Dal ’76 all ’81 hanno imperversato
nelle tv americane, si sono spostati poi in tutto il mondo e anche
da noi in Italia, raccogliendo piccoli fan in tutto il mondo con il
loro show che ha cambiato le regole dei programmi per
bambini.Adesso arrivano al cinema in un lungometraggio che li
riporterà alla ribalta. Sono I Muppet, i simpatici
e colorati pupazzi, una via di mezzo tra marionette e burattini,
che hanno imperversato in tv per molti anni, diventando
protagonisti anche di una serie animata.
La trama di I Muppet
Sotto il Teatro dei Muppet è stato
trovato del petrolio e perciò il petroliere Tex
Richman (Chris Cooper) vuole raderlo al
suolo per perforare ed estrarre l’oro nero. Walter
(Jim
Parsons) il più grande fan del mondo dei Muppet con
suo fratello Gary (Jason
Segel) e la fidanzata di quest’ultimo
Mary (Amy
Adams) vengono a conoscenza del piano di Tex Richman
e, volendo fermarlo.
Decidono dunque di mettere in scena
il Muppet Telethoon, con il quale vogliono raccogliere i dieci
milioni di dollari necessari per salvare il teatro. Al fine di
mettere in scena lo spettacolo Walter, Mary e Gary devono però
aiutare Kermit a riunire i Muppets, che si sono
separati e hanno preso tutti una strada diversa.
I Muppet si risolleva da metà film in poi
Il film, incredibilmente noioso per
la prima parte, si apre a divertentissime gag verso la metà e
soprattutto nel finale, quando i nostri eroi, finalmente riuniti
rimettono insieme lo show dei Muppet. Ci sono tutti da Kermit la
rana a Miss Piggy, da Animal e Gonzo e tutti sono esattamente gli
stessi, solo con qualche anno in più.
La storia è banale e si riduce alla
raccolta fondi per tenere in piedi gli studi e il teatro dei
pupazzi e sembra assomigliare molto a quei film di fine anni ’30 in
cui Mickey Rooney e
Judy Garland mettevano in piedi uno show in un
granaio. Tuttavia lo spirito con cui il film è stato girato è
quello giustamente filologico che dei personaggi così amati
meritano, avendo così la capacità di risvegliare in ogni fan ormai
cresciuto, il divertimento, la meraviglia, la gioia di guardare
ancora il Muppet show.
Anche la metatestualità dello show
originale è stata conservata in questo esperimento cinematografico,
regalando ancora un altro elemento di valore al film. A
testimonianza di quanto i Muppet fossero amati il film diventa poi
una caccia al cameo, poiché disseminati per tutta la pellicola ci
sono volti notissimi di cinema e tv che si prestano anche per un
solo secondo a comparire accanto ai pupazzi, come se fossero le
celebrità che un tempo andavano come special guest agli episodi
dello show tv.
Accanto agli attori principali
Jason Segel e Amy Adams che si cimentano in numerosi numeri
musicali, scorgiamo qua e là il grande
Mickey Rooney,
Emily Blunt,
Jim Parsons,
Neil Patrick Harris,
Zach Galifianakis e
Jack Black nel ruolo di sé stesso. L’operazione
nostalgica si può definire decisamente riuscita e chissà che i
bambini di oggi non comincino ad affezionarsi ai Muppet di ieri. Se
così non dovesse essere, poco male, c’è un pubblico di 40enni
che è già in fila fuori dai cinema in attesa del 3 febbraio.
Arrivano due
interessanti featurette che vede protagonisti George Clooney e
Alexander Payne, attore e regista di Paradiso Amaro, entrambi candidati all’Oscar
per il film. I due deliziano il pubblico in una conversazione su
registi della storia del cinema che hanno iniziamo con commedie per
arrivare a film drammatici.
Arriva online
l’avvincente Trailer di lancio
dell’attesissimo ‘The Darkness II’,
videogioco in stile horror destinato a scrivere un importante
pagina della storia di questo genere.
Studio
Universal e Corti d’Argento insieme per
la nuova edizione del concorso CINEMASTER 2012. Al via, per la
prima volta in collaborazione con i Corti d’Argento dei giornalisti
cinematografici, il Cinemaster Studio Universal 2012, il progetto
per giovani registi italiani organizzato dalla TV del Cinema da chi
fa Cinema (distribuita sul Digitale Terrestre nell’offerta Premium
Gallery di Mediaset) che sceglie quest’anno il corto vincitore in
una rosa di titoli selezionati dal Sindacato Nazionale Giornalisti
Cinematografici Italiani (SNGCI) sulla base dei requisiti indicati
dal regolamento del Canale.
Sembra proprio che quando firmarono
il loro contratto da 1 milione per Una Notte da Leoni, Bradley
Cooper, Ed Helms e Zach Galifianakis abbiano firmato per il
possesso di una vera e propria miniera d’oro. Sembra infatti
che la Warner Bros sia disposta a pagare i tre 15 milioni a testa
per farli tornare di nuovo a sbronzarsi, questa volta a Los
Angeles. Se come detto per il primo film il terzetto ha incassato 1
milione e per il secondo 5, l’incremento è mostruoso ma
giustificato dalle cifre da capogiro incassate dei primi due
film: 467 milioni per il primo e 581 per il secondo.
Anche Tod Phillips verrebbe
richiamato a bordo per girare il film quest’estate e farlo uscire
nel 2013. Staremo a vedere cosa si deciderà, intanto i fan delle
hangoover possono cominciare a sfregarsi le mani.
Il più fornito e famoso database
cinematografico di internet compie 10 anni. E’ ovviamente IMDb e
per celebrare il suo compleanno, il sito ha stilato un po’ di
classifiche per valutare chi, tra star, film , serie tv e film in
arrivo è il più popolare nell’arco di questi 10 anni.
Johnny Depp si è
rivelato il più popolare tra gli attori, uomini e donne comprese,
in una classifica che vede nomi molto glamuor nelle prime dieci
posizioni e a sorpresa forse un decimo posto occupato da Emma
Watson, che senza dubbio riesce a sfruttare alla grande il suo
successo ottenuto con Harry Potter. Per quanto riguarda il film, il
più cliccato è Il Cavaliere Oscuro, Lost primeggia tra le serie tv
e per quanto riguarda i film in produzione più attesi a capeggiare
la classifica dei primi dieci c’è prevedibilmente Il Cavaliere
Oscuro il Ritorno.
Ecco le liste complete:
Top 10 Stars degli ultimi
10 anni:
1. Johnny Depp
2. Brad Pitt
3. Angelina Jolie
4. Tom Cruise
5. Natalie Portman
6. Christian Bale
7. Scarlett Johansson
8. Jennifer Aniston
9. Keira Knightley
10. Emma Watson
Top 10 dei film degli
ultimi 10 anni:
1. Il cavaliere oscuro
2. Donnie Darko
3. Pulp Fiction
4. Il Signore degli Anelli: La compagnia dell’anello
5. Il Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re
6. Harry Potter e il prigioniero di Azkaban
7. Harry Potter e l’Ordine della Fenice
8. Twilight
9. Harry Potter e il calice di fuoco
10. il Padrino
Top 10 delle Serie TV degli
ultimi 10 anni:
1. Lost
2. House M.D.
3. Grey’s Anatomy
4. Heroes
5. How I Met Your Mother
6. 24
7. Glee
8. True Blood
9. Dexter
10. Gossip Girl
Top 10 dei film in produzione più attesi degli ultimi 10
anni:
1. The Dark Knight Rises
2. Men in Black III
3. The Dictator
4. G.I. Joe: Retaliation
5. The Expendables 2
6. Battleship
7. The Avengers
8. Rock of Ages
9. The Hunger Games
10. Prometheus
Ecco cinque character
poster del film What to Expect When You’re Expecting, una commedia
sul significato del diventare genitori vissuta attrverso i 9 mesi
di gravidanza di cinque donne diverse che vedono
E’ decisamente una mattinata da uomo
ragno! Infatti è stata rilasciata oggi la sinossi ufficiale del
prossimo film, reboot di SpiderMan, che vedrà calarsi dai tetti di
New York non più Tobey Maguire
Con Mission: Impossible –
Protocollo fantasma Tom
Cruise ritorna nei panni dell’agente segreto Hunt, in
quella che sembra l’inizio di una nuova trilogia in cui, oltre a
vedere il nostro fare bello sfoggio delle sue straordinarie doti di
stunt di se stesso, si introducono nuovi personaggi che al suo
fianco potrebbero dare freschezza alla formula del franchise.
La trama di Mission: Impossible – Protocollo
fantasma
In Mission: Impossible –
Protocollo fantasma l’agente Ethan Hunt torna al cinema nella
sua quarta indagine. Questa volta però l’IMF (Impossible Mission
Force) non sarà dietro di lui a coprirgli le spalle, ad organizzare
recuperi d’emergenza, a fornirgli l’attrezzatura ipertecnologica
che sin dal primo film lo ha accompagnato nelle sue missioni.
Questa volta Hunt si trova ad avere a che fare con una minaccia
nucleare e soprattutto a fare i conti con una squadra, lui che ha
sempre agito in solitaria. Questa volta la missione impossibile
sarà riabilitare il suo nome, quello dell’agenzia e soprattutto
diventare un team leader, il capo di una squadra di agenti
operativi, tutti come lui, allontanati dal servizio del loro
Paese.
La nuova squadra di agenti
desautorizzati è composta dal notissimo leader, Tom Cruise, sempre più in forma e sprezzante
nei confronti della forza di gravità, che nonostante l’età riesce
ancora a competere con i vari giovanissimi attori che si travestono
da supereroi nel cinema recente, gravitando l’attenzione su di sé.
Ritroviamo in questo film Simon Pegg, che riprende il ruolo di Benji
Dunn, promosso alla squadra operativa, fondamentale elemento nel
cast per veicolare ironia in ogni momento, sempre con grande
efficacia.
Jeremy Renner si aggiunge al gruppo, il suo
William Brant è un sedicente analista che nasconde
un passato oscuro che cerca a tutti i costi di scontare una colpa
che grava sulla sua coscienza. Famme Fatale di turno è
Paula Patton; lei è l’agente Jane Carter,
decisamente fatale, che si unisce al gruppo e come tutti gli altri
fa fatica a guadagnarsi la fiducia del nostro Ethan.
Alla regia, dopo De Palma,
Woo e Abrams (qui in veste di produttore), si riconosce
l’abile mano che fu dietro a Gli Incredibili della Pixar.
Brad Bird regala allo spettatore un
rutilante spettacolo pirotecnico dietro l’altro, a partire dei
titoli di testa, passando per l’epica sequenza girata sul Burj
Khalifa, a Dubai, l’edificio più alto del mondo.
Mission: Impossible –
Protocollo fantasma, Tom Cruise è tornato in grande
stile
Per tutti i nostalgici ritroviamo in
questo
quarto film, Mission: Impossible – Protocollo
fantasma, i famigerati occhialini di Hunt, le maschere in
lattice per i travestimenti, e ovviamente le celeberrime note della
colonna sonora, riadattate da Michael Giacchino e
che ripercorrono tutta la pellicola. L’idea di una nuova trilogia è
evidente e fondata, dal momento che la storia convince anche se il
ritmo narrativo risulta disomogeneo, soprattutto nella prima parte
del racconto.
Tom Cruise è tornato in grande stile, riesce a
portare avanti la sua storia personale con notevole energia e
promette altre avventure ‘antigravitazionali’. Mission:
Impossible – Protocollo fantasma è un film da vedere, per chi
ha amato i precedenti capitoli e per chi si vuole semplicemente
divertire pur senza conoscere i dettagli delle precedenti avventure
di Ethan Hunt.
La regista francese
Maïwenn porta sullo schermo la routine quotidiana
della Sezione Protezione Minori (Brigade de Protection des
Mineurs). A scatenare la curiosità della giovane e poliedrica
transalpina verso questa tematica è stato un documentario di Virgil
Vernier su questo particolare reparto: in Polisse
ci sembra infatti di rivivere costantemente, a stretto contatto con
gli uomini della Sezione, stralci di indagini su casi di abuso,
pedofilia e delinquenza minorile. Ma la macchina da presa non si
ferma a questo, vuole mostrarci ancora più chiaramente le
ripercussioni emotive su Nadine (Karin Viard),
Fred (Joey Starr), Iris (Marina
Foïs), Mathieu (Nicolas Duvauchelle), di un lavoro che
porta allo stremo persino chi è immerso in queste vicende
quotidianamente.
Polisse, il film
Maïwenn riesce a
far collimare perfettamente sia il lato documentaristico che quello
più romanzesco. Il lavoro del cast accanto a veri agenti della
Sezione Protezione Minori ha sicuramente facilitato il lavoro della
regista facendo raggiungere a Polisse un alto livello di
verosimiglianza in entrambi i lati. L’illusione della realtà è
molto forte e coinvolge in pieno lo spettatore, il quale risulta
totalmente immerso in ogni dramma che il film racconta.
Lo stile registico della giovane
francese si accosta un po’ troppo a quello di numerose serie
poliziesche viste e riviste in televisione. L’originalità non può
di certo dirsi il punto forte della pellicola, ma nonostante tutto
ne esce fuori un qualcosa di convincente ma soprattutto di
coinvolgente, che porta lo spettatore ad immergersi totalmente
negli orrori su cui indagano gli uomini della Sezione, ma anche a
comprendere i complicati meccanismi che ci sono dietro questo
lavoro.
L’unica parte che rimane
confusionaria in Polisse risulta essere quella
relativa alle numerose relazioni amorose all’interno del nucleo.
Queste porzioni di pellicola avrebbero dovuto lasciare più spazio
all’azione documentaristica del film. Maïwenn ed il suo Polisse ha
sicuramente meritato il Prix du Jury a Cannes e un riconoscimento
ancora maggiore lo otterrà sicuramente dal consenso del pubblico
che lo vedrà in sala dal 3 Febbraio 2012.
L’arte di vincere –
Moneyball, regia di Bennett Miller,
racconta di un sogno, di una scommessa fatta contro un sistema
solido e chiuso, di un uomo coraggioso che voleva più della
vittoria, voleva stravolgere il suo mondo, quello del baseball.
La trama di L’arte di vincere – Moneyball
L’arte di vincere –
Moneyball è la storia di Billy Beane
(Brad
Pitt) che nella stagione del 2002 è stato general
manager degli Oakland Athletic’s e si è trovato a dover rifondare
la squadra senza soldi e con tre dei giocatori migliori ceduti a
società più importanti. Contro tutto e tutti Billy si affida a
Peter Brand (Jonah
Hill), giovanotto goffo di movimenti ma agilissimo di
mente, laureato in economia a Yale, e con lui costruisce una
squadra servendosi di un metodo molto poco ortodosso.
Un metodo numerico, basato sulle
percentuali di successo e le caratteristiche singole del giocatore.
Beane e Brand andranno dunque contro la grande tradizione del
baseball, raccogliendo mezzi giocatori, alcuni troppo vecchi, altri
troppo giovani e irrequieti, altri ancora infortunati, e formeranno
una squadra che riuscirà a sfondare il muro delle vittorie
consecutive.
L’arte di Vincere –
Moneyball ci trasporta quindi nel mondo del baseball
scandagliandolo con attenzione, dilungandosi nei dettagli
squisitamente tecnici, una vera gioia per gli appassionati. Non c’è
da stupirsi quindi se il film ha ricevuto diverse candidature ai
prossimi Oscar in un Paese in cui il baseball è un rito sociale
piuttosto che uno sport. A gareggiare per la statuetta non è solo
il film stesso, ma i suoi protagonisti.
Prima di tutto Brad Pitt, nei panni di Billy, è
disgustosamente convincente mentre sgranocchia, divora, mangia e
ingurgita tutto quello che si trova a tiro sputacchiando qua e la
tabacco masticato a dovere. La sua interpretazione riesce a
mostrare con grande sobrietà e funzionalità le sfaccettature di un
personaggio che oscilla tra l’euforia e l’ottimismo fino a cadere
nei più bui antri dello scoramento.
Accanto a lui c’è il giovane
Jonah Hill, candidato come migliore non
protagonista, molto conosciuto in America per un certo genere di
commedia demenziale, e qui invece nei panni goffi, divertenti ma a
suo modo carismatici dell’esperto di economia che riesce, insieme a
Billy, a cambiare il volto del baseball. E chissà che questa bella
coppia non possa riservarci sorprese agli Oscar, visto che Miller
ha già portato fortuna al ritrovato Philip Seymour
Hoffman qui nei panni dell’allenatore Art Howe.
Il film si fregia anche di un’ottima
partitura musicale di Mychael Danna, già autore
della colonna sonora di Little Miss Sunshine. Quello che
però rende davvero prezioso questo film è la fotografia del premio
Oscar Wally Pfister (Inception),
che disegna l’inquietudine dei personaggi sui loro volti attraverso
ombre sapientemente distribuite. Bennett Miller ci
mette il resto, riservandoci una regia sobria e davvero brillante
in alcune scelte di inquadratura.
L’arte di vincere –
Moneyball lascia dunque la sensazione di un grande
trionfo, di quelli silenziosi e duraturi, è la storia di un
‘magnifico perdente’ che con il suo sogno ha cambiato per sempre le
regole. Gli appassionati di baseball lo adoreranno, gli
appassionati di cinema pure.
La famosa combriccola
di animaletti parlanti è pronta all’assalto degli schermi per
concederci minuti di esilarante follia e divertimento. I Muppet
ritornano con la loro allegria e sfrontatezza per regalarci e
riportarci in un mondo che sembrava ormai archiviato.
Arrivano aimé due buone notizie per
il remake del Corvo The
Crow. La prima riguarda la controversia legale
sui diritti del nuovo adattamento dell’opera. E’ di ieri la notizia
che la Relativity Media e The Weinstein Company hanno risolto il
problema e che sono pronte ora a produrre il film.
La seconda notizie è che questo ha
creato un indotto e le cose si stanno muovendo rapidamente, tanto
che la pellicola ha ora un nuovo regista, F. Javier
Gutierrez, e un nuovo sceneggiatore, Jesse
Wigutow. L’obiettivo è quello di andare sul set in
autunno. Ora non resta che aspettare notizie sul casting, vi
ricordiamo che il progetto è stato abbandonato da Bradley
Cooper.
Alexander Payne– ritorna
dopo ben sette anni dal suo fortunato ed ultimo lavoro
Sideways – In viaggio con Jack – con
Paradiso amaro, e lo fa ancora una volta facendo
incetta di nomination agli Oscar. Per certi versi in questo caso il
suo merito è minore rispetto alla precedente pellicola, che
sorprese molto per la brillantezza della sceneggiatura e per
l’ironica malinconia che sarebbero poi diventate lo stilema
prediletto del regista, autore anche di A proposito di
Schmidt.
The Descentans, titolo
originale del film da noi tradotto Paradiso amaro,
racconta la storia di Matt King (George
Clooney), un marito e padre da sempre indifferente e
distante dalla famiglia. Ma quando la moglie rimane vittima di un
incidente in barca nel mare di Waikiki è costretto a riavvicinarsi
alle due figlie, e quindi a riconsiderare il suo passato e valutare
un nuovo futuro. Mentre i loro rapporti si ricompatteranno, Matt è
anche alle prese con la difficile decisione legata alla vendita di
un terreno di famiglia, richiesto dalle élite delle Hawaii ma anche
da un gruppo di missionari.
Elaborare il lutto
Paradiso amaro
racconta dunque la dimensione tragica di un uomo difronte a degli
eventi drammatici con cui irrimediabilmente deve fare i conti e che
rappresenta un bivio non solo per la propria esistenza, ma anche
per la sua famiglia. Alexander Payne ancora una
volta dimostra di essere molto abile nel muoversi dentro questo
substrato di vissuto pieno di dolore e malinconia, abile nello
scrutare con il suo sguardo le difficoltà e le peripezie di una
condizione così, senza togliere il dubbio di quanto essa
rappresenti l’inevitabile conclusione di una strada sinuosa e
difficile da attraversare.
Quello di Payne è quindi un film su
un percorso da affrontare, è il tentativo di rimettere insieme un
rapporto e una famiglia che fino ad ora era vissuta in totale
agonia, è soprattutto l’intenzione di King (George
Clooney) di voler rimediare al passato, cercando di
vivere il presente e modificare il futuro, cercare di riconciliare
un puzzle che è per sua stessa natura in frantumi.
Paradiso amaro si muove su un equilibrio
precario
Nonostante le buone
intenzioni Paradiso amaro, pur assicurandosi
l’ampia sufficienza, ha alcuni lati negativi che in qualche maniera
ne offuscano la brillantezza. Se da un lato colpisce il lato
tragicomico che regala forse i momenti migliori della pellicola,
d’altro canto sorprende nell’accezione negativa, la forzata ricerca
di una drammaticità eccessiva, che rileva l’intenzione di voler
commuovere a tutti i costi. In questo è lo stesso Payne a peccare,
nella mancata ricerca di un equilibrio perfetto fra le due nature
che compongono il nucleo centrale della narrazione, che avrebbe
reso il film più sincero e più dolce.
Detto ciò, rimangono i bei momenti
del film e un cast che sorprende soprattutto nelle loro
protagoniste femminili, fra tutte una delle due figlie di King,
Alexandra, interpretata con sincera passione da
Shailene Woodley, all’altezza del compito e capace di
duettare con il talento di George Clooney.
Entertainment Weekly oggi propone
in anteprima il nuovo teaser poster americano di The Raven – Gli
ultimi giorni di Edgar Allan Poe (John Cusack), la nuova pellicola di James McTeigue (V
for Vendetta, Ninja Assassin) ispirata alla figura e ai racconti
dello scrittore di Boston.
Brad Pitt parla dei protagonisti del film L’Arte
di Vincere, per il quale lui e Jonah Hill sono stati candidati
all’Oscar (rispettivamente per Miglior attore protagonista e
Migliore attore non protagonista). Dal 27 gennaio al
cinema.
Niente remake di La Casa
per Lily Collins (vista in Abduction e prossima interprete di
Mirror Mirror, film ispirato aBiancaneve): l’attrice britannica ha
declinato il ruolo della protagonista femminile a causa
dei troppi impegni concomitanti, tra cui il tour promozionale
dello stesso Mirror Mirror e la partecipazione all’adattamento di
The Mortal Instruments, ennesima saga post-adolescenziale (firmata
da Cassandra Clare) che dopo il successo nelle librerie americane,
si prepara a sbarcare sul grande schermo.
Il remake di Evil Dead
dovrà trovare dunque una nuova interprete per il ruolo di Mia, una
ragazza che nel corso di una gita tra amici finisce in una casa
abbandonata… ovviamente infestata, con tuttò ciò che ne seguirà
(rispettando il plot dell’originale). Regista del film sarà il
semisconosciuto Fede Alvarez, regista uruguayano segnalatosi per il
cortometraggio fantascientifico Ataque de Panico. La sceneggiatura
è stata scritta dallo stesso Alvarez, assieme a Rodo Sayagues, con
l’assistena di Diablo Cody. L’inizio delle riprese è previsto per
il prossimo marzo, l’uscita nelle sale per l’aprile 2013.
Si va completando il cast del nuovo
vilm di James Wan (regista del primo Saw e, più recentemente, di
Insidious): dopo Patrick Wilson e Vera Farmiga è la volta di Ron
Livingstone e Lily Taylor. Il titolo inizialmente scelto, The
Conjuring, è stato in seguito scartato e al momento non ne è stato
ancora trovato un altro. Wilson e la Farmiga interpreteranno una
coppia di ‘investigatori psichici’ che affronteranno il caso più
terrificante della loro vita in una fattoria del Rhode Island; qui,
un’altra coppia (Livingstone e la Taylor) si è trasferita coi
propri figli, solo per scoprirla infestate da una presenza
dmeoniaca che decisamente non li vuole trai piedi. La sceneggiatura
è stata scritta Chad e Carey Hayes, sulla base del caso della
famiglia Perron, raccontato dagli investigatori Ed e
Lorraine Warren, negli anni ’70. Le riprese dovrebbero cominciare
nel prossimo marzo.
Dopo aver trovato in Ethan Hawke il
protagonista, Vigilandia – sci-fi thriller di James DeMonaco
(regista le cui precedenti opere non sono granché memorabili) ha
trovato anche la sua controparte femminile in Lena Headey
(protagonista in Terminator: The Sarah Connor Chronicles, oltre ad
aver recitato in altre serie come Game of Thrones o White
Collar).
Del film, che sarà un’opera a basso
costo, si sa poco: regista e produttori hanno voluto mantenere il
massimo riserbo. Produttore è Jason Blum (Insidious), la cui
compagnia sta attualmente lavorando a Platinum Dunes di Michael
Bay. Nota anche per il ruolo della Regina Gorgo in 300 di Zack
Snyder, la Headey sarà sugli schermi in autunno col remake del
fumettistico Dredd.
Steven Soderbergh continua a
portare avanti il suo nuovo progetto, un ‘thriller – farmaceutico’
intitolato Side Effect: sul fronte del cast, arriva la conferma
della partecipazione di Catherine Zeta-Jones, che nel film
affiancherà Jude Law, Channing Tatum, e Blake Lively. La storia
ruoterà proprio attorno al personaggio della Lively, preda di ansia
e depressione a causa dell’imminente scarcerazione del marito;
questo stato la poterà ad assumere una grande quantità di farmaci e
le cose peggioreranno ulteriormente quando intreccerà una relazione
col suo medico (interpretato da Jude Law).
La sceneggiatura è stata scritta da
Scott Z Burns (The Informant, Contagion). Per gran parte degli
attori principali non si tratta della prima collaborazione con
Soderberg: la Zeta-Jones ha recitato in Traffic, Jude Law in
Contagion, Tatum ha preso parte a Haywire, e farà parte anche di
Magic Mike, altro film messo già in cantiere da Soderberg.
Catherine Zeta-Jones sarà presto sugli schermi nel nuovo film di
Stephen Frears e nel musical Rock of Ages.
E’ morto il regista greco Theo
Angelopoulos. A dare lantizia la polizia di Atene che è accorsa
immediatamente quanto il grande artista, Palma d’Oro a Cannes e
Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia
Eccoli i nominati, tutti a fremere per la grande notte del 26
febbraio che incoronerà uno di loro migliore dell’anno.
Cinefilos.it vi offre una gallery sintetica ma esplicativa dei
nominati per questa
Ecco l’elenco completo
delle nomination agli Oscar 2012. Come c’era da aspettarsi, The
Artist ha conquistato la maggiori candidature: film, regia, attore
protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura oltre a
Ecco le nomination della 84esima edizione
degli Academy Awards, annunciata da Jennifer Lawrence (nominata lo
scorso anno per Un Gelido Inverno) e il Presidente dell’Academy,
Tom Sherak.
Il sito sfx.co.uk ha stilato un’interessante classifica …
succhiasangue. I soggetti in questione sono infatti i vampiri di
celluloide, che siano da grande o da piccolo schemo, sono stati
classificati in una top 50
In attesa dell’uscita nelle sale di
The Iron Lady, la fresca vincitrice del Golden Globe come miglior
attrice Maryl Streep, ci
racconta il film attraverso la sua esperienza sul set. Vi
ricordiamo anche la nostra recensione: The Iron Lady.
Qual è stata la sua prima
reazione quando la regista Phyllida Lloyd le ha proposto di
interpretare il ruolo di Margaret Thatcher?
Quando Phyllida mi ha detto che
avrebbe diretto un film sulla vita di Margaret Thatcher e sulle
tematiche della sua leadership, ha immediatamente stuzzicato il mio
interesse. Non sono molte le donne leader e non sono molti i
registi interessati a sondare cosa significa per una donna essere
una leader.
Riflettere sulle barriere che
Margaret Thatcher ha dovuto abbattere per diventare la Premier del
Regno Uniti significava entrare nella mente di una donna di fine
anni ’70, quando riuscì ad emergere e ad assumere il comando del
suo partito. E io non faccio che ripetere alle mie figlie che
allora il mondo era molto diverso e che tuttavia alcune cose
restano molto simili.
È stato interessante seguire le
orme di una donna cresciuta durante la Guerra, scoprire la Gran
Bretagna del dopoguerra, un periodo di privazioni e di
ricostruzione, e vedere questa donna elaborare la propria filosofia
e tradurla in pratica formulando soluzioni per quelle che lei
considerava delle mancanze nel benessere economico del suo paese. È
stato come osservareuna persona, casualmente donna, che tenta di
risolvere enormi problemi di portata mondiale in un modo del tutto
inedito per una donna.
È entrata in un circolo per
soli uomini, nel mondo dell’alta borghesia, e ha preso tutti per la
collottola. A prescindere dall’orientamento politico di ognuno, lo
considera un risultato significativo?
Io come attrice, arrivando il primo
giorno sul set per le prove mi sono sentita incredibilmente
sconfortata perché mi sono trovata in mezzo a 40-45 meravigliosi
attori inglesi ed ero l’unica donna nella stanza e credo di aver
provato la sensazione che deve aver provato Margaret Thatcher
arrivando alle riunioni del Partito Conservatore.
I giorni delle riprese nella
ricostruzione del Parlamento sono stati particolarmente
interessanti: come catturare l’attenzione di un’assemblea, come
coinvolgere un pubblico che ti ascolta per riuscire a convincerlo
della bontà della tua scelta politica sono situazioni con cui ci
misuriamo ancora oggi in quanto esseri umani.
Ho visto registe lottare nel
tentativo di assumere il comando. E non siamo ancora del tutto a
nostro agio con il concetto di una donna al comando. Margaret
Thatcher è stata realmente una grande innovatrice nel mostrare uno
dei modi in cui una donna può assumere la leadership. Non aveva
grandi problemi a capire come comandare e quindi, in un certo
senso, gli uomini non hanno avuto grandi problemi a capire come
seguirla. Secondo me è quando una donna esita sul modo di comandare
o si preoccupa di come viene percepita o teme di perdere la prima
femminilità che la sua abilità al comando ne risente.
Due temi che emergono nel
film sono avere l’amore e perderlo e avere il potere e perderlo.
Per lei quale dei due è più importante?
Credo che la riuscita del film
dipenda dal fatto che alcuni momenti salienti di forte tensione e
pressione nella sua vita politica sono controbilanciati da momenti
di eguale rilevanza nella sua vita privata che hanno avuto
ripercussioni altrettanto grandi su di lei come essere umano nella
sua totalità. Quindi abbiamo cercato di fare un film su un essere
umano a tutto tondo.
Margaret sostiene che se prendi
decisioni dure, la gente ti odia oggi, ma ti ringrazierà per molte
generazioni. Ed è sempre in questi termini che deve ragionare un
leader, ma anche una madre, che deve pensare ‘è vero, adesso la
faccio soffrire e lei mi odierà per quello che le impedisco di
fare, ma a lungo andare mi ringrazierà’. Penso che siano
preoccupazioni simili. Se un politico ragiona a breve termine,
facilmente riscuote consensi, ma è bene avere un’ottica a lungo
termine.
Il film è incredibilmente
apolitico. Secondo lei il pubblico ne resterà
sorpreso?
Non ho iniziato a lavorare al film
con un’opinione politica su Margaret Thatcher. In tutta sincerità,
sapevo scandalosamente poco dei suoi programmi politici. Sapevo che
erano in linea con molti dei programmi del Presidente Reagan, che
conoscevo meglio, ma non con tutti.
Quindi non mi interessava tanto
approfondire gli obiettivi che ha perseguito quanto il costo che le
sue scelte politiche hanno avuto su di lei come
persona. Quello che abbiamo cercato
di illustrare, con tutta l’accuratezza di cui siamo stati capaci,
sono stati i motivi dell’odio viscerale da un lato e
dell’ammirazione profonda dall’altro suscitati dalle sue decisioni
politiche. Ma ci preoccupava soprattutto il prezzo che deve pagare
un individuo che prende decisioni così cruciali. Quando sei un
leader con un enorme carico di responsabilità, come ne risenti sul
piano umano e quanta capacità di resistenza devi avere per
continuare a essere forte?
Interpreta Margaret in un
arco temporale di 40 anni; dev’essere stata una sfida
incredibile.
Interpretare 40 anni della vita di
un personaggio è una sfida, ma quando arrivi alla mia età, ti
sembra di avere ancora 20 anni, quindi non è stato un grande
problema. Una parte di te si sente ancora la stessa persona che eri
quando avevi 16 o 26 o 36 o 46 o 56 anni. Quindi hai accesso a
tutte le persone e a tutte le età che hai già vissuto. Credo sia il
grande vantaggio, se ne esiste uno, di diventare vecchia.
È stata una meravigliosa
opportunità. Di solito il cinema ti colloca in un periodo
specifico, ma questo è un film che consente di guardare al passato
di una vita intera ed è stato davvero entusiasmante cercare di
farlo. Voglio però aggiungere che la creazione di Margaret anziana
è anche in gran parte merito, oltre che dello splendido lavoro dei
truccatori J. Roy [Helland] e Marese [Langan], della geniale
metamorfosi realizzata da Mark Coulier grazie alle protesi che ha
disegnato.
Qual è stata la cronologia delle
riprese?
Il secondo giorno sul set, quando
ero da poco sbarcata dall’aereo dal Connecticut, parlando con
questo accento, abbiamo girato la scena della riunione di
Gabinetto, quando lei è all’apice del comando e al tempo stesso
sull’orlo del crollo nervoso.
Per rispondere alla sua domanda,
non mi hanno aiutata affatto, girando tutto il film senza alcun
ordine cronologico! Ma in fin dei conti credo sia stato un bene
lanciarmi subito in una scena così ambiziosa, perché mi ha
costretta a rimboccarmi le maniche come un Marine e a prepararmi a
combattere. E ho combattuto ogni singolo giorno delle riprese.
Ora mi sveglio tutte le mattine
pensando ‘Grazie a Dio non sono la leader del mondo libero, non
sono il Presidente Obama!’. Oh, che compito! Una cosa che ti resta
davvero dentro dopo aver interpretato un personaggio di proporzioni
shakespeariane è il senso di gratitudine. Mi sento molto modesta e
scoraggiata al pensiero dello spaventoso peso che Margaret Thatcher
si era presa sulle spalle. È una posizione terribile, scomodissima
e devastante quella di chi deve decidere di mandare delle persone a
rischiare la morte e poi la sera appoggia la testa sul cuscino. La
gente pensa che non paghi alcuno scotto e considera i personaggi
pubblici come dei mostri o degli dei, ma la verità è che stanno
tutti nel mezzo.
Pensa che il pubblico
uscirà dal cinema con un’opinione mutata di Margaret
Thatcher?
Non so se gli spettatori
cambieranno opinione sulle sue scelte politiche, ma se non altro
capiranno meglio le pressioni che ha dovuto sopportare e le
ragioni per cui, alla fine, la
risposta che lei sembrava rappresentare all’epoca è stata respinta.
Penso che quanto meno arriveranno a cogliere questo. E, alla fine,
dopo che la risposta che lei rappresenta viene respinta, vedranno
la persona che sopravvive a tutto questo anno dopo anno e, come
chiunque altro, continua a rimuginare nella sua testa ‘Cos’era
che…? Ricordi questo? Ricordi quest’altro?’.
La destinazione di ogni essere
umano è la stessa.
Durante le riprese, la
produzione ha diffuso una sua foto sul set nei panni di Margaret
Thatcher che è stata pubblicata sulla prima pagina non solo di
quasi tutti i quotidiani britannici in edicola, ma anche dei
giornali internazionali. Qual è stata la sua reazione?
Quando la foto è stata ripresa da
tutte le agenzie in Cina, nel Sudest Asiatico e in posti che non
avremmo mai immaginato fossero interessati al progetto, ovviamente
i produttori si sono esaltati: forse non è solo un film per sette
persone a Westminster! È stato confortante per tutti.
Ma, parlando a livello generale,
credo che ci sia una porzione di pubblico cinematografico spesso
sottostimata, ovvero le donne, che raramente vedono sullo schermo i
personaggi che interessano loro. C’è una sete di conoscenza nei
confronti di Margaret Thatcher perché è stata un’innovatrice a
molti livelli. Credo che questo film avrà un pubblico molto
trasversale e incuriosirà anche le persone che di solito non vanno
al cinema perché l’attuale offerta cinematografica le respinge o le
annoia.
La stampa ha riferito che
prima di girare questo film ha visitato la Camera dei Comuni. Che
tipo di visita è stata e che cosa ha imparato?
È stato meraviglioso potermi fare
un’idea del protocollo e del comportamento da tenere nella Camera
dei Comuni. Abbiamo avuto accesso allo spazio dietro le quinte, non
so bene come si chiami, dove ci sono una serie di piccoli uffici
attraverso cui i deputati entrano nella Great Hall. Mi sentivo un
po’ intimidita a stare nell’aula dove si è riunito per la prima
volta il Parlamento inglese nel 1066, una sala sorprendentemente
piccola in realtà. È stato toccante vedere quanto è piccola a
confronto dell’enorme portata dei capitoli di storia che sono stati
scritti al suo interno, della statura delle personalità che quei
muri hanno accolto, della grandezza delle idee che sono scaturite
da quel luogo. E anche vedere quanto è intima, come i deputati
siedono uno di fronte all’altro, gridando uno con l’altro o
assumendo un’aria annoiata. È un luogo piuttosto antagonistico.
E poi come è stato ricreare
le scene dei suoi interventi dalla tribuna?
Sono state scene ad alta tensione e
per certi aspetti sono servite a farmi entrare nella testa di
Margaret Thatcher. Era una delle rare donne che facevano politica
all’epoca. Ce n’erano altre, ma lei è stata una delle pochissime a
raggiungere il vertice.
E non ci è riuscita promuovendo la
sua immagine sui mezzi di informazione o con qualsiasi altra
astuzia adottino le persone per costruire le proprie carriere
politiche nell’attuale sistema, quando meno negli Stati Uniti. Non
si preoccupava di essere affabile, ma di essere competente. Doveva
essere più preparata e meglio preparata degli altri, doveva
prevedere tutte le domande che chiunque avrebbe potuto rivolgerle,
anche quelle che nessuno avrebbe
mai pensato di farle, doveva avere
una risposta per ogni cosa, perché doveva essere più brava di
qualsiasi altro uomo nella sua posizione per poter mantenere la sua
posizione. C’era una resistenza enorme all’idea di una donna
leader.
È stato entusiasmante incarnarla. A
maggior ragione dopo aver visto una serie di filmati di repertorio
che mi hanno mostrato la sua prontezza, la sua preparazione
impeccabile, la sua determinazione a lottare, la sua capacità nel
cogliere l’occasione giusta per sferrare un attacco, sicura di
vincere. Un simile appetito è elettrizzante e necessario per avere
la stoffa del leader.
Quali sono le doti migliori
di Phyllida?
La sua qualità più grande come
regista sta nel fatto che non esiste aspetto della lavorazione di
un film in cui non abbia il massimo livello di talento. È dotata di
grande pazienza e di grande lucidità mentale. Non ha mai virato dal
film che avevamo tutti insieme convenuto di fare, non si è mai
allontanata da quella visione durante la lavorazione. Spesso il
cinema è un processo creativo così singolare e viscerale che inizi
a lavorare a un film immaginandolo in un modo, ma poi lo trasformi
in qualcos’altro fino ad arrivare a gettare la spugna e ad
ammettere che ti è sfuggito di mano ed è diventato un’altra
cosa.
Ma a noi questo non è successo,
grazie allo sforzo che abbiamo fatto per mantenere gelosamente la
sua visione. È incredibilmente coinvolgente: ti sollecita e ascolta
qualsiasi proposta collaborativa tu le faccia e spesso ne tiene
conto, anche se questo non la porta a modificare la destinazione
originale del film che ha in mente. Sono molto fiera del fatto che
tutti noi siamo arrivati alla stazione a cui avevamo previsto di
scendere, perché è un risultato raro. Il cinema è una forma d’arte
collaborativa, quindi può partire in molte direzioni diverse. Ma
noi abbiamo avuto un grande sostegno da parte dei nostri
produttori, dalla Pathé e dagli altri investitori. Ci hanno
appoggiato in quello che abbiamo cercato di fare.
Al centro del film c’è la
storia d’amore tra Margaret e Denis, altro personaggio
affascinante, magistralmente interpretato da Jim Broadbent. Com’è
stato lavorare con lui?
Ha un grandissimo senso
dell’umorismo e, anche in molti dei ruoli più seri che gli ho visto
interpretare, ha il talento dell’ironia e della comprensione
empatica, due doti molto toccanti. Denis Thatcher è stato spesso
dipinto all’opinione pubblica come una sorta di pagliaccio. E il
profilo della sua veste pubblica è stato uno degli aspetti del
personaggio, ma sapevamo che Jim avrebbe ancorato il suo
protagonista in un substrato di spessore e comprensione della sua
maschera di comicità, indagando sul ruolo che il suo senso
dell’umorismo ha avuto nel vivacizzare la sua vita e quella di
Margaret e sull’importanza della presenza in una coppia di uno
disposto ad alleggerire le tensioni ridendo e scherzando. Penso che
gran parte degli atteggiamenti nei confronti di Denis fossero
dettati dal fatto che la sua posizione destabilizzava molte
persone, uomini e donne. Era scioccante vedere una donna Capo di
Stato e a quel punto lui cos’era? Il Signor Marito di…? Come
potevano definirlo? Il “first husband”? Che cos’era?
In questa fase dell’evoluzione
della specie umana solo adesso ci stiamo abituando ad accogliere
queste nuove posizioni dei generi sessuali. Secondo
me lui era satireggiato, ma non
sembrava provarne risentimento e questa sua reazione è stata
davvero straordinaria. So che Jim Broadbent è arrivato sul set con
un forte pregiudizio nei confronti di Margaret Thatcher e della sua
politica. E man mano che abbiamo interpretato la vecchia coppia di
coniugi, credo che abbia un po’ modificato la valutazione, non
tanto del suo premierato o del suo operato politico, quanto del suo
presunto lato umano che forse ha accettato di più. Di sicuro ha
accettato me come attrice che vestiva i suoi panni: ho sentito da
parte sua un affetto autentico e un sincero sgomento per la vita
che era stata riservata loro.
Prima dell’inizio delle
riprese ha passato un po’ di tempo con Alexandra
Roach?
Alexandra Roach interpreta Margaret
Thatcher giovane. Si è discusso molto di come fare assomigliare il
suo incantevole nasino all’insù al mio, ma lei è stata al gioco! È
un’attrice davvero incantevole. Ho trovato meraviglioso il rapporto
che ha costruito con Harry, che interpreta Denis giovane. Hanno
entrambi dedicato un’estrema cura al tentativo di dare ai due
personaggi giovani il sapore dei due personaggi anziani. Hanno
realmente fatto un ottimo lavoro.
Richard E. Grant si è
divertito dicendo che i signori che la circondavano, i suoi
colleghi di Gabinetto, erano come palline di naftalina di
equità.
No, no, non pallina di naftalina.
Li ha definiti falene, falene che circondano una sorgente di luce.
Posso dire che Richard E. Grant si diverte in qualunque situazione.
È una compagnia simpaticissima. Tutti quei signori sono stati
fantastici con me, mi hanno accolta in un territorio a cui io non
appartengo, essendo un’intrusa, un’americana.
Ma in un certo senso sono stata
incoraggiata a interpretare Margaret Thatcher proprio per il fatto
che lei stessa era un’intrusa in quel Partito Conservatore fatto di
parrucconi laureati a Oxford e Cambridge in cui lei marciava
imperterrita. E io ho pensato: se ce l’ha fatta lei, posso farcela
anch’io.
E Anthony Head nei panni di
Geoffrey Howe?
Un personaggio fondamentale. Per
Margaret Thatcher rappresentava una roccia, una voce giudiziosa,
una persona su cui poter sempre contare e quando alla Camera dei
Comuni Geoffrey Howe si alzò e diede le dimissioni, ogni cosa
precipitò verso la fine.
Anthony è un attore magnifico,
estremamente affascinante sul piano personale, che qui interpreta
splendidamente e con grande umiltà un uomo senza pretese, facendone
un ritratto bellissimo. Percepisci il suo dolore e il suo
disappunto. Era molto importante consentire un’identificazione con
ogni singolo deputato e con la sua personalità. Ogni attore è
arrivato sul set con una biografia esaustiva della persona che
avrebbe rappresentato, non per cercare di imitarla, ma per tentare
di incarnare qualche verità di quella persona e del ruolo che ha
avuto in questa tragedia..
Qual è stato l’aspetto più
bello della realizzazione di questo film?
Sicuramente l’opportunità di
guardare una vita intera, perché nella fase della vita in cui sono
io capita di guardarsi alle spalle e di ripensare a tutta la
propria storia. A volte è sconvolgente quanto una vita può essere
grande e piena di eventi che nel momento in cui li stai vivendo
sembrano molto importanti.
Poi però ti rendi anche conto che
quello che conta davvero è il presente, quello che vivi adesso, nel
preciso istante e nel luogo in cui ti trovi a viverlo. E si può
argomentare che l’unica cosa importante è vivere intensamente la
propria vita nell’esatto momento in cui ci si trova e che è questa
la cosa più difficile che esiste al mondo. In fondo è il principio
del Buddismo Zen, vivere intensamente il qui e ora, sentirlo,
esserci fino in fondo.
Quando siamo giovani, ognuno di noi
dichiara quello che non farà mai, ma poi seguiamo tutti lo stesso
destino, abbiamo tutti un inizio e una fine. È un’ambizione
insolita per un film puntare l’intera narrazione verso quel
momento, il momento della fine. Di solito un film tende verso un
apogeo, un’aspirazione alta. Qui invece guardiamo un distillato di
cosa significa aver vissuto una vita enorme, esagerata,
intensissima e vederla poi sprofondare. Insomma, è poesia, non
trova?
Meryl Streep.
Attrice versatile, perfettamente a suo agio nel dramma come nella
commedia, con i suoi personaggi femminili ha caratterizzato e
caratterizza il cinema da oltre trent’anni. Personaggi
diversissimi, ma sempre donne grintose, di coraggio, con una forte
personalità, cui ha prestato i tratti della sua bellezza fine ed
elegante, ma anche determinazione e testardaggine. Così anche per
la sua più recente interpretazione, dal 27 gennaio nelle sale:
quella di Margaret Thatcher in The
Iron Lady di Phyllida Lloyd.
Confermando il suo feeling coi
riconoscimenti e le statuette – è l’attrice che ha ricevuto più
candidature agli Oscar e ai Golden Globe, ed in
quest’ultima categoria è colei che ne ha ottenuti il maggior numero
– simbolo dell’apprezzamento che l’attrice riscuote negli
Usa, sua patria, ma non solo, si è aggiudicata pochi giorni fa
proprio il Golden Globe come Miglior Attrice per il ruolo della
Thatcher, mentre il Festival del Cinema di Berlino
si appresta a conferirle l’Orso d’Oro alla carriera. E chissà
che, grazie alla sua ultima fatica, non possa di nuovo arrivare a
stringere tra le mani la statuetta più prestigiosa, quell’Oscar che
già fu suo due volte: nel 1980 per la sua straordinaria
interpretazione della signora Kramer in Kramer contro Kramer
di Robert Benton, accanto a Dustin Hoffman; e tre anni dopo, per il
ruolo della prigioniera polacca in La scelta di Sophie.
Indipendentemente da come andranno le cose, la bravura di
quest’attrice e la perfetta aderenza ai personaggi che interpreta,
frutto di un meticoloso lavoro, ha sempre messo d’accordo tutti,
facendo di lei, indiscutibilmente, una delle più grandi del cinema
contemporaneo.
Mary Louise
Streep nasce a Summit, nel New Jersey, il 22 giugno del
1949. Sua madre è un’artista, dipinge e dirige una galleria d’arte,
mentre il padre è a capo di una casa farmaceutica. In casa la
chiamano Meryl e con questo nome sarà poi conosciuta. Nelle sue
vene scorre sangue nord europeo: Inghilterra, Irlanda, Svizzera,
Olanda. La madre le trasmette la passione per il canto, che le fa
studiare fin da bambina. La famiglia vive a Bernardsville, nel New
Jersey, e Meryl ha due fratelli. Si diploma nella stessa cittadina
e comincia ad appassionarsi al mondo dello spettacolo. È il 1971
quando le viene conferito il Bachelor of Arts in
dramma al Vassar College, mentre il Master
of Fine Arts a Yale risale al ’75. Studia poi
all’Actor’s Studio con Stella Adler e si dà al
teatro. È da qui che parte anche la sua avventura cinematografica.
Sarà infatti durante uno di questi spettacoli teatrali che
catturerà l’attenzione di Fred Zinnemann, che le
proporrà la sua prima apparizione sul grande schermo nel drammatico
Giulia (1977), accanto a Vanessa
Redgrave e Jane Fonda. A quest’epoca, la
Streep ha 28 anni ed è pronta per il grande salto.
Nel 1978 Michael
Cimino la vuole per uno dei suoi capolavori: sarà accanto
a Robert De Niro – ancora oggi suo grande amico –
John Savage e Christopher Walken
ne Il Cacciatore, intenso lavoro
incentrato sull’esperienza di tre amici, soldati in Vietnam. Il
film ottiene un grandioso successo agli Oscar, portandone a casa
addirittura cinque (miglior film, regia, attore protagonista
Walken, montaggio e suono). Anche la Meryl Streep
è per la prima volta candidata al premio e si fa conoscere così dal
grande pubblico. Sul set del film, poi, conosce l’attore
John Cazale, del quale sarà la compagna fino alla
sua prematura scomparsa quello stesso anno. Quindi, sposerà uno
scultore: Don Gummer, con cui avrà quattro figli.
Del 1979 sono due lavori
importantissimi nella carriera dell’attrice del New Jersey:
Kramer contro Kramer di Robert
Benton e Manhattan di Woody
Allen. Nel primo, Ted e Joanna Kramer sono una coppia con
un figlio (Billy/Justin Henry), in crisi. Joanna/Meryl
Streep, oppressa dalle responsabilità familiari e forse
non più soddisfatta della propria vita, decide di prendersi del
tempo per riflettere. Perciò se ne va, lasciando marito e figlio a
cavarsela da soli. I due trovano un nuovo equilibrio,
Ted/Dustin Hoffman riorganizza la propria vita in
funzione della cura del figlio, impara ad essere per Billy anche
“una madre”, ma Joanna torna e vuole il divorzio, nonché la
custodia del piccolo. Inizia così una feroce battaglia legale tra i
due genitori. Dunque un film non facile, sul ruolo e sui diritti
dei padri, da considerare pari in tutto e per tutto a quelli delle
madri.
Meryl Streep: vera diva del grande
schermo
Alla Meryl
Streep spetta caratterizzare questa figura di donna
complessa, sul cui comportamento si può discutere, ma che ci appare
qui con tutte le sue debolezze, le difficoltà, i dubbi umanissimi,
e con un sincero amore per il figlio. Interpretazione
stellare sia per la Streep che per Hoffman. Infatti i due attori
guadagnano entrambi il Premio Oscar. Per Meryl
Streep arriva anche il Golden Globe, primo di una
lunga serie. In Manhattan, l’attrice è ancora una donna (Jill) che
abbandona il marito (Woody Allen/Isaac Davis), scrittore per la tv
newyorkese, stavolta per amore di un’altra donna. Ma Isaac
incontrerà per le vie di Manhattan Mary Wilkie/Diane Keaton.
Collaborazione di peso quella con Allen per l’attrice di Summit.
Qui i toni sono quelli di una commedia, diretta con maestria da un
Woody Allen in stato di grazia. Un film che racconta soprattutto
l’amore del regista per la sua città, che ci appare in bianco e
nero mentre la storia si dipana sulle note di Gershwin. Nel 1981
Meryl è scelta da Karel Reisz per interpretare il ruolo della
protagonista in La donna del tenente francese. Una storia d’amore
tra passato e presente, che vede coinvolti una donna dell’ ‘800 che
rinuncia a tutto, ed anche alla sua reputazione, per amore del
tenente Jeremy Irons e, ai giorni nostri, due
attori che portando in scena questa storia, vengono travolti dalla
stessa passione. Quest’interpretazione consente tra l’altro alla
Streep, interprete di entrambe le donne, di mostrare una delle sue
particolari doti: quella di padroneggiare perfettamente diversi
accenti e di saper quindi passare disinvoltamente dall’inflessione
inglese britannica a quella americana.
È un periodo d’oro questo per la
nostra attrice, che nell’83 viene insignita di un secondo Oscar e
del Golden Globe per la sua straordinaria
interpretazione nel drammatico La scelta di Sophie di Alan Pakula,
che vede al suo fianco Kevin Kline, all’esordio sul grande schermo.
Qui interpreta una giovane polacca, prigioniera nel campo di
concentramento di Auschwitz, che compie una scelta difficilissima:
abbandonare la figlioletta per salvare la vita propria e dell’altro
figlio, collaborando con un comandante del campo. Nello stesso
anno, con Silkwood entriamo assieme alla Streep in fabbrica e
indaghiamo sul suo mal funzionamento: l’attrice interpreta
l’operaia Karen Silkwood, vittima di una contaminazione radioattiva
sul luogo di lavoro nell’Oklahoma degli anni ’70, diretta da
Mike Nichols. Nel cast anche Kurt Russel e
Cher.
Del 1985 è un altro
grande successo di pubblico e critica, che accresce ancora la
popolarità di Meryl Streep in tutto il mondo: La mia
Africa di Sydney Pollack, tratto
dall’omonimo testo di Karen Blixen. Una donna dal carattere forte
la baronessa Blixen, che l’attrice interpreta con maestria e
intensità. Donna che si innamora dell’Africa, dove compra e
gestisce da sola una piantagione di caffè ai primi del ‘900. Ed ha
anche il coraggio di lasciarsi alle spalle un matrimonio, quello
col barone Blixen che le ha consentito di condurre una vita agiata,
per cercare il vero amore. Lo troverà in Denys/Robert
Redford. Allo stesso tempo, dunque, un inno a favore del
coraggio e dell’intraprendenza delle donne, ma anche il racconto di
una storia d’amore travagliata, tra una donna possessiva e decisa e
un uomo che ama innanzitutto la propria libertà. Il film ottiene
diversi Oscar, tra cui Miglior Film, Regia e Sceneggiatura, ma si
fa apprezzare molto anche all’estero, in particolare nel nostro
paese. Viene infatti premiato col Nastro d’Argento e col
David di Donatello come miglior pellicola
straniera, e a Meryl Streep va un meritato David
come miglior attrice straniera. Dopo aver lavorato accanto a
De Niro, Hoffman, Redford, nel 1986 l’attrice del
New Jersey condivide il set con Jack Nicholson.
Entrambi sono alle prese con un matrimonio che non riescono proprio
a far funzionare in Heartburn – Affari di cuore, dove Meryl ritrova
la direzione di Mike Nichols. Il regista la sceglierà di nuovo nel
1990 per il drammatico Cartoline dall’inferno.
Gli anni ’90 iniziano all’insegna
della varietà per l’attrice: nel ’92 si fa dirigere da
Robert Zemekis nella commedia La morte ti
fa bella, dai toni satirici. Assieme a lei a reggere
questa satira sul sogno dell’eterna giovinezza, Goldie Hawn e Bruce
Willis. L’anno dopo torna al dramma, con la trasposizione
cinematografica del romanzo di Isabel Allende La casa degli
spiriti, che attraverso le vicende della famiglia Trueba ci
racconta il Cile dagli inizi del ‘900 al regime di Pinochet.
Difficile senza dubbio la sfida di racchiudere il grande affresco
storico nel tempo di un film e di trasporre un romanzo senza
tradirlo, ma il tema è forte e meritevole di trattazione, così come
meritevoli sono senz’altro le interpretazioni degli attori, specie
quelle di Jeremy Irons, nei panni del
capofamiglia, il generale Esteban Trueba, della moglie Clara/Meryl
Streep, e della sorella Ferula/Glenn Close. Nel ’95, Meryl aggiunge
un tassello alle sue prestigiose collaborazioni e ottiene di nuovo
il favore di pubblico e critica, diretta niente meno che da
Clint Eastwood,
e protagonista assieme a lui del romantico I ponti di Madison
County. Francesca è una donna sposata che vive nella campagna
dell’Iowa e dedica tutta la sua vita alla famiglia. Il fotografo
Robert Kincaid è di passaggio, ma i due vivranno in pochi giorni un
amore che cambierà le loro vite.
Il nuovo millennio inizia invece
con la partecipazione al film di Spike JonzeIl ladro di orchidee, accanto a
Nicholas Cage e Tilda Swinton,
che vale all’attrice del New Jersey un altro Golden Globe. Dello stesso anno è
un’altra scommessa vinta dalla Streep. Prende parte infatti a
The Hours, impegnativa trasposizione del
romanzo di Michael Cunningham. Un cast tutto al
femminile regge quest’ambiziosa opera che vede protagoniste
Nicole Kidman,
nei panni di Virginia Woolf, Julianne
Moore/Laura e Meryl Streep/Clarissa: tre donne in tre
epoche diverse, legate da storie che s’intrecciano e dal romanzo
Mrs. Dalloway, tre donne poste di fronte
a scelte importanti, insoddisfatte delle proprie vite.
L’interpretazione che colpisce maggiormente è senz’altro quella di
Nicole Kidman, che guadagna l’Oscar e il Golden
Globe – ma tutte e tre le protagoniste ottengono l’Orso d’Oro al
Festival di Berlino. Nel 2004,
un tuffo nel genere fantastico, con la partecipazione a Lemony
Snicket – Una serie di sfortunati eventi, favola
dalle atmosfere oscure per la regia di Brad Silberling.
Due anni dopo a regalare a Meryl
l’ennesimo successo è la straordinaria abilità con cui impersona
l’arcigna e altera direttrice di un importante magazine di moda,
Miranda Priestley, in Il Diavolo veste
Prada alle prese con l’apprendistato, non solo
lavorativo, della giovane dipendente Andie Sachs/Anne Hathaway.
L’interpretazione merita un nuovo Golden Globe. Ma
non è questa l’unica commedia con la quale la Streep si cimenta
quell’anno. Se infatti nella prima parte della sua carriera ha
interpretato soprattutto ruoli drammatici, ha progressivamente
scoperto e coltivato, sempre con ottimi risultati, anche il lato
comico del suo talento. Così nel 2006 veste anche i panni di Liza,
psicanalista di Uma Thurman/Rafi, che cerca
l’amore e sembra trovarlo nel giovane David che però, guarda
caso, è il figlio di Liza. Ottima la sua interpretazione in questo
Prime, commedia brillante firmata Ben Younger. Nel 2007 Meryl torna
al dramma e ritrova Robert Redford, col quale non recitava dai
tempi de La mia Africa. In questo caso, però, l’attore è anche
regista e sceglie proprio la Streep e Tom Cruise
per affiancarlo in Leoni per agnelli, pellicola d’impegno, in cui
Redford fonde le storie di tre personaggi: il politico dalle forti
ambizioni, senatore Irving/Cruise, la giornalista in cerca di uno
scoop che lo intervisterà in esclusiva, Janine Roth/Streep, e un
professore, Stephen Malley/Redford che cerca di far cambiare idea a
un suo studente intenzionato ad abbandonare gli studi. A tenere
insieme e a far da sfondo alla storia c’è la guerra in Afghanistan.
Redford intende con questa pellicola scuotere le coscienze e
richiamarle all’impegno.
Ma Meryl non trascura neppure il
genere thriller, e partecipa all’esordio del regista sudafricano
Gavin Hood, Rendition – Detenzione illegale. Nello
stesso anno fa di nuovo ampiamente centro e mostra ottime doti di
cantante, ballerina e performer nella commedia musicale Mamma Mia!,
per la regia di Phyllida Lloyd, in cui dà corpo e
una straordinaria vitalità al personaggio di Donna, spensierata
figlia dei fiori negli anni ’60 e ora pragmatica padrona di un
piccolo hotel in un’isola greca, alle prese con l’imminente
matrimonio della figlia, e non solo. Lo stesso anno la vede anche
partecipare a Il dubbio, di John Patrick Shanley, che affronta il
delicato tema della pedofilia all’interno delle istituzioni
religiose (qui, in una scuola). Il film analizza in maniera
complessa la questione e va a fondo nel tratteggiare le psicologie
dei personaggi. Non solo quella del presunto pedofilo, Padre Flynn,
ma anche quella della direttrice: Sorella Aloysius, una perfetta
Meryl Streep.
L’attrice appare anche nel
documentario di John Walter Theatre of war, incentrato sullo
spettacolo Madre coraggio di Brecht, interpretata dalla Streep al
teatro all’aperto di Central Park a New York. Questo testimonia
come l’attrice non abbia mai abbandonato la sua passione degli
inizi: quella per il palcoscenico. Nora Ephron la vuole nel 2009
per un ruolo brillante nella commedia gastronomica Julie & Julia.
L’attrice è stavolta un’americana a Parigi negli anni ’50,
conquistata dalla cucina francese. La sua storia scorre in
parallelo con quella di una giovane americana dei nostri giorni,
anche lei alle prese coi fornelli. Ennesima prova magistrale e
meritato Golden Globe.
Ed eccoci all’attualità:
nelle sale italiane arriva dal 27 gennaio The Iron
Lady: un film che ha già fatto molto parlare di sé ed è
già valso a Meryl, sua protagonista, il Golden Globe come Miglior
Attrice drammatica. Una pellicola per la quale è tornata a farsi
dirigere da Phyllida Lloyd, con cui aveva condiviso la fortunata
esperienza di Mamma Mia! Una nuova sfida, forse una delle più
difficili della sua carriera: quella di vestire i panni, nonché
rendere la personalità e il temperamento forte, di Margaret
Thatcher, Primo Ministro inglese dal 1979 al 1990. Personaggio
discusso e anche criticato per alcune scelte politiche che
cambiarono, nel bene o nel male, il volto dell’Inghilterra. La
sfida è in parte già vinta, ma manca ancora il “boccone più
ghiotto”: di certo l’attrice sarà una delle protagoniste nella
corsa all’Oscar 2012.
In The Iron
Lady, Margaret Thatcher, ex Primo
Ministro britannico, ormai ottantenne, fa colazione nella sua casa
in Chester Square, a Londra. Malgrado suo marito Denis sia morto da
diversi anni, la decisione di sgombrare finalmente il suo
guardaroba risveglia in lei un’enorme ondata di ricordi. Al punto
che, proprio mentre si accinge a dare inizio alla sua giornata,
Denis le appare, vero come quando era in vita: leale, amorevole e
dispettoso. Lo staff di Margaret manifesta preoccupazione a sua
figlia, Carol Thatcher, per l’apparente confusione tra passato e
presente dell’anziana donna.
Preoccupazione che non fa che
aumentare quando, durante la cena che ha organizzato quella sera,
Margaret intrattiene i suoi ospiti incantandoli come sempre, ma a
un bel momento si distrae rievocando la cena durante la quale
conobbe Denis 60 anni prima. Il giorno dopo, Carol convince sua
madre a farsi vedere da un dottore. Margaret sostiene di stare
benissimo e non rivela al medico che i vividi ricordi dei momenti
salienti della sua vita stanno invadendo le sue giornate nelle ore
di veglia.
Meryl Streep è Margaret Thatcher
Arriva anche da noi The Iron
Lady, film biografico che narra l’avvincente storia di
Margaret Thatcher, una donna che è riuscita a
farsi ascoltare in un mondo dominato dagli uomini, abbattendo le
barriere di discriminazione sessuale e sociale. È questo uno dei
temi portanti che l’inizio del film porta con sé, cercando di
indagare quei lati meno battuti di un’Inghilterra
immobilizzata da una difficile situazione economica ed un
maschilismo molto diffuso e difficilmente superabile. Il carattere
e l’intraprendenza sono certamente i punti forti che caratterizzano
profondamente il personaggio protagonista della storia.
E chi se non un’altrettanto
intraprendente e carismatica attrice come
Meryl Streep può far rivivere con il giusto piglio
quel personaggio sul grande schermo. Ancora una volta, Meryl
echeggia poderosamente con la sua performance nell’intricato
intreccio narrativo di una storia, contribuendo in grossa misura ai
pro che caratterizzano la pellicola. Tuttavia quello che sorprende
di più è che il suo contributo di bravura genera anche i contro,
perché la Streep è talmente brava e desiderata che
fa terra bruciata intorno a sé.
Il film è talmente incentrato su di
lei e sul suo personaggio che finisce per diventare un cane che si
morde la coda, finendo per generare un affresco si affascinante e
intrigante ma altrettanto thatchercentrico e didascalico, finendo
per limitare quelle che erano le reali potenzialità della storia.
D’altronde, districarsi fra la vita politica e dirompete della
Thatcher e l’intimità fragile e difficile di Margharet è un terreno
difficile per molti.
Un film che fatica a stare dietro alla sua protagonista
Sin dalle prime battute diventano
chiari i limiti della regista chiamata a dirigere questo ambizioso
progetto: Phyllida Lloyd. La sua
regia in tutta la prima parte è un po’ piatta e non aiuta a
far decollare il film, rialzandosi brevemente solo nelle ultime
parti della storia, poco per un film che avrebbe dovuto essere un
affresco su un periodo storico, su un personaggio storico e al
contempo una dolce e sensibile storia d’amore. Gran parte dei
meriti di una seconda parte più interessante e ricca di sfumature
vanno senza dubbio alla magistrale performance di Jim
Broadbent, che interpreta il marito della vulcanica donna,
Denis Thatcher.
Dipinto dall’opinione pubblica come
un pagliaccio, l’attore riesce nell’intento di rappresentare il suo
personaggio come qualcosa di molto più che un semplice menestrello.
La sua ironia e il suo senso dell’umorismo hanno senz’altro aiutato
a far valere l’importanza del ruolo di Denis nella vita di coppia
dei Thatcher, non a caso gli istanti d’intimità fra i due sono i
momenti migliori del film, che nonostante tutto sorprende a più
riprese, lasciando spazio anche ad alcune riflessioni politiche che
risultano essere tutt’oggi ancora spaventosamente attuali.