Roger Moore, che
ha interpretato James
Bond per ben sette film, ha sempre dichiarato che il miglior
Bond di sempre era stato Sean Connery. Ora però
sembra aver cambiato idea, dopo aver visto in azione Daniel
Craig in Skyfall.
“Se avessi visto
Skyfall prima di finire il mio libro, Bond on
Bond, avrei dedicato un intero capitolo a Craig, che è un Bond
superbo – ha detto l’attore – Credo che egli abbia
garantito al franchise altri 50 anni“. Moore ha anche detto
che Skyfall è il miglior film di tutto il
franchise: “Secondo me Skyfall è uno
straordinario pezzo di cinema“.
Dopo il successo planetario di
In un mondo migliore, vincitore
dell’Oscar e del Golden Globe come miglior film straniero,
Susanne Bier firma l’attesissimo
Love
Rivelazioni insospettabili. Ora
che si parla con insistenza di un settimo episodio di Star
Wars con tanto di terza trilogia, il grande regista
David Cronenberg si lascia
Guai in vista per Emma
Stone. La popolarissima attrice, protagonista di
The Amazing Spider-Man
potrebbe aver commesso in gioventù un piccolo errore che
Ieri vi abbiamo dato una primissima
e approssimativa stima dei nomi di attori e attrici che potrebbero
concorrere alla nomination per migliori non protagonisti.
La bella e bravissima Kate
Winslet, che tutti abbiamo conosciuto e un po’ odiato per
aver fatto morire congelato il povero Jack Dawson (DiCaprio) in
Titanic,
In Di nuovo in
Gioco Gus Lobel (Clint
Eastwood) è uno scout degli Atlanta Braves, squadra
professionistica di baseball della Major League Baseball, nonché
uno dei migliori scout di sempre. L’avanzare dell’età e dei
problemi alla vista lo costringono però a farsi aiutare dalla
figlia Mickey (Amy
Adams), con la quale non è mai stato in buoni
rapporti, per andare in Nord Carolina ad esaminare una nuova
promessa. A complicare la situazione ci sarà Johnny Flanagan
(Justin
Timberlake), scout di una squadra avversaria che si
innamora di Mickey. Il viaggio insieme permetterà a padre e figlia,
nonostante le differenze, di comprendere reciproche verità rimaste
nascoste per troppo tempo.
Fedelissimo collaboratore del
grande Clint, Robert Lorenz ha finalmente portato
sullo schermo il suo primo film da regista, dopo anni di seconda
unità per l’autore di Million Dollar Baby
e Mystic River. Per Lorenz, Clint ha
addirittura infranto la sua promessa che lo voleva “finito” come
attore dopo Gran Torino, ed è tornato a recitare per
un amico che lo ha trasformato in un insopportabile vecchio
bisbetico patito di baseball e incapace di accettare la vecchiaia
che avanza.
Accanto a Eastwood, Lorenz ha
raccolto due dei giovani attori più talentuosi della loro
generazione: la rossa
Amy Adams, già balzata agli occhi dell’Academy e in
continuo miglioramento anche in ruolo non troppo impegnati; e
Justin Timberlake, l’ex cantante che sta
collezionando sempre più ruoli di vario genere, con costante
bravura. E’ certo che Eastwood sia rientrato, letteralmente, in
campo solo per far felice ed aiutare il fedele assistente, ma è pur
vero che come interpreta il vecchio burbero lui, non ci riesce
nessuno, soprattutto se affiancato da un giocondo John Goodman sempre in vena di sorrisi e
pacche sulle spalle.
La storia, che mescola film
sportivo a dramma familiare con tanto di appendice romantica, è ben
raccontata, con personaggi adeguati e attori in parte.
Di nuovo in Gioco, come al solito assurdo
titolo italiano di Trouble with the
Courve, è un film che procede senza grosse emozioni,
un po’ sonnolento nella parte iniziale, che ricorda per tema e
ambientazione il recente, e di tutt’altro livello, L’arte di Vincere – Moneyball con Brad Pitt, e che porta di nuovo sullo schermo
uno sport amatissimo oltreoceano ma che da noi fatica ad affermarsi
contro le tarature calcistiche dell’italiano medio.
Il plot principale relativo al
baseball e al rapporto padre/figlia, viene messo da parte per poco
tempo a favore di quello romantico, gestito dalla coppia
Timberlake/Adams,.
Ma quello che si evidenzia, soprattutto nel finale, è che la
storia, costruita sul personaggio di Gus, e sul suo rapporto con il
baseball e con Mickey, poteva rimanere in piedi anche senza il
belloccio di turno. Di nuovo in gioco è una
commedia a sfondo sportivo/sentimentale che intrattiene senza
emozionare. Non il miglior film dell’Eastwood attore, ma nemmeno il
peggiore.
Dune è un film del 1984
diretto da David Lynch e con protagonisti un
cast composto da Kyle MacLachlan, Freddie Jones, Max
von Sydow, Josè Ferrer, Sean Young, Francesca Annis, Patrick
Stewart, Virginia Madsen, Sting e Silvana Mangano.
Trama: In un futuro
remoto (siamo oltre l’anno 10.000), l’umanità si è diffusa in lungo
e in largo per il cosmo: a contendersi il potere, con dinamiche che
ricordano quelle dell’età degli imperi, a cavallo tra il Medioevo e
l’età moderna, sono una serie di ‘casate’ ognuna delle quali
insediata su un proprio pianeta.
Gli equilibri di potere si giocano
sul controllo di una sostanza particolare, la Spezia, in grado di
conferire poteri straordinari a chi la assume, come l’ampliamento
della propria coscienza o la capacità di trasferire intere flotte
da una parte all’altra dell’universo. La Spezia, può essere
estratta solo nel pianeta Dune, un luogo arido e inospitale,
abitato dai misteriosi Fremen, capaci di cavalcare i giganteschi
vermi della sabbia che popolano il luogo, che sono in attesa di una
sorta di ‘messia’ che dovrebbe guidarli alla conquista del pianeta.
Sullo sfondo della lotta per il controllo della spezia, si dipanano
in varie sottotrame che finiscono per incrociarci tra di loro,
intrighi di palazzo, tradimenti, antiche profezie…
Analisi: Nel 1984
i De Laurentiis, Dino e Raffaella, si imbarcano in
una delle imprese più titaniche della storia del cinema: portare
sul grande schermo il mondo creato da Fran Herbert nella saga di
Dune, uno dei cicli più duraturi e celebrati della storia della
letteratura di fantascienza: un romanzo che dai più era considerato
del tutto adattabile nelle sale cinematografiche, non solo per
la complessità della messa in scena, che avrebbe richiesto effetti
speciali all’avanguardia, ma anche per il gran numero di
personaggi, la complessità delle trame, fino al tipo di narrazione,
spesso affidata a monologhi interiori.
Una sfida che qualche anno prima
era stata lanciata da Alejandro Jodorowsky, coinvolgendo personalità
del calibro di Moebius ed HR Giger, con l’idea di coinvolgere nel
cast perfino Salvador Dalì; tuttavia la spugna
venne gettata ben presto di fronte alle dimensioni
dell’impresa.
Il guanto di sfida
venne allora raccolto dai De Laurentiis che affidarono la regia ad
un giovane David Lynch, reduce dal successo di
The Elephant Man, anche se apparentemente
diffidente nei confronti del cinema fantascientifico (aveva infatti
precedentemente rifiutato di dirigere Il ritorno dello Jedi, a causa
dell’impossibilità di dare al film una propria personale
impronta).
David Lynch accetta tuttavia l’incarico, e il
risultato è un film che si ricorda soprattutto per la ricchezza
visiva.
Il lato più arduo dell’impresa
stava infatti nel dover costruire ambienti, scenografie, costumi
diversificati per ognuno dei pianeti su cui è ambientato il
film e delle casate che ne animano la trama, dando
il senso per ognuna di esse di un radicato background
storico-sociologico e culturale.
La sfida, su questo piano, è
ampiamente vinta, anche grazie alla collaborazione con una serie di
esperti di prim’ordine, tra cui anche il nostro Carlo Rambaldi, creatore dei vermi meccanici
che popolano il pianeta Dune. Completa il cast
tecnico anche Brian Eno, autore delle musiche originali, cui
collaborarono anche i Toto in quello che probabilmente è l’episodio
più inusuale della loro carriera.
La colonna sonora
di Dune è completata da una selezione di
brani di musica classica, con autori che vanno da
Beethoven a Shostakovich.
Trattandosi di un colossal, si
puntò ovviamente su un cast di prim’ordine, dando ampia
discrezionalità allo stesso Lynch, che vi inserì
Freddie Jones (col quale già lavorato in
The Elephant Man) e l’esordiente Kyle
MacLachlan, poi destinato a diventare suo attore –
feticcio. Tra gli altri fanno parte della partita Sean Young, un
giovane Patrick Stewart che con la fantascienza
sarebbe tornato a fare i conti a lungo nel ruolo del capitano
Piccard in Star Trek: The Next Generation, fino a
Sting. Assieme a loro, nomi ‘pesanti’ come
Mx von Sydow, Jose Ferrer e Silvana Mangano, qui
al suo penultimo ruolo cinematografico.
L’esito del film è tuttavia
contrastato: in effetti l’impresa di portare sullo schermo in un
solo film il complesso mondo creato da Herbert non appare del tutto
riuscita: fossimo stati ai giorni nostri, il tutto sarebbe stato
articolato in una trilogia, che avrebbe dato al pubblico di entrare
maggiormente in confidenza con le ‘casate’ e le loro dinamiche.
Concentrare tutto in un solo
film, Dune finì almeno in parte per
creare delle lacune e delle incomprensioni che, dai conoscitori
della fonte letteraria, lasciarono interdetto il pubblico più
ampio. In effetti il film, non riesce a offrire molto allo
spettatore, oltre alla sua affascinante visionarietà: la trama e le
motivazioni dei personaggi non sembrano mai del tutto
comprensibili, la storia procede all’insegna di una lentezza a
tratti esasperante, la scelta di affidare a una voce fuori campo i
frequenti soliloqui dei protagonisti finisce per essere un
ulteriore appesantimento. A questo si aggiungono i proverbiali
‘tagli apportati in fase di montaggio’ che avrebbero ridotto il
film ai minimi termini (si favoleggia in proposito di una versione
integrale di circa sei ore, ma si tratta di una ‘leggenda’ che non
ha mai trovato conferme), che hanno forse reso ancora più criptica
una trama già di per sé intricata.
Dune il film culto di David
Lynch
La critica stroncò il film
quasi unanimemente: il film venne addirittura accusato di omofobia,
per il modo in cui era stato reso un personaggio che nel romanzo
era esplicitamente gay; negli anni è stata addirittura lanciata
l’accusa di aver contribuito a diffondere tra gli spettatori la
falsa convinzione che l’AIDS (che proprio in quegli anni
stava assumendo i connotati di una malattia di vasta diffusione)
riguardasse solo gli omosessuali.
Al botteghino le cose non andarono
meglio: Dune fu sostanzialmente un flop negli
Stati Uniti; migliore l’accoglienza in Europa: l’opera ha
avuto però maggiore successo col passare degli anni, ottenendo
buoni riscontri nel mercato dell’home video e assurgendo allo stato
di film – culto: il suo essere stato comunque un coraggioso
tentativo di affrontare un’impresa improba col tempo sembra aver
superato la sua scarsa riuscita. Frank Herbert, che collaborò
attivamente al progetto, pur riconoscendone i limiti tuttavia ha
sempre difeso il lavoro di Lynch.
Nei primi anni 2000 a
Dune venne dedicata una miniserie televisiva,
apparsa come un sostanziale remake del film, del quale riprendeva
molte scene e situazioni.
Ecco il Trailer Italino
di Grandi Speranze diretto da Mike Newell con Helena Bonham Carter,
Ralph Fiennes, Jason Flemyng, Holliday Grainger, Robbie Coltrane,
Jeremy Irvine.
Peter Greenaway
non è considerabile un regista, nel senso più restrittivo del
termine, poiché le sue sperimentazioni visive spaziano a tutto
tondo nelle arti espressive per poi confluire magicamente nel
linguaggio cinematografico. Greenaway sostiene che il cinema è
“morto”, perché in poco più di un secolo di vita non ha avuto
evoluzioni sostanziali, a differenza di quanto invece è avvenuto e
continua ad avvenire con la pittura, attribuendo la colpa ad un uso
sfrenato e commerciale della struttura narrativa, che a poco a poco
ha finito con il soffocare l’atto creativo e la ricerca
formale.
Fin dai suoi primi film la ricerca
espressiva balza immediatamente alla ribalta creando uno stile
inconfondibile ed unico, forse difficile da penetrare da parte di
un pubblico “normale”, ma deliziosamente invitante per chi decide
di farsi trascinare dai giochi enciclopedici e metaforici del
filmmaker gallese. La sua nuova fatica cinematografica “Goltzius
and The Pelican Company” è il degno coronamento di decenni di
sperimentazioni e sicuramente il punto di partenza per nuove strade
da percorrere.
La narrazione, anche se
apparentemente fondamentale, è come al solito una delle tante
impalcature che per Greenaway sostengono il materiale filmico. Ben
più importanti sono le sottostrutture, come le sei rappresentazioni
teatrali che cadenzano l’andamento del film, o i vari peccati di
natura sessuale, come l’incesto, la necrofilia, il voyeurismo, o
ancora le incisioni di Goltzius mescolate con gli schizzi dello
stesso Greenaway.
Il film racconta un episodio della
vita di Hendrik Goltzius, incisore, stampatore ed editore,
contemporaneo di Rembrandt, che è in viaggio verso l’Italia assieme
alla compagnia teatrale del Pellicano. Sulla strada decide di
fermarsi in Alsazia, ospite del margravio locale, un laido
individuo che oltre a governare e a defecare in pubblico,
sbucciando mele per le sue scimmie, si diletta di mecenatismo.
Goltzius vorrebbe convincerlo a
finanziere la realizzazione dei suoi libri con le storie
dell’antico testamento viste in maniera erotica e ambiguamente
metaforica, in particolare la storia di Lot e delle sue figlie, di
Davide e di Betsabea e di Sansone e Dalila. Il margravio però esita
a farsi convincere, così l’incisore gli propone di mettere in scena
per lui sei rappresentazioni, una per sera, insieme agli attori
della compagnia del Pellicano. Allettato dalla prospettiva di
partecipare attivamente in messinscene erotiche il Margravio
accetta. Ma la finzione si fonde con la realtà e così prende il via
un perfido gioco di sesso, sangue e potere.
Dopo il film su
Rembrandt, “Nightwatching” del 2007, Greenaway realizza il secondo
capitolo della sua personale trilogia dedicata all’arte fiamminga,
che si concluderà con un lungometraggio dedicato al visionaro
pittore Hieronymus Bosch. “Goltzius and Pelican Company” segue
inoltre un’altra importante trilogia “The Tulse Luper Suitcases”
del 2003, dove la sperimentazione visiva prendeva il sopravvento
sulla narrazione, soprattutto negli ultimi due capitoli, facendo
avvicinare l’opera più ad una complessa performance di video-arte
piuttosto che ad un film. E questo non è mio avviso un difetto,
anzi dovrebbe essere inteso come un pregio, perché le sei ore della
rocambolesca vita di Tulse Luper, racchiusa in novantadue valige
disseminate per il mondo, è un divertente viaggio enciclopedico,
visionario, surreale, a volte sconfinante nel non-sense. Peccato
che in un ambiente ormai corroso dalla mercificazione tale
colossale opera sia stata intesa come non adatta al pubblico e
quindi relegata nel limbo della non-distribuzione, eccezione fatta
per il primo capitolo della trilogia.
Il risultato visivo di “Goltzius
and Pelican Company” è a dir poco superbo. La bellezza folgorante
delle immagini si fonde con un testo profondo, ma ironico,
sovversivo, ma incredibilmente logico, dove con l’innocenza di un
fanciullo si dichiara che in fondo la parola God (Dio) atro non è
che la parola cane (Dog) letta a contrario, oppure che il detto
“una mela al giorno toglie il medico di torno” sia una conseguenza
di quanto avvenuto con Adamo ed Eva. Il tutto giocato in una
ammiccante ambiguità tra teatrale e reale, tra messinscena e gioco
di ruolo, che permette di fare quello che altrimenti non sarebbe
lecito, o meglio dignitoso. I personaggi si mascherano, pur
rimanendo perfettamente riconoscibili, e sotto questo effimera
anonimato, si abbandonano ai desideri più morbosi e agli atti più
efferati. Ma il gioco sembra sfuggire loro di mano. E quando il
labile copione viene sconvolto con l’inserimento forzato di una
storia dal nuovo testamento, quella di Salomè e Giovanni Battista,
gli stessi protagonisti sembrano subire una tragica crisi di
identità, non distinguendo più i confini della
rappresentazione.
La tecnologia digitale è di valido
supporto alla pittura su schermo di Peter Greenaway che riesce a
sviluppare le ricerche visive iniziate con il suo ormai lontano
“Prospero’s Books” (L’ultima Tempesta) del 1991, che accostato a
questa nuova opera appare oggi quasi un taccuino di schizzi.
Ma le sue sperimentazioni partono
da molto prima, anche in tempi non sospetti, quando l’uso di
tecnologie di manipolazione dell’immagine era ancora da
considerarsi fantascienza. Come non pensare ad una delle scene
chiave di “The Belly of an Architect” (Il ventre dell’architetto)
del 1987, dove il protagonista scopre di essere stato seguito e
fotografato dalla sua amante per mesi durante la sua permanenza a
Roma. In tale scena la storia del film è condensata in pochi
secondi attraverso una serie di collage fotografici reali, montati
in una successione di piccoli carrelli laterali sottolineati dalla
splendida musica di Wim Mertens; sembra quasi una dichiarazione
d’intenti, in attesa di una tecnologia adeguata che permetta di
manipolare il materiale filmico.
C’è da dire inoltre che le
sperimentazioni di Greenaway iniziano molto prima, con le sue prime
opere come “The Falls” del 1980 o “Vertical Feature Remake” del
1978, dove i suoi disegni, la sua pittura, le sue fotografie si
integrano con materiale filmico assumendo una nuova identità
espressiva.
In “Goltzius and Pelican Company”
il compositing si fa complesso, multistratificato, con intarsi
estremamente complessi e green-screen al servizio dell’arte
espressiva e non degli effetti spettacolari. Come in “Prospero’
books” , in “Pillow’s Books” e in “Tulse Luper Suitecases”,
l’immagine nell’immagine rompe il concetto di montaggio
tradizionale a stacco e sovverte le regole legate alla continuità
temporale, proponendo simultaneamente diverse viste della stessa
rappresentazione. Lo spazio esplode, si disintegra e si ricompone
digitalmente in un collage visivamente esaustivo, che sembra
seguire contemporaneamente gli enunciati delle principali
avanguardie artistiche storiche del novecento.
In alcuni momenti
entrano addirittura in gioco modellazioni in 3D volutamente
dichiarate come tali e lasciate in uno stadio intermedio, per voler
dare un senso straniante di progettazione architettonica che
irrompe nelle realtà. E’ bello vedere dichiarato tale artificio,
che nei film destinati alla normale distribuzione si cerca invece
affannosamente di farlo sembrare il più reale possibile. Per
Greenaway i personaggi sono liberi di muoversi nell’artificio, tra
obelischi disegnati e gabbie digitali, in una sorta di “graphic
novel” che sembra uscita dalle mani di Piranesi.
Goltzius, Rembrandt e tutta una
folta schiera di artisti citati esplicitamente o negli stupefacenti
giochi di collages digitali esprimono la loro arte avendo a
disposizione una tavolozza tecnologica che ai loro tempi non
sarebbe stata minimamente pensabile. E infatti Greenaway apre il
suo film con una breve disquisizione proprio sull’evoluzione delle
tecniche e delle tecnologie espressive.
Anche la scelta delle ottiche
subisce un evoluzione sostanziale. Fino a questo momento Greenaway
prediligeva ottiche medie che restituissero una esatta percezione
di quanto inquadrato e senza forzature prospettiche. Ma in
“Goltzius and Pelican Company” la visione si allarga, le ottiche
divengono sempre più corte, fino ad esibire delle splendide riprese
in fish-eye, quasi a voler sottolineare con tale scelta l’aspetto
voyeristico delle rappresentazioni.
La storia si svolge
all’interno della corte del margravio, genialmente ricostruita, o
meglio adattata in una vecchia fabbrica dimessa, con caldaie a
vapore, vasche d’acqua stagnante e tutto un fantasmagorico
patrimonio di archeologia industriale che magicamente si sposa con
l’epoca barocca grazie al lavoro dello scenografo Ben Zuydwijk e
dei costumisti Marrit Van Der Burgt e Blanda Budak. Il concetto di
rigore storico è dimenticato, le epoche si sovrappongono e si
mescolano, ma tutto rimane credibile, perché in fondo è giusto
raccontare il passato tenendo ben presente tutto quello che è
intercorso tra la nostra epoca e i fatti narrati, anzi sarebbe
disonesto il contrario.
Le splendide musiche dell’italiano
Marco Robino, insieme al suo gruppo “Gli Architorti”, accompagnano
egregiamente questa messinscena di sapore elisabettiano ibridata
con le atmosfere di Brecht e Weill.
La Mirada, compagnia di effetti
visivi di Guillermo Del Toro, impegnata a lavorare su
Pacific
Rim, ha pubblicato un video promozionale in cui espone
le tecniche di animazione e la tecnologia che usa per realizzare i
propri prodotti.
In questo video, oltre
all’intervento di Del Toro in persona, possiamo vedere anche un
robot gigante che lancia missili dalle braccia. Che sia la prima
volta che diamo un’occhiata a Jaegers, robot gigante di
protagonista del prossimo film di Guillermo?
Così come era successo per l’uscita
del film, anche l’arrivo della versione Home Video de Il cavaliere oscuro – Il
ritorno sta generando una valanga di notizie e di
aspettative.
Oggi vi mostriamo, tramite The Sun,
un video tratto dai contenuti speciali del DVD in cui si mostra la
trasformazione che Tom Hardy ha subito per dare vita al suo
tremendo Bane.
Ecco il video: Il Cavaliere Oscuro
Il Ritorno uscirà in Home Video il prossimo 4 dicembre.
Metropolis è
un film del 1927 diretto da Fritz
Lang e con protagonisti Alfred Abel (Johann
Fredersen), Gustav Frohlich (Freder Fredersen), Brigitte Helm
(Maria) e Rudolf Klein-Rogge (Rotwang).
Trama: 2026. La
città di Metropolis è divisa in due: ai piani
alti, negli imponenti grattacieli, vivono i ricchi ei dirigenti; in
basso, negl’inferi della città industriale, intere masse di
individui ridotti quasi ad automi e costretti a lavorare senza
requie né speranza. Al vertice di Metropolis c’è
Johann Fredersen, magnate e austero padrone della città. Suo figlio
Freder vive una spensierata giovinezza tra le morbide anse di
lussuosi giardini, ignaro della logica rigidamente e violentemente
classista che governa la società in cui vive; una realtà che il
giovane comincia a scoprire dopo l’incontro con Maria, una
splendida ragazza proveniente dalle profondità operaie convinta che
le condizioni delle masse sfruttate possano essere risollevate
soltanto grazie all’intervento di un salvifico mediatore. Un ruolo
nel quale, passando per una violenta rivolta – ad accendere la
miccia, un automa identico a Maria, veicolo delle vendicative mire
del suo inventore Rotwang – sarà possibile riconoscere Freder,
giunto a una decisiva maturazione.
Analisi: Pellicola
costosissima e tanto amata da
Hitler, Metropolis ci traghetta in futuro che
Lang dipinge guardando cent’anni avanti. Un 2026 per noi dietro
l’angolo e nel quale sarà difficile – come e più di oggi – guardare
un’opera come Metropolis senza la minaccia costante dello
sbadiglio. Non ce ne vogliano Fritz e la sua signora, Thea von
Harbou, le pregevoli menti che stanno dietro al film: la colpa non
è loro, ma i tempi cambiano, e il mondo a portata di click non ha
abbastanza pazienza per sopportare intertitoli e muto (poco cambia
scegliendo una delle tante sonorizzazioni).
Metropolis –
il film capolavoro di Fritz Lang
Detto
questo, Metropolis è un indiscusso gioiello
espressionista e un’opera d’arte che respira a pieni polmoni aria
di Novecento. Trionfo di geometrie imprendibili, creatura stillante
vapori industriali, sinfonia cittadina che si concede una trama e
che non smette per un attimo – come darle torto – di amare il
nuovo, pericoloso e affascinante mondo della tecnica e
dell’automazione.
Metropolis non è
così manicheo e retorico come a volte è stato detto, e come si
potrebbe pensare dalle prime battute; anzi, soprattutto per quanto
concerne la rappresentazione delle masse, del “popolo”, la coppia
Lang/von Harbou evita bagni di candore e, pur portando sullo
schermo una situazione di sfruttamento ben riscontrabile nel mondo
d’allora (magari anche nel nostro, purché ci si allontani un po’ da
casa), non ci consegna una creatura costruttrice del suo bene e di
quello della società, ma un soggetto tumultuoso, pigro, capace di
ciechi spasmi. E, soprattutto, bisognoso di un mediatore, una
figura che ne indirizzi e controlli l’azione e i sentimenti.
Memorabile e testimone dell’arte di
Lang la breve sequenza dello spogliarello del robot-Maria in un
bordello d’elìte; con notevole perizia tecnica, in questo frangente
s’intrecciano l’ardito strip dell’automa, le sofferenze del povero
Freder costretto a letto e preda di allucinazioni e gli occhi
bramosi dei ricchi avventori, le cui pupille invadono e tappezzano
lo schermo grazie a un certosino lavoro in stop-motion.
Metropolis: un
film da vedere. Una volta, una sola, prima che sia fisiologicamente
troppo tardi.
Metropolis al
cinema fu proiettato per la prima volta il 10 gennaio
1927 all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino.
Note. film muto del 1927
diretto da Fritz Lang, considerato il capolavoro del regista
austriaco. È tra le opere simbolo del cinema espressionista ed è
universalmente riconosciuto come modello di gran parte del cinema
di fantascienza moderno, avendo ispirato pellicole quali
Blade Runner e Guerre
stellari.
10 Curiosità sul film
Metropolis
La produzione impegnò la troupe
per diciannove mesi: trecentodieci giorni di riprese.
Sessanta notti furono necessarie
per produrre 600.000 metri di pellicola.
Erich Pommer e la casa di
produzione UFA non badarono a spese per la lavorazione, assoldando
36.000 comparse.
La lavorazione si protrasse dal 22
maggio 1925 al 30 ottobre 1926.
I Numeri: Vennero girati 620.000
metri di negativo, e impiegati (secondo la pubblicità) 8 attori di
primo piano, 25.000 uomini, 11.000 donne, 1.100 calvi, 750 bambini,
100 uomini di colore, 3.500 paia di scarpe speciali, 50
automobili.
L’investimento superò i 5 milioni
di marchi tedeschi di allora.
Queste spese non vennero coperte
dagli introiti della distribuzione, tanto che la UFA andò in
bancarotta
Alfred Hugenberg, editore e membro
del Partito Nazista, comprò la casa di produzione trasformandola in
parte nella macchina propagandistica del nazismo.
Moonrise Kingdom – una
fuga d’amore è l’ultimo lavoro del regista texano Wes
Anderson il quale riesce a coinvolgere per questa commedia un cast
assolutamente eccezionale e di prim’ordine.
In Moonrise Kingdom – Una
fuga d’amore in una piccola isoletta al largo delle coste
del New England, la tranquillità che solitamente regna sovrana
viene turbata e stravolta da un fatto tanto insolito quanto
imprevisto: il giovane Sam (Jared Gilman) uno
scout del campo 55, capitanato dal Capo Scout Ward (Edward
Norton), è misteriosamente scomparso.
Vengono immediatamente avvisate le
autorità, che nella fattispecie sono impersonate e rappresentate
dal triste e spaesato comandante Sharp (Bruce
Willis) il quale non fa in tempo ad iniziare le
ricerche che gli si presenta un’altra gatta da pelare: anche Suzy
(Kara Hayward) ,la figlia dodicenne dei
coniugi Bishop (Bill
Murraye Frances Mc Dormand), è inspiegabilmente
sparita di casa. Non sarà difficile capire che i due ragazzi hanno
organizzato insieme una fuga nella foresta. Tutta la comunità,
giovani scout compresi, sarà coinvolta nelle operazioni di
ritrovamento e sarà solo l’inizio di una serie di incredibili
eventi.
Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore:
il film
Il film narra la storia di un amore
giovanile, di una magica estate americana in cui due ragazzi di
dodici anni capiscono per la prima volta cosa voglia dire amare
qualcuno; un amore romantico, elegante e semplice. È la
storia della loro fuga, una fuga da vite solo apparentemente
normali ma che in realtà nascondono solitudine, tristezza e
incomprensione. Il giovane Sam è un orfano affidato ad una coppia
che non si cura di lui mentre Suzy è un’introversa adolescente
senza amici e che odia la sua famiglia.
I due protagonisti, al debutto sul
grande schermo, non sembra abbiano pagato lo scotto dell’emozione
dell’esordio e sopratutto di trovarsi circondati da tanti mostri
sacri del cinema più o meno recente. Intorno ai due giovani
innamorati possiamo ammirare le divertenti quanto mirabili
interpretazioni di un Bruce Willis, insolitamente dimesso e
arrendevole, così come di un Edward Norton in divisa di scout, molto
diverso e lontano dal muscoloso e accigliato protagonista di
American History X. Quindi la solita
eccellente Frances McDormand moglie disillusa di un
eccentrico quanto depresso Bill Murray.
Il giovane Jared
Gilman e la già intrigante Kara Hayward
mostrano personalità e talento interpretando con originalità ed
efficacia personaggi non propriamente comuni. E qui il merito va
essenzialmente ad Anderson regista eccentrico e versatile che
disegna, con la sua solita maestria, una schiera di personaggi
assolutamente non convenzionali e fuori dagli schemi o, in alcuni
casi, anche troppo normali. Uno dei punti di forza del film risiede
proprio nella nitidezza e nella particolarità con cui sono
presentati i vari personaggi, una peculiarità che non può non
riportare alla mente a I Tenenbaum
altra bellissima commedia firmata da Wes Anderson.
La sceneggiatura, scritta a quattro
mani tra il regista e Roman Coppola ( con cui
Anderson aveva già collaborato in Un treno per
Darjeeling) spinge il film in un continuo susseguirsi e
alternarsi di dramma e commedia, situazioni farsesche e di grande
riflessione. Questo eclettismo fa del film una storia completa, che
soddisfa i gusti più vari anche se nel finale forse si allontana
troppo dalla logica a favore dell’assurdo. Assolutamente da
sottolineare il meraviglioso lavoro scenografico necessario per
ricostruire la tipica provincia americana di metà anni ’60
riproposta fedelmente in ogni minino e più microscopico dettaglio.
Un’ambientazione riuscitissima e determinante per conferire al
film, in particolar modo alla fotografia, una patina realmente
datata e verosimile.
Moonrise Kingdom – una
fuga d’amore è una commedia divertente e al contempo
profonda che merita indubbiamente di essere vista e che potrete
vedere nei cinema italiani a partire dal prossimo 5 dicembre grazie
alla Lucky Red distribuzione.
Nonostante sia passato più di un
anno dall’uscita di Thor, continuano a venire fuori materiali
inditi del film, anche adesso che il secondo film è in fase
avanzata di
Come annunciato appena ieri, ecco arrivato il
trailer originale di Jack the Giant
Slayer, film diretto da Bryan Singer
e basato sulla famosa fiaba di Jack e il
Il regista Ken Loach, fra gli ospiti
più importanti dell’edizione 2012 del Torino Film Festival annuncia
la sua assenza e rifiuta il Premio assegnatogli. Ecco la nota dello
stesso Festival:
Ecco il Trailer di
Ghost Movie, il nuovo film dei creatori di
Scary Moviecon Marlon Wayans. La pellicola arriva al
cinema il 17 gennaio: preparatevi a ridere come posseduti!
Trama: Nel 2019,
in una Tokyo che ancora risente della Terza Guerra Mondiale, in una
società sull’orlo dell’anarchia, in cui l’esercito è diventato
l’unico potere veramente stabile, si muovono bande di motociclisti
imberbi in perenne lotta tra di loro:
una di queste è cappeggiata da
Kaneda e vede trai suoi componenti Tetsuo, che nei confronti del
capobanda nutre un misto di ammirazione e di invidia, per non
riuscire ad essere bravo quanto lui. A seguito ad uno strano
incidente, Tetsuo sembra scomparire, portato via dall’esercito;
mentre Kaneda, accompagnato da Kai, una ragazza conosciuta nel
frattempo, si mette alla ricerca dell’amico, quest’ultimo,
sottoposto a vari esperimenti, si scopre in possesso di poteri
straordinari, perdendone rapidamente il controllo e mettendosi alla
sua volta alla ricerca di Akira, un individuo del
quale ha sentito parlare durante gli esperimenti, e che ritiene in
grado di fornirgli risposte sulle sue capacità: lo stesso
Akira che, secondo alcune voci ha scatenato
la guerra e che altri da viene considerato una sorta di messia,
destinato a tornare per purificare il mondo dall’ingiustizia…
Akira, l’analisi
Analisi: Nel 1998,
Katsuhiro Otomo porta sugli schermi il suo opus
magnum, precedentemente uscito come manga, dopo il successo senza
precedenti ottenuto non solo in Giappone, ma anche in Europa e
negli Stati Uniti, dove venne distribuito dalla Marvel. Akira, è
per innumerevoli motivi, una pietra miliare del cinema di
animazione, riuscendo a sfondare, come nessun film aveva fatto fino
ad allora l’ideale ‘muro’ che (con le eccezioni delle serie a
episodi) aveva diviso i mondi dell’animazione giapponese e
americana.
Traendo linfa dal successo della
versione cartacea, Otomo schiude davanti allo sguardo degli
spettatori occidentali un tipo di animazione nuova per gran parte
del pubblico delle sale cinematografiche, non solo per la
prodigiosa veste grafica ed il realismo dei personaggi ma anche per
i temi trattati: in una storia con protagonisti degli adolescenti,
vengono affrontati i temi dei limiti della scienza, dell’abuso di
potere da parte dei militari, tra ansie millenariste (siamo
nell’88, alle soglie del nuovo millennio) e fanatismo religioso,
assieme a interrogativi filosofici sull’origine della vita, e al
consueto tema dell’orrore della guerra saldato a quello dell’incubo
nucleare, vissuto dai giapponesi sulla propria pelle, e vero filo
conduttore di tutta la fantascienza – animata e non – del Sol
Levante.
Akira
sancisce dunque lo sdoganamento dell’animazione come cinema non più
per ‘adulti che accompagnano i figli’, ma che proprio al pubblico
adulto, per temi e situazioni finisce per essere destinato, oltre a
riportar, per certi aspetti, delle atmosfere cyberpunk nelle
sale, qualche anno dopo Blade Runner. Un film la cui fantasmagoria
visiva riempe gli occhi, e che è puntualmente inserito nelle
classifiche all-time, oltre ad essere considerato un capolavoro,
oltre che del cinema di animazione, anche di quello di fantascienza
ampiamente inteso. Da ricordare anche l’efficacissima ed evocativa
colonna sonora, scritta da Shoji Yamashiro ed eseguita dal
collettivo Geinoh Yamashirogumi.
Rappresenta inoltre una sorta di
‘salto evolutivo’, per le soluzioni tecniche adottate, per l’epoca
all’avanguardia: in esso e stata sperimentata per la prima volta su
larga scala la CGI, cui si aggiunge la cura maniacale per le
scenografie, le ambientazioni, la resa incredibilmente
‘naturalistica’ dei personaggi; riguardo a questi ultimi, altra
importante innovazione, poi adottata in seguito anche dalla Disney,
è quella di registrare il doppiaggio prima della realizzazione
delle animazioni, in modo da poter sincronizzare il movimento
labiale dei personaggi alle loro voci. Un film ‘storico’
anche per le risorse economiche impiegate: frutto della
collaborazione di alcune più importanti case cinematografiche
giapponesi, costò all’incirca un miliardo di yen contro una media
che a quei tempi si aggirava attorno ai due-trecento milioni.
Da qualche anno si torna
periodicamente a parlare di un eventuale remake in live-action del
film; tuttavia il progetto non è mai decollato: l’idea si è infatti
più volte arenata nel momento in cui, volendone fare un colossal
con il proverbiale cast stellare, sono state puntualmente sollevate
perplessità che ciò includerebbe di dare ai personaggi un’età molto
superiore a quella dei protagonisti originali, finendo per
snaturare la stessa essenza della storia.
Viaggio nella Luna
è il film culto del 1902 di Georges Méliès
con Georges Méliès, Henri Delannoy, Victor
André e Bleuette Bernon
Anno: 1902
Regia: Georges Méliès
Cast: Georges
Méliès, Henri Delannoy, Victor André, Bleuette Bernon
Trama: Un
gruppo di scienziati si riunisce per discutere del progetto di
mandare un’astronave sulla Luna; dopo aver dato il via libera
(quasi) all’unanimità, l’impresa prende il via. Una volta costruita
la navicella, e dopo averla letteralmente sparata in orbita con un
cannone, l’equipaggio atterra sul satellite e si addentra nelle sue
profondità, solo per scontrarsi coi suoi abitanti, i Seleniti,
venendone catturato, ma riuscendo prontamente a fuggire, dopo
averne eliminato il re. L’equipaggio riesce a tornare sano e salvo
sulla Terra, assieme a un selenita che si era aggrappato alla
navicella, venendo portato in trionfo, e l’impresa celebrata con la
realizzazione di una statua a futura memoria.
Viaggio nella
Luna
Analisi: Quindici
minuti circa (dipende dalle versione, alcune delle quali prive
delle scene finali) per fondare un genere e lasciare un’impronta
indelebile nella storia del cinema: nel 1902 agli albori o quasi
della storia della settima arte, Georges Méliès è
il primo a imprimere sulla pellicola il sogno che per millenni è
stato solo narrato a voce o sulla carta, da La storia vera
di Luciano di Samosata a Dalla Terra alla
Luna di Verne, cui il Viaggio è liberamente ispirato. Un
quarto d’ora, muto e in bianco e nero (anche se ne esiste una copia
a colori – ovviamente colorata a mano – oggetto di un minuzioso
durato oltre un decennio e portato a termine solo nel 2011), nel
corso del quale vengono ‘fissati’, a livello embrionale, tanti
‘luoghi comuni’ del cinema di fantascienza: dal gruppo di
scienziati che si riunisce per un’impresa apparentemente
impossibile, all’incontro con le razze aliene, fino al trionfale
ritorno a casa.
Come il suo predecessore
Verne, anche Méliès riesce in una qualche misura a precorrere
i tempi: la navicella spaziale assomiglia in effetti alla capsula
di salvataggio con la quale i Armstrong e soci ammararono al
ritorno della prima, vera missione lunare, mentre la sfilata
trionfale lunare lascia presagire quella realmente avvenuta
sessantasette anni dopo.
Articolato in
diciassette ‘quadri’, ossia in scene a sè stante,
autoconclusive, girate con inquadratura ‘fissa’ usando una
cinepresa Lumière priva di mirino, e quindi cercando di ‘centrare’
la ripresa grazie usando solo l’esperienza e un pò affidandosi al
caso, Viaggio nella Luna è anche il primo esempio
di uso massiccio di effetti speciali, per l’epoca
all’avanguardia.
Visto oggi, certo l’impatto
iniziale è di assistere quasi con tenerezza alla artigianalità
degli effetti speciali e alla ingenuità di certe situazioni (una
Luna sulla quale ad esempio si cammina e si respira come se fossimo
sulla Terra), frutto anche della ancora scarsa conoscenza dello
spazio, ma prima della fine del film non si può non farvisi
affascinare, consapevoli di trovarsi davanti a un pezzo di storia,
specie davanti ad alcune sequenze che in oltre un secolo di arte
cinematografica sono ormai assurte a uno status quasi mitologico, a
cominciare da quella, ultracelebre, del ‘faccione’ della Luna
sfigurato dall’arrivo della navicella spaziale.
Viaggio nella Luna
è d’altra parte entrato nel nostro immaginario, al punto da essere
ciclicamente citato non solo nel cinema (buon ultimo Martin
Scorsese nel suo Hugo Cabret ha raccontato proprio la genesi di
quel film e dalle nostre parti, seppur in una situazione volta in
farsa, non si può non pensare che nel suo Fascisti su
Marte, Corrado Guzzanti non abbia pensato
almeno una volta all’illustre capostipite), ma anche nella musica:
da ricordare come gli Smashing Pumpkins abbiano
omaggiato il film nel video della loro Tonight Tonight e la colonna
sonora che i francesi Air hanno composto ex novo in occasione della
presentazione della versione restaurata al Festival
di Cannes del 2011.
Per finire, Viaggio nella
Luna rappresenta uno dei primi, se non il primo, caso di
‘violazione del copyright’ nel mondo del cinema: fu infatti Thomas
Edison a trarne una copia illegale, distribuendolo poi negli Stati
Uniti: insomma, dai tempi di Méliès a quelli del filesharing le
cose sono in fondo cambiate meno di quanto si pensi…
Dredd – La Legge sono
io è un film di fantascienza del 1995 diretto da
Danny Cannon e nel cast
protagonisti Sylvester
Stallone, Armand Assante, Rob Schneider, Diane Lane, Max Von
Sydow, Joanna Myles
Trama: Nel
classico futuro lontano-ma-non-troppo, la Terra è ridotta a un
deserto nucleare nel quale sopravvivono poche megalopoli, in cui i
superstiti vivono ammassati e sottoposti al dominio della casta dei
Giudici, che assommano in sè le prerogative di poliziotto,
giuria e boia, eseguendo le pene – spesso capitali – sul posto, in
genere in modo sommario e sbrigativo.
In questo scenario si muove
il Giudice Joseph Dredd, vittima di una serie di macchinazioni, che
lo porteranno prima a essere accusato di un crimine non commesso e
successivamente a scoprire una sconvolgente verità sulla sua stessa
esistenza, per poi tornare alla riscossa, riabilitarsi e mettere in
luce le crepe di un sistema che, nato per impedire a quel poco di
società ‘civile’ rimasto di cadere nell’anarchia, si è rapidamente
trasformato in un regime dittatoriale.
Analisi – Dredd – La
Legge sono io uscito in Italia col solito,
discutibile sottotitolo (La legge sono io appare citare il titolo
del quasi omonimo western con protagonista Burt
Lancaster) appartiene alla categoria dei film ispirati a
fumetti usciti prima dell’esplosione del genere tra la fine degli
anni ’90 e l’inizio del decennio successivo.
Poco conosciuto qui da noi,
Judge Dredd è in effetti un personaggio
dall’importanza capitale nella storia del fumetto
pseudo-supereroistico. Nato alla fine degli anni ’70 sulle pagine
della rivista britannica 2000 AD (che nel corso degli anni ha
tenuto a battesimo autori del calibro di Alan Moore, Neil
Gaiman, Garth Ennis e Grant Morrison), Judge Dredd è
un personaggio che viola molti dei principi del supereroe ‘senza
macchia e senza paura’: un uomo violento adatto a tempi violenti,
al servizio di un regime autoritario e dittatoriale, ma non per
questo privo di propri principi morali che lo portano
talvolta a scontrarsi col sistema di cui fa parte.
Dredd – La Legge sono
io
I creatori del
personaggio, lo scrittore John Wagner e il disegnatore Carlos
Ezquerra, prendono spunto dal futuro distopico in cui sono
ambientate le gesta del loro ‘antieroe’ per riflettere sulle
storture e sui rischi di deriva autoritaria delle democrazie
occidentali: una visione che si sarebbe ulteriormente accentuata
con l’avvento al potere della Thatcher e che per certi versi rende
Judge Dredd un antesignano di capolavori come
Watchmen e V for Vendetta di
Alan Moore, o Il Ritorno del Cavaliere
Oscuro di Frank Miller.
Un personaggio con una storia di
tutto rispetto, e soprattutto con un posto ben preciso nella storia
dei ‘comics’ : alla luce di tutto ciò, il trattamento riservatogli
nel film appare abbastanza misero, riducendosi a poco più
dell’ennesima occasione offerta a Sylvester Stallone per gonfiare i muscoli e
recitare la parte dell’eroe senza paura,che vive il classico
percorso di caduta e rinascita.
La regia di Dredd – La
Legge sono io è affidata a Danny Cannon, per il quale
Dredd, assieme A Young Americans, resta il titolo più significativo
di un curriculum piuttosto scarno.
Il cast assembla volti più o meno
noti: Armand Assante nel ruolo del cattivo di
turno, in quello degli alleati del protagonista Rob
Schneider e Diane Lane (quest’ultima coi tipici risvolti
sentimentali)
senza negarsi il ‘pezzo da 90’
tipico di queste occasioni, stavolta nelle fattezze di Max
Von Sydow. Il tutto all’insegna di caratteri
stereotipati e di uno svolgimento consunto e prevedibile, nel quale
poco o nulla è rimasto dello spirito dell’originale cartaceo.
Non a caso, del resto, il
Judge Dredd presentato nel film è stato totalmente
disconosciuto dal creatore del personaggio John Wagner, e
naturalmente anche dei lettori, rendendo il film uno dei peggiori
adattamenti da fumetto che si ricordino. Non migliore è stata
l’accoglienza al botteghino (113,5 milioni di dollari l’incasso
complessivo a livello mondiale), anche nei confronti di Stallone,
che per l’interpretazione ha ricevuto una nomination al Golden
Rabsperry Awards per la peggiore interpretazione.
Dredd, nel 2012 arriva il
remake
Nel settembre 2012 , puntando
sull’attuale successo del genere, è uscita nelle sale
americane una nuova versione cinematografica del personaggio, per
la regia di Pete Travis e l’interpretazione di
Keith Urban. L’accoglienza è stata decisamente
migliore rispetto al suo predecessore, sebbene l’essere vietato ai
minori di 18 anni negli USA ne ha limitato le potenzialità
commerciali; tuttavia ciò ha permesso di rendere il personaggio
molto più vicino all’originale rispetto al predecessore,
conquistandogli giudizi molto più positiva sia dalla critica che
degli appassionati.
Per il momento, ovviamente, si
tratta solo di indiscrezioni, per quanto allettanti: il secondo e
terzo capitolo della nuova trilogia di Guerre
Stellari potrebbero contare su due firme d’eccezione:
da un lato, il veterano Lawrence Kasdan potrebbe
lavorare alla sceneggiatura del numero otto; dall’altro
Simon Kinberg, recente autore di
Sherlock Holmes, potrebbe occuparsi del
nono film della serie.
La Disney
naturalmente non ha commentato la notizia che, se fosse vera,
sarebbe indubbiamente positiva, specialmente per quanto riguarda
Kasdan, che ha già lavorato all’Impero colpisce
ancora e Il Ritorno dello
Jedi.
Il nome Kinberg suscita commenti
altrettanto positivi: trai suoi ultimi lavori c’è tra l’altro il
sequel di X-Men: First Class.
Comincia a muovere passi in avanti il nuovo film di
Gregg Araki: dapprima conosciuto semplicemente
come White Bird, il lavoro si intitolerà White Bird In
A Blizzard; nel cast, oltre a Shailene
Woodley, nome già fatto in passato, arrivano ora
Christopher Meloni, Eva Green,
Shiloh Fernandez e Gabourey
Sidibe.
Poco si sa sulla trama, se non che Woodley sarà una giovane
donna la cui vita viene sconvolta dalla sparizione della madre. Il
film, la cui sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Araki, si
trova ora nella fase di pre-produzione. Le riprese dovrebbero
comunque cominciare a breve e in tutti i casi prima dell’impegno di
Shailene Woodley sul set del sequel di Amazing Spider-Man
Christopher Meloni, volto noto della tv grazie al suo ruolo in
Law And Order – Unità Vittime Speciali, ha al momento in agenda
parecchi lavori per il grande schermo tra cui il drammatico 42, la
commedia They Came Together e soprattutto The Man of Steel.
Ecco a seguire una valanga di foto
del film Cloud Atlas, attesissima opera
cinematografica tratta da L’atlante delle nuvole di David Mitchell
e diretto da Andy
Pedro Almodovar alle prese con la fantascienza:
a prima vista improbabile, ma poi neanche tanto, visto che il
regista nel corso della sua carriera ha mostrato poter giostrare
agevolmente trai generi, arrivando recentemente a percorrere
territori horro in La pelle che
abito.
A rivelare la possibilità è stato
lo stesso Almodovar, in occasione del ritiro – in ritardo – del
premio BAFTA ricevuto proprio per La pelle che abito, come miglior
film non in lingua inglese; nel corso della stessa parentesi
londinese, Almodovar ha anche tenuto una lezione presso il David
Lean Institute, parlando delle proprie influenze
cinematografiche.
Riguardo la possibilità di un
film di fantascienza, Almodovar ha
affermato di voler presentare qualcosa di impossibile in un modo
estremamente realistico, ‘domestico’. Una sceneggiatura è già sulla
scrivania, e spera di poter dare seguito al
progetto. Almodovar del resto, ha citato
L’Invasione degli Ultracorpi tra le
pietre miliardi della storia del cinema. Il suo prossimo film, la
commedia I’m So Excited, Penelope Cruz,
Paz Vega e Antonio Banderas e
attesa nelle sale per la prossima estate.
Nonostante sia stato recentemente legato al possibile film
dedicato a MacGyver, James
Wan sembra avere al momento tutt’altri progetti in
cantiere: sarà infatti impegnato nel seguito, confermato, di
Insidious, film che l’ha portato alla
notorietà internazionale.
Con lui, confermato gran parte del cast del primo episodio:
Patrick Wilson, Rose Byrne,
Lin Shaye e Ty Simpkins.
Leigh Whannell scrive la sceneggiatura, produce
Jason Blume.
Che Insidious avrebbe avuto un seguito appariva abbastanza
scontato, dopo i 97 milioni di dollari raccolti a livello mondiale
a fronte di un costo di solo 1,5 milioni. La trama del primo film
vedeva Wilson e Byrne nel ruolo di due genitori che dapprima
credevano di essersi trasferiti nella classica casa stregata, per
poi scoprire che ad essere vittima della persecuzione di un’entità
oscura era il loro stesso figlio.
Al momento non vi sono chiarimenti su quale sarà la trama del
secondo capitolo, sebbene la conferma del cast lasci prevedere che
per la famiglia Lambert i problemi non siano affatto finiti.
L’inizio delle riprese è fissato per il prossimo 15 gennaio, in
vista di un’uscita prevista per il 30 agosto.
Fonte: Empire
Un documentario collettivo dedicato
a Bruce Springsteen, costruito grazie ai
filmati inviati dagli appassionati: è il progetto
Springsteen and I, commissionato dalla
Black Dog Films di Ridley Scott; l’uscita è
prevista per il prossimo anno.
A selezionare la mole (che, si
suppone, sarà enorme) del materiale raccolto sarà il regista
Baillie Walsh (Flashbacks Of A
Fool), che userà come spirazione Day In A
Life di Kevin Macdonald, altro
documentario creato grazie alla raccolta di filmati in rete. La
filosofia di Springsteen and I sarà simile: gli appassionati sono
invitati a registrare brevi video nel quale narrino il rapporto che
li lega al Boss, in un progetto globale, da cui emergeranno i
motivi che hanno portato Springsteen ad essere amato non solo suolo
americano, ma anche nel resto del globo, dal Regno Unito alla
Corea.
I filmati dovranno avere una
lunghezza massima di cinuqe minuti ed essere caricati direttamente
presso il sito www.springsteenandi.com, in
una vasta gamma di formati, da quelli girati con gli smartphones a
quelli prodotti utilizzando le più moderne telecamere ad alta
definizione; sarà inoltre possibile inviare semplici foto. C’è
tempo fino al 29 novembre.
Walsh ha affermato che Springsteen
è una grande narratore, che provoca sempre un qualche tipo di
reazione nei propri fan: lo scopo del progetto è mostrare in che
modo la musica del Boss incida sulla vita delle persone.
La Lionsgate ha pubblicato uno
splendito poster animato di The Hunger Games: Catching Fire,
il sequel della saga con protagonista Jennifer Lawrence e Josh
Hutcherson.