Da
Y tu mamá también a Mozart in
the Jungle, da I diari della
motocicletta a Neruda,
l’ultimo acclamato film di Pablo Larraín (in
uscita a ottobre), Gael Garcia Bernal ha
interpretato sul grande e piccolo schermo le più diverse storie di
vita e a sfondo biografico con autentiche sensibilità e
intelligenza. L’artista messicano fa tappa a Bologna non solo per
ricevere il meritato Celebration of Lives Award attribuitogli dal
Biografilm Festival, ma anche e soprattutto per
parlare con orgoglio di Ambulante-Gira de documentales, il festival
da lui fondato nel 2005 insieme a Diego Luna,
Pablo Cruz e l’attuale direttrice Elena
Fortes.
Giunto
alla sua undicesima edizione, Ambulante condivide con il suo quasi
gemello bolognese la passione per il documentario e il tentativo di
avvicinare un pubblico sempre più ampio al linguaggio, alle
tematiche e ai registi della migliore produzione del genere,
nazionale e non solo. Frutto della spregiudicatezza dei suoi
“padri”, Ambulante è un’esperienza itinerante – almeno 16 le città
messicane coinvolte e ora anche la Colombia – che non si nasconde
l’ambizione di promuovere il documentario come arma di cambiamento
culturale e sociale. Lontano dal mondo patinato hollywoodiano,
loquace e appassionato quando esprime le proprie idee e visioni,
Gael Garcia Bernal racconta con entusiasmo i
primi passi di Ambulante, soffermandosi anche sulle sfide del suo
mestiere di attore.
Qual è stata la
genesi di Ambulante?
GGB: “Scoprire,
condividere, trasformare. È lo slogan maturato dopo le prime
edizioni di Ambulante, festival nato dalla produzione di pochi
documentari che abbiamo deciso di non distribuire e promuovere
singolarmente. Abbiamo pensato all’idea di un tour, come se fossimo
una rock band. Siamo stati mossi dalla volontà di definire cosa
fossero i documentari, mostrarli in modo gratuito nei luoghi
pubblici generando sensibilità e attenzione attorno al genere.
Volevamo raggiungere l’industria cinematografica. Volevamo
l’appoggio del governo e delle istituzioni culturali. Volevamo
tutto perché eravamo giovani. Ricordo un incontro con la catena
cinematografica Cinépolis, la terza più grande al mondo, dove senza
remore abbiamo presentato il nostro progetto. Camminando, abbiamo
trovato la nostra strada. Abbiamo iniziato il festival senza soldi,
solo con il sostegno della gente, poi abbiamo creato una fondazione
non-profit per rapportarci con il mondo politico e culturale. La
nostra sfacciataggine, la nostra passione, hanno reso possibile un
festival che, anche per la partecipazione e la reazione del
pubblico, posso definire il più originale della
galassia”.
Il cinema può ancora avere una funzione politica,
creare una coscienza critica?
GGB: “Il
cinema ha una funzione trasversale, di analisi storica, recupero
della memoria e costruzione di un futuro comune.
Penso al tema della migrazione, spesso
presente nei miei film. Il cinema in sé contiene elementi propri
della migrazione: attraversa le frontiere, si basa su uno scambio
di punti di vista e ha un impatto sulle persone che riescono a
dialogare grazie ai film, creando – si spera – un mondo migliore.
Il cinema è intrinsecamente legato alla politica, nel bene e nel
male. Non si può eliminare questa complessità che sempre esisterà
nel cinema. È importante però non anteporre un’etichetta o un
obiettivo a un film, è meglio entrare in sala e vedere il film come
tale”.
Ci vuole coraggio a girare Desierto di Jonas
Cuaron con Donald Trump in corsa per la Casa
Bianca?
GGB: “Non
abbiamo realizzato questo film in reazione a Donald
Trump, ma per mostrare un tema universale come quello
della migrazione, trattandolo come un fenomeno naturale, senza il
quale l’essere umano non sarebbe sopravvissuto sul pianeta. Trump
incolpa messicani, musulmani e cinesi dei problemi dell’America.
Chi crede in questa narrativa dell’odio, in questa mitologia
fascista e irreale, la alimenta contribuendo a creare un clima
pronto a sfociare in odio, insicurezza, genocidi e guerre civili.
L’intolleranza nei confronti degli immigranti esiste anche al di
fuori degli Stati Uniti, in Messico, dove i centro-americani
vengono trattati malissimo”.
Come si
inserisce la tua esperienza di Ambulante nel tuo lavoro di attore?
E in che modo riesci ad alternare la seriosità di alcuni tuoi film
biografici con la leggerezza del tuo ruolo in Mozart in
the Jungle?
GGB: “Partecipo in modo
diverso ai diversi generi come interprete e spettatore. Preferisco
fare teatro – esperienza intensa e affascinante – piuttosto che
assistervi, nonostante la mia famiglia abbia una notevole
tradizione teatrale. Il cinema, invece, mi piace più vederlo che
farlo. Del cinema non mi piace soprattutto il fatto che si debba
parlare bene del proprio film prima ancora di averlo realizzato.
Bisogna saperlo vendere, con la sicurezza che non ci saranno
imprevisti. Imprevisti che, invece, nel cinema sono sempre
tantissimi e spesso rendono migliore il risultato finale. Non è
così nella pittura o in teatro. Per quanto riguarda i documentari,
preferisco senz’altro vederli. Se volessi girarne uno, la
lavorazione dovrebbe essere breve perché non ho pazienza. Per
questo penso che i documentaristi siano dei folli incompresi,
perché hanno davvero una grande pazienza nel fare le riprese. Mi
diverto molto a girare Mozart in the Jungle, è
come se facessi parte di una compagnia teatrale di repertorio. Devo
ammettere che non mi piace stare davanti alla telecamera, non mi
piace l’istante che si perde mentre si sta girando una scena.
Preferisco il gioco, il contatto reale. Non esiste una telecamera
che non alteri, non manipoli e non modifichi il punto di
vista”.
Hai detto di no
a molti progetti nel corso della tua carriera? E, al contrario,
avere le idee così chiare ti ha impedito di ottenere alcuni
ruoli?
GGB: “Un
giorno ha solo 24 ore. Difficile fare tutto, vedere tutto. Se da
bambino guardavo le telenovelas, da adulto ho completato solo 2-3
serie televisive. Per Neruda di Pablo
Larraín, ad esempio, la decisione è stata chiara, ovvia,
immediata, perché è un film che ha a che fare con me e le persone
con cui ho lavorato. Se mi offrissero di fare un grande film negli
Stati Uniti – cosa che comunque non succede perché c’è uno star
system molto chiuso – e al contempo uno come
Neruda, rinunciare a quest’ultimo significherebbe
mancare un’opportunità. Esiste ancora il mito di Hollywood ma il
cinema è cambiato, i film si fanno ovunque. C’è ancora chi vuole
trionfare a Hollywood ma per me si tratta di un concetto amorfo,
astratto. Vengo a volte definito un attore di Hollywood, ma in
realtà ho girato solo un film per gli studio. A Hollywood
preferisco Neruda perché è un film che parla di
me, mi permette di volare, di apprendere e di raggiungere
l’obiettivo per cui faccio cinema, ovvero essere libero e avere
molte diverse personalità dentro di me”.