La Twentieth Century
Fox ha confermato che il nuovo capitolo della serie di
Die Hard avrà il rating ‘R’ (che prevede
l’obbligo di accompagnamento da parte di un maggiorenne per i
minori di 17 anni).
La restrizione soddisferà
sicuramente Bruce Willis, il quale ebbe molto da
ridire sul fatto che il precedente film della serie avesse ottenuto
solo il rating PG 13, nei fatti venendo giudicato poco più di un
film ‘per famiglie’: Live Free or Die
Hard è stato in effetti l’unico episodio ad aver
ottenuto un rating così basso in una serie in cui la forte dose di
violenza ha sempre comportato restrizioni abbastanza rigorose.
A Good Day To Die
Hard uscirà il prossimo 14 febbraio, diretto da
John Moore su una sceneggiatura di Skip
Woods (X-Men Origins:
Wolverine). La vicenda vedrà John McClane, in
trasferta in Russia, imbattersi nel figlio (Jai
Courtney), diventato un agente della CIA, che sta cercando
di scongiurare un attacco terroristico contro gli Stati Uniti.
Dopo qualche ora di sonno eccoci
qui a commentare i premi che questa notte sono stati dispensati ai
commensali illustri per la 70esima edizione dei Golden
Globe 2013.
Un nome risuona con vigore:
Ben
Affleck. Questo ragazzone di Boston che ha cominciato
la sua carriera con un Oscar (condiviso con l’amico e collega
Matt Damon) e che poi è stato un po’ dimenticato
per una serie di scelte sbagliate come attore; dopo diversi anni,
Ben ha rovato il coraggio e la maturità per seguire la sua vera
vocazione, la regia. Ed ora sta cominciando a raccogliere i frutti
del suo lavoro, in mezzo a candidati concorrenti di tuto rispetto,
tra cui (mio Dio!) Steven Spielberg, vrso il quale
Affleck non dimentica di guardare mentre accetta il suo premio. Da
parte sua orgoglio e grande rispetto che i grandi registi candidati
con lui. Ma il trionfo di Ben è perfetto solo quando al suo
Argo
viene assegnato anche il premio per il miglior film drammatico. Con
lui ad accettare il premio un gongolante George
Clooney che dimostra di avere talento anche come
produttore, oltre che come regista e attore.
E proprio di attori andiamo a
parlare adesso, con le sei categorie che li vedono coinvolti.
Cominciamo subito dalle signore, e che signore! Tre donne splendide
e magnifiche attrici si sono divise i premi: Anne
Hathaway ha vinto per la migliore non protagonista ed è
probabile che farà doppiettà con l’Oscar; le altre due premiate,
Jennifer Lawrence per la migliore performance
comica e Jessica Chastain per la migliore
performance drammatica, sono invece le principali contendenti per
l’Academy Award, e sarà decisamente una bella lotta! Pronostici un
po’ sballati invece per gli attori che hanno visto trionfare come
miglior non protagonista Christoph Waltz, al posto
di quel Tommy Lee Jones tanto osannato (a
ragione!) dalla critica. Anche per quanto rigurada il migliore
attore, i vicnitori nelle due categorie principali Daniel
Day Lewis e Hugh Jackman, rispettivamente
miglior attore drammatico e miglior attore in musical o commedia,
sono i due maggiori contendenti all’Oscar per il miglior
protagonista. Un po’ d’amaro in bocca resta a Bradley
Cooper, che vedendo la partner trionfare per
Il Lato Positivo, pensava forse di
bissare il successo dei Critics Choice Awards. Non preoccuparti
Bradley, stai crescendo come attore, arriverà anche il tuo
momento!
Come tutti si aspettavano,
Les Misérables ha vinto il premio per il
migliro musical o commedia, e come contestare un tale trionfo?
Escluso che il successo del film si ripeta agli Oscar, se non per
il premio alla Hathaway, ma è bello pensare che in questo caso ha
vinto tutto ciò che poteva e doveva.
Grande sorpresa invece la vittoria
per Quentin Tarantino alla migliore sceneggiatura,
una sorpresa che ha colto per primo il diretto interessato: “E’
una grande sorpresa e io amo essere sorpreso!”. Che anche gli
Academy Awards riservino finalmente un premio per quello che è
considerato all’unanimità un genio pop?
Desta invece non poco disapputo la
vittoria di Ribelle – The Brave per il
miglior film d’animazione, dal momento che pur senza negarne il
valore, c’erano diversi film che potevano fare la differenza, come
il delizioso Frankenweenie di Tim
Burton, o il colorato Ralph
Spaccatutto. Infondo siamo tutti contenti per Merida
&Co, ma cosa accadrà agli Oscar quando contro di lei ci sarà
anche il geniale esercito di zombie di
Paranorman?
Adele ha portato a
casa il premio per la migliore canzone Skyfall, e qui niente da
dire, mentre Vita di Pi di Ang
Lee ha vinto un contentino con il premio alla miglior
colonna sonora, dopotutto un film così amato doveva pur portare a
casa qualcosa!
Michael Haneke ha
vinto per il miglior film straniero,
Amour, e siamo quasi sicuri che porterà a
casa anche l’Oscar, dal momento che la sua nomination anche alla
migliore regia è il chiaro segno di quanto il film sia stato amato
negli USA.
Per quanto riguarga la tv
Girls e Homeland hanno trionfato per le categorie
comedy e drama, mentre Game Change ha portato a casa i
premi legati al miglior film tv o mini serie. Menzione d’onore alla
grande Maggie Smith che per Downton Abbey
vince il premio per la miglior attrice non protagonista in una
serie, mini serie o film tv.
Un ultimo commento è da dedicare
alle presentatrici della serata Tina Fey e
Amy Poehler, caustiche e divertenti hanno “sparato
a zero” sulla folla di star, raccogliendo tanti applausi.
Dei premi quest che tutto sommato
mettono d’accordo tutti, anche se ci si aspettava qualcosa di più
per Steven Spielberg che con
Lincoln ha fatto davvero un lavoro
straordinario. Ad ogni modo la stampa estera ha detto la sua, per
cui ora non ci resta che aspettare e vedere come proseguirà questa
season awards appena entrata nel vivo.
Al momento si tratta di una
semplice congettura, tuttavia sembrerebbe che qualcosa di nuovo
stia cominciando a bollire in pentola riguardo il Cavaliere
Oscuro: a quanto pare infatti, negli ultimi giorni vi è
stata una valanga di registrazioni di nuovi domini che includono
sia l’utilizzo delle parole Batman e, soprattutto Arkham
Asylum (la clinica psichiatrica nella quale vengono
rinchiusi tanti dei nemici del giustiziere).
La notizia di queste registrazioni
‘anomale’ ha dato il via alla classica ridda di voci, tra le quali
ovviamente quella che ipotizza un rilancio di Batman sul grande
schermo; ipotesi suffragata dal fatto i nuovi domini sono stati
registrati attraverso MarkMonitor, società che in
passato è stata spesso usata dalla Warner
Bros per registrare i siti ufficiali dei propri film,
anche se la stessa compagnia ha lavorato anche per altri studios,
come recentemente avvenuto per la Paramount in
occasione di Star Trek Into Darkness.
Altre voci avevano suggerito che il
prossimo film di Batman avrebbe potuto prendere le mosse proprio
dalla serie di videogiochi battezzata Arkham Ayslum, ma a questo
punto vi è anche la possibilità che i siti in questione siano
correlati proprio a un nuovo capitolo della serie di videogame.
Via libera al quinto episodio della
‘saga’ di Step Up: la
Summit Entertainment è già in corso di
negoziati con John Swetnam per stendere la
sceneggiatura: l’idea sarebbe di riunire personaggi e attori
provenienti dai film precedenti.
La serie è nata nel 2006: il primo
film aveva come protagonisti Channing Tatum e
Jenna Dewan; nel 2008 il primo sequel,
Step Up 2: The Streets, in cui lo stesso
Tatum appariva in un breve cameo; del 2010 è
Step Up 3D, seguito
l’estate scorsa da Step Up
Revolution. Se il progetto del quinto film decollerà
definitivamente, l’uscita potrebbe essere programmata per il
2014.
Trai prossimi progetti di Swetnam,
ci sono Evidence e Black
Sky.
Si è conclusa da poco la cerimonia
di premiazione dei Golden Globe, i premi assegnati a cinema e tv
dalla stampa estera. Ecco a seguire l’elenco completo dei
vincitori
Ecco qui a seguire la diretta
streaming della cerimonia di premiazione dei Golden Globe, edizione
2013. Quest’anno il premio della critica straniera è arrivato alla
sua 70esima
Arriverà con alle spalle un grande
trionfo in terra natia, e tutti gli amanti del grande cinema qui in
Italia lo aspettano trepidanti. È Lincoln, di
Steven Spielberg, che dopo essere
stato applaudito a scena aperta negli USA nei mesi passati, arriva
da noi il prossimo 24 gennaio. L’amatissimo regista americano
ritorna a splendere in tutto il suo talento registico dimostrando
che il grande autore riesce a mettersi al servizio della storia
senza per forza insistere per farne parte.
Lincoln racconta
dei quattro mesi che hanno portato il Congresso degli Stati Uniti a
votare in maniera favorevole il XIII Emendamento, quello che
aboliva per sempre la schiavitù in territorio americano, e si
conclude con la tragica morte dell’amatissimo Presidente.
Steven Spielberg ci racconta “l’altro” Lincoln,
quello che è disposto anche a giocare sporco per raggiungere il suo
proposito, nel momento in cui ha il potere per cambiare in nome del
bene il corso della Storia. Un taglio coraggioso che si sposa bene
con il punto di vista adottato dal regista, ovvero quello dei
salotti, degli interni e delle aule, dove i rapporti politici e
umani si intrecciano e “fanno” la Storia della modernità, così come
la conosciamo.
Spielberg realizza un vero e
proprio trattato sulla politica, senza anteporre schieramenti ma
sostenendo la validità della stessa come attività sociale alla base
di uno Stato libero. La regia di conseguenza quasi sparisce, lascia
andare le infinite possibilità spettacolari che il periodo storico
raccontato (la Guerra di Secessione Americana) lasciava aperte, e
preferisce spostarsi negli interni in cui la luce naturale che
entra quasi con violenza dalle finestre, lotta contro l’ombra che
si annida negli angoli delle camere. In
Lincoln è la luce stessa a raccontare e
commentare, come mirabilmente riesce a fare grazie al supporto di
uno Janusz Kaminski in stato di grazia.
Ad una regia misurata e impeccabile
si accompagna una prova collettiva del cast di straordinaria
potenza comunicativa, a partire dal protagonista nei panni
dell’altissimo e un po’ curvo Presidente Lincoln, Daniel Day-Lewis, passando per una
Sally Field (Signora Lincoln) appassionata eppure
sferzante, fino ad un incredibile Tommy Lee Jones, solido, granitico eppure
incommensurabilmente dolce nel momento in cui con grande candore
mostra le sue ragioni più personali e profonde. Pur presentandosi
in maniera così intimamente sontuosa, Lincoln è un film di lenta
carburazione, cominciando un po’ a fatica e proiettando solo in un
secondo momento lo spettatore in una corsa contro il tempo, in una
caccia all’ultimo voto, all’ultimo SI.
Ad accompagnare le immagini con la
musica, ancora una volta, Spielberg ha chiamato il Maestro
John Williams, che per una volta mette da parte i
suoi potenti ottoni e le sue note concitate per dare voce a
tonalità delicate e spesso addirittura malinconiche, discrete, che
riescono a raccontare più di tante parole, insieme ai volti, alle
rughe dei protagonisti. Lincoln è un film di una grande potenza
emotiva, che in pochi momenti indulge nell’enfasi tanto cara al
regista americano, ma che si colloca tra le migliori prove
registiche di Spielberg. Daniel Day-Lewis è senza
dubbio il miglior Lincoln cinematografico mai visto fino ad ora, e
Lincoln è il miglior film mai realizzato sul 16°
Presidente degli Stati Uniti d’America.
Il film Pulp fiction
fu girato nel 1994 dal regista americano Quentin Tarantino, utilizzando l’espediente delle storie
intrecciate. Nel prologo, i due giovani Zucchino e Coniglietta
stanno seduti presso un coffee-bar di Los Angeles, tranquillamente,
finché decidono d’alzarsi in piedi per rapinarlo, con le loro
pistole. Ma Tarantino interrompe la scena. Vedremo i due gangsters
Jules e Vincent, che uccideranno tre giovanotti, colpevoli d’aver
rubato una valigetta al loro capo, Marcellus Wallace.
In seguito, parte il primo episodio
del film. Il gangster Marcellus Wallace corrompe un suo pugile,
Butch, perché lui perda volontariamente un importante incontro.
Questi combatte ormai a fine carriera. Vincent è nei paraggi, e
scambia perfino qualche battuta col pugile Butch. Il gangster però
esce, andando a comprare un po’ di eroina, dal suo amico Lance,
perché ne ha bisogno per “far divertire” Mia Wallace, l’avvenente
moglie del capo. Vincent deve accompagnarla ad una gara di ballo.
Mia Wallace assumerà l’eroina, ma disgraziatamente andrà in
overdose. Vincent porta la donna da Lance, facendole un’iniezione
d’adrenalina, che le salverà la vita. Nel secondo episodio, il
pugile Butch contravviene all’ordine di Marcellus Wallace, vincendo
il suo ultimo incontro. Raggiunta la fidanzata Fabienne, per
scappare dai gangsters, apprende che lei frettolosamente non s’è
ricordata di mettere in valigia un orologio d’oro, un ricordo
familiare, passato dal bisnonno al padre di Butch, vero
portafortuna contro le guerre. Pericolosamente, il pugile decide di
tornare a casa, per recuperarlo. Là Butch ucciderà Vincent, venuto
a cercarlo. In seguito, il pugile incontra casualmente Marcellus
Wallace.
I due lottano a pugni, finendo però
imprigionati dai sadici stupratori Maynard e Zed. Liberatosi, Butch
ucciderà i carcerieri, salvando così Wallace, il quale in segno di
riconoscenza lo lascerà scappare. Nel terzo episodio, si torna alla
scena in cui Jules e Vincent devono uccidere i giovanotti (che
hanno rubato una valigetta del loro capo). In realtà, uno di questi
è risparmiato, ma caricatolo in macchina, Vincent accidentalmente
gli spara, uccidendolo. Temendo che la polizia possa fermarli, per
il sangue sui finestrini, i due gangsters raggiungono la casa di
Jimmie, un amico di Jules. Là compare il cinico Mr. Wolf, spedito
da Marcellus Wallace come risolutore di problemi. L’autovettura
viene accuratamente pulita. Jules e Vincent cambiano i loro abiti,
intrisi di sangue. I due gangsters raggiungeranno un coffee-bar. E’
lo stesso in cui Zucchino e Coniglietta tenteranno una rapina
improvvisata. Mentre i clienti devono consegnare i loro portafogli,
Jules riesce a trattenere la preziosa valigetta di Marcellus
Wallace. Egli disarma Zucchino, e lo invita ad abbandonare la vita
criminale. I due rapinatori usciranno mestamente dal coffee-bar,
coi soldi nei portafogli (ivi compresi quelli di Jules).
Possiamo citare la filosofia
estetica di Roland Barthes. Per lui, il mondo del
gangster si manifesta tramite il caratteristico sangue freddodello
sparo. Solitamente un incensurato riflette intorno al problema
della morte, laddove questa ad esempio riguardi i suoi familiari, o
(più astrattamente) se lui professa una fede religiosa. Ma il
gangsterno. Egli ritiene che la morte sia unicamente lo schiocco
del suo proiettile. Ove debba uccidere, il criminale moderno si
limita a compiere un servizio professionale, senza gli idealismi.
Egli non cerca neppure l’enfasi del duello personale, ancora
presente nell’epopea del western (spesso in via
idealistica). Il killer contemporaneo vuole soltanto sparare, nel
modo più efficace e rapido. Nei film western, ad esempio, accade
che la ripresa del duello finale s’allunghi nel tempo, acquisendo
una valenza narrativa. Così, il regista indugia ad inquadrare
l’espressione dei contendenti. Nel gangster-movie, invece, di
frequente avviene che la vittima cada a terra proprio nel momento
in cui il killer gli ha pronunciato la sua condanna del
“Muori!”. L’uccisione letteralmente è il colpo da fuoco.
Nel film di Tarantino, il termine
pulp (dal titolo) significa lurido. Il proiettile del
gangster serve a risolvere un problema il più rapidamente
possibile. Esteticamente, è qualcosa da percepire con grande
cinismo. Sempre lo sporco (il lurido) s’accompagna alla
trascuratezza. Lo lasciamo con troppa rapidità. Nel film di
Tarantino, i criminali maneggiano le armi come se esse servissero a
sporcare le loro vittime. La risoluzione del problema (ad esempio:
il furto della valigetta, il tradimento del pugile, la rapina al
coffee-bar, l’overdose di Mia, l’occultamento del cadavere in
macchina ecc…) alla fine non lo ripulisce mai. Tutto il cinismo
iniziale del killer sarà contraddetto. Sparare pare fin troppo
facile, e l’uccisione avviene immediatamente. Invero, si percepirà
che il “problema” non sia stato interamente risolto. Il cinismo del
killer solo si sporcherebbe.
Il film Pulp Fiction
conosce il sadismo, ad esempio nella cantina del cattivo poliziotto
Zed. Visivamente, lo splatter ci pare più trattenuto.
Massimamente, esso appartiene alla scena in cui Vincent deve
salvare Mia, facendole un’iniezione d’adrenalina. Per il resto,
solo dalle parole di Mr. Wolfs’apprenderà che la macchina dei
criminali va ripulita (coi sedili sporchi di tessuto cerebrale).
Può sembrare che la conclusione sporcata del mero proiettile si
percepisca più astrattamente. Nella casa dei giovanotti traditori,
uno di loro rischia d’ammazzare Jules e Vincent, sorprendendoli dal
bagno. Ma i due si salvano, miracolosamente. Il giovanotto del
bagno dunque ha sporcato il suo caricatore, senza prendere la
giusta mira. L’episodio cambia profondamente Jules, che annuncia di
voler abbandonare la vita criminale. Un risveglio personale che
nasce dall’astrazione d’uno splatter (quando la scarica dei
molti proiettili incredibilmente manco scalfisce il corpo). Jules è
solito recitare un verso falsamente biblico, prima d’uccidere
qualcuno. Là, si racconta a grandi linee che gli uomini malvagi
minacciano di continuo quelli buoni (o timorati). La vendetta dei
secondi sui primi sarebbe giusta. Se gli uomini conoscono pur
sempre la malvagità, allora bisognerebbe adoperarla a vantaggio dei
buoni. E’ così che Jules interpreta la sua criminale. Egli vuole
redimere le vittime, uccidendole, convinto che loro prima abbiano
peccato. E’ una visione chiaramente sporcata della misericordiae
della provvidenzareligiosa. In fondo ogni criminale ripulisce
qualcosa (lo sportello d’una banca, la cassaforte in casa, la
valigetta coi diamanti ecc…) solo contro il suo legittimo
proprietario.
Alla fine del film, Jules sceglie
d’abbandonare la vita criminale, convertito dal miracolo del
caricatore inesploso su di lui. E’ significativo che lui reciti a
Zucchino il verso “falsamente” biblico mentre lo tiene idealmente
per mano. Pure il giovane rapinatore dovrà seguire il
suggerimento di lasciare il crimine. E’ il momento in cui Jules
tradisce l’autentico risveglio spirituale (attraverso il miracolo
della sopravvivenza), razionalizzato dal cinismo sporcante per cui
lui altro non faceva che la parte del malvagio. Dunque, nel film
Pulp Fiction pare che il momento topico della
sparatoria solo a prima vista si risolva freddamente. Forse, Mr.
Wolf è davvero un risolutore di problemi (come recita la sua
autopresentazione). Però, ricordiamoci che lui non ha bisogno di
girare con la pistola. Consideriamo esteticamente lo pseudo-triello
messicano al coffee-bar. Là, Coniglietta punta la pistola contro
Jules, Jules punta la pistola contro Zucchino, Vincent punta la
pistola contro Coniglietta. E’ così che la tensione della
sparatoria rischia più apertamente di degenerare, allo sporco di se
stessa. Conosciamo bene il triello messicano nel film di Leone
Il buono, il brutto, il cattivo. Là, il regista
scelse di aumentare la suspense, rallentando l’avvio degli spari,
con le lunghe inquadrature sui volti.
Nel suo film Le iene,
Tarantino usa il triello messicanoal massimo grado della
pericolosità. Là, da un primo sparo subito seguono gli altri due, e
così moriranno tutti. Nel film Pulp Fiction, lo
pseudo-triellosi risolve apparentemente in modo positivo. Nessuno
si fa ammazzare. Resta però il cinismo sporcante della redenzione
in Jules, che contagerà anche Zucchino. La suspense(già cara agli
spaghetti-western del film Il buono, il brutto, il
cattivo) un po’ alla volta si fa annullare. Non la
percepiamo tanto fra le pistole, bensì nel contenuto misterioso
della valigetta (che Tarantino eviterà di svelarci). Jules, capendo
che Zucchino e la fidanzata sono quasi dei dilettanti, in quanto a
rapinare, ironizza apertamente contro di loro. Alla fine, la
suspense della sparatoria si fa annullare. Simbolicamente, ciò
accade tramite lo sporco nel portafoglio di Jules, riconoscibile
dalla scritta “Brutto figlio di…”. Il gangster baratterà i
suoi soldi col piccolo ladro, in cambio della valigetta
(assolutamente da consegnare a Marcellus Wallace). Il portafoglio
contribuisce a sporcare la suspense per il triello messicano.
La regia di Tarantino si diverte a
giocare contro la possibilità che noi vediamo qualcuno o qualcosa.
Lo sparo di Vincent contro il giovanotto superstite sporcherà di
sangue tutta l’automobile. Non vediamo la testa spappolata della
vittima, ma essa determina l’obnubilamento dei due criminali, i
quali dovranno cambiare il loro percorso, temendo d’incontrare la
polizia. Spesso, Tarantino ci mostra il volto soltanto dalla nuca.
Egli ama nascondere completamente il contenuto di qualcosa (dal
bagagliaio, dalla valigetta, dalla porta chiusa ecc). La regia si
diverte a sporcare la nostra visione. All’inizio del film, succede
che Jules e Vincent abbiano un faccia a faccia su argomenti quasi
filosofici. Tarantino li inquadra dentro un corridoio, sia in primo
piano sia verso il punto di fuga. Il secondo caso serve
esteticamente a mettere una patina percettiva sul primo, per così
dire. Il gangster Jules, prima d’uccidere uno dei giovanotti, viene
inquadrato distendendo il braccio minaccioso (con la pistola) verso
di noi. E’ un modo per sporcare virtualmente lo schermo
cinematografico, come passandoci sopra con la bomboletta spray.
Quando Mia va drammaticamente in overdose, la sua testa dapprima
barcolla e poi cade a terra, di profilo, occupando l’intera
inquadratura. Pare che il busto della donna sia stato spazzolato.
La testa a terra di Mia diventerà un grosso grumo di polvere
(materialmente: di droga), ostruendo lo scorrimento normale
dell’immagine filmica.
Questa notte, tra circa
7 ore, comincerà la 70esima edizione della cerimonia di premiazione
dei Golden Globe 2013. I premi sono assegnati da una giuria di
circa novanta
Voci: Debi Derryberry (Jimmy Neutron), Rob Paulsen
(Carl Wheezer), Patrick Stewart (Re Goobot), Martin Short
(Ooblar)
Trama: Ambientato
nell’immaginaria Retroville, cittadina del futuro ma dal sapore
anni sessanta, Jimmy Neutron racconta la
storia di un bambino geniale ma come spesso accade incompreso dai
suoi coetanei e dalla stessa famiglia, che pur volendogli bene e
incoraggiando il suo genio vorrebbe che vivesse la vita di un
bambino normale e che non fosse preso in giro ed emarginato dai
compagni: gli unici amici di Jimmy all’inizio della storia sono
Carl, ragazzino ipocondriaco goffo e grassottello e un uno
cagnolino robot costruito dallo stesso Jimmy di nome Goddard.
Voci: Joaquin
Phoenix (Kenai), Jeremy Suarez (Koda), Jason Raize (Denahi), Dave
Thomas (Rocco), Rick Moranis (Fiocco), Joan Copeland (Tanana),
Michael Clarke Duncan (Tug).
Trama: Immerso
negli splendidi paesaggi del Nord America, il film racconta la
storia di Kenai, giovane impaziente di diventare adulto e di
prendere il posto che gli spetta nella tribù a cui appartiene
proprio come i due fratelli: deluso dal fatto di aver ricevuto come
totem guida dalla saggia del villaggio il poco interessante “orso
dell’amore”, Kenai si lascia prendere dalla rabbia e
dall’incoscienza finendo per perdere il fratello maggiore Sitka e
per uccidere il suo stesso animale guida, suscitando il disappunto
degli spiriti.
In America, se
abbastanza persone firmano una petizione, questa, di qualunque cosa
si tratti, può essere mandata alla Casa Bianca e il governo degli
US ha il dovere
Come ci ha ben insegnato fino ad
ora, JJ Abrams è un regista e produttore
molto riservato quando si tratta del proprio lavoro, dal momento
che pare ritenga che anche il più piccolo dettaglio sul film possa
rovinarne la visione da parte dei fan. Il regista infatti non ha
ancora confermato la natura del personaggio interpretato da
Benedict Cumberbatch in Star Trek Into
Darkness, ma ha però rivelato che la Paramount
Pictures sta mettendo in programma un terzo capitolo di Star
Trek.
“Sono certo che lo Studio
amerebbe un terzo episodio, ma spetta al pubblico decidere se ne ha
bisogno o meno – ha detto Abrams – Ci sono cose di cui
abbiamo parlato, ma non c’è nessuna storia o sceneggiatura. Solo
un’idea”. Il primo Star Trek diretto
da Abrams, uscito nel 2009, costò 250 milioni e ne incassò 385.
Questo secondo sarà un film molto più grande e così sarà più
difficile per Abrams raggiungere quelle vette di incassi. Siamo
però sicuri che il regista di Mission Impossible
III farà un grande lavoro.
Ecco una bella curiosità che viene
direttamente dal blog Super Punch (via Badtaste). Si tratta di tre mappe, disegnate
dal grafico Andrew DeGraff, che riassumono
Ecco il terzo spot tv per
Die Hard – Un buongiorno per morire, che vede ancora
una votla John McClane sfidare la morte a furia di corse a
perdifiato, salti acrobatici, invulnerabilità alle pallottole e
tanto altro ancora.
Questa volta al suo fianco suo
figlio, anche lui arruolato tra le file della CIA. Bruce
Willis torna più in forma che mai! Ecco il terzo spot del
film, che avrà un rating R, ovvero vietato ai minori non
accompagnati.
A tutti i fan delle quattro
tartarughe versate nelle arti marziali questa notizia interesserà
parecchio. Partiranno infatti ad aprile le riprese di
Ninja Turtles, il prossimo film dedicato
alle Tartarughe Ninja prodotto da Michael Bay e
annunciato da diverso tempo.
Le riprese si svolgeranno a New
York City e il film dovrà essere pronto per l’uscita il 16 maggio
2014. A dirigere è stato chiamato Jonathan
Lieberman su una sceneggiatura di Josh
Appelbaum e Andre Nemec.
Evoi, quanto aspettate le
Tartarughe Ninja sul grande schermo?
Joaquin Phoenix –
Chissà quante signore e signorine nel 2000 andarono a vedere
Il Gladiatore per dedicare le loro personali 50
sfumature a Russell Crowe e si ritrovarono invece a chiedersi chi
mai fosse quell’imperatore crudele, insopportabile, incestuoso ma
terribilmente affascinante.
Joaquin Phoenix, biografia
Fino all’incontro con
Ridley Scott, Joaquin Phoenix, nato a San Juan con il nome
di Joaquin Rafael Bottom, aveva avuto una sola significativa
esperienza nel mondo del cinema, nel 1995, con Da
Morire, una delle prime riuscitissime prove di Gus Van
Sant. Un ruolo difficile per un ragazzo di appena 21 anni che
riuscì a calarsi perfettamente nella parte dell’adolescente idiota
e plagiato da una splendida quanto ambiziosa e terrificante oca
giuliva interpretata da Nicole Kidman. Ma nelle parti del
ragazzo cattivo, dell’introverso, del tormentato, Phoenix sa dare
il massimo. L’universo del carismatico, al tempo stesso folle e
imprevedibile, gli appartiene forse perché lì, in quel mondo, non
ha bisogno di recitare. Certo, molto lo aiutano lo sguardo
impenetrabile, le cicatrici, il labbro leporino che solo su di lui
riesce ad essere sexy, e il volto spigoloso, irregolare e al tempo
stesso ipnotico. Ma soprattutto Phoenix è davvero un bad
boy, una mina vagante nell’universo hollywoodiano. Un outsider
con un indiscusso talento che gli ha permesso spesse volte di
vomitare tutto il suo disprezzo per l’universo in cui vive e di
conquistare al tempo stesso una versatilità nella scelta dei ruoli
che pochi colleghi possono vantare.
Joaquin Phoenix: film e
filmografia
La sua abilità non si circoscrive
alla recitazione ma lo ha anche portato, nel 2005, a calcare il set
nelle vesti di Johnny Cash, in Walk the
line (Quando l’amore brucia l’anima), in
cui, insieme ad altri interpreti, prima fra tutti la vincitrice
dell’Oscar Reese Witherspoon, ha eseguito personalmente
molti successi del mito del cantautorato a stelle e strisce,
rivelando grandi doti musicali.
Ha quindi deciso di andare oltre,
realizzando un documentario rap-hip hop, diretto da Casey
Affleck – suo partner professionale degli esordi – e
chiamato I’m still here. The lost year of Joaquin
Phoenix, dove il suo spirito provocatorio ha raggiunto il
massimo con sequenze al limite della censura.
Il documentario, che secondo buona
parte della critica fu niente più che “una porcata” e un
“esperimento di cattivo gusto”, è comunque una delle tante
testimonianze della personalità sui generis dell’attore che, ai
tempi, si fece notare anche per una bizzarra apparizione al David
Letterman Show. Con il volto coperto da una folta barba e occhiali
da sole, alle domande del conduttore, Phoenix rispondeva con
borbottii incomprensibili, prendendosela perfino con il pubblico,
comprensibilmente divertito. Solo in seguito e dopo che Letterman
lo ebbe congedato con un “Grazie per non essere stato qui stasera”,
si scoprì che quella grottesca apparizione altro non fu che una
performance da montare in un secondo momento nel documentario di
Affleck.
Testimone della morte del giovane
fratello, la promessa del cinema River, Phoenix è frutto della
relazione di due hippie ex membri della setta dei Bambini di Dio. È
proprio quello dell’appartenenza a una setta il tema centrale del
film The Master, presentato nel corso dell’ultima mostra del
cinema di Venezia e per cui ha ricevuto la Coppa Volpi per la
migliore interpretazione maschile, insieme a Philip Seymour
Hoffman, quello stesso gigante biondo che con il suo Capote gli
aveva scippato l’Oscar per il miglior attore protagonista nel
2005.
The
Master diretto da Paul Thomas Anderson, è uscito
il 3 gennaio in Italia e se da un lato sta spaccando a metà la
critica nel nostro paese, ha invece meritato il primo posto tra i
10 migliori film del 2012 nella classifica stilata dal
Guardian. L’elemento che riesce a mettere d’accordo tutti è
proprio l’interpretazione dei due protagonisti. Phoenix, alla sua
prima collaborazione con il regista di Magnolia, veste i
panni di Freddie Quell, un reduce di guerra alcolista, rissoso ed
ex adolescente problematico. Diventerà uno dei membri più attivi di
un gruppo – che somiglia molto a quello di Scientology – guidato
dal carismatico Lancaster Dodd.
Chissà se il grande successo che
sta riscuotendo proprio grazie a Paul Thomas Anderson non
possa aprire ad una collaborazione proficua che ci piacerebbe molto
osservare. Anche perché finora Phoenix si è concesso due volte solo
a M.Night Shyamalan, per The Village e Signs,
e a James Gray, che lo ha diretto in Two
Lovers e The Yards, confermando la sua
reputazione da cattivo che non si fa “mettere in gabbia”.
The Cell – la
cellula è il film del 2000 di Tarsem
Singh e con protagonisti Jennifer Lopez,
Vince Vaughn, Vincent D’Onofrio, Jake Weber, e Dylan
Baker.
Anno: 2000
Regia: Tarsem
Singh
Cast: Jennifer
Lopez, Vince Vaughn, Vincent D’Onofrio, Jake Weber, Dylan Baker
Trama: In un
futuro non troppo lontano, una tecnologia sperimentale permette
agli psicanalisti di entrare letteralmente all’interno
dell’inconscio dei loro pazienti, per meglio indagare sulla loro
mente e ricorrere a dalle terapie più efficaci. Catherine Deane
(Jennifer Lopez) specializzata in questo tipo di
tecnologia, viene incaricata dall’ ispettore di polizia Peter Novak
(Vince Vaughn) di entrare all’interno della mente
di Carl Stargher (Vincent D’Onofrio), un serial
killer finito in coma, per scoprire il luogo di prigionia
della sua ultima vittima: dopo aver catturato le sue prede, le
intrappola in una sorta di ‘gabbia’ destinata a riempirsi
d’acqua, facendole così morire di annegamento, non
prima di averne abusato sessualmente.
La protagonista comincia così le
sue indagini all’interno della mente del serial killer, scoprendo
che le violenze subite nell’infanzia ne hanno scisso la psiche: da
una parte un bambino, a riassumerne la parte buona, dall’altra un
mostro dispotico a dare forma ai suoi peggiori istinti. Catherine
conquista così la fiducia del bambino, finendo tuttavia per
diventare prigioniera della sua metà criminale.
The Cell, l’analisi
Dopo una discreta carriera nel
settore dei videoclip musicali, Tarsem Singh
decide di compiere il ‘grande salto’ sul grande schermo, con un
thriller psicologico dai contorni futuristi che in fondo appare più
che altro un pretesto per costruire scenografie ‘oniriche’, con
ampi omaggi ad vari artisti contemporanei, da H.R. Giger a Damien
Hirst.
Protagonista è una Jennifer
Lopez tutto sommato a suo agio in scenari spesso simili a
quelli dei videoclip musicali, affiancata da Vincent
D’Onofrio nel ruolo del serial killer e Vince
Vaughn in quello del poliziotto, tutti in interpretazioni
non memorabili.
L’esito appare a dire il vero
abbastanza contrastato: alla lunga si avverte un certo
autocompiacimento (impressione rafforzata dall’esplicita
autocitazione che il regista esibisce riproponendo in una sequenza
l’ambientazione usata in precedenza per il video di Losing my
religion dei REM), quasi che il film cerchi in tutti modi di
voler essere collocato nella categoria del ‘cinema visionario’.
Il risultato è
un’opera con pretese forse eccessive, che finisce per
risentire forse troppo dei trascorsi del regista nel settore dei
videoclip, risultando a tratti un pò manieristica, caratterizzata
da un elemento ‘visionario’ troppo smaccatamente cercato. Tutto
questo finisce fatalmente per incidere sulla componente più
squisitamente ‘thriller’, all’insegna di un finale prevedibile
raggiunto con uno svolgimento macchinoso, proponendo personaggi
alquanto stereotipati, dalla protagonista ‘sobria’ che le fantasie
del serial killer trasformano in una ‘dominatrix’, fino alla
dicotomia bene – male, in cui tutto il positivo viene abbastanza
banalmente identificato con l’infanzia.
Stroncato in larga parte
dalla critica e dagli appassionati, il film ha comunque ottenuto un
risultato più che lusinghiero al botteghino, con ricavi pari a
oltre il triplo dei trentatrè milioni di dollari di costo.
Nel 2009 ne è stato prodotto un
sequel, per nulla memorabile, direttamente indirizzato al mercato
dell’home video.
I Figli degli
Uomini è il film cult del 2006 diretto
da Alfonso Cuaròn e con
protagonisti Clive Owen,
Julianne Moore, Michael Caine, Clare-Hope Ashitey, Chiwetel
Eljiofor e Danny Huston.
I Figli degli Uomini, la trama
Nel 2027 il mondo assiste impotente
all’assassinio del diciottenne Baby Diego. Il motivo è molto
semplice: il ragazzo è infatti l’ultimo nato della specie umana,
colpita dall’infertilità che sembra averla condannata rapidamente
all’estinzione. In un mondo caotico, nel quale i flussi
migratori son fuori controllo (portando alla creazione di enormi
campi profughi) e in cui bande di ribelli spadroneggiano in lungo e
in largo, sullo sfondo di una società dominata da un potere che ha
assunto connotati dittatoriali, Theo (Clive Owen)
è un ex attivista disilluso che viene contattato da un gruppo
terroristico, i Pesci: leader di questi è l’ex moglie di Theo,
Julian (Julianne
Moore), il quale gli chiede di aiutarla a imbarcare
una giovane ragazza (Clare Hope Ashitey) immigrata
sulla nave Domani, diretta alle Azzorre, dove un gruppo di
scienziati, riunitisi nel ‘Progetto Umano’ sta cercando di trovare
una cura all’infertilità di massa che ha colpito il genere umano.
La ragazza potrebbe infatti rappresentare una nuova speranza per
l’umanità, dato che è incinta; da qui, comincerà il classico
viaggio pieno di rischi e insidie, verso un finale agrodolce…
I Figli degli Uomini, l’analisi
Fattosi conoscere con Y
tu mama tambien, giunto alla notorietà internazionale
con Harry Potter e il prigioniero di
Azkaban, Alfonso Cuaròn sceglie
l’adattamento dell’omonimo romanzo firmato P.D.
James per scrollarsi di dosso la pesante eredità di Harry
& Co. I Figli degli Uomini segue abbastanza
fedelmente la traccia del libro, per quanto con alcune importanti
variazioni (l’infertilità, originariamente maschile, nel film
colpisce invece le donne).
Clive Owen, al tempo in piena fase di
lancio dopo la partecipazione a Sin City
e prima di Inside Man, è il protagonista,
nel classico ruolo dell’eroe suo malgrado che nel corso della
storia si convince della bontà della propria ‘missione’, fino alle
più estreme conseguenze; a fianco a lui una Julianne Moore che confermava la sua
poliedricità. Nel cast – come spesso avviene in questi casi –
anche un attore ‘navigato’ nel classico ruolo ‘breve ma intenso’:
qui è Michael Caine, nella parte di un canuto ex
hippie e vignettista satirico, ritiratosi a vivere in campagna,
prendendosi cura della moglie, caduta in stato catatonico dopo
essere stata torturata dalle autorità.
Alfonso Cuaròn
riprende e attualizza il tema portante del libro, una società
condotta alla barbarie dalla consapevolezza da parte della specie
umana di non avere un futuro, ampliando la riflessione a temi caldi
dell’attualità, come l’immigrazione, o il rischio di deriva
autoritaria delle democrazia: i campi in cui sono tenuti i
rifugiati alludono in maniera scoperta ai casi delle carceri Abu
Grahib o di Guantanamo, piuttosto che ai campi profughi risultato
delle tante guerre che percorrono il continente africano.
Il risultato, pur nello scenario
futuristico / futuribile, è un’aderenza alla realtà
accresciuta dallo stile documentaristico con cui è girato il film,
che ha ottenuto tre nomination all’Oscar (miglior fotografia,
sceneggiatura non originale e montaggio). Il tutto sullo sfondo di
un ampissimo numero di riferimenti religiosi, all’insegna di una
simbologia cristiana, ma non solo. Presentato a Venezia, il
film ha ottenuto un ottimo risconto di pubblico, accompagnato da
giudizi egualmente lusinghieri.
Ampia ed abbondante la colonna
sonora, che affianca autori classici come Mahler ed Handel alla
Threnody to the Victims of Hiroshima del polacco Krzysztof
Penderecki, ma nella quale hanno trovato posto anche Aphex Twin,
alfiere dell’elettronica degli anni ’90 a fianco dei Radiohead e di
gruppi storici come Deep Purple e King Crimson.
Brood – la covata
malefica è il film del 1979 di David
Cronenberg con protagonisti nel
cast Oliver Reed, Samantha Eggar, Art Hindle e Henry
Beckman.
La trama del film Brood – la
covata malefica
Trama: A seguito
del ricovero di Nola Carveth (Samantha Eggan)
nella clinica del professor Raglan, ideatore di una rivoluzionaria
terapia per la cura dei disturbi psichici, le vite della figlia e
del marito di lei vengono sconvolte da una serie di atroci eventi,
portati a compimento da strani esseri, simili a bambini; sarà lo
stesso Raglan a rivelare lo sconcertante collegamento tra le
creature e la sua paziente, portando il marito a una drammatica e
definitiva scelta.
Reduce dall’action movie Fast
Company, nel 1979 David Cronenberg riprende l’esplorazione di
territori più orrorifici e disturbanti, già avviata nel 1977 con
Rabid.
L’analisi del film di David Cronenberg
Brood – la covata
malefica(uscito in Italia col solito
discutibile sottotitolo: La covata malefica) continua a tessere
quelli che saranno i fili conduttori di gran parte dell’opera del
regista canadese: l’ossessione per le mutazioni, il potere della
mente sul corpo e sulla materia (tema poi ulteriormente sviluppato
nel successivo Scanners), gli interrogativi su una
società sempre più guidata dal progresso scientifico e dai suoi
eccessi.
Per dare vita ai suoi
incubi, David
Cronenberg sceglie un attore già affermato,
Oliver Reed, affiancandolo alla protagonista
Samantha Eggar, attrice dalle alterne fortune,
culminata con vari premi e una nomination all’Oscar per
Il collezionista (1965) di
William Wyler. I cinefili italiani la ricordano
forse per la partecipazione ad alcuni cult come Il
Grande attacco di Lenzi o L’etrusco
uccide ancora di Armando
Crispino.
Il terzetto dei protagonisti è
completato da Art Hindle, che avrebbe presto
abbandonato il grande schermo per un più proficua carriera di
caratterista in serie tv.
Brood – la covata
malefica ancora oggi può essere ricordato come uno dei più
felici esempi di horror à la David
Cronenberg, caratterizzato da un riuscito mix tra il
pathos più gradito agli amanti della suspence e le trovate
orrorifiche più apprezzate dagli appassionati del ‘repellente’,
tanto da venire censurato – scatenando ovviamente le
ire del regista canadese – negli Stati Uniti, in Canada
e in Gran Bretagna, in particolare, col taglio della scena
che sul finale coinvolge la protagonista e una delle
‘creature’.
Brood – la covata
malefica ha ottenuto un buon successo di pubblico, che col
passare del tempo non si è affatto affievolito, portando anzi il
film e alcune delle sue sequenze ad essere puntualmente citati
nelle graduatorie all-time del genere.
In linea di massima positivo anche
il giudizio della critica, anche se la componente più ‘disturbante’
ha suscitato più di un riscontro negativo; Brood – la
covata malefica è stato inoltre tacciato da alcuni di
essere reazionario, con aperte accuse di misoginia.
Brood – la covata
malefica segna l’inizio della collaborazione
tra David
Cronenberg e il produttore esecutivo Solnicki, che
proseguirà anche per Scanners e Videodrome; la colonna sonora
rappresenta il primo lavoro per il cinema di Howard
Shore, che poi sarebbe diventato un collaboratore abituale
di Cronenberg
e che ha vinto due Oscar per La compagnia dell’Anello e Il ritorno del Re.
Blob – Fluido
mortale è il film cult del 1958 diretto da Irvin Yeaworth
e con protagonisti sono Cast: Steve McQueen
(Steve), Aneta Corsaut (Jane), Earl Rowe (Tenente Dave), Alden
Chase (Dottor Allen), John Benson (Agente Bert), James Bonnett
(Mooch Miller), Robert Fields (Tony Gressette).
Blob – Fluido mortale, la
trama: Mentre scorre una tranquilla e tiepida nottata
americana da innamorati e stelle cadenti, piove dal cielo una
specie di grande uovo. Un anziano contadino lo schiude, scoprendovi
una palla di melma scura: e ha l’onore di diventarne la prima
vittima.
La viscida entità, partendo dalla
mano con cui è stata curiosamente toccata, si impossessa
dell’intero sventurato, avvolgendolo e fagocitandolo. Stessa sorte
tocca al dottore e all’infermiera che al vecchio provano a
fornire aiuto. E per ogni vittima che miete e assimila, Blob
cresce, rendendosi minaccia sempre più temibile per il tranquillo
scorcio di provincia USA che ha avuto in sorte di battezzarne le
gesta terrestri, e che alla creatura dovrà pagare un sostanzioso
tributo in vite umane.
A fronteggiare la minaccia c’è
innanzitutto Steve Andrews (Steve McQueen), intrepido giovanotto,
aiutato dalla sua bella, Jane (Aneta Corsaut), e dal comprensivo
tenente Dave (Earl Rowe). E Blob, alla fine, sgominato a colpi di
gelo, sarà scaraventato da un aereo militare nell’Artide per non
nuocere più a nessuno. Anche se il punto di domanda che chiude il
film lascia le porte aperte a una rivincita del fluido…
Blob – Fluido mortale,
analisi
Film più noto tra i pochi
realizzati da Irvin Yeaworth
(1926-2004), Blob – Fluido
mortale merita di essere conosciuto e apprezzato per
intero: un peccato contentarsi dei gustosi inserti nell’omonimo e
storico programma di Rai Tre, ispirato a questo cult dell’horror.
Un film raffinato, che muove personaggi dalle psicologie lavorate
(giustamente) appena in superficie in una provincia americana che è
un colorato e artigianale teatrino. La paura (moderata: si parla di
oltre 50 anni fa) è costruita con maestria nel primo quarto d’ora,
quando, già atterrato il fluido mortale, il film dondola lo
spettatore tra le schermaglie molto fifties – occhiate alla
bella Jane, sfide motoristiche e beffe alla polizia – che vedono
impegnati il protagonista e un gruppetto di blandi bulletti che,
fattasi più concreta (e corpulenta) la minaccia di trasformeranno
in altrettanto blandi aiutanti.
Il mostro in sé non desta timore;
anzi, qualche sorriso, così alla buona, modellato con effetti
speciali estremamente grezzi. Un rinforzo all’orrore lo dà con
prontezza la colonna sonora, capace di sottolineare con interventi
gravi e taglienti il precipitare delle cose. E l’audio fa il suo
dovere anche nell’aprire il film con un brano da party – preparando
spettatore e personaggi a una festa della paura – e nel chiuderlo
con note rassicuranti sulle immagini dell’Artide, tomba del mostro.
Peccato che il punto di domanda che cala dalle impalpabile e sacre
altitudini del racconto sbugiardi i segni di quiete e gloria che
provengono sia dalla colonna sonora (pur con qualche venatura), sia
dalle immagini.
Blob – Fluido
mortale è un film da recuperare e rispettare. Un lavoro al
contempo semplice e ben cesellato, fluido quanto la brutale
creatura che gli dà il titolo.
Leopold Socha (Robert
Wickiewicz) è un operaio che arrotonda il suo stipendio con
qualche furto. Conosce le fognature di Lvov come le sue tasche:
quei cunicoli sotterranei dove nessuno metterebbe piede sono sia il
suo posto di lavoro, sia il nascondiglio per la sua refurtiva.
Durante il 1943 l’uomo, in
ricognizione tra i canali, si imbatte in un gruppo di ebrei che
vuole nascondersi nelle fogne per sfuggire all’imminente
rastrellamento del ghetto. Deciso a non farsi sfuggire un’occasione
di guadagno, stringe un patto con loro: non li denuncerà e, anzi,
li aiuterà a orientarsi nel labirinto sotterraneo, solo in cambio
di una grossa somma di denaro.
Gli ebrei, soprattutto il giovane
Mundek (Benno Fürmann), sono inizialmente rassegnati
e diffidenti nei confronti del polacco, ma poco a poco, testimoni
dei rischi crescenti che l’operaio si assume nel tentativo di
salvarli, si affezionano a lui.
Recensione film In Darkness di
Agnieszka Holland
Il tempo passato nell’oscurità, la
mancanza d’aria e la convivenza forzata tra i rifugiati, portano
lentamente alla luce gli aspetti migliori e quelli peggiori
dell’animo umano, l’amore e la follia, la disperazione e la
tenerezza, la fiducia e l’odio, in un affresco potente che riesce
nell’intento di ricordare al pubblico una delle pagine più nere
della storia del Novecento.
In
Darkness, infatti, porta sullo schermo la vera storia
degli ebrei salvati da Leopold Socha, ed è tratto
da un libro, Nelle fogne di Lvov di Robert
Marshall, che narra proprio di quei 14 mesi di prigionia
forzata messa in atto per evitare la deportazione.
La regista Agnieszka
Holland, però, in accordo con lo sceneggiatore David F.
Shamoon, evita di trasporre nel film gli orrori del libro e cerca
piuttosto di sondare i sentimenti di alcuni uomini e donne
trovatisi a dover fare delle scelte difficili al limite del
comprensibile e a vivere in condizioni quasi inumane.
Con un uso della fotografia
decisamente metaforico, che vede scene buie e soffocanti nelle
fogne con il solo Socha illuminato costantemente (come portatore di
luce) e una durata notevole, due ore e mezza, la Holland lascia a
chi guarda il compito di immedesimarsi nei corpi dei rifugiati e
trascina, anche per poco, il pubblico sottoterra, preda della
paura, della noia, del freddo.
Un film non facile, talvolta
claustrofobico, che prova a usare diversi registri e a mettere a
fuoco personaggi complessi, per narrare la non banalità del bene e
l’eroismo di un uomo lontano dai canoni dell’eroe.
Da sottolineare soprattutto i
contrasti, resi con dei dolly che sembrano spezzare il confine che
divide la città dalle fognature, tra il mondo luminoso in cui
scorre la vita della città di Vlov e la condizione di Mundek, Klara
e degli altri ebrei.
In Darkness è un
filmda vedere per riflettere, per scuotersi
dal torpore, per porsi delle domande.
In uscita il 24 gennaio, non a caso
in prossimità del Giorno della Memoria.
E’ il sito americano Screen
Daily ha riferire che le riprese del film Guardian
of the Galaxy partiranno questa estate in
Inghilterra, presso gli Shepperton Studios
L’uscita di The Avengers 2 è ancora
lontana, eppure i lavori per il film procedono a vele spiegate. E’
lo stesso Joss Whedon che infatti conferma il
procedere della
Jurassic
Park IV è ufficialmente partito e quanto sembra
rispetterà la tabella di marcia e la data di uscita prevista per il
13 Giugno 2014. La conferma arriva dopo il ritorno in
Come molto di voi sapranno è stato
annunciato un quinto capitolo della saga Pirati dei
Caraibi, che vede protagonista Johnny Depp nei panni del pirato
Jack Sparrow,
è stato diffuso un nuovo poster per
Epic –
Il mondo segreto nuovo lungometraggio d’animazione dei
Blue Sky Studios (l’Era Glaciale, Rio) e in arrivo negli States il
24 maggio 2013.
Diretto da Chris Wedge
Epic –
Il mondo segreto è tratto dal racconto per bambini di
William Joyce, già autore de Le 5 Leggende. Nel cast di voci
originale ci sono Josh Hutcherson, Amanda Seyfried, Beyoncé Knowles
e Steven Tyler.
Dopo tanti prove intense e
drammatiche, Michael Fassbender ha deciso di concedersi
una commedia: ecco la prima foto ufficiale di Frank, diretto
da Lenny Abrahamson e prodotto da Film4 e
dalla Irish Film Board su una sceneggiatura di Jon
Ronson e Peter Straughan (L’uomo che
fissa le capre).
Matthew McFadyen,
in questi giorni su BBC America con la miniserie Ripper
Street e presto in sala in Italia con Anna
Karenina di Joe Wright sarà il
protagonista del film di Ben HopkinsEpic, commedia nera scritta dal vincitore del
premio BAFTA Pawel Pawlikowski e coproduzione fra Regno Unito,
Germania e Russia.
L’attore, che ha firmato insieme
a Myanna Buring e Noah Taylor, vestirà i
panni di un regista premio Oscar invitato in un’oscura regione del
Caucaso, l’immaginario Karastan. Il regista Stephen
Daldry sarà produttore esecutivo.