Advantageous è il
film del 2015 diretto da Jennifer Pang e con
protagonisti Jacqueline Kim, Smantha Kim, James
Urbaniak, Freya Adams e Jennifer Ehle.
Advantageous Trama
In un prossimo futuro nel quale
l’opulenza e lo sviluppo tecnologico appaiono soltanto come
facciate per mascherare una società dominata da una profonda
disuguaglianza portata ormai all’estremo, l’arrivismo e la
competitività sono divenuti gli unici obiettivi verso i quali gli
esseri umani rivolgono le loro energie e le proprie ambizioni di
vita.
Protetta nell’interno di una grande
e splendente città metropolitana in cui la rigida suddivisione in
caste si pone come la base delle relazioni fra gli individui, Gwen
porta avanti il suo lavoro di anchor-woman per una nota
compagnia farmaceutica, fino a quando, non ancora trentacinquenne,
malgrado le sue eccellenti doti comunicative e la vasta competenza,
viene considerata ormai troppo vecchia per continuare a ricoprire
il ruolo di testimonial. Rimasta senza lavoro da un giorno
all’altro, nel mezzo di una società iper-maschilista nella quale si
preferisce incoraggiare le donne a rimanere a casa per lasciare
agli uomini le migliori occupazioni rimaste, Gwen decide di
assecondare le strane richieste dei suoi ex datori di lavoro e di
sottoporsi ad un’innovativa procedura neuro scientifica che prevede
l’inoculazione della mente di un paziente nel corpo giovane di un
nuovo ospite.
Mossa dall’impellenza di
riacquistare il vecchio lavoro con cui trovare a breve il denaro
necessario che le permetta di poter far accedere la brillante
figlia Jules ad una delle poche scuole private ancora accessibili,
la donna decide di accettare il terribile compromesso, non prima di
aver passato il poco tempo che le rimane con l’unica cosa davvero
importante nella sua vita. Fin dai suoi primi esordi
cinematografici all’inizio dei gloriosi anni ’50, il genere
fantascientifico è sempre stato costretto a districarsi con forza e
coraggio fra due grossi ostacoli: da una parte il tentativo di
scrollarsi di dosso l’aura di prodotto scadente derivante dai suoi
natali non particolarmente eccelsi nell’ambito della cultura
popolare e dall’altra la possibilità di rivendicare un qualche
valore di artisticità.
Seppur è stato necessario attendere
la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo per poter
ammirare finalmente prodotti di genere in grado di raggiungere un
valore di autorialità qualitativamente elevato, osservando
l’evoluzione che in seguito si è delineata in un tale filone
produttivo, ormai non può sfuggire di notare un sempre maggiore
appiattimento delle pretese artistiche delle pellicole
fantascientifiche verso una dimensione dominata da un impiego
massiccio di computer grafica, battaglie spaziali e narrazioni non
sempre coerenti con sé stesse.
Ed è proprio gettando un occhio su
un panorama come quello attuale, nel suo complesso ansimante e
ripiegato su una povertà di idee al servizio del puro
intrattenimento delle immagini digitali, che un piccolo e delicato
prodotto come Advantageous non può che
apparirci come un fragile e splendente rubino gettato nelle torbide
acque di un mare stagnate, una pellicola che, malgrado una grande
onestà d’intenti e una totale mancanza di pretese che potrebbero
rischiare di farla passare del tutto inosservata, non accenna
minimamente a depotenziare la sua carica significante e la sua
onorevole umiltà.
Abituati ormai ad essere spettatori
assuefatti agli scenari dispotici di matrice orweliana post
1984 e agli ambienti intergalattici dal sapore di spade laser
cangianti, osservare come il dramma e la riflessione sull’intimità
dei rapporti umani possano ben sostare all’interno di uno scenario
futuribile (più che futuristico) rende perfettamente lecito un
iniziale spaesamento, soprattutto se in un film del genere vengono
di fatto a cadere tutte le certezze e i topoi
convenzionali della grande mappa degli archetipi del cinema.
La regia delicata e minimalista di
Jennifer Pang, chiamata a dare forma di
lungometraggio ad un prodotto già realizzato in forma ridotta
durante il suo esordio dietro la macchina da presa, si dimostra la
più adatta a comprendere e a mettere in scena quello che appare a
tutti gli effetti come il drammatico racconto di una madre che, nel
centro di una vita dominata da terribili disuguaglianze sessuali e
sacche di resistenza sociale che dipingono con sconcertante
chiarezza la prospettiva di un domani molto più reale che non
fantastico, si trova a dover compiere una terribile scelta:
rimanere sé stessa ma vedere la propria vita e quella della propria
figlia andare lentamente scemando verso un estremo opposto fatto di
povertà ed invisibilità, oppure sacrificare una parte della propria
individualità per assumere, letteralmente, una nuova pelle con cui
tornare ad essere appetibile nella giungla del mercato del lavoro.
Gwen sarà dunque chiamata a compiere la scelta che, soppesati tutti
i rischi e le implicazioni, apparirà oggettivamente la più
vantaggiosa (da qui il titolo che rimanda ad una filosofia
della convenienza tipica delle società dominate dalla necessità del
compromesso come fonte di sopravvivenza).
La dimensione fantascientifica
viene volutamente lasciata sullo sfondo, essa diviene infatti un
puro e semplice pretesto narrativo per tentare di lenire la
terrificante attualità del tema trattato con la scusa di
trasportarlo avanti nel tempo, esattamente come le fiabe per
bambini che giustificavano la loro crudezza pedagogica situandosi
come racconti nel passato mediante una licenza di sfasamento
temporale.
Dunque si tratta di un racconto
collocato in un prossimo futuro ma che sviscera, come in un
campionario degli orrori, tutte le più sordide e grottesche paure
della condizione dell’uomo moderno, senza risparmiarsi attacchi
simbolici ma anche concreti contro la cultura dell’arrivismo, la
mentalità xenofoba e soprattutto la tanto atroce filosofia della
forbice di disparità fra ricchezza e povertà, di cui il buon
vecchio Walter Banjamin rimproverava già a suo
tempo la nostra attuale cultura dell’immagine, dominata da
un’apparenza di civiltà ma ridotta ancora nel suo profondo alla
meschina politica dell’esteriorità fittizia.
Gwen, interpretata da una splendida
e intensa Jacqueline Kim che riveste anche il
ruolo di produttrice e co-sceneggiatrice, è una donna del futuro
che pare catapultata, come per uno strano effetto di anacronismo,
in una tipica società ottocentesca nella quale il ruolo e la
funzione della donna erano (e sono) totalmente accessori ed
assoggettati alle esigenze di una cultura fallocentrica dove esse
vengono ridotte a puri feticci d’immagine e costrette ad apparire
sempre giovani, una cultura che pone dunque l’apparenza dinnanzi
alla competenza. Ed è proprio questa la grande peculiarità di
questa pellicola, ovvero riuscire a parlare del presente e del
passato attraverso un linguaggio e una visione rivolta al
futuro.
La realtà di Gwen si muove lenta e
brumosa come racchiusa in una vasca di densa nebbia o in una
bottiglia ricolma di liquido amniotico, un ritmo contemplativo e
trasognato che appare in un primo momento quantomeno inusuale per
una pellicola di fantascienza ma che in realtà rappresenta l’unica
scelta corretta per un universo di questo tipo, un universo urbano
la cui candida e splendente facciata traboccante tecnologia viene
continuamente, nel corso della narrazione, incrinata da misteriosi
attentanti terroristici verso i quali però ognuno dei personaggi
sembra non prestare troppo interesse, lasciando che essi si volgano
per l’appunto in sottofondo alle proprie singole esistenze
attraverso un atteggiamento che potrebbe essere di duplice valore:
arrendevolezza dinnanzi all’inevitabile tracollo sociale
(conseguenza di un eccesso di nevrosi sociale) oppure noncuranza
per quelle labili sacche di resistenza all’interno di un mondo che
si avvia ormai verso il traguardo estremo della lotta di classe
marxista declinata in una grottesca chiave neo-liberista.
Advantageous non è infatti un normale
esempio di film fantascientifico, poiché l’etimologia del termine,
fanta-scienza (scienza fantastica oppure
fantasia scientifica) in questo caso non fa altro che
ingannare lo sprovveduto spettatore, il quale si ritrova a
contemplare una toccante storia di sentimenti e affetti polarizzati
su una serie di close-up drammaturgici che solo di
sfuggita lasciano il posto a rapide occhiate d’insieme su una
realtà futuribile resa mediante un’estetica patinata e volutamente
finzionale con la quale ricalibrare le scale di attenzione e di
importanza del fruitore sul focus centrale del racconto
drammatico.
Il tema cardine del racconto, la
possibilità di vincere il fisiologico decadimento del corpo
attraverso una procedura di rigenerazione che preveda l’estrema
possibilità di un cambio d’identità corporee (come se la mente
fosse un software da poter trasportare a piacimento in
hardwares di volta in volta nuovi e aggiornati), seppur
ritorna in alcune opere abbastanza recenti di cui
Self/Less (2015) di Tarsem
Singh può apparire come una delle manifestazioni più
inerenti ma inefficaci, diviene il simbolo, nemmeno troppo assurdo
né inimmaginabile, di una cultura dell’immagine e dello spettacolo
nella quale si è disposti a tutto, anche a perdere sé stessi, pur
di rimanere sulla cresta dell’onda. In questo caso è per l’appunto
l’esigenza imposta dalla giungla sociale a costringere Gwen a
compiere la tanto terribile ma vantaggiosa decisione finale.
La perfetta alchimia fra Gwen e
Jules (Samantha Kim), madre e figlia nella
finzione filmica quanto nella realtà, si respira in ogni immagine e
si percepisce in ogni dialogo, una relazione profonda che la Pang
riesce a guidare e decodificare con grande maestria e toni
dolcissimi, finendo per far perdere allo spettatore qualunque
interesse per il sostrato futuristico e tecno-meccanico della
vicenda (per latro abilmente glissato e volutamente non troppo
giustificato nella sua effettiva plausibilità) in modo da lavorare
per sottrazione e ridurre il tutto al puro valore dei sentimenti,
escludendo qualunque altra cosa. Le dinamiche relazionali sono le
colonne portanti che reggono un film che porta con sé in maniera
latente, dall’inizio alla fine, una costante atmosfera di malsano
pessimismo, un piccolo e ripugnante insetto che sembra invisibile
dietro la delicatezza dello stile registico (presente addirittura
nel lettering e nei font graziati dei titoli di
testa, destabilizzante per una pellicola di tale genere) e la
maestria delle interpretazioni ma che continua ad inoculare il suo
veleno con costanza e regolarità sino ad ammorbare ogni speranza di
cambiamento.
Gwen ha cambiato il suo corpo, è
tornata finalmente a lavorare e garantire un solido futuro a sé
stessa e alla propria figlia, ma ciò non ha cambiato in effetti
nulla di ciò che era prima; i ricchi sono sempre più ricchi e i
poveri muoiono e vengono dimenticati, le esplosioni si succedono a
intervalli regolari senza che nessuno reagisca in alcun modo. E un
uomo, seduto sulla panchina di un parco, continua a suonare il suo
violino e la sua melodia riempie il vuoto dell’esistenza attorno a
sé.