere decamerotico che in quegli anni imperava; Polselli si firma con lo pseudonimo Ralph Brown; Riti magie nere e segrete orge nel trecento è conosciuto anche come The Ghastly Orgies of Count Dracul; La reincarnazion; Black Magic Rite:Reincarnations; The Reincarnation of Isabel.
La casa dei massacri, il film del 2004 di Tobe Hooper
La casa dei massacri è il film horror del 2004 diretto da Tobe Hooper e scritto da Jace Anderson e Adam Gierasch.
- Anno:2003
- Diretto da: Tobe Hooper
- Titolo originale: Toolbox murder
- Cast: Angela Bettis, Brent Roam, Juliet Landau, Lucky McKee, Rance Howard
- La casa dei massacri – trama
Ritrovatasi a vivere in uno squallido condomino abitato da strani soggetti, Nell comincia subito ad avvertire qualcosa di strano all’interno del palazzo. Le persone cominciano a sparire, e sarà proprio lei a rendersi conto degli omicidi che stanno avvenendo, e ad indagare sulle sparizioni.
La casa dei massacri – Analisi
I modelli precedenti sono chiaramente l’omonimo The toolbox murder (tradotto in italiano come Lo squartatore di Los Angeles), Non aprite quella porta, e suggestioni polanskiane derivate da L’inquilino del terzo piano.
Con il primo condivide
la scelta delle armi dei delitti che danno nome al film; con il
secondo il volto sfigurato dell’assassino e alcune situazioni (mal
riproposte) concernenti i delitti e la vena – vagamente –
splatter; con il terzo alcuni condizionamenti enigmatici e
circostanze misteriose. Peccato che il film risulti essere un
impasto di elementi e di intuizioni sconclusionate fine a se
stesse.
Se da una parte Hopper verte sulla costruzione di un film a carattere investigativo, seminando indizi – talvolta – con probabili significati esoterici, richiamando appunto l’ambiguità del regista di Rosemary’s baby, dall’altra pare voler tornare sui suoi passi, verso quel genere slasher e quelle esperienze sanguinolenti che lo avevano reso noto. Ciò porta evidentemente ad un incoerenza di fondo: il film non vive né delle – poche -sequenze splatter, né della suspence che il regista vorrebbe creare tramite le indagini della protagonista(un’ottima Bettis che purtroppo da sola non basta).
Il finale de La casa dei massacri infatti sfiora il ridicolo, laddove non ci viene effettivamente spiegata la valenza dei simboli che incontriamo durante il percorso, e insoddisfacente dal punto di vista prettamente horror. La fotografia quasi televisiva aumenta lo sgomento che si prova di fronte a tale prodotto: non ci è chiaro a cosa stiamo assistendo, visto che in ogni caso il film non sembra procedere lungo una linea coerente e sensata.
Ma le riflessioni del regista si fanno interessanti per quanto riguarda la scelta dell’ambientazione: se il Lusman Building era in origine dedicato ad accogliere star di Hollywood, ora si ritrova ad ospitare falliti di ogni specie ed enigmatici vecchietti attaccati ai loro piccoli momenti di gloria (in tal caso Rance Howard, padre del Ron regista e attore) Hooper sembra meditare sul fascino della decadenza e del degrado, purtroppo accennando soltanto allo spunto senza approfondirlo in nessun senso. Lo stesso assassino si rivelerà un essere in cerca di sangue che lo liberi dal degrado fisico, metafora forse di molto atteggiamento divistico con cui vengono solitamente dipinte le stelle morenti del grande schermo. Ma anche questa riflessione rimane un mero suggerimento per nulla sviscerato e approfondito ribadendo la natura vaga ed effimera del film.
L’ultima casa a sinistra: recensione del film di Wes Craven
L’ultima casa a sinistra è il film cult diretto da Wes Craven con protagonista David Hess, Sandra Cassel e Lucy Grantham.
La trama del L’ultima casa a sinistra
Mary e Phyllis, nel tentativo di comprare marijuana si imbattono in un gruppo di psicopatici evasi dalla galera, che le sottoporranno a violenze e torture prima di ucciderle. In seguito i fuggitivi si rifugeranno proprio nella casa dei genitori di Mary…
Analisi
Opera prima del regista Craven, successivamente riconosciuto per Nightmare – Dal profondo della notte e Scream, ispirata dalla pellicola di Bergman La fontana della vergine o il cult Le colline hanno gli occhi. Laddove Bergman ha rappresentato una leggenda svedese, riportandoci nel contesto medievale, l’intuizione di Wes Craven nel rimetterla in scena, è stata quella di attualizzarla -e dal punto di vista formale, e dal punto di vista contenutistico- pur mantenendone intatta trama e ambientazione(bosco).
L’opera è ambientata nella realtà odierna, ma la vera attualizzazione che palesa la distanza dall’opera originale, sta nella rappresentazione della violenza: è proprio l’estremizzazione dell’immagine violenta la produttrice di senso dell’opera e punto nevralgico su cui Wes Craven fonda le sua riflessioni critiche.
Se è vero che L’ultima casa a sinistra presenta alcune imprudenze e forzature nella sceneggiatura, dovute all’inesperienza del giovane regista, è altrettanto vero che il film ha cambiato le modalità di rappresentazione all’interno del cinema horror; ma ciò che conta realmente all’interno del disegno finale, è il rapporto diretto – confermato poi dalle affermazioni del regista – con la realtà sociale di quegli anni, tra le vessazioni che si diffondevano dalla guerra nel Vietnam e la disillusione giovanile per la fine delle rivolte studentesche.
Le dichiarazioni dello stesso regista infatti, chiariscono il senso dell’opera filmica: a detta di Wes Craven infatti, le angherie e le brutalità poi riportate nel film furono ispirate da un metraggio sulla guerra in Vietnam.
Quindi laddove la fonte deriva da un modello preesistente, la riflessione del regista si impernia sul senso della violenza -propagata poi tramite il film per infondere un senso di repulsione- legittimata dal contesto storico-culturale vigente, e lontana dunque da una spettacolarità compiaciuta e fine a se stessa.
Rachel Weisz e la casa dei sogni
Mentre sta per fare il suo ritorno nelle sale italiane con Amabili resti…Rachel Weisz ha accettato di entrare a far parte di Dream House, un thriller della Universal di cui vi abbiamo più volte accennato.
Diretto da Jim Sheridan e scritto da David Loucka, il film vede Daniel Craig nei panni di un uomo che con la famiglia decide di fuggire dalla frenesia di New York e di stabilirsi in una bella casa del New England; una casa che però ha un passato inquietante che tornerà a perseguitare i nuovi inquilini.
Rachel Weisz sarà la moglie del personaggio di Craig, mentre Naomi Watts è confermata nei panni della loro ambigua nuova vicina di casa. Le riprese avranno inizio il prossimo weekend in quel di Toronto.
Fonte: Variety
Penelope Cruz per il nuovo film di Lars Von Trier
Potrebbe essere Penelope Cruz la protagonista del nuovo, annunciato lavoro di Lars von Trier, il “film catastrofico dai risvolti psicologici” intitolato Melancholia.
Secondo le prime indiscrezioni, l’attrice spagnola sarebbe stata nel mirino di von Trier fin dalla fase di ideazione del film – che si dovrebbe girare tra Germania e Svezia entro la fine dell’anno e che dovrebbe avere già assicurato un posto a Cannes del 2011 – e avrebbe già ceduto alle lusinghe del regista.
Il regista danese ha mantenuto negli ultimi mesi il massimo riserbo sulla trama del film, non aggiungendo nulla rispetto alle prime dichiarazioni ma limitandosi a sottolineare, con la consueta provocatoria ironia, che questa volta nel suo cinema “non ci saranno lieti fine.”
Across the genre
La sequenza presa in analisi è tratta dal film Across the Universe, in particolare l’analisi proposta si sviluppa tramite un lavoro comparativo tra una sequenza del film e un videoclip dei Green Day Wake me up When September Ends; scopo di tale lavoro è quello di individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in questione, e nel caso particolare non solo di immagini mostrate, ma anche di storie raccontate, avvalorando la tesi di una reciproca influenza tra i due mezzi presi in considerazione mediata dalla contaminazione reciproca che generi e linguaggi attraversano e “che va innanzitutto nella direzione di un collage multimediale” [1]
La scena considerata, quella del funerale del fidanzato della protagonista Lucy (Evan Rachel Wood), comincia dall’arrivo della notizia della morte al fronte del giovane. La sequenza accompagnata da un brano dei Beatles ha un significato conchiuso che sta a sé esattamente come un video musicale, e questo per ogni segmento del film. Le canzone in questione è Let it Be, del 1970 (composta principalmente da Paul McCartney anche se viene come da consuetudine attribuita al duo compositivo Lennon/McCartney), alla quale sono accostate le immagini prima di Lucy sconvolta e scene di guerriglia urbana nelle quali si nota un ragazzino cantare e poi le scene montate in parallelo di due funerali, quello del giovane marines, e quello del bambino di colore visto cantare in precedenza, in qualche modo legato ad un atro protagonista del film, Jojo.
Il videoclip, diretto da Michael Perlmutter, racconta invece la vicenda di una giovane coppia che viene separata dalla decisione di lui di rispondere alla chiamata dello Zio Sam. La canzone del gruppo statunitense, malinconica, che parla di memoria e ricordi e di tempi felici passati troppo in fretta, viene raccontata proprio con la storia dei ragazzi che all’inizio sono felici insieme e poi separati dalla guerra.
Anche se non è detto che la storia del video finisca come quella del film (la canzone, e con essa il video, finisce prima che possa finire anche la storia raccontata), notevole è l’impronta che il primo, del 2005, ha lasciato nel secondo, del 2007. E’ impossibile non ricordare il primo guardando l’altro sia per la presenza, non trascurabile, di Evan Rachel Wood, che interpreta entrambi, sia per tutto il bagaglio tecnico che i due prodotti hanno in comune. Oltre all’evidente adozione, in entrambi i casi di un montaggio parallelo, straordinario è il lavoro sulla fotografia, calda e luminosa nelle scene gioiose per entrambi, tendente al verde e decisamente più cupa nelle scene di guerra. Non può esserci esempio più chiaro di come due generi, che dovrebbero parlare lingue diverse su supporti diversi, riescono invece a darsi mutuo soccorso per uno sviluppo di entrambi verso nuove forme espressive, il cinema usando il digitale e il compositing a tratti esasperato, il video adottando una narrazione di eventi ed uno stile registico tipicamente cinematografici.
Il collage multimediale di cui sopra è proprio questa mescolanza, questa contaminatio che si verifica sempre più di frequente, e che in film musicali, quali Across the Universe, non può fare a meno di essere debitrice del genere più prossimo al musical, il videoclip. Molteplici infatti sono gli esempi di registi che passano dall’uno all’altro genere, tra i più disinvolti sicuramente Michael Gondry, e con risultati eccellenti, vedi il piccolo gioiello Eternal Sunshine of the Spotless Mind[2]. Tuttavia in questo caso, i numeri musicali prendono il sopravvento su tutto, addirittura sulla (debole) trama che li attraversa. Il film si riduce ad essere un percorso, la presentazione di un momento nel suo svolgersi, nella sua immediatezza. Al contrario di Garrone che in Primo Amore elimina, come fa il suo protagonista, tutto il superfluo fino a raggiungere ciò che è davvero importante, quasi un’operazione beckettiana di sintesi e straniamento dalla concretezza del proprio essere, qui la regista Julie Taymor, lavora per accumulo, realizzando “un film visionario e psichedelico raccontato dai Beatles, i cui testi acquisiscono nuova linfa, con uno sguardo al passato e uno al presente”[3].
Il musical moderno, diverso dai molteplici made in MGM degli anni ’40 e ‘50, consente questo lavoro di accumulo, ma difficilmente si riesce a trovare l’armonia tra musica ed eccessi grafici e scenografici, come invece accade con splendente efficacia in Moulin Rouge (2001 di Baz Luhrmann). A giustificare lo slegamento dei segmenti in Across the Universe può intervenire, solo in parte, l’ingombrante (perché celebre) colonna sonora che sovrasta storia ed interpretazioni.
Il tipo di rapporto dialettico che il film istaura con il videoclip sta alla base della contaminazione tra i generi, e qui non si parla più in maniera ristretta di generi cinematografici, ma si ci riferisce appunto ai diversi generi di intrattenimento/media che vengono proposti e si moltiplicano grazie proprio all’introduzione del digitale e al nuovo e ampissimo ventaglio di possibilità che una mente fantasiosa riesce a concepire.
Si tratta dunque di uno snaturamento del mezzo cinematografico oppure di un completamento, come dichiara Metz, della sua intrinseca natura onirica? Guardando ad Across the Universe si direbbe che sebbene la contaminatio sia un mezzo espressivo produttivo, restano comunque ben definiti i campi per ogni singola manifestazione artistico –comunicativa, cioè esistono, nonostante la labilità dei confini tra gli uni e gli altri, ambiti riservati alle storie da cinema, raccontate per il cinema, e invece ambiti, non meno validi, che si prestano a raccontare, come per la storia dei Green Day, un breve stralcio che può avere o meno uno sviluppo di spazio e tempo insieme ad un senso compiuto, come può essere un cortometraggio o un videoclip.
[1] G.D. Fragapane, Tra Fotografia e Cinema. Nuovi spazi nell’era digitale in Passages, drammatugie di confine a cura di A.Ottai pag. 6.
[2]Brutalmente tradotto in italiano con Se mi lasci ti cancello con due protagonisti eccezionali, Jim Carrey e Kate Winslet che ha ricevuto una nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista. Il film ha inoltre vinto una statuetta per miglior sceneggiatura originale.
[3] Mattia Nicoletti in http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=49437
Reitman dirigerà Ghostbusters 3
Buone notizie per i fan della saga di Ghostbusters. Intervistato da MTV, il veterano Ivan Reitman ha confermato che sarà lui a dirigere Ghostbusters 3, il terzo episodio della saga di Ghostbusters.
Ivan non ha voluto entrare nel merito della storia, che secondo le ultime voci vedono il vecchio team di Ghostbusters fare da mentori a dei ragazzi volenterosi, ma ha detto che gli sceneggiatori Lee Eisenberg e Gene Stupnitsky sono già al lavoro su una seconda stesura. A suo parere, la prima conteneva già trovate “molto fighe”.
Se tutto va bene, le riprese del terzo Ghostbusters 3 sono previste per l’anno prossimo.
Fonte: MTV / Comingsoon.net
Sigourney Weaver parla
Dopo anni di attesa Ghostbusters 3 è stato finalmente ufficializzato, ma ciononostante sono ancora molti i dubbi intorno a questo sequel. A rivelare oggi qualche informazione in più è Sigourney Weaver, che nel pieno della promozione di Avatar ha risposto anche a qualche domanda riguardante Ghostbusters, mostrando un mix di scetticismo e entusiasmo.
Leggiamo quindi le dichiarazioni della Weaver prima di commentarle:
Temo proprio che il film si farà. Spero che la gente sia contenta. Non so se ne farò parte, ho ricevuto un paio di telefonate per leggere lo script. So che il figlio del mio personaggio, Oscar, che avevo rapito, è cresciuto diventando uno dei nuovi Ghostbusters. Potrei partecipare, non ci vedo niente di sbagliato anche se non penso che avrei una grande parte. Penso invece che Bill Murray ne abbia a che fare di più, sapete, potrebbe essere un fantasma.
Harold Ramis parla di Ghostbusters 3
Harold Ramis parla di Ghostbusters 3, il terzo film sugli Acchiappafantasmi, spiffera qualche novità sul cast e racconta un episodio legato al suo personaggio, Egon… E’ il momento giusto per fare più domande possibili alle star di Ghostbusters riguardo a Ghostbusters 3: sta infatti uscendo il Blu-Ray del primo film e tra poco arriverà il nuovo videogame, e quindi sembrano tutti molto disponibili a parlare del nuovo film, il cui script – ad opera di Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy – sta per essere ultimato. Tenendo conto che su questo script dovranno dire la loro (approvandolo) Bill Murray, Harold Ramis, Ivan Reitman, Dan Aykroyd e la Sony/Columbia, ecco che le cose si fanno più delicate. Per fortuna sembra che siano tutti interessati a riportare sul grande schermo la serie, in particolare Harold Ramis, che così ha detto a Comingsoon.net:
Io ho scritto la storia del nuovo film assieme a Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy. Io e Dan Aykroyd abbiamo fatto da consulenti per la storia. Stiamo aspettando di vedere la prima bozza e capire a che punto siamo. Tutti (compresi Bill Murray e Ernie Hudson) vogliono tornare sul set, hanno tutti detto che lo faranno. Nessuno di noi ha firmato un contratto per ora – nessuno di noi – ma lo spirito è quello di fare davvero qualcosa.
Ramis ha parlato anche del suo personaggio, Egon, a Empire, raccontando quella che potrebbe essere una scena del film:
Mi interessa molto l’idea di dove sia finito Egon. Ha lavorato all’Istituto Internazionale della Scienza Immaginaria a Ginevra. Ha sviluppato una logica post-razionale, non-conclusiva per poter ragionare sui problemi del caos. Qualcuno gli chiede “cosa significa?” e lui risponde: “Non ci sono modelli spaziali, concettuali o intellettuali per descriverlo, quindi non lo sappiamo.” Egon è diventato una persona astratta: non sa neanche lui cosa sta facendo!
Sempre nello stesso articolo, riportato da Slashfilm, Dan Aykroyd spiega di sperare che Alyssa Milano interpreti nel film lo stesso personaggio introdotto nel nuovo videogame (e da lei doppiato), cioè la Dottoressa Ilyssa Selwyn, descritta come “un personaggio legato a una storia d’amore”, e aggiunge che anche Eliza Dushku dovrebbe far parte del cast.
Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters 3
Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters 3 a confermato il ritorno anche di Sigourney Weaver nel cast, inoltre vuole che ci siano anche Alyssa Milano e Eliza Dushku, e pensa a Harold Ramis come regista…
L’attore ha spiegato che la Sony sta premendo l’acceleratore sul progetto, e si sbilancia parlando anche di riprese: “Penso che inizieremo a girare molto presto, forse già in inverno”. Ma per girare un film servono un regista e un cast: sembra che la Sony stia facendo di tutto per ottenerli piuttosto in fretta. Ivan Reitman, regista dei primi due film, non potrà partecipare perché è “troppo impegnato nel ruolo di mega-produttore di film”, ma c’è una buona possibilità (almeno per quanto riguarda i desideri di Aykroyd) che sia Harold Ramis a dirigerlo. Ramis ha appena girato Anno Uno, commedia comica scritta proprio dagli sceneggiatori di Ghostbusters 3: “Ha un mucchio di cose in ballo, ma sarebbe grandioso vederlo lavorare a questo film.”
American Prince/American Boy: a Profile Of Steven Prince
American Prince/American Boy: a Profile Of Steven Prince; è questo il titolo completo del documentario evento della IV edizione del Festival internazionale del film di Roma per la sezione L’altro cinema – Extra diretta da Mario Sesti.
L’hanno ribattezzato il film ‘perduto’ di Martin Scorsese, un omaggio all’amico Steven Prince che ebbe una piccola parte in “Taxi Driver”. Tutto parte nel lontano 1978 quando Scorsese gira un lungo documentario, “American Boy: A profile of Steven Prince”, un’interminabile nottata hippy in cui Steven racconta la sua vita di eccessi, sospesa tra anfetamine, alcool, donne e loschi figuri.
Di lì il silenzio, durato oltre trent’anni ed oggi l’opera nascosta del regista italo-americano, che fece di Prince un’icona pop a cui anche Tarantino si sarebbe ispirato in “Pulp Fiction” (nella scena in cui una Uma Thurman in overdose si risveglia grazie ad un’improvvisata iniezione di adrenalina), viene riportata alla luce da Tommy Pallotta, che ne riprende il viso in primo piano dopo tanti anni, ma che tutto sommato non sembra poi così cambiato, esclusi i capelli bianchi e un pò di rughe; al tempo nemmeno uno stravagante come lui può sfuggire. Il nuovo documentario alterna alle testimonianze di oggi alcune immagini di ieri dirette da un Martin Scorsese ben vestito, dalla barba lunga e i capelli gellati.
Il risultato è un viaggio nella vita di Prince che a tratti sembra la copia spudorata di una sceneggiatura, che ha nell’incredibile il suo forte e nella “fottuta fortuna” del protagonista il surreale. Se non fosse che non è una sceneggiatura e quella non è una vita inventata. Seduto alla poltrona, bevendo un bicchiere di vino dopo l’altro il protagonista affronta i meandri della mente rievocando il suo passato sostenendo che la vita va presa al volo e che l’oggi è più importante del domani. Il tutto con la stessa follia e la stessa spensieratezza del Prince di Scorsese, come se in qualche modo il trascorrere del tempo non lo abbia nemmeno sfiorato.
L’incredibile viaggio della Tartaruga, il DOC di Nick Stringer
L’incredibile viaggio della
Tartaruga – Una piccola tartaruga marina segue la via dei
suoi antenati lungo uno dei più straordinari viaggi del mondo
naturale. Nata su una spiaggia della Florida, segue la Corrente del
Golfo fino ai ghiacci del nord e nuota attraverso l’Atlantico del
Nord, fino all’Africa, per poi fare ritorno alla spiaggia su cui è
nata a deporre le proprie uova. Lungo il tragitto, non mancano le
scoperte – l”oceano sta attraversando profondi cambiamenti
provocati dallo scioglimento dei ghiacci – e le difficoltà: solo
una tartaruga marina su mille riesce a sopravvivere a questo
incredibile viaggio.
E’ questa la storia che ha dell’incredibile
considerato il suo percorso pieno di insidie. Presentato al
Festival di Roma 2009 nella sezione Alice nelle
Città, L’incredibile viaggio della
Tartaruga, un documentario diretto da Nick
Stringer, e prodotto da Austria e Regno Unito, il film si
presenta sin dalle prime battute come un occhio esplorativo verso i
più incredibili dettagli che la macchina da presa può catturare
fino ad arrivare ai spettacolari fondali oceanici che illuminano di
blu e azzurro la sala di proiezione. Il tutto seguito sotto
l’algida guida di una piccola tartarughina che compie il viaggio di
tutta una vita fino a ritornare da dove è partita per deporre le
uova, così chiudendo il ciclo naturale degli eventi.
L’incredibile viaggio della Tartaruga
Per le riprese di L’incredibile viaggio della Tartaruga sono occorsi 5 anni. La voce narrante italiana è affidata a Paola Cortellesi, in originale è di Miranda Richardson. Un doc meraviglioso diretto con pazienza ed senso del racconto, che andrò dritto fino al cuore degli appassionati e dei più piccoli.
Mad Men – Stagione 1: recensione della serie con Jon Hamm
Mad Men Stagione 1, è l’acclamata prima stagione dello show che ha debuttato nel 2007 ideato da Matthew Weiner con protagonisti Jon Hamm, Elisabeth Moss, Vincent Kartheiser, January Joners e Christina Hendricks.
La trama di Mad Men – Stagione 1
Vita morte e miracoli degli agenti pubblicitari della Sterling Cooper, agenzia newyorkese ove nascono e si sviluppano amori, tradimenti, conflitti, accordi e disaccordi: dalla doppia vita di Don Draper alla scalata sociale di Peggy Olsen e sullo sfondo l’America di Kennedy e Nixon.
L’analisi della prima stagione di Mad Men
Dopo la collaborazione con I Soprano, Matthew Weiner torna alle prese con le serie televisive, ideando un prodotto che si discosta dalle produzioni più attigue: partendo da una macrostruttura di base, la serie di Weiner crea micro vicende e gestisce una serie di personaggi che in soli 13 episodi acquistano un notevole spessore. Le storie dei personaggi sono ricondotte all’interno dell’agenzia pubblicitaria Cooper, che a sua volta è incastrata all’interno del sistema socio-economico che regola i rapporti e le vicende stesse: ogni movimento compiuto dai protagonisti è il riflesso del processo evolutivo in atto nell’America negli anni ’60.
L’impianto corale è ricostruito in primo piano con uno sfondo che richiama continuamente i movimenti americani, come la campagna elettorale e la lotta per la presidenza tra Nixon e Kennedy. La grande forza della serie sta nell’acuta ricostruzione dell’ambiente e delle vicissitudini della società americana in quegli anni, riprodotta in maniera minuziosa attraverso lo sviluppo di personaggi che incarnano vizi e virtù della società. Mad men si colloca nel passaggio tra l’entusiasmo per il sogno americano e il completo fallimento dei personaggi che lo inseguono; riflesso dunque della disillusione prodotta dalla caduta dei miti su cui l società si fondava. L’ american way of life e l’idea di una famiglia in stile spot pubblicitario, sono completamente spazzate via dalle nevrosi e dalle reali insicurezze che caratterizzano i protagonisti.
Un punto di la svolta decisiva per la cultura americana
La serie tv si pone dunque in un punto che è la svolta decisiva per la cultura americana: se da una parte abbiamo la tendenza dei personaggi al perfezionismo maniacale a alla cura delle apparenze, residuo di quella mentalità bigotta destinata a subire un tremendo scacco, dall’altra abbiamo in contrasto la liberalizzazione della sessualità e la nascita dei costumi e della cultura hippie, in cui Draper si imbatte e si scontra inevitabilmente. Da un lato Betty Draper, moglie di un agente pubblicitario di successo, impeccabile nella sua immagine e nel suo ruolo di madre e moglie, frutto di quella tendenza al perbenismo forzato che causa ansie spasmodiche e conflitti interiori; dall’altro l’amante dello stesso Don, personaggio dedotto dai movimenti femministi e dalla deregulation dei costumi sessuali, che verso la fine degli anni sessanta muovono i primi passi.
Ma il vero personaggio che meglio incarna le critiche ai ruoli cui la donna è costretta – nonché personaggio complesso e magistralmente dipinto – è Peggy Olsen, che, determinata e conscia della sua intelligenza, riesce ad ottenere ruoli all’interni della compagnia, che fino ad allora erano riservati soltanto agli uomini. Vero protagonista della storia, personaggio in conflitto con se stesso e con la realtà circostante, che incarna lo spaccato cui la società sta andando in contro, è Don Draper, in bilico tra l’accettazione della morale americana e il netto rifiuto di questa; egli che rinnegando il suo passato ha rinnegato quel pezzo di storia che ha contribuito alla nascita di questo stile di vita tanto ambito; egli che in continua fuga dall’asfissiante vita famigliare ogni volta vi fa ritorno frustrato dal tedio e da un’inesauribile insoddisfazione personale.
Inevitabile il drammatico scacco subito – e da Draper in primis e dai co-protagonisti in maniera non meno grave – nel finale delle serie: scacco necessario che spazza via in maniera drastica i falsi valori su cui si poggiano le certezze della società, creando un punto di svolta che parte dal tacito nonché ineluttabile e fatale fallimento corale.
Videocracy – Basta apparire: il film diretto da Erik Gandini
Videocracy – Basta apparire è il film del 2009 diretto da Erik Gandini: “Lo spettacolo è il Capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”
Videocracy – Basta apparire, la trama: Il film documenta alcuni aspetti della tv italiana, delle reti mediaset, i provini e i tentativi compiuti da un ragazzo per diventare un’icona dello spettacolo televisivo. Vengono raccontate le vicende del fotografo/ricattatore Fabrizio Corona e dello scopritore di talenti Lele Mora.
Videocracy – Basta apparire, l’analisi
Videocracy – Basta apparire è un invisibile. Ha avuto un passaggio al festival di Venezia, e ci si aspetterebbe ora di vederlo regolarmente distribuito per le sale del nostro paese. Non è così. I cinema che lo proiettano attualmente nella Capitale, nel giorno in cui scrivo (3 ottobre 2009) sono appena due.
Perché, dunque, questo film è un “invisibile”? Presto detto. Il film parla di qualcosa che scotta: il potere delle immagini, e nello specifico delle immagini televisive. Insomma, della videocrazia. Ragioni sufficienti per far sì che tanto mamma RAI quanto Mediaset si siano rifiutate di mandare in onda il trailer del film, e adesso sono poche le sale che lo proiettano.
Del resto, è normale che dia fastidio un film che si scaglia contro il mondo delle immagini in particolare televisive e sul potere che esse esercitano nei confronti di: a) un qualsiasi giovane della provincia italiana che sogni una carriera al di là del tubo catodico; b) vip quando sono fatti oggetto di gossip e dunque ricattabili; c) tutti, dal produttore di programmi televisivi al fruitore degli stessi.
Di questo meccanismo perverso, dello strapotere delle immagini, qualcuno ha saputo approfittare: il fotografo Fabrizio Corona, la cui vicenda di ricattatore dei vip tramite immagini compromettenti viene raccontata nel film. Corona si autodefinisce come moderno Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a se stesso. E c’è poi Lele Mora, lo scopritore di talenti amico di Corona, nonché dell’attuale premier, che mostra orgoglioso il suo telefonino con immagini di croci celtiche, fasci littori, e in sottofondo l’mp3 di “Faccetta nera”. È un uomo di potere, di crazia, anzi della videocrazia, del governo delle immagini: per diventare/essere una persona di strepitoso successo in televisione occorre conoscerlo.
Per essere invece una presentatrice del meteo di Rete4, quello successivo al tg di Emilio Fede, occorre passare per il “Billionaire”, la discoteca di Flavio Briatore. E ci sono poi i provini per le veline della trasmissione “Striscia la notizia”…
In Videocracy – Basta apparire diretto dal bergamasco esule in Svezia Erik Gandini c’è tutto questo e anche altro. Vi si mostra infatti con chiarezza come le immagini, e in particolare le immagini della televisione dei nostri tempi siano non solo uno strumento di condizionamento per le masse e i singoli aspiranti divi televisivi, ma anche per coloro che divi lo sono già. Lo spettacolo, parafrasando Debord, è un insieme di relazioni che si costruiscono a ogni livello della nostra società, e che dette relazioni sono influenzate dalle immagini che la videocrazia propone impone dispone.
Tutto insomma è determinato dalle immagini. Invadenti. Sfacciate. Suadenti. Quando seducono l’everyman con la promessa di paradisi concreti, immanenti, ultraedonistici, del warholiano quarto d’ora di celebrità.
Le reti televisive esercitano dunque un potere che manipola le coscienze instillandovi i propri sogni di edonismo. Di questo potere gli ambasciatori sono in Italia sia la RAI, ma specialmente Mediaset, il cui fondatore e azionista di maggioranza è l’attuale capo del governo Silvio Berlusconi, l’uomo politico che incarna al meglio il legame tra le immagini e il potere, attraverso l’uso che ha fatto e continua a fare di entrambe.
Le immagini del film sono non di rado sgranate o altre volte comunque sporche, pastose, usurate, come se ci trovassimo a riprendere con una telecamera ciò che passa sullo schermo televisivo. Mi viene di accostare le immagini sgranate ai “retini” in bella vista dei fumetti giganti di Roy Lichtenstein, stadio primordiale della vita delle immagini, e le immagini sporche e usurate a quelle di Warhol: immagini già passate, fagocitate dallo/sullo schermo, digerite e instillate nel cervello dell’everyman spettatoriale.
Videocracy – Basta apparire di Gandini tocca dunque dei temi scottanti, coi quali è necessario fare i conti, ma purtroppo alla sua operazione (che comunque, ripeto, è lodevole nella scelta dei temi e per la chiarezza con i quali essi sono esposti) manca una maggiore quantità di mordente, o la volontà di addentrarsi in maniera più profonda in quelli che sono i meccanismi profondi che reggono tutto lo strapotere mediatico di cui si parla nel film, quali sono le sue dinamiche al di là di quei casi narrati nel film e che al pubblico italiano sono già tristemente noti (Corona, Mora, etc).
Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov
Il colore del melograno (Sayat Nova) (Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova) è il film del 1968 diretto da Sergej Paradjanov
“Nel tempio del cinema vi sono immagini, luci, realtà.
Paradjanov
È stato il maestro di questo tempio.”
Jean-Luc Godard
Il colore del melograno
(Sayat Nova)
(Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova)
Anno: 1968
Diretto da: Sergej Paradjanov
Con: Sofiko Chiaureli, Melkon Aleksanyan, Vilen
Glastyan, Georgi Gegechkory.
Sinossi: Il film è la biografia di Sayat Nova, poeta armeno del XVIII secolo, ma la sua vita non è qui raccontata in maniera tradizionale, bensì attraverso dei tableaux che ne rievocano in maniera metaforica e surreale le varie fasi: infanzia e adolescenza, servizio del principe e amore proibito per la di lui figlia, convento e morte per mano dei soldati persiani di Agha Mohammed Khan.
Analisi: Ci sono molti modi per raccontare una storia. E poi, chi dice che al cinema si debbano solo raccontare delle storie o raccontarle in un certo modo? Si pensa, per tradizione consolidata, a un film che sia articolato come racconto, come prosa narrativa. Ma ci sono anche film che ricordano più le enciclopedie (Greenaway), e c’era chi, come Pasolini, tra il ’65 e il ’71 parlava di un cinema di poesia.
Il colore del melograno
Questo film del georgiano di origini armene Sergej Paradjanov è probabilmente un esempio di cinema di poesia.
Sayat Nova è considerato il maggiore poeta armeno (ma si dovrebbe piuttosto parlare di “ashug”, qualcosa di simile a un trovatore), e il film si ripropone di visualizzarne (più che narrarne) la vita facendo ricorso al simbolismo e alla metafora, utilizzando, cioè, dei procedimenti tipici del linguaggio poetico.
In una delle prime sequenze vediamo il poeta bambino che, affascinato dai libri, ne dispone a centinaia sui tetti di un convento, per poi su questi stessi tetti distendersi e spalancare le braccia come in una crocifissione: è già una prefigurazione metaforica del suo futuro martirio. Ancora, vedere la mano di Sayat Nova bambino “schiacciata” tra due libri mentre un prete gli raccomanda di leggere per la gente, è il correlativo oggettivo della poesia come missione e come fardello.
Quando, nella prima parte del film, ci viene mostrata l’infanzia di Sayat, essa è introdotta da una didascalia con una citazione del poeta, che recita: “Dai colori e dagli aromi di questo mondo, la mia fanciullezza trasse una lira da poeta, e me la offrì”. I riti religiosi, il lavoro dei tintori e quello dei monaci bibliotecari, il riposo nei bagni pubblici: tutto ciò è mostrato come manifestazione del mondo coi suoi colori agli occhi del poeta bambino.
Per tutto il film, Paradjanov ci mostra direttamente “i colori e gli aromi” di quel mondo fisico che dovette alimentare l’ispirazione poetica di Sayat Nova, e lo fa senza utilizzare una logica discorsiva o narrativa in senso classico, preferendo piuttosto fare poco ricorso alla parola e tentando di dare corpi e immagini visive a quelle sensazioni che la poesia può evocare.
Anche l’amore tra il poeta e la figlia del principe è reso in chiave simbolica, attraverso sguardi e gesti ripetuti lentamente come in un rituale, così come la morte del poeta (che avvenne per mano di soldati persiani), è resa attraverso una sequenza di gesti e l’immagine di Sayat disteso sul pavimento attorniato da candele su cui scendono dei galli che svolazzando si bruciano.
Ho scritto più sopra “rituale”. È questa l’impressione dominante che si ha quando si guarda questo film: quella di trovarsi di fronte a un rituale in cui ogni gesto sembra ispirato da un processo profondo, ogni azione è in sé altamente simbolica di una qualche altra realtà che la precede, e il gesto fisico è spiritualizzato.
Ciò avvicina la modalità di rappresentazione di questo film a quella del teatro No giapponese, mentre le inquadrature, frontali e a macchina da presa fissa, sembrano riportare alle illustrazioni medioevali piatte e senza prospettiva, in cui corpi e oggetti sono collocati in una dimensione altra, in uno spazio non percepibile, come sospeso e onirico.
Non stupisce che un film del genere, in cui domina una componente spirituale e un approccio surreale alle tradizioni culturali del popolo armeno, sia dispiaciuto, alla sua uscita, ai burocrati e ai potenti di quella che allora (1968) si chiamava URSS. Il governo sovietico (che obbligò tra l’altro il regista a modificare il titolo originario “Sayat Nova” in Il colore del melograno) esercitò infatti notevoli pressioni sull’artista Paradjanov, accusandolo di aver deviato enormemente dai canoni del realismo socialista, per poi condannare anche l’uomo a cinque anni in un campo di riabilitazione con l’accusa di omosessualità e furto. Contro la condanna si mossero alcuni artisti e colleghi registi, e Paradjanov fu liberato, ma gli fu negato, per alcuni anni, di dirigere altri film.
Attualmente, Il colore del melograno amatissimo per la sua forza visionaria da molti cineasti tra cui Fellini e Tarkovskij, è difficilmente reperibile, fatte salve le edizioni in DVD della Ruscico e della Kino.
Forse che agli artisti che in vita hanno scontato l’oppressione della censura e le pressioni dei burocrati, tocchi anche affrontare, dopo morti, la beffa di un mercato che si dice libero e invece ha vincoli particolarmente restrittivi?
Allora quest’opera, come altri invisibili, sconta lo stesso destino del poeta bambino, consapevole che la poesia è bellissima missione, ma anche fardello e martirio, e conferma che i veri poeti, anche quelli dello schermo, sono quelli scomodi anche dopo tanto tempo.
Il grande silenzio: il film di Philip Groning
Il grande silenzio (tit. or. Die grosse stille) è il film del 2005 diretto da Philip Gröning con protagonisti monaci della grand Chartreuse di Grenoble.
Il grande silenzio, la trama
L’ordine dei Certosini è ritenuto una delle confraternite più rigide della Chiesa Cattolica Romana. Nascosta dagli occhi del pubblico, la vita quotidiana dei monaci segue le regole ed i rituali secolari dell’ordine. I visitatori ed i turisti sono tenuti fuori dai locali del monastero. Non esistono di fatto pellicole sui monaci. L’ultima ripresa avvenne nel 1960 quando due giornalisti furono ammessi nel monastero. Non gli fu però concesso di riprendere i monaci. 19 anni dopo il suo primo incontro con l’attuale Priore Generale dell’ordine, al regista Philip Gröning fu dato il permesso di girare un film sulla vita dei monaci.
Questo unico permesso di girare è il risultato di una lunga e leale relazione tra Philip Gröning e il Priore Generale. Il contratto prevede che per almeno 7 anni non verrà permesso di girare alcun altro film nel monastero. Comunque, considerato che fino a questo momento non era mai stato dato il permesso di girare, questo film potrebbe rimanere unico. Philip Gröning ha vissuto nel monastero ed ha seguito i monaci con la telecamera. Il regista ha sperimentato la stessa vita di un recluso, divenendo parte del rituale e della vita quotidiana, ed ha potuto scoprire così il mondo dei monaci e dei novizi che conducono una vita tra antichi riti e moderne conquiste.
Il Grande silenzio, l’analisi
Non è facile parlare di Il grande silenzio. Non è mai facile parlare di un film. In primis, per una differenza di codici: il film ha un codice basato su una scrittura per immagini in movimento e suoni, riprendendo le parole di Bresson, mentre le recensioni o i saggi hanno un altro codice che è quello della scrittura propriamente detta.
Nel caso specifico si tratta di un film in cui la parola è pressoché totalmente assente, come già il titolo suggerisce. I monaci della grand Chartreuse nel film non parlano, fatte salve le sequenze delle preghiere, o quella posta verso la fine in cui un monaco cieco dice di non essere addolorato della propria cecità perché gioioso nel suo accostarsi a Dio.
Groning ha compiuto un’impresa folle, al limite dell’assurdo: un film di due ore e quaranta, non parlato, sulla vita dei monaci della gran Chartreuse, e realizzato con pochi mezzi, senza luci e con una sola telecamera, dove predominano le inquadrature fisse e a volte si ripetono situazioni simili.
Ma l’assurdità dell’impresa di Groning è pienamente giustificata dal contesto particolare in cui egli si è trovato a girare. Già nel 1984 il regista tedesco aveva chiesto ai monaci della certosa di effettuare delle riprese all’interno della stessa, ma gli fu detto che sarebbe stato possibile solo di lì a 16 anni, poiché non si sentivano, a loro dire, ancora pronti. Il regista fu richiamato 16 anni dopo. Le clausole: il silenzio, che i monaci certosini osservano e di cui Groning partecipa, e la povertà di mezzi.
Parlare del Verbo o delle sue manifestazioni, senza fare ricordo al verbo inteso come voce o racconto, (poiché non c’è qui una trama, ma un insieme di sequenze e situazioni) è comunque impresa coraggiosa, una ragione di più per vedere questo film.
Il grande silenzio è quasi un film dogma, per la castità e la povertà di mezzi con cui è girato, ma ne esce fuori del cinema verità, quasi. Davanti all’occhio vitreo della telecamera i monaci pregano, insieme o in solitudine, leggono, accolgono novizi, si tagliano i capelli, cucinano, curano piante e animali, riparano scarpe e vestiti, officiano rituali.
I vari atti quotidiani dei monaci sono di tanto intercalati da sequenze di primi piani fissi di alcuni di essi, inquadrature dell’ambiente naturale, o cartelli su fondu nero che riportano citazioni bibliche.
Non c’è alcun vezzo formale volto a impreziosire o rivestire di ulteriore significato ciò che viene ripreso. I soli prodigi tecnici che si vedono non sono neppure tra i più eclatanti: qualche effetto di pellicola invecchiata, fotografia sgranata, obiettivi grandangolari per esasperare la profondità o volere andare più addentro a ciò che viene mostrato.
È un assurdo, si è detto più sopra. E non poteva essere altrimenti. Perché questo film, che nel suo essere costituisce un absurdum, documenta un qualcosa che già è assurdo. Perché decidere di recidere pressoché totalmente (fatto salvo un solo computer di cui si occupa un solo monaco) il legame col mondo esterno, andandosi a isolare tra le alpi francesi, perché condurre un’esistenza basata solo su meditazione, preghiera, silenzio, lavoro, perché rinunciare a quanto sta fuori e approdare a uno stile di vita così scarno? Per fede, sembra dire Goring a mezzo delle didascalie che riportano citazioni bibliche, la più ricorrente delle quali, significativamente, è tratta dal libro del profeta Geremia: “Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”.
Era già Kierkegaard a parlare della fede come un assurdo, e un legame con l’Assoluto che sia a propria volta assoluto. Absolutum, in latino, ovvero, sciolto da tutto e tutti, radicalmente, come i monaci della certosa.
Per fede, e per rivolta, verrebbe da dire, opponendo alla frenesia del mondo la serenità contemplativa, dedicandosi a ogni atto, anche il più banale e quotidiano con attenzione e cura, come fosse prezioso.
Il grande silenzio, a metà tra Malick e Tarkovskij
Pur avendo come suo centro di base la fede in un Dio, non si tratta di un film religioso come siamo abituati a vederne. Ciò che è trascendente non appare, la fede è costantemente presente, ma mai se ne parla direttamente. Essa è ciò che scorre come sotterraneo alle immagini del film, piuttosto. Immagini che in sé non documentano alcuna realtà trascendente, ma anzi una quotidiana, pacificata realtà del tutto immanente e fortemente materica: ne sono testimonianza i vari soffermarsi della macchina da presa -con uno sguardo che potrebbe richiamarci alla mente Malick o Tarkovskij– sugli ambienti naturali (distese innevate, piante, corsi d’acqua), o i vari oggetti. Non solo: le attività dei monaci che ci vengono mostrate sono per lo più azioni semplici, di lavoro: segare dei tronchi, spalare la neve. Ma li vediamo anche giocare come bambini quando scivolano su un pendio innevato…
La stessa reiterazione dei più semplici atti quotidiani ha qualcosa del rituale: una ritualità dell’immanente, vissuto dai monaci come fosse manifestazione del trascendente.
È curioso, a primo impatto, che si documenti una realtà immanente in maniera così scabra e rosselliniana, per dire di uomini così votati a ciò che li trascende. Ma forse è proprio il loro modo di rapportarsi a quell’immanenza che Groning si prova a catturare, pur sapendo che non ha a disposizione altro che la propria telecamera, e che egli, non è altro che un uomo, come tutti dotato solo dei sensi per conoscere. E ciò rende comunque questa sua impresa affascinante. Che ci sia riuscito o meno è un altro discorso, e determinare ciò sta, inevitabilmente, al singolo spettatore, sulla base di come accosta questo film, che è sicuramente complesso nella sua essenzialità.
Esther, il film del 1986 diretto da Amos Gitai
Esther è il film del 1986 diretto da Amos Gitai e con protagonisti Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen, Sara Cohen e Juliano Mer.
- Anno: 1986
- Diretto da: Amos Gitai
- Con: Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona
Benyamini, David Aharon Cohen,
Sara Cohen, Juliano Mer.
“Non opprimete e non sfruttate lo
straniero; voi conoscete l’animo dello straniero,
giacché voi stessi siete stati stranieri nel paese d’Egitto.”
Esodo 23:9
Esther, la trama
Esther è basato sulla storia biblica del libro di Ester. Al tempo in cui i giudei sono sotto il dominio persiano, il re Assuero di Susa sceglie come moglie una giovane giudea, Esther.
Sotto consiglio del sacerdote Mardocheo, suo zio, la donna tiene nascosta la propria origine al sovrano. Aman, uno dei dignitari di corte, ordina la persecuzione dei giudei, poiché non sembrano riconoscere altra autorità fuorchè il proprio Dio, come Mardocheo, che sventa un complotto ai danni del re. Aman intende uccidere il sacerdote, ma Esther rivela al re i piani di Aman, che viene messo a morte. Mardocheo ed Esther, ottengono dal re che i giudei possano organizzarsi e difendersi dalle persecuzioni: in breve tempo, coloro che dapprima erano stati perseguitati divengono persecutori.
Esther, l’analisi
Non sono molti i casi della storia del cinema in cui un regista alla sua opera prima riesca a essere, pur tra le acerbità di vario tipo che contraddistinguono gli esordi, intenso e ricco nell’ispirazione, appassionato e asciutto al contempo. Direi che Esther, di Amos Gitai, rientra in questa categoria. Il film è uscito in cofanetto dalla Rarovideo in edizione restaurata e accompagnato dagli altri due capitoli di quella che è considerata la trilogia dell’esilio nell’opera del cineasta di Haifa.
Gitai afferma di essere rimasto colpito dal fatto che nel libro biblico di Ester non si nomina direttamente “Dio” e che voleva rintracciare in esso qualcosa dell’ebreo contemporaneo, laico. Egli riprende il testo in maniera sostanzialmente fedele, ma la sua operazione diviene particolarmente interessante alla luce del fatto che la storia narrata è quella di un popolo perseguitato che diviene persecutore a propria volta, ed Esther diviene a propria volta sanguinaria ordinando il massacro di altri “nemici” dei giudei. Ciò è particolarmente interessante, e coraggioso, se si pensa che Gitai non cela i riferimenti all’attualità di quella terra costantemente promessa e costantemente insanguinata che è la Palestina e quello stato in qualche modo sempre utopico che è Israele, dove accade che i confini tra persecutori e perseguitati siano estremamente labili e fluttuanti.
E Gitai, che è nativo di Haifa (dove il film è stato girato), città nel nord di Israele, mette in discussione, pone quesiti, rimette in gioco la storia e la tradizione affrontando sempre criticamente il presente del suo paese che egli certamente ama, cortocircuitando col suo cinema le distinzioni tra generi, lingue, tecniche. Esther è girato con una tecnica particolare: si tratta infatti di una serie di tableaux (ispirati alle miniature persiane, di cui posseggono l’impianto ieratico) in cui la macchina da presa si muove poco, effettuando delle carrellate.
Le inquadrature del film sono centripete, e ciò che fornisce dinamicità ai quadri sono le azioni degli attori e gli splendidi effetti di luce della fotografia di Herni Alekan, che permea gli oggetti e i colori sgargianti di una patina magica e irreale. Gitai ha sempre ammesso (e i suoi film lo dimostrano) di preferire le riprese lunghe, i piani-sequenza, poiché più delle inquadrature brevi cui tanto linguaggio televisivo ci ha abituati, sanno restituire la complessità del reale. E’ interessante, questo, se pensiamo al fatto che il suo paese è (pur-troppo) spesso al centro degli obiettivi televisivi, oggetto di servizi a ripetizione, in cui la realtà è frammentata in una serie di informazioni il cui senso sembra già dato una volta per tutte e si rende impermeabile alle interpretazioni.
Esther, la messa in scena
Nella messa in scena di Gitai di Esther, coi personaggi in costume storico, ci sono però degli elementi stranianti, brechtiani, che fanno saltare il gap temporale tra il tempo in cui si svolge la storia e il tempo in cui il film è stato girato. Quando i personaggi si aggirano infatti per le strade dissestate di Haifa o le sue rovine delle sue mura, la mdp include spesso elementi (intenzionalmente) anacronistici: cavi elettrici, pali del telefono, palazzi moderni. Ciò fa effettivamente deflagrare il confine tra il tempo della storia narrata e la situazione in cui è stata girata. Quel che Gitai vuole offrirci, non è una mera ricostruzione storica, ma una riflessione sul presente. Ci fa sentire il dispositivo cinematografico, attraverso quelli che potrebbero sembrare dei “fianchi aperti” se si trattasse di un normale film a soggetto biblico-storico. Brechtianamente, invece, siamo mantenuti vigili con un occhio alla storia e l’altro alle condizioni reali, attuali, in cui essa è stata girata. È lo stesso per un personaggio che appare più volte in diverse vesti (mendicante, banditore, commerciante, etc) intervenendo a spiegare, come una sorta di cantastorie, alcuni punti della storia, e lo fa guardando in macchina, coinvolgendo direttamente lo spettatore.
Quando Aman viene giustiziato (sequenza splendida, in cui la mdp panoramicando passa da una costruzione antica dove l’uomo sta per essere ucciso, a una strada moderna, con degli autobus e una moschea sullo sfondo), Esther, a sera, chiede al re che il giorno successivo abbia luogo un altro massacro: secondo il regista, in poche righe, il testo biblico mostra tutte le contraddizioni del potere.
L’epilogo mostra, in un lungo cameracar per le strade di Haifa, dove ad angoli ancestrali si alternano altri moderni, gli interpreti principali camminare e riflettere criticamente sul ruolo interpretato, sul senso della vendetta, sull’”utopia” che era Israele, sulle proprie origini.
Tutti gli attori sono ebrei, ma ciascuno di diversa nazionalità: chi egiziano, chi ungherese, etc, e benché il film sia interamente parlato in ebraico, ciascun attore lo pronuncia con la propria cadenza. Si potrebbe dire che Gitai attui col cinema l’operazione che Deleuze rintracciava nella letteratura degli autori minori: Kleist, Kafka..etc. Essi fanno “balbettare” la propria lingua, quasi che le fossero stranieri, come esuli, e si ritaglino nelle proprie opere una sorta di idioletto. Gitai, che ha vissuto come esule tra il suo paese, la Francia, gli USA, la Germania, ha fatto egli stesso un cinema esule e riflessivo, che pone interrogativi, che rimette in discussione non la tradizione in sé, ma piuttosto la rianalizza per rianalizzare il presente (per farlo “balbettare”, verrebbe da dire), come accade, appunto, in Esther, parlato in ebraico, che, come ricorda lo stesso autore in un’intervista, è una lingua in cui manchi una vera e propria coniugazione verbale del presente, possendo, al contrario, numerose forme al passato, e, al contempo, gravida di una sorta di utopia e tensione al futuro.
Aleksandra, il film di Aleksandr Sokurov
Aleksandra è il film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov e con protagonisti Galina Vishnevskaija, Vasili Shevtsov, Raisa Gichaeva, Andreij Bogdanov, Aleksandr Kladko, Alekseij Nejmijshev.
La trama del film Aleksandra: In un accampamento di soldati russi, nella Cecenia dei nostri giorni, un’anziana donna, Aleksandra Nikolaevna, arriva a far visita a suo nipote Denis, ufficiale dell’esercito. Trascorre con lui qualche giorno. Quanto basta a farle scoprire un mondo a lei sconosciuto, fatto di uomini soli, senza calore né conforto. A pochi chilometri di distanza, al fronte, si combatte ogni giorno tra la vita e la morte. Eppure le donne del luogo non hanno perduto il loro antico senso di ospitalità. E i soldati, tutti i soldati, sono soltanto ragazzi impauriti.. La protagonista del film è la cantante Galina Vishnevskaya, vedova del grande violoncellista Rostropovich su cui Sokurov ha girato quasi contemporaneamente una delle sue elegie documentarie.
Aleksandra, l’analisi
“La guerra inizia dove finisce la ragione”, recita la frase di lancio di Aleksandra, film del 2007 diretto da Aleksandr Sokurov (già autore di Madre e Figlio, Moloch, Arca Russa, per citare solo alcuni dei suoi lavori più recenti), e uscito da noi quest’anno in pochissime sale solo a merito della Movimento film.
Sokurov non ci mostra mai direttamente la guerra nella sua ultima opera (salvo, forse, per quei fuochi che Aleksandra vede nottetempo in lontananza), semmai ci mostra i suoi effetti: la fine della ragione, appunto, le case lacerate dalle bombe a Gronzyj, la durezza degli uomini costretti ad essere macchine per uccidere che non possono dar voce ai propri sentimenti o a quanto ancora posseggono di umano, e in ultimo la ricerca innocente, semplice (e perciò tanto più assurda e stridente con l’orrore della guerra) di contatti umani da parte della protagonista, donna anziana dall’incendere lento e pesante in un microcosmo di giovani uomini veloci e costretti alla più assoluta efficienza.
Fin dalle primissime inquadrature di Aleksandra in cui esce da una camionetta per incontrare gli uomini che la scorteranno all’accampamento, Aleksandra Nikolaevna (il cui nome riecheggia forse non a caso quello completo del regista: Aleksandr Nikolaevič) è una outsider. Ancora sul veicolo la vediamo di spalle, in decadrage, ovvero spostata rispetto all’asse centrale dell’inquadratura (e già basterebbe questo a connotare un primo “spiazzamento”), mentre si guarda attorno.
Aleksandra scende dalla camionetta, la macchina da presa panoramica lentamente e quasi impercettibilmente da destra a sinistra, catturando lo sguardo corrucciato della donna (bravissima e intensa la Vishnevskaija, moglie del noto violoncellista Rostropovich) la cui presenza appare, già da questo incipit, scollata dall’ambiente circostante: un paesaggio rurale scosso dal vento, con due giovani che chiacchierano tra loro.
Ma Aleksandra è fuori luogo per un motivo più profondo: a spingere la donna all’accampamento è semplicemente l’affetto familiare (uno dei temi centrali nella filmografia di Sokurov: Madre e figlio, Padre e figlio), il desiderio di rivedere Denis, laddove gli uomini dell’accampamento sono lì per compiere il loro dovere di soldati: distruggere.
Forse chiunque, in ogni guerra diventa uno straniero e un estraneo, non comprensibile, non raggiungibile, un diverso col quale la comunicazione è difficile o impossibile, come per il giovane ceceno che si rifiuta di vendere le sigarette alla russa Aleksandra. Un estraneo è un nemico, anche, da privare della vita senza rimorso né sentimenti e in modo semplice, meccanico. Del resto basta schiacciare il grilletto, come Aleksandra comprende maneggiando un fucile scarico insieme a Denis che con incredibile (e paradossale in quel contesto) dolcezza di nipote le mostra le armi e i veicoli in una sequenza che quasi urta, proprio per lo stridore che si crea tra la curiosità innocente della vecchina, la tenerezza del giovane ufficiale nei confronti di lei (la prende in braccio) e gli strumenti di morte che li attorniano.
Eppure Aleksandra, grazie al suo essere decisamente “fuori luogo”, è capace di piccoli atti di dolcezza che sembrerebbero impossibili in quel contesto, come quando offre un po’ di torta a delle giovanissime sentinelle (una sequenza bellissima, dal sapore crepuscolare –“le buone cose di pessimo gusto”- esaltata dai toni rosacei della fotografia di Aleksandr Burov, che scopre un bergmaniano cielo chiazzato di nubi), e soprattutto quando parla con un’altra outsider, dell’etnia nemica: un’anziana cecena, ex insegnante di nome Malika.
La stessa Malika, che offre un tè ad Aleksandra, non riesce a capacitarsi di come i giovani siano stati cambiati dalla crudeltà della guerra. “I buoni son diventati cattivi, non solo le case sono state distrutte, la vita è stata messa sottosopra, i santi diventano diavoli”, dice la cecena alla russa. Ecco perché non ci sono scene di battaglia nel film: la battaglia è interiore, la guerra è dappertutto, fatalmente instillata nell’animo umano sconvolto, lacerato come le case di Gronzyj, una lacerazione di cui sembrano partecipare anche alcune inquadrature del film, realizzate con lenti distorcenti che alterano (sembra stiano per “strappare”, quasi) lo spazio davanti alla macchina da presa.
Eppure, qualcosa di buono rimane: il tentativo laborioso di intrecciare dei legami a dispetto di tutto attraverso piccoli gesti (la treccia che Denis fa ad Aleksandra, l’abbraccio della russa e della cecena, la già ricordata offerta della torta alle sentinelle, il consiglio che l’anziana russa dà a un giovane ceceno: pregare Dio perché conceda la saggezza e la consapevolezza che la forza non sta nelle armi). Piccoli gesti che davanti alla macchina da presa sembrano (o sono) eccezionali in mezzo all’orrore, un po’ come i raggi di sole che illuminavano il volto del figlio piangente per la perdita della madre in Madre e figlio.
A differenza di certi suoi lavori precedenti, qui, Sokurov, sperimenta forse meno a livello tecnico (mi riferisco, ad esempio alle inquadrature distorte e private di profondità in Madre e figlio o al piano sequenza ininterrotto della durata di un’ora e mezza nell’Hermitage di San Pietroburgo per Arca Russa), ma ciò non toglie che questo, con la sua intensità poetica, sia uno dei suoi lavori migliori, che ha ricevuto, fra l’altro, il premio Robert Bresson alla Mostra del Cinema di Venezia.
Freaks: recensione del film horror di Tod Browning
Freaks è il film Horror del 1932, vero e proprio cult, di Tod Browning con protagonisti nel cast Wallace Ford, Leila Hyamas, Olga Baclanova e Rosco Ates.
Trama del film Freaks
Tra gli artisti di un circo che ha tra le sue attrazioni esseri bizzarri e deformi, nascono relazioni morbose. Il nano Hans è innamorato della bella Cleopatra, una donna “normale” e avvenente, che lavora nel medesimo circo come trapezista. In realtà, la trapezista è interessata solo al denaro di Hans e progetta con il suo amante – il forzuto del circo, Hercules – di ucciderlo per godersene l’eredità.
La fidanzata di Hans, Frieda, anch’essa affetta da acondroplasia, lo mette in guardia su Cleopatra perché diffida di lei. Ciò malgrado si arriva al matrimonio tra Hans e Cleopatra, che continua ad intrattenere la sua relazione con Hercules. Ma qui, con grande sgomento di Cleopatra, i Freaks che avevano scoperto il tradimento e i veri sentimenti che Cleopatra e il suo amante nutrivano per loro, si ribellano e portano a compimento la loro atroce vendetta: dopo un inseguimento tra i più terrificanti della storia del cinema Cleopatra ed il “forzuto” ricevono la loro punizione.
I Freaks si
accaniscono a torturarli e mutilarli riducendo lui a un grasso
eunuco e lei ad una tale deformità che in futuro sarebbe stata
presentata al pubblico come la “donna
gallina”
Analisi del film Horror Freaks
Comunque se ne parli la storia del genere dell’orrore ha vissuto momenti sconvolgenti nell’arco di tutto un secolo di vita del cinematografo. Molto spesso questi momenti erano strettamente legati all’uscita di film che per un verso o nell’atro scioccavano la sale stracolme di gente inorridita di fronte a spettacolo molto spesso troppo orrorifici da poter essere fruiti e “sopportati”.
Se film come L’esorcista o Shinning hanno provocato nell’opinione pubblica e critica sgomento, di sicuro un titolo ben meno noto ma altrettanto spaventoso diede inizio a questa serie di film “scandalo”. Stiamo parlando del bel ma “brutto” Freaks di Tod Browning, uno che di horror ne mastica abbastanza, a cui ha dedicato gran parte della sua carriera e come non poterlo allora citare in questa nostra amata rubrica.
Il Freaks del regista è un film altamente disturbato, flop al botteghino, bollato come un’opera inguardabili a causa dei suoi contenuti estremi, maledetto e censurato tanto da levargli ben 30 minuti e ridurlo a poco più di 65 senza scene finali e con una misera inquadratura, che però rende pienamente giustizia alla storia dei personaggi.
Il film, visto ben 76 anni dopo, conserva ancora quel potenziale visivo che tanto ha scomodato e che difficilmente risulta essere un film godibile dal punto di vista puramente estetico, forse con il senno di poi, ma va anche detto che forse qualcuno in quegli anni ha avuto la coda di paglia di fronte alla lezione di vita del regista.
In Freaks, i veri mostri sono le persone cosiddette normali – che ingannano, feriscono, mettendo al bando chi è più brutto o semplicemente chi è affetto da una forma di nanismo, o qualsivoglia connotato non esteticamente presentabile, trattandolo peggio di un animale e infierendo sulla sua sensibilità e sulla sua umanità. Polemica questa, che come anticipato prima, bruciò qualche coda di paglia, direi molte; tanto scandaloso da essere bandito in Inghilterra per trent’anni.
Tutto questo perché non esistono effetti speciali o trucco, tutto ciò che la macchina da presa ci mostra è reale. Freaks è semplicemente uno spaccato dell’ambiente circense, ambiente tra l’altro ben conosciuto dal regista avendovi lavorato per molti anni durante la gioventù, un microcosmo di umanità diversa, dove i fenomeni da baraccone, gli scherzi di natura, i Freaks appunto, ci sono mostrati per quello che sono, senza pietismi. Le gemelle siamesi, la donna barbuta, l’uomo torso, l’uomo serpente e le ragazze macrocefale con le teste a spillo sono realmente così come li vediamo, senza ricorrere all’artificio di nessun trucco. E’ nello stesso modo, con la stessa semplicità Tod Browing raccoglie spezzettati delle vere sembianze che si nascondono sotto un bel visino e sotto una montagna di muscoli; è li che cova il vero mostro, come lo erano le persone qualunque per Frankenstein, come per il Fantasma dell’Opera o The Elephant Man Alla base di tutta questa mostruosità che dimostra il genere umano c’è: la paura per la diversità.
È l’essere diverso che ci spaventa e per questo va rifiutato e messo al bando; non siamo capaci di accettare le persone per quello che sono, e non siamo neanche disposti a vedere, o meglio a credere che qualcosa di buono possa celarsi sotto l’aspetto esteticamente diverso, estranio. Molte sono le figure classiche del cinema horror che vengono citate sotto questa tema ricorrente e molti altri si rifaranno ai personaggi del circo dei Freaks, tanto da diventare un vero e proprio classico del genere.
Freaks in definitiva non mostra niente di
così inguardabili come all’epoca si cercò di far credere…forse il
film ha mostrato la vera natura di noi uomini che dietro a
ipocrisie nascondiamo la paura di aprirci al
diverso.
Curiosità sul
film Freaks
Si tratta, sotto molto aspetti, di un’opera anomala e in un certo senso anche maledetta (all’interno del panorama cinematografico degli anni in cui fu prodotta), circondata fin dalla sua uscita da un’aura di mistero, incubo e paura. In Inghilterra ne fu vietata la visione per circa trent’anni
Il film deve gran parte della sua celebrità anche alla presenza nel cast di veri freaks: termine che in maniera assolutamente cruda definisce nella lingua inglese persone con gravi deformità fisiche.
Concepito inizialmente come film horror per risollevare le sorti della compagnia Metro-Goldwyn-Mayer, alla sua uscita viene invece dapprima rinnegato dalla stessa società di produzione e poi drasticamente censurato.
In realtà la pellicola – che narra le vicende in un circo di un gruppo di teatranti ostacolati da una cinica rivale – non analizza in maniera né impietosa né elogiativa la triste e mostruosa condizione dei protagonisti. Il film si presenta invece come un’amara, caustica ma anche toccante allegoria sulla “diversità”, affermando che talvolta è proprio dietro la “normalità” che si nasconde la vera “mostruosità”.
A seguito di immani contestazioni avute dopo la proiezione della prima, il regista Tod Browning (al quale Hollywood chiuse le porte dopo questo film, forse proprio a causa della sua vicenda maledetta), dovette tagliare quasi mezz’ora di pellicola. Vi erano stati persino casi di gente che si era sentita male alla visione delle scene raccapriccianti, quali ad esempio la mutilazione di Olga perpetrata dai freaks per vendetta e la castrazione del forzuto amante di lei, il quale nella scena finale del film compariva effemminato e cantava in falsetto. Dopo la visione del film una donna subì un aborto spontaneo.
Il film fu vietato dalla Germania nazista dal 1933 al 1945, nel Regno Unito la visione fu vietata fino al 1964, fu vietata la visione nella città di Cleveland negli Stati Uniti e anche nell’Italia fascista fu vietata la proiezione. Il film uscì in Italia solo all’inizio degli anni 70, e solo in televisione, dopo essere stato doppiato su richiesta della RAI.