Renato De Maria
porta sullo schermo il romanzo autobiografico di Aldo
Nove, che dice averlo così colpito da esserne rimasto
ossessionato per le immagini evocate da quella storia drammatica ma
incredibilmente visionaria. E le immagini, anche se alla lunga
divengono reiterate e a tratti auto-manieriste, sono l’unica cosa
che sembra funzionare nel film. Ma non bastano buone intuizioni
visive, o espedienti che rimandano alla video-arte e al teatro, a
tenere in piedi una non-storia, fatta di riflessioni intime, di
fragilità emotiva, di pulsioni incontenibili.
Ne La vita oscena
Andrea, ragazzo fragile, sensibile e legatissimo alla madre, vive
una vita tranquilla, cullato in un’adolescenza che sembra non voler
finire. Ma la morte della donna a seguito di una malattia
incurabile e quella improvvisa del padre, lo gettano in una
situazione nuova e in un dolore incolmabile. E’ l’inizio di un
viaggio verso il basso, fatto di droghe, sesso e di una ricerca
ossessiva della morte. Solo il suo amore per la poesia e la
scrittura potrà forse salvarlo.
La vita oscena, il film
Sono lontane le felici intuizioni
vicine alla grafica e al fumetto che De Maria aveva saputo dosare
nel lontano 2001 in Paz e, nonostante la
dichiarazione d’intenti, il mondo pop di Andrea, onirico, distorto,
colorato, fatto di skateboard, graffiti e pornografia, diviene un
qualcosa da esibire in maniera pretenziosa, elitaria, sciorinata.
La voce fuori campo del protagonista incombe sulla totalità della
narrazione, annientando la spontaneità delle situazioni e divenendo
in alcuni momenti pericolosamente didascalica, se non inutile. Le
battute pronunciate dagli attori sono ridotte all’osso e fanno da
scarna punteggiatura alla voce pensiero di Andrea, sminuendo
ulteriormente interpretazioni scialbe e prive di carattere.
La storia de La vita
oscena è un filo sottilissimo, quasi inesistente, che
certamente non aiuta i tanti personaggi, così esili da essere
trasparenti, insignificanti, quando non si riducono in macchiette,
come le numerose prostitute con le quali Andrea si intrattiene.
Durante la narrazione ci si chiede continuamente quando arriverà
una svolta, un qualcosa di significativo, un episodio che
finalmente possa dar vita al film; si spera questo nei primi dieci
minuti, si continua a farlo per altrettanti e infine si rimane
amareggiati nel rendersi conto che tutta la storia, se di storia si
può parlare, sarà portata avanti in questo modo, senza più
sorprese. Così la noia sopraggiunge e ci accompagna sferzante e
beffarda fino a un finale che definire banale è dir poco.
Si respira poi una straniante e
fastidiosa sensazione di già visto, forse dovuta anche alla
presenza di
Isabella Ferrari e all’uso di sequenze
amatoriali in super8 e di vecchie fotografie, che riporta la mente
ad altri film italiani che seguono la stessa codifica, per non dire
la stessa deriva, come E la chiamano
estate di Paolo Franchi. Che sia una
nuova preoccupante tendenza del nostro cinema?