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Intervista a Raoul Bova e Moccia

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D: Partiamo della genesi di questo tuo sequel di “Scusa ma ti chiamo amore”. Qual è stato il tuo obiettivo?
FEDERICO: “Scusa ma ti voglio sposare” è un film che cerca di far convivere al meglio dinamiche di coppie che rappresentano gli elementi più diversi dell’amore: la passione, la voglia di buttarsi in una nuova storia,

 

Scusa ma ti voglio sposare – recensione

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Scusa ma ti voglio sposare è il seguito della storia d’amore tra Alex (Raoul Bova), pubblicitario trentanovenne di successo, e Niki (Michela Quattrociocche), ora ventenne, conosciuta in un incidente stradale. AI faro si sono promessi amore eterno, e adesso, dopo 3 anni, Alex capisce che nonostante la differenza di età, lei è la donna che vuole sposare. Ritroviamo i loro amici di sempre, ognuno con le proprie storie, ognuno con le proprie attività, ognuno a confronto con la propria crescita, i propri sogni e progetti per il futuro. Alex chiede a Niki di sposarlo, e lei, all’inizio felice, con l’avvicinarsi della data, sente una paura crescente che le fa fare un passo sbagliato: manda a monte il matrimonio.

E’ sicuramente difficile recensire un film di Federico Moccia senza passare per superficiale, anche perchè volente o nolente il buon Moccia si è inserito velocemente nella sacra triade italiana dei registi più criticati assieme a Vanzina ed a Muccino. Ed è proprio a quest’ultimo che questo Scusa ma ti voglio sposare sembra fare il verso ora che Alex e Niki vogliono convolare a nozze.

Indubbiamente il regista scrittore ha il merito di aver riportato in massa gli adolescenti al cinema e sui libri e di aver messo in discussione il loro universo in relazione anche ai genitori che si sono sentiti in un certo qual modo messi sotto osservazione. Ciò non toglie che fare cinema è un arte e presuppone la crescita di un artista di pellicola in pellicola e non una serie di storie in antitesi con la parola evoluzione e crescita artistica. Fondamentalmente la coppia protagonista non è più così al centro dell’attenzione come nel prequel, attorno a loro vive un sottobosco di personaggi (amici di lei e di lui) in piena crisi di coppia o di identità.

Così come sottolineato dallo stesso regista scrittore in sede di intervista, si è voluto dare spazio a tutti i personaggi del libro cercando di mantenere il film snello e breve per non appesantire lo spettatore, purtroppo il tutto è visto con poca profondità, senza svelare cambiamenti, percezioni, paure che nella vita di una persona sono basilari e meriterebbero ben altra analisi, ecco quindi che il tutto assume le sembianze di un frullato mal congegnato e pieno di stereotipi tra l’altro (le divergenze tra le famiglia ricca di Niki e quella popolana di Alex ad esempio). Non sembrerà quindi strano  veder tornare all’unisono i quattro amici quarantenni dalle loro amate, spinti, si direbbe dal film, esclusivamente dalla pochezza della loro vita insieme in un appartamento di uno di loro.

Scusa ma ti voglio sposare

Moccia si avvicina a Muccino quindi? Sicuramente il romanticismo esasperato della prima pellicola qui viene messo in secondo piano dando spazio principalmente ai dubbi ed alle perplessità di chi sta per compiere un passo fondamentale nella sua vita, sia essa una gravidanza, un matrimonio  o un divorzio, una pellicola quindi che punta ad un target più eterogeneo rispetto a Scusa ma ti chiamo amore. 

Ogni tanto la luce si accende con la gag ben congegnate di Pino Quartullo, qui nei panni di Roberto il padre di Niki, che qualche risata riesce a strapparla senza problemi, ma è troppo poco in un film che vuole far riflettere sulla vita di coppia ma non dà gli elementi per farlo.

I numeri degli incassi precedenti parlano da soli e sicuramente spianeranno la strada per ulteriori pellicole sulla stessa falsariga, gli integralisti del cinema “mocciano” apprezzeranno appieno anche questa nuova creatura del Federico nazionale, chi invece non ha mai gradito l’immobilismo artistico e la povertà di contenuti del regista romano ne stia tranquillamente alla larga.

 

Jessica Hausner parla di Lourdes

E’ una Jessica Hausner allegra e loquace quella che si presenta alla Casa del Cinema in Roma forte anche delle critiche molto positive che sta ricevendo il suo “Lourdes” in giro per il mondo.
Ad accompagnarla, il Presidente nazionale dell’Unitalsi Antonio Diella e il distributore e amministratore delegato di Cinecittà Luce Luciano Sovena.

Paranormal Activity: recensione del film Oren Peli

Prima di ogni cosa, Paranormal Activity è senza alcun dubbio l’esempio più eclatante di come una sana e costruttiva campagna virale possa essere remunerativa sul piano degli incassi e eccezionale sul piano dell’attenzione proiettata verso il titolo. Detto ciò, fermo restando che non è un cattivo film per chi fosse alla ricerca di facili emozioni , va anche detto che  non vale la nomea di nuovo Blair Witch Project e  senz’altro in nessun caso, né nell’uno né nell’altro  si è stati e si è di fronte al miracolo. Per molti motivi.

Uno. Se nel primo caso si era di fronte ad un nuovo e sensazionale modo di vedere il cinema e la visione, in questo caso siamo già ad un quinto/sesto tentativo in pochi anni. Due. Anche se il film presenta alcune sequenze molto efficaci e sorprendenti non è per nulla dotato di una struttura narrativa ,perlomeno sostenibile per 86 minuti. Tre. Visivamente parlando dice tutto di già visto e nulla di veramente nuovo. Nessuna qualsivoglia caratterizzazione dei personaggi.

Traendo le conclusioni verrebbe da chiedersi se questo non è solo il frutto di un sorprendente e  divino piano commerciale messo in atto, e che in sostanza, levando il fumo non vi sia nient’altro da mettere sotto i denti ma soltanto misere briciole da sgranocchiare.

Paranormal Activity, il film

Di un film come questo, a low Budget, ci si aspetta almeno nella parte narrativa e registica il moto pulsante del racconto, ma è proprio in questo il limite maggiore per il film. Totalmente privo di una vera e propria struttura (si ha la sensazione di vagare fra atteggiamenti, attimi ed emozioni totalmente slegate le une dalle altre), sicuramente avrebbe aiutato o quanto meno  non sarebbe stato male aggiungere qualche altro personaggio, a parte la figura dello studioso che forse non è sfruttata al meglio.  Invece, si ha solo la geniale intuizione di soffermarsi (mentre si è nel pieno della notte in una camera) sul quel bel espediente che è il fuoricampo e che gente come Shyamalan, Hitchcock, lo stesso Spielberg, Polanski, hanno reso terrificantemente sublime. Qui diventa a tratti interessante, ma poi senza sostegno narrativo si perde su se stesso e diventa frutto di un protrarsi dell’attesa che rivelerà solo gli ultimi buoni dieci minuti di paura.

La più grande delusione di Paranormal Activity, è proprio nell’aspettativa che tenta di creare e che si concretizza solo come suddetto in un’unica bella sequenza. Pochissimo per un film che attraverso il fuoricampo dovrebbe creare un crescendo di tensione insostenibile e che dovrebbe culminare con il momento rivelatore per l’intera trama e il film. In sostanza l’unica nota positiva che si ha è il finale che non risulta per niente scontato e che forse diventa l’unico momento in cui il fuori campo diventa insostenibile.

Lourdes – recensione del film di Jessica Hausner

Lourdes – Dopo una sfilza di premi ricevuti in giro per l’Europa tra i quali, ahimè, è mancato quello a Venezia, sbarca l’11 febbraio 2010 (stesso giorno della prima visione di Bernadette a Lourdes) nei cinema nostrani l’ultima creatura di Jessica Hausner, talentuosa regista austriaca arrivata al suo terzo lungometraggio. Lourdes è la storia di Christine che trascorre la sua vita su una sedia a rotelle a causa di sclerosi multipla. Recatasi a Lourdes per un pellegrinaggio religioso, si scopre dopo pochi giorni miracolata ed in grado di camminare.

Christine dovrà quindi affrontare la gelosia e l’ammirazione degli altri pellegrini ma anche l’amore di un affascinante membro dell’Ordine di Malta, che incomincerà a interessarsi a lei dopo la miracolosa guarigione. Allo stesso tempo il comitato medico preposto all’esame dei presunti miracoli, resta incerto in quanto la malattia alla quale è soggetta la ragazza è imprevedibile e legata anche a rapidi quanto brevi miglioramenti. Già dal precedente film “Hotel”, la Hausner sembra prediligere ambienti chiusi e situazioni soffocanti, non a caso entrambe le protagoniste sotto una parvenza distaccata nascondono un animo sensibile ma anche forte.

Lourdes pone interessanti questioni senza però conferirne un aspetto preciso ma preferendo stimolare nello spettatore una riflessione sui contenuti filosofici – religiosi del lungometraggio.
La protagonista Christine non esce mai di casa, le uniche possibilità di “svago” sono i viaggi di pellegrinaggio.

Con uno spirito disincantato e non profondamente devoto affronta il viaggio a Lourdes con le insicurezze tipiche di chi vive in uno stato di disabilità e non riesce a trovare le risposte nella chiesa. “Perché è successo proprio a me?” – “Perché alcuni guariscono e altri no?” , il lungometraggio ci mostra crudelmente come un prete che accompagna il gruppo della ragazza non riesca a trovare risposte esaurienti a questi quesiti, risultando spesso evasivo e involontariamente ironico.

“Se il Signore è buono e contemporaneamente onnipotente perché non guarisce tutti? Forse non è buono ma cattivo” questo si chiede uno dei tanti credenti accorsi nelle piscine miracolose di Lourdes, la Hausner ci trasmette quindi tutte le perplessità di chi, magari anche più volte all’anno, compie viaggi della speranza e col tempo vede scemare quest’ultime, ma ci mostra anche l’ipocrisia di tanti che a dispetto di dettami cattolici ben precisi non si fanno problemi a sbeffeggiare il prossimo se “miracolato”, il tutto è girato con tanta naturalezza e originalità con uno stile che ricorda molto Dreyer e Bresson ma anche Bunuel citato dalla stessa regista.

Lourdes

Maria, una giovane e bella volontaria che accudisce Christine durante tutte le giornate a Lourdes è l’archetipo della sua vita ideale, socievole e allegra, preferisce frequentare i suoi coetanei, è attratta dall’affascinante guardia dell’Ordine di Malta ed è sfuggevole nei confronti della malattia della protagonista, durante il film l’invidia farà un tragitto andata e ritorno nel rapporto tra i due personaggi e Christine si appoggerà alla signora Hartl, burbera e solitaria vecchietta senza alcun malanno fisico che tenta a Lourdes di ritrovare un senso alla sua vita o quella che nel film viene sbandierata più volte come “cura dell’anima” dal sacerdote di turno.

Alla fine Christine, nonostante un repentino peggioramento delle sue condizioni fisiche, sentirà la necessità di non abbandonare i suoi sogni e di credere nel “miracolo”,  mantenendo intatto la positività che l’aveva contraddistinta.

 

Bangkok Dangerous: recensione del film con Nicolas Cage

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Bangkok Dangerous  rappresenta l’ennesima operazione (fallita) di remake di film asiatici made in USA. Il film infatti ricalca l’omonimo film del 1999, anch’esso diretto dai fratelli Pang (Oxyde e Danny).

Certo, tra il film di dieci anni fa e questo, le differenze di budget sono evidenti. Basti ricordare che il ruolo del protagonista – Joe – è interpretato dal pagatissimo Nicolas Cage. Non è difficile immaginare – leggendo il titolo – che lo scenario del film sia proprio Bangkok. In questo paradiso arriva il killer professionista Joe, ingaggiato dal boss Surat per fare fuori quattro suoi antagonisti.

Bangkok Dangerous

Per portare a termine la sua missione, Joe decide di assoldare il ladruncolo Kong. La svolta sarà l’incontro con la farmacista sordomuta Fon, della quale Joe si innamora. E tanto basta per fargli mettere in discussione il suo modo di vivere schivo e solitario. Le vicende si complicano quando il boss Surat decide di liberarsi di lui.

Bangkok Dangerous è un film brutale, crudo, che non si fa mancare momenti di puro splatter. La produzione hollywoodiana e la sceneggiatura rivisitata da Jason Richman, non arricchiscono la pellicola del 1999. Ritmo e tensione infatti appaiono pressoché identici, anche se per quanto alcune scene siano inverosimili, la spettacolarità non manca.

La trama è già vista: uno spietato killer in piena crisi esistenziale si redime e trova anche l’amore. Banale, troppo. Neanche Nicolas Cage appare in gran spolvero. In evidente imbarazzo, Cage risulta pesante e poco credibile. Un remake evitabile, che consiglio di evitare.

Alvin Superstar 2 – recensione del film con Jason Lee

Alvin Superstar 2 – Dagli anni ’60 con i primi dischi, agli anni ’80 con la serie aniata fino al 2007 con il primo lungometraggio a loro dedicato Alvin, Simon e Theodore sono dei Chipmunks di successo, vuoi per la loro età che abbraccia più di una generazione, vuoi per il loro innato talento a cacciarsi nei guai. Ed ora eccoli in un nuovo Squeakquel, non un sequel o un prequel, ma qualcosa di personalizzato nel quale, dopo una prima esperienza in solitaria, ritornano sul grande schermo con le Chippettes, il loro corrispetivo al femminile, grintose colorate e…neanche a dirlo, canterine.

E fondamentalmente questo secondo film dedicato alle stelline del rock si riduce a questo, l’incontro tra i due schieramenti e il conseguente, sebbene breve, scontro che porterà poi all’inevitabile amicizia tra ‘maschietti e femminucce’. Non c’è niente che non ci sia già stato, nè altre cose in più: solo i piccoli scoiattolini che si affacciano alla vita degli umani, vanno a scuola e affrontano le loro paure, sempre cercando di tenere unita quella loro famiglia atipica ma affiatata.

Alvin Superstar 2

Di più e più lunghi i numeri musicali, perchè se nel primo film erano in tre, adesso sono in sei a far ballare ugole e piedini sulla scena. E se è vero che il film presenta una sceneggiatura quasi abbozzata che lascia correre gli eventi senza una vera e propria sostanza, è pur vero che i personaggi hanno il loro fascino, sono pur sempre dolci e piccoli batuffoli di pelo e si potrebbe essere nel giusto se si afferma che nonostante i citrici più snob possano storcere il naso, il film porterà al cinema un bel po’ di gente.

Il quarto tipo: recensione del film con Milla Jovovich

Il quarto tipo – Prendendo in considerazione l’idea che mai come adesso siamo di fronte ad una contaminazione fra due tipologia di film ben differenti (Fiction e Doc), e fermo restando che nella storia questa pseudo contaminazione era già avvenuta a vari livelli sia da una parte che dall’altra, ecco ora siamo davvero arrivati ad un inedita estensione di questa contaminazione dove la realtà e la finzione si mischiano in maniera totalmente angosciosa ed inquietante.

Avevamo ampiamente avuto modo di vedere esempi quali District 9 e Cloverfield, ma questa operazione è qualcosa che va oltre la rappresentazione stessa della storia in modalità documentaristica, qui siamo di fronte all’utilizzo vero e proprio di materiale registrato dalla protagonista della storia che anch’essa appare nel film intervistata dal regista stesso della pellicola e che nella finzione è interpretata da Milla Jovovich.

Il quarto tipo

La storia è quella di una psicologa americana – Abbey Tyler- che durante una ricerca su una serie di disturbi del sonno che affliggevano alcuni abitanti della città di Nome, in Alaska, si trovò di fronte a una serie di coincidenze inspiegabili e fu vittima in prima persona di eventi particolarmente traumatici.

Durante il suo studio la dottoressa Tyler registrò molte delle sedute di ipnosi con supporti audio e video che il regista abilmente e in maniera del tutto inedita, monta ed accosta in modo diretto (tramite lo split screen) con la ricostruzione cinematografica, quasi a voler creare una sorta di parallelo fra il mondo reale e quello di finzione, in cui il labile confine che divide i due mondi diventa pressoché inesistente. In questo caso siamo di fronte ad un film che è visibilmente tratto da una storia vera, senza nessun affabulazione di sorta. E la sensazione è quella di non potersi dissociare dal film e dalla sua rappresentazione, perché non è finzione.

Il risultato è un’opera che, a prescindere dalle opinioni in merito al tema dei rapimenti alieni, è profondamente inquietante e riesce ad aprire la porta a dubbi e interrogativi che l’uomo e la nostra società bigotta cercano di accantonare e di rimuovere o ancor peggio di nascondere. Sotto l’aspetto linguistico, il film segue un buon ritmo sin dall’inizio, veicolando abilmente (va detto)la tensione dello spettatore, fortemente incuriosito (paurosamente) dal materiale della psicologa, soprattutto dall’intervista con la vera Tyler che come una voce narrante racconta gli accadimenti così come sono avvenuti. Ma ancor più interessante è il fatto che di fronte a tutto ciò, il film non cerca mai di giudicare o di prendere una posizione netta e chiara. Per spiegare ciò la frase di chiusura è emblematica: “Alla fine siete voi padroni di credere o non credere”. Con quest’ultimo accenno, con astuzia e caparbietà, Osunsanmi lascia a noi la facoltà di esprimerci, rendendo il gioco ancora più indecifrabile e rendendo l’Audiance tremendamente attivo.

In chiusura, il riferimento alla pazzia o comunque al malessere interiore dei protagonisti e le continue panoramiche sulle montagne innevate e l’ambientazione in genere, rimandano a quelle “….montagne della follia” ed al genio del suo autore, H.P. Lovecraft, padre incontrastato di certa letteratura fantastica.

Il mondo dei replicanti – recensione

Il mondo dei replicanti – C’era una volta Sigmund Freud che nella sua opera “Totem e tabù” dichiarava: «l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza» – sicurezza che in Surrogates gli uomini sembrano aver trovato in macchine che rispecchiano i loro canoni estetici e se ne vanno in giro in loro vece a vivere la vita, mentre l’operatore, comodamente rilassato nell’imperturbabilità della propria casa, controlla ogni sua movenza.

Il mondo dei replicanti: il film

La vicenda prende le mosse dall’uccisione del figlio del dottor Lionel Canter (James Crownell), uno dei principali artefici del progetto Surrogates. Sulle tracce del suo assassino, si mettono i detective dell’FBI Greer (Bruce Willis) e Peters (Radha Mitchell) che indagheranno sui segreti della VSI, azienda produttrice dei robot-surrogati. In un mondo ormai privo di crimine, una serie inaspettata di morti di operatori, collegati al proprio surrogato, desta non poche perplessità, generando psicosi. Si è diffuso un virus che mette a rischio la vita degli operatori e dei surrogati a loro connessi. Le vicende del detective Greer si intrecciano con la sua vita personale, in particolare  è in primo piano il rapporto conflittuale con la moglie Maggie (Rosamund Pike), ormai intrinsecamente legata a proprio surrogato.

La donna entra in crisi proprio quando un malvivente distrugge il suo “replicante”, costringendola a ritornare alla vita fuori dalla sicurezza di casa sua. Maggie è così costretta a tornare sulla strada e a mettersi alla ricerca della verità. In questo mondo di automi, la minaccia non viene da un altro pianeta. Il nemico non è l’alieno malvagio che vuole impadronirsi del nostro pianeta (come in “La guerra dei mondi”), il nemico – in questo caso – è dentro di noi ed è, quindi, più pericoloso: siamo noi stessi che abbiamo deciso di non vivere la nostra vita e delegato macchine “perfette”, ma senz’anima, a farsi carico dei rischi della quotidianità.

Il mondo dei replicanti diretto da Jonathan Mostow, è uscito nelle sale italiane l’8 gennaio di quest’anno ed è subito entrato nella classifica dei primi dieci film del mese più visti al cinema. Mostow vince al botteghino, confezionando un buon action-movie adrenalinico, che – tuttavia – vede nella povertà di spunti introspettivi e nella superficialità dell’analisi di tematiche antropologiche il suo più grande limite.

Di Antonio Adelfio

Tra le nuvole – recensione del film di Jason Reitman

Il vincitore della seconda edizione del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico capitolino con una commedia (Tra le nuvole) dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del Festival per The Departed.

In Tra le nuvole Clooney è un uomo che si occupa di licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di scapolo impenitente.

Tra le nuvole – recensione del film di Jason Retman

Scrivendo magistralmente e dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con leggerezza. Come già ci ha abituati in passato con Juno e Thank You for Smoking, Reitman constuisce la storia su solide premesse (in genere la presentazine del personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.

Riti magie nere e segrete orge nel trecento di Renato Polselli

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Riti magie nere e segrete orge nel trecento è il film cult del 1973 diretto da Renato Polselli e vede protagonisti nel cast gli attori Rita Calderoli,  Mickey Hargiay, Consolata Maschera.

Riti magie nere e segrete orge nel trecento, la trama

A dispetto del titolo, il film non si svolge nel trecento ma nel contesto contemporaneo; nei sotterranei di un castello si compiono numerosi omicidi sacrificali e riti segreti atti a risvegliare la strega Isabella, morta sul rogo secoli prima.

Riti magie nere e segrete orge nel trecento, l’analisi

Polselli, regista prolifero dedito al genere erotico, si prodiga questa volta verso il l’horror, non esente ovviamente da contaminazioni del genere a lui caro; l’elemento “osé” è ora marginale e ora protagonista, in sequenze sminuite da una vena comica-probabilmente attuata per aggirare la censura-e di debole impatto visivo.

Riti magie nere e segrete orge nel trecento, girato nella duecentesca cittadina de L’Aquila, vive delle suggestioni suggerite dalle ambientazioni medievali, che si confanno al classico intreccio che muove il film: streghe e magie tornano dunque a vivere-e morire- all’interno delle mura del castello abruzzese.

Riti magie nere e segrete orge nel trecento oscilla tra horror ed erotismo: la chiave del tutto risiede nel “piacere pazzo che uccide”, frase emblematica(anche se pronunciata in un contesto recitativo piuttosto scandente), che giustifica la presenza dei due generi di cui sopra,  i quali vanno a compenetrarsi in maniera piuttosto equilibrata e talvolta seducente.
Nella trama classica, la mancanza del regista, sta nel momento in cui egli ricade nei cliché del genere: uomini con ridicoli mantelli e fulmini a ciel sereno imperano all’interno del film, creando talvolta momenti che sfiorano il ridicolo; a proposito di ciò non bisogna dimenticare che la tradizionale trama del La maschera del demonio, non aveva impedito a Mario Bava di costruire un film assolutamente innovativo, sia nell’eleganza formale sia nelle tematiche.

Nonostante tutto all’interno del film non mancano sequenze seducenti, come il rogo delle donne da parte degli abitanti del paese, che contribuisce a creare un continuum tra passato e presente;  bisogna inoltre riconoscere il fascino del montaggio(merito dello stesso regista), che alterna immagini sacre e profane  attuando contrasti visivi suggestivi, sminuiti però dalla ridondanza con cui viene ripetuto ed ostentato e dai colori pop che spesso stonano inesorabilmente con l’ambientazione.  Un prodotto tuttavia personale, sicuramente apprezzato dai fautori del genere.

Riti magie nere e segrete orge nel trecento, curiosità

Curiosità: il film è stato realizzato nel 1971, inizialmente con il titolo La reincarnazione; distribuito nelle sale soltanto due anni dopo, pensato per inserirsi nel genere decamerotico che in quegli anni imperava; Polselli si firma con lo pseudonimo Ralph Brown; Riti magie nere e segrete orge nel trecento è conosciuto anche come The Ghastly Orgies of Count Dracul; La reincarnazion; Black Magic Rite:Reincarnations; The Reincarnation of Isabel.

La casa dei massacri, il film del 2004 di Tobe Hooper

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La casa dei massacri è il film horror del 2004 diretto da Tobe Hooper e scritto da Jace Anderson e Adam Gierasch.                  

  • Anno:2003
  • Diretto da: Tobe Hooper
  • Titolo originale: Toolbox murder
  • Cast: Angela Bettis, Brent Roam, Juliet Landau, Lucky McKee, Rance Howard
  • La casa dei massacri – trama

Ritrovatasi a vivere in uno squallido condomino abitato da strani soggetti, Nell comincia subito ad avvertire qualcosa di strano all’interno del palazzo. Le persone cominciano a sparire, e sarà proprio lei a rendersi conto degli omicidi che stanno avvenendo, e ad indagare sulle sparizioni.

La casa dei massacri – Analisi

I modelli precedenti sono chiaramente l’omonimo The toolbox murder (tradotto in italiano come Lo squartatore di Los Angeles), Non aprite quella porta, e suggestioni polanskiane derivate da L’inquilino del terzo piano.    

La casa dei massacriCon il primo condivide la scelta delle armi dei delitti che danno nome al film; con il secondo il volto sfigurato dell’assassino e alcune situazioni (mal riproposte) concernenti i delitti e la vena – vagamente –  splatter; con il terzo alcuni condizionamenti enigmatici e circostanze misteriose. Peccato che il film risulti essere un impasto di elementi e di intuizioni sconclusionate fine a se stesse.              

Se da una parte Hopper verte sulla costruzione di un film a carattere investigativo, seminando indizi – talvolta – con probabili significati esoterici, richiamando appunto l’ambiguità del regista di Rosemary’s baby, dall’altra pare voler tornare sui suoi passi, verso quel genere slasher e quelle esperienze sanguinolenti che lo avevano reso noto. Ciò porta evidentemente ad un incoerenza di fondo: il film non vive né delle – poche -sequenze splatter, né della suspence che il regista vorrebbe creare tramite le indagini della protagonista(un’ottima Bettis che purtroppo da sola non basta).

Il finale de La casa dei massacri infatti sfiora il ridicolo, laddove non ci viene effettivamente spiegata la valenza dei simboli che incontriamo durante il percorso, e insoddisfacente dal punto di vista prettamente horror. La fotografia quasi televisiva aumenta lo sgomento che si prova di fronte a tale prodotto: non ci è chiaro a cosa stiamo assistendo, visto che in ogni caso il film non sembra procedere lungo una linea coerente e sensata.   

Ma le riflessioni del regista si fanno interessanti per quanto riguarda la scelta dell’ambientazione: se il Lusman Building era in origine dedicato ad accogliere star di Hollywood, ora si ritrova ad ospitare falliti di ogni specie ed enigmatici vecchietti attaccati ai loro piccoli momenti di gloria (in tal caso Rance Howard, padre del Ron regista e attore) Hooper sembra meditare sul fascino della decadenza e del degrado, purtroppo accennando soltanto allo spunto senza approfondirlo in nessun senso. Lo stesso assassino si rivelerà un essere in cerca di sangue che lo liberi dal degrado fisico, metafora forse di molto atteggiamento divistico con cui vengono solitamente dipinte le stelle morenti del grande schermo. Ma anche questa riflessione rimane un mero suggerimento per nulla sviscerato e approfondito ribadendo la natura vaga ed effimera del film.

L’ultima casa a sinistra: recensione del film di Wes Craven

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L’ultima casa a sinistra è il film cult diretto da Wes Craven con protagonista David Hess, Sandra Cassel e Lucy Grantham.

La trama del L’ultima casa a sinistra

Mary e Phyllis, nel tentativo di comprare marijuana si imbattono in un gruppo di psicopatici evasi dalla galera, che le sottoporranno a violenze e torture prima di ucciderle. In seguito i fuggitivi si rifugeranno proprio nella casa dei genitori di Mary…

Analisi

Opera prima del regista Craven, successivamente riconosciuto per Nightmare – Dal profondo della notte e Scream, ispirata dalla pellicola di Bergman La fontana della vergine o il cult Le colline hanno gli occhi.        Laddove Bergman ha rappresentato una leggenda svedese, riportandoci nel contesto medievale,  l’intuizione di Wes Craven nel rimetterla in scena, è stata quella di attualizzarla -e dal punto di vista formale, e dal punto di vista contenutistico- pur mantenendone intatta trama e ambientazione(bosco).

L’opera è ambientata nella realtà odierna, ma la vera attualizzazione che  palesa la distanza dall’opera originale, sta nella rappresentazione della violenza: è proprio l’estremizzazione dell’immagine violenta la produttrice di senso dell’opera e punto nevralgico su cui Wes Craven fonda le sua riflessioni critiche.

Se è vero che L’ultima casa a sinistra presenta alcune imprudenze e forzature nella sceneggiatura, dovute all’inesperienza del giovane regista, è altrettanto vero che il film ha cambiato le modalità di rappresentazione all’interno del cinema horror;  ma ciò che conta realmente all’interno del disegno finale, è il rapporto diretto – confermato poi dalle affermazioni del regista –  con la realtà sociale di quegli anni, tra le vessazioni che si diffondevano dalla guerra nel Vietnam e la disillusione giovanile per  la fine delle rivolte studentesche.

Le dichiarazioni dello stesso regista infatti, chiariscono il senso dell’opera filmica: a detta di Wes Craven infatti, le angherie e le brutalità poi riportate nel film furono ispirate da un metraggio sulla guerra in Vietnam.

Quindi laddove la fonte deriva da un modello preesistente, la riflessione del regista si impernia sul senso della violenza -propagata poi tramite il film per infondere un senso di repulsione- legittimata dal contesto storico-culturale vigente, e lontana dunque da una spettacolarità compiaciuta e fine a se stessa.

Rachel Weisz e la casa dei sogni

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Mentre sta per fare il suo ritorno nelle sale italiane con Amabili resti…Rachel Weisz ha accettato di entrare a far parte di Dream House, un thriller della Universal di cui vi abbiamo più volte accennato.

Diretto da Jim Sheridan e scritto da David Loucka, il film vede Daniel Craig nei panni di un uomo che con la famiglia decide di fuggire dalla frenesia di New York e di stabilirsi in una bella casa del New England; una casa che però ha un passato inquietante che tornerà a perseguitare i nuovi inquilini.

Rachel Weisz sarà la moglie del personaggio di Craig, mentre Naomi Watts è confermata nei panni della loro ambigua nuova vicina di casa. Le riprese avranno inizio il prossimo weekend in quel di Toronto.

Fonte: Variety

Penelope Cruz per il nuovo film di Lars Von Trier

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Potrebbe essere Penelope Cruz la protagonista del nuovo, annunciato lavoro di Lars von Trier, il “film catastrofico dai risvolti psicologici” intitolato Melancholia.

Secondo le prime indiscrezioni, l’attrice spagnola sarebbe stata nel mirino di von Trier fin dalla fase di ideazione del film – che si dovrebbe girare tra Germania e Svezia entro la fine dell’anno e che dovrebbe avere già assicurato un posto a Cannes del 2011 – e avrebbe già ceduto alle lusinghe del regista.

Il regista danese ha mantenuto negli ultimi mesi il massimo riserbo sulla trama del film, non aggiungendo nulla rispetto alle prime dichiarazioni ma limitandosi a sottolineare, con la consueta provocatoria ironia, che questa volta nel suo cinema “non ci saranno lieti fine.”

Across the genre

La sequenza presa in analisi è tratta dal film Across the Universe, in particolare l’analisi proposta si sviluppa tramite  un lavoro comparativo tra una sequenza del film e un videoclip dei Green Day Wake me up When September Ends; scopo di tale lavoro è quello di individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in questione, e nel caso particolare non solo di immagini mostrate, ma anche di storie raccontate, avvalorando la tesi di una reciproca influenza tra i due mezzi presi in considerazione mediata dalla contaminazione reciproca che generi e linguaggi attraversano e “che va innanzitutto nella direzione di un collage multimediale” [1]

La scena considerata, quella del funerale del fidanzato della protagonista Lucy (Evan Rachel Wood), comincia dall’arrivo della notizia della morte al fronte del giovane. La sequenza accompagnata da un brano dei Beatles ha un significato conchiuso che sta a sé esattamente come un video musicale, e questo per ogni segmento del film. Le canzone in questione è Let it Be, del 1970 (composta principalmente da Paul McCartney anche se viene come da consuetudine attribuita al duo compositivo Lennon/McCartney), alla quale sono accostate le immagini prima di Lucy sconvolta e scene di guerriglia urbana nelle quali si nota un ragazzino cantare e poi le scene montate in parallelo di due funerali, quello del giovane marines, e quello del bambino di colore visto cantare in precedenza, in qualche modo legato ad un atro protagonista del film, Jojo.

Il videoclip, diretto da Michael Perlmutter, racconta invece la vicenda di una giovane coppia che viene separata dalla decisione di lui di rispondere alla chiamata dello Zio Sam. La canzone del gruppo statunitense, malinconica, che parla di memoria e ricordi e di tempi felici passati troppo in fretta, viene raccontata proprio con la storia dei ragazzi che all’inizio sono felici insieme e poi separati dalla guerra.

Anche se non è detto che la storia del video finisca come quella del film (la canzone, e con essa il video, finisce prima che possa finire anche la storia raccontata), notevole è l’impronta che il primo, del 2005, ha lasciato nel secondo, del 2007. E’ impossibile non ricordare il primo guardando l’altro sia per la presenza, non trascurabile, di Evan Rachel Wood, che interpreta entrambi, sia per tutto il bagaglio tecnico che i due prodotti hanno in comune. Oltre all’evidente adozione, in entrambi i casi di un montaggio parallelo, straordinario è il lavoro sulla fotografia, calda e luminosa nelle scene gioiose per entrambi, tendente al verde e decisamente più cupa nelle scene di guerra. Non può esserci esempio più chiaro di come due generi, che dovrebbero parlare lingue diverse su supporti diversi, riescono invece a darsi mutuo soccorso per uno sviluppo di entrambi verso nuove forme espressive, il cinema usando il digitale e il compositing a tratti esasperato, il video adottando una narrazione di eventi ed uno stile registico tipicamente cinematografici.

Il collage multimediale di cui sopra è proprio questa mescolanza, questa contaminatio che si verifica sempre più di frequente, e che in film musicali, quali Across the Universe, non può fare a meno di essere debitrice del genere più prossimo al musical, il videoclip. Molteplici infatti sono gli esempi di registi che passano dall’uno all’altro genere, tra i più disinvolti sicuramente Michael Gondry, e con risultati eccellenti, vedi il piccolo gioiello Eternal Sunshine of the Spotless Mind[2]. Tuttavia in questo caso, i numeri musicali prendono il sopravvento su tutto, addirittura sulla (debole) trama che li attraversa. Il film si riduce ad essere un percorso, la presentazione di un momento nel suo svolgersi, nella sua immediatezza. Al contrario di Garrone che in Primo Amore elimina, come fa il suo protagonista, tutto il superfluo fino a raggiungere ciò che è davvero importante, quasi un’operazione beckettiana di sintesi e straniamento dalla concretezza del proprio essere, qui la regista Julie Taymor, lavora per accumulo, realizzando “un film visionario e psichedelico raccontato dai Beatles, i cui testi acquisiscono nuova linfa, con uno sguardo al passato e uno al presente”[3].

Il musical moderno, diverso dai molteplici made in MGM degli anni ’40 e ‘50, consente questo lavoro di accumulo, ma difficilmente si riesce a trovare l’armonia tra musica ed eccessi grafici e scenografici, come invece accade con splendente efficacia in Moulin Rouge (2001 di Baz Luhrmann). A giustificare lo slegamento dei segmenti in Across the Universe può intervenire, solo in parte, l’ingombrante (perché celebre) colonna sonora che sovrasta storia ed interpretazioni.

Il tipo di rapporto dialettico che il film istaura con il videoclip sta alla base della contaminazione tra i generi, e qui non si parla più in maniera ristretta di generi cinematografici, ma si ci riferisce appunto ai diversi generi di intrattenimento/media che vengono proposti e si moltiplicano grazie proprio all’introduzione del digitale e al nuovo e ampissimo ventaglio di possibilità che una mente fantasiosa riesce a concepire.

Si tratta dunque di uno snaturamento del mezzo cinematografico oppure di un completamento, come dichiara Metz, della sua intrinseca natura onirica? Guardando ad Across the Universe si direbbe che sebbene la contaminatio sia un mezzo espressivo produttivo, restano comunque ben definiti i campi per ogni singola manifestazione artistico –comunicativa, cioè esistono, nonostante la labilità dei confini tra gli uni e gli altri, ambiti riservati alle storie da cinema, raccontate per il cinema, e invece ambiti, non meno validi, che si prestano a raccontare, come per la storia dei Green Day, un breve stralcio che può avere o meno uno sviluppo di spazio e tempo insieme ad un senso compiuto, come può essere un cortometraggio o un videoclip.

[1] G.D. Fragapane, Tra Fotografia e Cinema. Nuovi spazi nell’era digitale in Passages, drammatugie di confine a cura di A.Ottai pag. 6.

[2]Brutalmente tradotto in italiano con Se mi lasci ti cancello con due protagonisti eccezionali, Jim Carrey e Kate Winslet che ha ricevuto una nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista. Il film ha inoltre vinto una statuetta per miglior sceneggiatura originale.

[3] Mattia Nicoletti in http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=49437

Reitman dirigerà Ghostbusters 3

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Buone notizie per i fan della saga di Ghostbusters. Intervistato da MTV, il veterano Ivan Reitman ha confermato che sarà lui a dirigere Ghostbusters 3,  il terzo episodio della saga di Ghostbusters.

Ivan non ha voluto entrare nel merito della storia, che secondo le ultime voci vedono il vecchio team di Ghostbusters fare da mentori a dei ragazzi volenterosi, ma ha detto che gli sceneggiatori Lee Eisenberg e Gene Stupnitsky sono già al lavoro su una seconda stesura. A suo parere, la prima conteneva già trovate “molto fighe”.

Se tutto va bene, le riprese del terzo Ghostbusters 3 sono previste per l’anno prossimo.

Fonte: MTV / Comingsoon.net

Sigourney Weaver parla

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Dopo anni di attesa Ghostbusters 3 è stato finalmente ufficializzato, ma ciononostante sono ancora molti i dubbi intorno a questo sequel. A rivelare oggi qualche informazione in più è Sigourney Weaver, che nel pieno della promozione di Avatar ha risposto anche a qualche domanda riguardante Ghostbusters, mostrando un mix di scetticismo e entusiasmo.

Leggiamo quindi le dichiarazioni della Weaver prima di commentarle:

Temo proprio che il film si farà. Spero che la gente sia contenta. Non so se ne farò parte, ho ricevuto un paio di telefonate per leggere lo script. So che il figlio del mio personaggio, Oscar, che avevo rapito, è cresciuto diventando uno dei nuovi Ghostbusters. Potrei partecipare, non ci vedo niente di sbagliato anche se non penso che avrei una grande parte. Penso invece che Bill Murray ne abbia a che fare di più, sapete, potrebbe essere un fantasma.

Harold Ramis parla di Ghostbusters 3

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Harold Ramis parla di Ghostbusters 3, il terzo film sugli Acchiappafantasmi, spiffera qualche novità sul cast e racconta un episodio legato al suo personaggio, Egon… E’ il momento giusto per fare più domande possibili alle star di Ghostbusters riguardo a Ghostbusters 3: sta infatti uscendo il Blu-Ray del primo film e tra poco arriverà il nuovo videogame, e quindi sembrano tutti molto disponibili a parlare del nuovo film, il cui script – ad opera di Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy – sta per essere ultimato. Tenendo conto che su questo script dovranno dire la loro (approvandolo) Bill Murray, Harold Ramis, Ivan Reitman, Dan Aykroyd e la Sony/Columbia, ecco che le cose si fanno più delicate. Per fortuna sembra che siano tutti interessati a riportare sul grande schermo la serie, in particolare Harold Ramis, che così ha detto a Comingsoon.net:

Io ho scritto la storia del nuovo film assieme a Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy. Io e Dan Aykroyd abbiamo fatto da consulenti per la storia. Stiamo aspettando di vedere la prima bozza e capire a che punto siamo. Tutti (compresi Bill Murray e Ernie Hudson) vogliono tornare sul set, hanno tutti detto che lo faranno. Nessuno di noi ha firmato un contratto per ora – nessuno di noi – ma lo spirito è quello di fare davvero qualcosa.

Ramis ha parlato anche del suo personaggio, Egon, a Empire, raccontando quella che potrebbe essere una scena del film:

Mi interessa molto l’idea di dove sia finito Egon. Ha lavorato all’Istituto Internazionale della Scienza Immaginaria a Ginevra. Ha sviluppato una logica post-razionale, non-conclusiva per poter ragionare sui problemi del caos. Qualcuno gli chiede “cosa significa?” e lui risponde: “Non ci sono modelli spaziali, concettuali o intellettuali per descriverlo, quindi non lo sappiamo.” Egon è diventato una persona astratta: non sa neanche lui cosa sta facendo!

Sempre nello stesso articolo, riportato da Slashfilm, Dan Aykroyd spiega di sperare che Alyssa Milano interpreti nel film lo stesso personaggio introdotto nel nuovo videogame (e da lei doppiato), cioè la Dottoressa Ilyssa Selwyn, descritta come “un personaggio legato a una storia d’amore”, e aggiunge che anche Eliza Dushku dovrebbe far parte del cast.

Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters 3

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Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters 3 a  confermato il ritorno anche di Sigourney Weaver nel cast, inoltre vuole che ci siano anche Alyssa Milano e Eliza Dushku, e pensa a Harold Ramis come regista…

L’attore ha spiegato che la Sony sta premendo l’acceleratore sul progetto, e si sbilancia parlando anche di riprese: “Penso che inizieremo a girare molto presto, forse già in inverno”. Ma per girare un film servono un regista e un cast: sembra che la Sony stia facendo di tutto per ottenerli piuttosto in fretta. Ivan Reitman, regista dei primi due film, non potrà partecipare perché è “troppo impegnato nel ruolo di mega-produttore di film”, ma c’è una buona possibilità (almeno per quanto riguarda i desideri di Aykroyd) che sia Harold Ramis a dirigerlo. Ramis ha appena girato Anno Uno, commedia comica scritta proprio dagli sceneggiatori di Ghostbusters 3: “Ha un mucchio di cose in ballo, ma sarebbe grandioso vederlo lavorare a questo film.”

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince): recensione del DOC

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è il documentario-evento presentato alla IV edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione L’altro cinema – Extra diretta da Mario Sesti. Ribattezzato da molti il “film perduto” di Martin Scorsese, l’opera nasce come omaggio all’amico Steven Prince, personaggio controverso e carismatico, noto per la piccola parte in Taxi Driver ma soprattutto per una vita che sembra più incredibile di qualsiasi sceneggiatura.

Il film ha una doppia anima: da un lato c’è l’originale American Boy girato da Martin Scorsese nel 1978, dall’altro c’è il ritorno alla ribalta di Prince grazie a Tommy Pallotta, che più di trent’anni dopo decide di riprenderlo in primo piano, alternando le sue nuove confessioni alle immagini di repertorio. Il risultato è un ritratto che sfida i confini tra cinema, memoria e mito personale.

Il film perduto di Martin Scorsese

Nel 1978 Martin Scorsese era reduce dal successo di Taxi Driver e immerso in un periodo creativo febbrile. In quel contesto realizzò Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince), un documentario notturno in cui, circondato da amici e conoscenti, Prince raccontava la sua vita come in un flusso ininterrotto di aneddoti. Non c’era trama, non c’era costruzione narrativa: c’era solo un uomo che, seduto di fronte alla macchina da presa, snocciolava episodi di eccessi, dipendenze, avventure borderline, con uno stile che oscillava tra il confessionale e il teatrale.

Quel film divenne presto materiale di culto. In parte perché era difficile da reperire, in parte perché le storie raccontate da Prince avevano una forza tale da travalicare la dimensione documentaria. Non a caso, alcuni registi se ne lasciarono ispirare: Quentin Tarantino prese spunto da uno degli aneddoti più celebri – la rianimazione improvvisata con un’iniezione di adrenalina – per trasformarlo in una delle scene-icona di Pulp Fiction.

Il ritorno di Steven Prince

Dopo oltre trent’anni di silenzio, l’opera “nascosta” di Scorsese torna a vivere grazie a Tommy Pallotta, che decide di incontrare nuovamente Prince e di metterlo ancora una volta al centro della scena. L’operazione ha un fascino particolare: il tempo è passato, i capelli sono diventati bianchi, qualche ruga è comparsa, ma la vitalità e la follia che avevano reso il protagonista un’icona non sembrano essersi spente.

Il nuovo documentario alterna i racconti odierni con le immagini del film di Scorsese. Questo montaggio parallelo crea un dialogo tra passato e presente, tra il mito costruito negli anni Settanta e l’uomo che oggi si guarda indietro con un bicchiere di vino in mano. Il risultato è una riflessione sul tempo, sulla memoria e sul ruolo del racconto come strumento per dare senso all’esistenza.

Una vita più incredibile di una sceneggiatura

Ciò che colpisce in Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è la natura straordinaria delle esperienze narrate. Le vicende di Steven Prince – fatte di droga, alcol, incontri con figure eccentriche e colpi di fortuna inverosimili – sembrano uscite da una sceneggiatura di Hollywood. Eppure non sono finzione: sono la sua vita reale.

Seduto in poltrona, con lo stesso piglio sfrontato e ironico di un tempo, Prince affronta i ricordi con una leggerezza che disarma. Non c’è alcun compiacimento né pentimento, solo la consapevolezza che l’esistenza va vissuta giorno per giorno, che l’oggi conta più del domani. È questa filosofia istintiva, al limite del nichilismo, a renderlo un personaggio affascinante e al tempo stesso disturbante.

Cinema, mito e memoria

Il documentario non si limita a ricostruire la biografia di Prince: diventa anche una riflessione sul rapporto tra cinema e realtà. Il volto di Steven, ieri e oggi, testimonia come il cinema possa trasformare una persona comune in un personaggio mitico, capace di influenzare l’immaginario collettivo ben oltre la propria vicenda personale.

L’alternanza tra le immagini dirette da Scorsese e quelle girate da Pallotta mostra inoltre come la macchina da presa non sia solo strumento di registrazione, ma anche di reinvenzione. Prince diventa una sorta di “icona pop vivente”, figura sospesa tra verità e leggenda, simbolo di una generazione che ha fatto della trasgressione e dell’eccesso il proprio marchio distintivo.

Conclusione

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è molto più di un documentario su un personaggio fuori dagli schemi: è un viaggio nella memoria, nella cultura pop e nel potere del cinema di trasformare la vita in racconto e il racconto in mito.

Steven Prince appare come un sopravvissuto, un uomo che ha attraversato gli inferni della dipendenza e della notte americana senza mai perdere quella vitalità ironica che lo rese indimenticabile già agli occhi di Scorsese.

Il documentario di Pallotta, in dialogo costante con quello di Scorsese, ci restituisce un ritratto contraddittorio e affascinante, capace di far riflettere sul tempo che passa e sulla possibilità del cinema di preservare, amplificare e a volte reinventare le vite che incontra.

L’incredibile viaggio della Tartaruga, il DOC di Nick Stringer

L’incredibile viaggio della Tartarug è il documentario diretto da Nick Stringer e presentato al Festival di Roma nella sezione Alice nella Città, racconta la straordinaria avventura di una piccola tartaruga marina che, seguendo il cammino dei suoi antenati, attraversa l’Atlantico per poi tornare sulla spiaggia in cui è nata.

La trama di L’incredibile viaggio della Tartaruga, il DOC di Nick Stringer

Nata su una spiaggia della Florida, la tartaruga protagonista intraprende un percorso epico: segue la Corrente del Golfo fino ai ghiacci del nord, nuota nell’Atlantico del Nord, raggiunge le coste africane e infine ritorna nel luogo natale per deporre le uova. Un viaggio pieno di pericoli e scoperte, tra cui i cambiamenti climatici e l’impatto ambientale provocato dallo scioglimento dei ghiacci. Solo una tartaruga marina su mille riesce a sopravvivere a questa incredibile traversata.

Girato nell’arco di cinque anni e prodotto tra Austria e Regno Unito, L’incredibile viaggio della Tartaruga non è soltanto un documentario naturalistico ma un’opera che combina rigore scientifico, potenza visiva e sensibilità narrativa. Nick Stringer sceglie di adottare un punto di vista intimo e immersivo: non osserviamo il mare da spettatori esterni, ma lo percorriamo insieme alla tartaruga protagonista, accompagnandola in ogni fase della sua esistenza.

Un viaggio tra meraviglia e sopravvivenza

Il film affascina per la bellezza delle immagini, che spaziano dai fondali oceanici alle coste selvagge, ma colpisce anche per la capacità di trasmettere il senso di vulnerabilità e resistenza insito nella vita di queste creature. Ogni incontro – con predatori, correnti, ostacoli ambientali – diventa occasione per riflettere sulla fragilità della natura e sul delicato equilibrio degli ecosistemi marini.

La voce narrante, affidata in Italia a Paola Cortellesi (nell’originale a Miranda Richardson), non si limita a descrivere: accompagna con tono partecipe e al tempo stesso sobrio, evitando di appesantire le immagini con didascalismi. È un racconto che parla tanto agli adulti quanto ai più piccoli, trovando un equilibrio raro tra divulgazione e poesia.

Dal punto di vista estetico, il documentario si distingue per un montaggio che alterna sequenze spettacolari, girate con tecnologie subacquee all’avanguardia, a momenti più intimi e contemplativi. Questa scelta narrativa restituisce sia la dimensione epica del viaggio sia quella quotidiana, fatta di piccoli gesti di sopravvivenza.

Ma l’opera non si limita a incantare: pone interrogativi urgenti sul presente e sul futuro. La tartaruga diventa simbolo della lotta per la vita in un ambiente naturale minacciato dai cambiamenti climatici e dall’impatto dell’uomo. Così, mentre racconta la ciclicità della vita e il ritorno alle origini, L’incredibile viaggio della Tartaruga suggerisce anche la necessità di custodire e proteggere quel fragile equilibrio che rende possibile il ciclo stesso della natura.

In definitiva, il documentario di Nick Stringer è un film che emoziona, informa e fa riflettere. È un viaggio che parla di resistenza, memoria e continuità, e che riesce a rendere universale la vicenda di una piccola tartaruga marina, trasformandola in una metafora del nostro rapporto con il pianeta.

Panic Attack – short film

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Panic Attack – short film

Mad Men – Stagione 1: recensione della serie con Jon Hamm

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Mad Men Stagione 1, è l’acclamata prima stagione dello show che ha debuttato nel 2007 ideato da Matthew Weiner con protagonisti Jon Hamm, Elisabeth Moss, Vincent Kartheiser, January Joners e Christina Hendricks.

La trama di Mad Men – Stagione 1

Vita morte e miracoli degli agenti pubblicitari della Sterling Cooper, agenzia newyorkese ove nascono e si sviluppano amori, tradimenti, conflitti, accordi e disaccordi: dalla doppia vita di Don Draper alla scalata sociale di Peggy Olsen e sullo sfondo l’America di Kennedy e Nixon.

L’analisi della prima stagione di Mad Men

Dopo la collaborazione con I Soprano, Matthew Weiner torna alle prese con le serie televisive, ideando un prodotto che si discosta dalle produzioni più attigue: partendo da una macrostruttura di base, la serie di Weiner crea micro vicende e gestisce una serie di personaggi che in soli 13 episodi acquistano un notevole spessore. Le storie dei personaggi sono ricondotte all’interno dell’agenzia pubblicitaria Cooper, che a sua volta è incastrata all’interno del sistema socio-economico che regola i rapporti e le vicende stesse: ogni movimento compiuto dai protagonisti è il riflesso del processo evolutivo in atto nell’America negli anni ’60.

L’impianto corale è ricostruito in primo piano con uno sfondo che richiama continuamente i movimenti americani, come la campagna elettorale e la lotta per la presidenza tra Nixon e Kennedy. La grande forza della serie sta nell’acuta ricostruzione dell’ambiente e delle vicissitudini della società americana in quegli anni, riprodotta in maniera minuziosa attraverso lo sviluppo di personaggi che incarnano vizi e virtù della società. Mad men si colloca nel passaggio tra l’entusiasmo per il sogno americano e il completo fallimento dei personaggi che lo inseguono; riflesso dunque  della disillusione prodotta dalla caduta dei miti su cui l società si fondava. L’ american way of life e l’idea di una famiglia in stile spot pubblicitario, sono completamente spazzate via dalle nevrosi e dalle reali insicurezze che caratterizzano i protagonisti.

Un punto di la svolta decisiva per la cultura americana

La serie tv si pone dunque in un punto che è la svolta decisiva per la cultura americana: se da una parte abbiamo la tendenza dei personaggi al perfezionismo maniacale a alla cura delle apparenze, residuo di quella mentalità bigotta destinata a subire un tremendo scacco, dall’altra abbiamo in contrasto la liberalizzazione della sessualità e la nascita dei costumi e della cultura hippie, in cui Draper si imbatte e si scontra inevitabilmente. Da un lato Betty Draper, moglie di un agente pubblicitario di successo, impeccabile nella sua immagine e nel suo ruolo di madre e moglie, frutto di quella tendenza al perbenismo forzato che causa ansie spasmodiche e conflitti interiori; dall’altro l’amante dello stesso Don, personaggio dedotto dai movimenti femministi e dalla deregulation dei costumi sessuali, che verso la fine degli anni sessanta muovono i primi passi.

Ma il vero personaggio che meglio incarna le critiche ai ruoli cui la donna è costretta – nonché personaggio complesso e magistralmente dipinto – è Peggy Olsen, che, determinata e conscia della sua intelligenza, riesce ad ottenere ruoli all’interni della compagnia, che fino ad allora erano riservati soltanto agli uomini. Vero protagonista della storia, personaggio in conflitto con se stesso e con la realtà circostante, che incarna lo spaccato cui la società sta andando in contro, è Don Draper, in bilico tra l’accettazione della morale americana e il netto rifiuto di questa; egli che rinnegando il suo passato ha rinnegato quel pezzo di storia che ha contribuito alla nascita di questo stile di vita tanto ambito; egli che in continua fuga dall’asfissiante vita famigliare ogni volta vi fa ritorno frustrato dal tedio e da un’inesauribile insoddisfazione personale.

Inevitabile il drammatico scacco subito – e da Draper in primis e dai co-protagonisti in maniera non meno grave – nel finale delle serie: scacco necessario che spazza via in maniera drastica i falsi valori su cui si poggiano le certezze della società, creando un punto di svolta che parte dal tacito nonché ineluttabile e fatale fallimento corale.

Videocracy – Basta apparire di Erik Gandini

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Videocracy – Basta apparire (2009), diretto dal regista bergamasco Erik Gandini, è uno dei documentari più discussi e controversi del cinema italiano contemporaneo. Presentato in anteprima al Festival di Venezia, il film affronta senza filtri il rapporto tra televisione, immagine e potere nell’Italia di inizio Duemila, in un’epoca in cui il piccolo schermo non era solo intrattenimento, ma la vera arena politica e culturale del Paese.

Attraverso volti emblematici come Fabrizio Corona, “fotografo-ricattatore” autoproclamatosi Robin Hood, e Lele Mora, talent scout vicino a Silvio Berlusconi, Gandini mostra l’altra faccia dello spettacolo televisivo: un sistema che seduce, manipola e condiziona aspiranti star, vip e spettatori. Il suo titolo – Videocracy – rimanda a un concetto preciso: il governo delle immagini, dove apparire conta più che essere, e la televisione diventa lo strumento privilegiato di un potere che invade ogni aspetto della società.

Videocracy – Basta apparire, la trama:  Il film documenta alcuni aspetti della tv italiana, delle reti mediaset, i provini e i tentativi compiuti da un ragazzo per diventare un’icona dello spettacolo televisivo. Vengono raccontate le vicende del fotografo/ricattatore Fabrizio Corona e dello scopritore di talenti Lele Mora.

Videocracy – Basta apparire è un “invisibile”. Presentato al Festival di Venezia nel 2009, ci si sarebbe aspettati di vederlo regolarmente distribuito nelle sale italiane, e invece la sua uscita fu limitata a poche copie e proiezioni sporadiche.

Perché? La risposta è semplice: il film affronta un tema che scotta, il potere delle immagini televisive. La videocrazia. Non a caso sia RAI sia Mediaset si rifiutarono di trasmetterne il trailer, e poche sale accettarono di programmarlo.

Il documentario mostra come il potere delle immagini agisca a diversi livelli:

  • sul giovane di provincia che sogna una carriera in tv,

  • sui VIP resi ricattabili dal gossip,

  • su produttori e spettatori che restano parte di un meccanismo perverso.

Il potere delle immagini

Di questo sistema hanno saputo approfittare alcuni personaggi chiave. Corona, ad esempio, racconta senza remore di essere un “Robin Hood” che ruba ai ricchi per dare a se stesso. Mora, invece, appare come un vero mediatore di potere: mostra con orgoglio il suo cellulare pieno di immagini di simboli fascisti, mentre in sottofondo risuona Faccetta nera.

E ancora: per diventare una “meteorina” di Rete4 bisogna passare per il “Billionaire” di Flavio Briatore, mentre i provini per le veline di Striscia la notizia diventano il rito di passaggio verso una carriera televisiva.

Gandini e la videocrazia

Erik Gandini, regista bergamasco da anni residente in Svezia, mostra come le immagini televisive siano diventate strumento di condizionamento non solo per chi aspira a diventare famoso, ma anche per chi lo è già. Parafrasando Debord, lo spettacolo è un insieme di relazioni sociali mediate dalle immagini, e in Italia questo legame tra immagini e potere è incarnato dall’uomo politico che più di tutti ha fatto della tv il suo strumento: Silvio Berlusconi.

Le reti televisive, specialmente Mediaset, diffondono un modello di edonismo che manipola coscienze e desideri, promettendo all’“everyman” un quarto d’ora di celebrità, warholiano e illusorio.

Estetica e limiti del film

Le immagini del film sono volutamente sgranate, sporche, pastose, come se fossero riprese di uno schermo televisivo. Richiamano i retini pop di Lichtenstein o le immagini usurate di Warhol: fotogrammi già consumati e riutilizzati, digeriti e instillati nello spettatore.

Videocracy – Basta apparire affronta temi scottanti e necessari, e ha il merito di metterli a nudo con chiarezza. Tuttavia, alla sua operazione manca un vero affondo critico sulle dinamiche profonde dello strapotere mediatico: Gandini si limita a mostrare i casi noti (Corona, Mora) senza andare oltre. L’opera resta comunque preziosa come testimonianza di un’epoca in cui lo spettacolo e il potere politico si sono fusi in un unico dominio: quello delle immagini.

Il colore del melograno: il film diretto da Sergej Paradjanov

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Il colore del melograno (Sayat Nova, titolo originale modificato dalle autorità sovietiche in Brotseulis kvaviloba – Sayat Nova) è il capolavoro del 1968 diretto da Sergej Paradjanov. L’opera racconta la vita del poeta armeno del XVIII secolo Sayat Nova, non attraverso una narrazione tradizionale ma tramite una serie di tableaux viventi, ricchi di simbolismo e visioni oniriche. Infanzia e adolescenza, il servizio presso il principe, l’amore proibito per sua figlia, il ritiro in convento e infine la morte per mano dei soldati persiani: ogni fase dell’esistenza del poeta è evocata per immagini, in una dimensione rituale e metaforica che trascende il realismo narrativo.

Un cinema di poesia

Ci sono molti modi per raccontare una vita. Chi ha detto che al cinema sia necessario attenersi a una narrazione lineare? Il colore del melograno è probabilmente uno degli esempi più limpidi di “cinema di poesia”. Paradjanov sceglie di non “raccontare” ma di visualizzare l’esistenza del poeta attraverso il linguaggio della metafora, dei simboli e delle immagini frontali, sospese, fuori dal tempo.

Sayat Nova, considerato il più grande poeta armeno, apparteneva alla tradizione degli ashughi, simili ai trovatori occidentali. Paradjanov, più che restituire una biografia fedele, cerca di tradurre in immagini l’essenza della sua poesia, evocandone l’universo interiore.

Simbolismo e ritualità

Una delle prime sequenze mostra Sayat bambino che dispone libri sui tetti di un convento e vi si stende sopra con le braccia aperte, in un’immagine che anticipa il suo futuro martirio. In un’altra scena, la mano del giovane poeta rimane schiacciata tra due volumi mentre un sacerdote lo esorta a leggere “per il popolo”: un gesto che diventa correlativo oggettivo della poesia come missione e al tempo stesso come fardello.

Il film alterna riti religiosi, mestieri quotidiani, gesti intimi, restituendo i “colori e gli aromi” del mondo che formò l’immaginazione poetica di Sayat Nova. L’amore per la figlia del principe è reso con sguardi e movimenti rituali, mentre la morte del poeta è rappresentata da immagini di forte potenza visionaria, come il suo corpo disteso tra candele mentre galli, svolazzando, finiscono per bruciarsi.

Un linguaggio tra oriente e occidente

L’impressione dominante è quella di assistere a un rituale. Ogni gesto, ogni oggetto, sembra spiritualizzato e rimandare a una realtà altra. Le inquadrature frontali, quasi bidimensionali, ricordano le miniature medievali e il teatro Nō giapponese, più che il cinema narrativo occidentale. Lo spazio diventa così sospeso, onirico, irriducibile a un tempo realistico.

Un film censurato e scomodo

Non stupisce che un’opera di questo tipo, impregnata di spiritualità e surrealismo, abbia incontrato l’ostilità dell’URSS. Il governo sovietico impose la modifica del titolo originario Sayat Nova in Il colore del melograno e accusò Paradjanov di essersi discostato dal realismo socialista. Le pressioni non si fermarono al piano artistico: il regista venne condannato a cinque anni in un campo di prigionia con accuse infondate di omosessualità e furto. Solo grazie alla mobilitazione di artisti e colleghi venne liberato, ma per anni gli fu impedito di lavorare.

Eredità e riscoperta

Oggi Il colore del melograno è considerato un caposaldo della storia del cinema, amato e lodato da autori come Tarkovskij e Fellini per la sua potenza visionaria. Rimane però un film difficile da reperire, disponibile soprattutto in edizioni DVD della Ruscico e della Kino.

Il destino dell’opera sembra riflettere quello stesso di Sayat Nova: la poesia come missione e insieme martirio. Paradjanov conferma così che i veri poeti – anche quelli del cinema – sono sempre scomodi, capaci di inquietare e di resistere al tempo e alla censura.

Il grande silenzio: recensione del film di Philip Groning

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Il grande silenzio (Die grosse Stille), diretto da Philip Gröning nel 2005, è un’opera rara e radicale che ha segnato un punto di svolta nel cinema documentario contemporaneo. Girato all’interno del monastero della Grande Chartreuse, nei pressi di Grenoble, il film porta sullo schermo la quotidianità dei monaci certosini, una delle comunità religiose più severe e impenetrabili della Chiesa cattolica. Per la prima volta, la macchina da presa riesce a penetrare questo universo chiuso e silenzioso, mostrando al pubblico un mondo sospeso nel tempo, dove la preghiera, il lavoro manuale e la contemplazione scandiscono ogni gesto.

Il progetto nacque da un rapporto di lunga fiducia: Gröning aveva chiesto ai certosini già negli anni ’80 di poter filmare la loro vita, ma l’autorizzazione arrivò soltanto 16 anni dopo. Una volta ottenuto il permesso, il regista trascorse mesi nel monastero, vivendo alle stesse condizioni dei monaci, senza troupe, senza luci artificiali, immerso nella stessa routine di austerità e silenzio. Questa scelta radicale conferisce al film un carattere unico: non un semplice documentario, ma un’esperienza sensoriale che immerge lo spettatore nella spiritualità quotidiana dei certosini.

Con i suoi 160 minuti privi quasi del tutto di dialoghi, basati su immagini contemplative e su suoni essenziali, Il grande silenzio non racconta una storia tradizionale ma trasmette un’esperienza: il ritmo del tempo, la ripetizione dei riti, la solennità della natura, la quiete interiore. È un cinema che abbandona la parola per ritrovare il senso profondo dell’immagine e del silenzio, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi a una dimensione meditativa e ipnotica, fuori dal tempo e dalle distrazioni del mondo moderno.

L’ordine certosino e l’eccezionalità del film

L’ordine dei Certosini è considerato una delle confraternite più rigide della Chiesa cattolica. La loro vita quotidiana, scandita da regole secolari, è rimasta a lungo nascosta agli occhi esterni. I turisti non hanno accesso ai loro spazi, e prima di Gröning le riprese all’interno della certosa erano state pressoché inesistenti.

Questo film rappresenta quindi un documento unico, frutto di una relazione di fiducia costruita negli anni tra il regista e il Priore Generale dell’ordine. Il contratto siglato stabiliva che per almeno sette anni nessun altro avrebbe potuto girare nella Grande Chartreuse: un’esclusiva che ha reso l’opera ancora più preziosa e irripetibile.

Gröning non si è limitato a osservare: ha condiviso la vita monastica, partecipando al silenzio e alla disciplina del convento, diventando parte integrante del contesto che stava filmando.

L’analisi: il cinema come esperienza

Non è facile parlare di Il grande silenzio. Non lo è mai quando si affronta un film che rifiuta i codici narrativi tradizionali. Qui la parola è quasi del tutto assente, eccezion fatta per le preghiere corali o per la toccante testimonianza di un monaco cieco che, verso la fine, afferma di non provare dolore per la sua cecità, ma gioia nell’avvicinarsi a Dio.

Gröning ha compiuto un’impresa estrema: un film di due ore e quaranta senza dialoghi, girato con una sola telecamera, senza luci artificiali, basato su inquadrature fisse e sulla ripetizione di gesti quotidiani. Una scelta che, se da un lato appare assurda, dall’altro si giustifica pienamente nel contesto monastico.

Un cinema povero, ma essenziale

Il film si avvicina per rigore al “dogma”, ma ciò che ne emerge è un cinema di pura osservazione, quasi cinéma vérité. Davanti all’obiettivo i monaci pregano, leggono, cucinano, si prendono cura delle piante e degli animali, riparano scarpe e vestiti. Ogni gesto, anche il più banale, è investito di significato.

La narrazione è scandita da primi piani, sequenze dell’ambiente naturale e cartelli su fondo nero con citazioni bibliche. Non ci sono virtuosismi formali: solo qualche effetto di pellicola invecchiata o l’uso del grandangolo per sottolineare la profondità.

Il film appare come un “assurdo”, perché racconta un’esistenza che agli occhi del mondo moderno può sembrare altrettanto assurda: un taglio netto con il mondo esterno, una vita dedicata a preghiera, meditazione e silenzio.

Tra Malick e Tarkovskij

Pur centrato sulla fede, Il grande silenzio non è un film religioso in senso convenzionale. Ciò che è trascendente non viene mai mostrato, ma resta implicito, come una corrente sotterranea che attraversa immagini fortemente immanenti: la neve, le piante, i corsi d’acqua, gli oggetti quotidiani, i gesti ripetuti dei monaci.

Il linguaggio visivo richiama a tratti Malick e Tarkovskij, per la capacità di cogliere la spiritualità nel dettaglio naturale e nel rito quotidiano. Perfino i momenti di gioco dei monaci – come quando scivolano su un pendio innevato – diventano parte di un rituale dell’immanente che allude al trascendente.

Conclusione

Con Il grande silenzio, Gröning ha realizzato un’opera che non si limita a documentare: offre un’esperienza di immersione totale in un mondo fuori dal tempo, in cui la vita scorre lontana dal frastuono contemporaneo.

Che lo spettatore vi colga un’esperienza mistica o semplicemente un affascinante esercizio di osservazione dipende dalla sua sensibilità. Ma ciò che resta è la forza di un cinema che riesce, con mezzi poverissimi, a restituire la densità spirituale di una vita interamente dedicata al silenzio e alla contemplazione.

Esther, il film del 1986 diretto da Amos Gitai

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Esther è il film del 1986 diretto da Amos Gitai e con protagonisti Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen, Sara Cohen e Juliano Mer.

  • Anno: 1986
  • Diretto da: Amos Gitai
  • Con: Mohammed Bakri, Rim Bani, Simona Benyamini, David Aharon Cohen,
    Sara Cohen, Juliano Mer.

“Non opprimete e non sfruttate lo straniero; voi conoscete l’animo dello straniero,
giacché voi stessi siete stati stranieri nel paese d’Egitto.”
Esodo 23:9

Esther, la trama

Esther è basato sulla storia biblica del libro di Ester. Al tempo in cui i giudei sono sotto il dominio persiano, il re Assuero di Susa sceglie come moglie una giovane giudea, Esther.

Sotto consiglio del sacerdote Mardocheo, suo zio, la donna tiene nascosta la propria origine al sovrano. Aman, uno dei dignitari di corte, ordina la persecuzione dei giudei, poiché non sembrano riconoscere altra autorità fuorchè il proprio Dio, come Mardocheo, che sventa un complotto ai danni del re. Aman intende uccidere il sacerdote, ma Esther rivela al re i piani di Aman, che viene messo a morte. Mardocheo ed Esther, ottengono dal re che i giudei possano organizzarsi e difendersi dalle persecuzioni: in breve tempo, coloro che dapprima erano stati perseguitati divengono persecutori.

Esther, l’analisi

Non sono molti i casi della storia del cinema in cui un regista alla sua opera prima riesca a essere, pur tra le acerbità di vario tipo che contraddistinguono gli esordi, intenso e ricco nell’ispirazione, appassionato e asciutto al contempo. Direi che Esther, di Amos Gitai, rientra in questa categoria. Il film è uscito in cofanetto dalla Rarovideo in edizione restaurata e accompagnato dagli altri due capitoli di quella che è considerata la trilogia dell’esilio nell’opera del cineasta di Haifa.

Gitai afferma di essere rimasto colpito dal fatto che nel libro biblico di Ester non si nomina direttamente “Dio” e che voleva rintracciare in esso qualcosa dell’ebreo contemporaneo, laico. Egli riprende il testo in maniera sostanzialmente fedele, ma la sua operazione diviene particolarmente interessante alla luce del fatto che la storia narrata è quella di un popolo perseguitato che diviene persecutore a propria volta, ed Esther diviene a propria volta sanguinaria ordinando il massacro di altri “nemici” dei giudei. Ciò è particolarmente interessante, e coraggioso, se si pensa che Gitai non cela i riferimenti all’attualità di quella terra costantemente promessa e costantemente insanguinata che è la Palestina e quello stato in qualche modo sempre utopico che è Israele, dove accade che i confini tra persecutori e perseguitati siano estremamente labili e fluttuanti.

E Gitai, che è nativo di Haifa (dove il film è stato girato), città nel nord di Israele, mette in discussione, pone quesiti, rimette in gioco la storia e la tradizione affrontando sempre criticamente il presente del suo paese che egli certamente ama, cortocircuitando col suo cinema le distinzioni tra generi, lingue, tecniche. Esther è girato con una tecnica particolare: si tratta infatti di una serie di tableaux (ispirati alle miniature persiane, di cui posseggono l’impianto ieratico) in cui la macchina da presa si muove poco, effettuando delle carrellate.

Le inquadrature del film sono centripete, e ciò che fornisce dinamicità ai quadri sono le azioni degli attori e gli splendidi effetti di luce della fotografia di Herni Alekan, che permea gli oggetti e i colori sgargianti di una patina magica e irreale.  Gitai ha sempre ammesso (e i suoi film lo dimostrano) di preferire le riprese lunghe, i piani-sequenza, poiché più delle inquadrature brevi cui tanto linguaggio televisivo ci ha abituati, sanno restituire la complessità del reale. E’ interessante, questo, se pensiamo al fatto che il suo paese è (pur-troppo) spesso al centro degli obiettivi televisivi, oggetto di servizi a ripetizione, in cui la realtà è frammentata in una serie di informazioni il cui senso sembra già dato una volta per tutte e si rende impermeabile alle interpretazioni.

Esther, la messa in scena 

Nella messa in scena di Gitai di Esther, coi personaggi in costume storico, ci sono però degli elementi stranianti, brechtiani, che fanno saltare il gap temporale tra il tempo in cui si svolge la storia e il tempo in cui il film è stato girato. Quando i personaggi si aggirano infatti per le strade dissestate di Haifa o le sue rovine delle sue mura, la mdp include spesso elementi (intenzionalmente) anacronistici: cavi elettrici, pali del telefono, palazzi moderni. Ciò fa effettivamente deflagrare il confine tra il tempo della storia narrata e la situazione in cui è stata girata. Quel che Gitai vuole offrirci, non è una mera ricostruzione storica, ma una riflessione sul presente. Ci fa sentire il dispositivo cinematografico, attraverso quelli che potrebbero sembrare dei “fianchi aperti” se si trattasse di un normale film a soggetto biblico-storico. Brechtianamente, invece, siamo mantenuti vigili con un occhio alla storia e l’altro alle condizioni reali, attuali, in cui essa è stata girata. È lo stesso per un personaggio che appare più volte in diverse vesti (mendicante, banditore, commerciante, etc) intervenendo a spiegare, come una sorta di cantastorie, alcuni punti della storia, e lo fa guardando in macchina, coinvolgendo direttamente lo spettatore.

Quando Aman viene giustiziato (sequenza splendida, in cui la mdp panoramicando passa da una costruzione antica dove l’uomo sta per essere ucciso, a una strada moderna, con degli autobus e una moschea sullo sfondo), Esther, a sera, chiede al re che il giorno successivo abbia luogo un altro massacro: secondo il regista, in poche righe, il testo biblico mostra tutte le contraddizioni del potere.

L’epilogo mostra, in un lungo cameracar per le strade di Haifa, dove ad angoli ancestrali si alternano altri moderni, gli interpreti principali camminare e riflettere criticamente sul ruolo interpretato, sul senso della vendetta, sull’”utopia” che era Israele, sulle proprie origini.

Tutti gli attori sono ebrei, ma ciascuno di diversa nazionalità: chi egiziano, chi ungherese, etc, e benché il film sia interamente parlato in ebraico, ciascun attore lo pronuncia con la propria cadenza. Si potrebbe dire che Gitai attui col cinema l’operazione che Deleuze rintracciava nella letteratura degli autori minori: Kleist, Kafka..etc. Essi fanno “balbettare” la propria lingua, quasi che le fossero stranieri, come esuli, e si ritaglino nelle proprie opere una sorta di idioletto. Gitai, che ha vissuto come esule tra il suo paese, la Francia, gli USA, la Germania, ha fatto egli stesso un cinema esule e riflessivo, che pone interrogativi, che rimette in discussione non la tradizione in sé, ma piuttosto la rianalizza per rianalizzare il presente (per farlo “balbettare”, verrebbe da dire), come accade, appunto, in Esther, parlato in ebraico, che, come ricorda lo stesso autore in un’intervista, è una lingua in cui manchi una vera e propria coniugazione verbale del presente, possendo, al contrario, numerose forme al passato, e, al contempo, gravida di una sorta di utopia e tensione al futuro.