L’uscita al cinema di
Benvenuti al Nord ha dato così tanto ossigeno ai
botteghini italiani che era matematico, dopo i primi dati positivi
legati agli incassi del film, che si pensasse ad un sequel ‘al
contrario’.
In Benvenuti al Nord Luca
Mieniero e la sua banda ci hanno infatti pensato bene,
insieme alla Medusa e alla Cattleya, e così eccoci arrivati a
Milano, con Benvenuti al Nord, sequel ideale in cui Mattia Volpe
(Alessandro Siani) è costretto a trasferirsi su a
Milano a lavorare nell’ufficio postale diretto dall’amico Alberto
Colombo (Claudio
Bisio) che sta attraversando un brutto periodo, sia a
lavoro che a casa con la moglie (Angela
Finocchiaro). Se la premessa di Benvenuti al Sud era il
pregiudizio di Alberto verso il sud, qui si parte da un punto di
vista diverso: Mattia, costretto ad andare a Milano, ha già
conosciuto Alberto che si è rivelato un buon amico, per cui non ha
alcun tipo di pregiudizio. Tuttavia il suo capitare al posto
sbagliato nel momento sbagliato gli faranno ripensare con un po’ di
tristezza al suo caro amico conosciuto nel piccolo ufficio postale
di Castellabate.
Benvenuti al Nord, il
film
Così come nel primo film l’ago
della bilancia pendeva su
Bisio, straniero in terra straniera, qui la situazione
si capovolge, e così Siani diventa il
protagonista, sempre sottilmente comico anche solo nei suoi sguardi
da ragazzino che si adattano così bene all’immaturità cronica di
Mattia. Miniero dipinge con la sua mano leggera
una città grande e veloce, riuscendo a realizzarne un ritratto
palpitante e divertente di una coppia di uomini che, in balia di se
stessi e senza la guida delle proprie compagne, rischiano di
perdersi, o peggio, di morire di fame.
La carta vincente di
Benvenuti al Nord è senza dubbio la sua
originalità, perché se da un lato la struttura base è esattamente
come ce la aspettiamo, avendo visto Benvenuti al Sud, dall’altro
dettagli e piccole finezze ne fanno un film autonomo e godibile,
abilmente scritto e sicuramente ben interpretato da una coppia
comica che ha trovato qui il suo stato di grazie. Come sempre
succede, anche qui i comprimari fanno la differenza: anche se in
ruoli un po’ sacrificati a nome della sceneggiatura,
Giacomo Rizzo, Nando Paone e Nunzia
Schiano sono dei grandissimi attori, con una storia
professionale alle spalle che trasuda da ogni divertente smorfia
che ci propongono sullo schermo.
Sicuramente Benvenuti al
Nord non è una perla del cinema, ma è un prodotto buono,
con una certa dignità, e sicuramente di un livello superiore
rispetto alla valanga di commedie italiane che nell’ultimo anno
hanno invaso i cinema del nostro Paese.
Miniero, Bisio, Siani, Lodovini, Tozzi, Letta,
Rossella. C’erano proprio tutti questa mattina alla conferenza
stampa di presentazione di Benvenuti al Nord, commedia tutta
italiana, sequel del remake (!) di Giù al Nord di Dany Boon. Il
primo ad intervenire è Gianpaolo Letta che irferisce i numero di
copie in cui uscirà il film il prossimo 18 gennaio: più di 800, un
numero da capogiro per il film più atteso dal grande pubblico per
la stagione italiana 2012.
Sette opere di misericordia è stato
proiettato in anteprima il 12 gennaio alla Casa del Cinema di Roma.
A seguire, una conferenza stampa che ha visto coinvolti il
produttore, i registi e parte del cast. A chi li ha paragonati ai
Fratelli Dardenne, i simpatici e giovanissimi gemelli torinesi
rispondono di non essersi ispirati a loro poiché
Degrado, misericordia, compassione
e la ricerca di un’identità chiedono asilo ad una periferia che
solo un ponte divide dalla città. La zona liminare, il non-luogo
magnificato da Pasolini e dai filosofi degli anni Zero, diventa
teatro di una storia di redenzione che non viene raccontata da un
‘narratore onnisciente’, distaccato o auto-compiaciuto ma da una
formica che procede insieme alle altre e che rende Sette
opere di misericordia dei giovanissimi fratelli Gianluca e
Massimiliano De Serio, un film capace di imprimersi nella mente
dello spettatore e di stupire anche grazie alla delicatezza ed
all’estrema eleganza di un finale che si perde nel sole di un
paesaggio tutto uguale, osservato dai finestrini sporchi di un
autobus.
In Sette opere di
misericordia Luminiţa è una ragazza moldava che trascorre
la sua esistenza fra la baraccopoli della periferia torinese di
Falchera e l’ospedale in cui ruba tutto quello che le permette di
tirare avanti e di evitare le violenze dei suoi aguzzini. Un giorno
la ragazza si imbatte in Antonio, un anziano signore silenzioso,
solitario e malato, e cercherà, tramite un impietoso scontro con
questa enigmatica figura, di sfuggire alla miseria a cui sembra
fatalmente avvinta. L’estrema importanza che i registi riservano ad
azioni quotidiane che soppiantano i dialoghi, è l’elemento che
rafforza l’aura spirituale del film e che contraddistingue sia il
titolo, riferimento alle opere di pietas corporale che un
cristiano, secondo la Chiesa Cattolica, dovrebbe affrontare nella
sua vita, sia i cartelli che segmentano la diegesi. All’inizio
queste scritte che riportano i sette corollari – dar da mangiare
agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi,
alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i
carcerati, seppellire i morti – sono usati in una valenza quasi
ironica o grottesca, e man mano che la storia raggiunge il suo
acme, l’ironia scomparirà per cedere il posto a quella che i
registi stessi definiscono una ‘tensione esisitenziale’.
Sette opere di
Misericordia prodotto da Alessandro
Borrelli e la Sarraz Pictures, uscirà in
quindici copie nelle sale italiane il 20 Gennaio prossimo e vede la
partecipazione di
Roberto Herlitzka, Olimpia Melinte, Ignazio Oliva, Stefano
Cassetti e Cosmin Corniciuc.
Sette opere di misericordia è già stato insignito
del primo premio della giuria al Festival Du Film Italien De
Villerupt, del Don Quijote al festival di Locarno, del premio
Navicella – Cinema Italiano, assegnato dalla Fondazione Ente dello
Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo e di molti altri
riconoscimenti, e fra Ottobre e Dicembre, è stato invitato a
partecipare a diciotto festival cinematografici, fra cui il
Torino Film Festival, il Festival del
Cinema Italiano di Madrid ed il London Film Festival.
Dopo un lungo girovagare in giro
per il mondo, Il Sentiero esce finalmente nelle
sale italiane grazie alla casa di produzione Fandango. Il film ha
partecipato al Festival di
Berlino 2010, gareggiando per l’Orso d’Oro. Il
Festival
Internazionale del Film di Roma dello stesso anno ha
accolto l’opera della regista e sceneggiatrice Jasmila Žbanic,
considerandola una dei più interessanti talenti europei emergenti.
Il Sentiero racconta la storia di una giovane
coppia bosniaca, Luna e Amar, che dopo aver attraversato gli anni
duri della guerra, tra perdite e traumi, sembrano vivere
serenamente la loro storia d’amore. Luna fa la hostess e Amar è un
controllore di volo, si amano con passione e vivono appieno le
gioie della loro gioventù.
L’etica della religione musulmana
non fa parte delle loro vite: Amar beve alcolici e fuma. Un giorno
beccato a bere alcolici sul posto di lavoro l’uomo viene sospeso.
Sarà l’incontro con un suo vecchio compagno di guerra, ora
totalmente osservante della dottrina islamica, a fargli cambiare
totalmente vita, portandolo “sul sentiero” opposto a quello di
Luna. La donna si confronterà con una comunità fin troppo
conservatrice di cui Amar, ora, è parte integrante.
Jasmila Žbanic, il film
La regista, Jasmila
Zbanic in Il Sentiero, pone l’attenzione
sulla crescita mentale e spirituale che portano la coppia verso due
differenti sentieri della vita, dove non sembrano avere più alcun
punto in comune. L’amore può non bastare a risolvere i problemi,
soprattutto quando non si ha più la stessa visione della vita.
Jasmila Žbanic compie un passo ulteriore:
attraverso i normali problemi di coppia, mostra praticamente a cosa
porta l’osservazione conservatrice/estremista del credo musulmano.
Quando la cieca ubbidienza ad una religione viene spinta agli
estremi si verificano situazioni difficili.
Lo si nota, in particolare, nella sequenza in cui Luna fa il
bagno nel lago, si avvicina troppo alla sezione maschile e viene
subito fermata da alcuni uomini. Questi le intimano verbalmente che
non può stare lì, che deve tornare indietro, che non è posto per
lei, che potrebbe essere vista. Sotto i riflettori viene posto il
ruolo che ricopre la donna in una società maschilista, in cui le
viene negata la libertà, che oggi tutti crediamo di avere: la
libertà di esprimere il proprio pensiero, la libertà di movimento e
la libertà di essere donna.
In più Il Sentiero racconta il passaggio da un
cammino, che un uomo intraprende nella vita, fino ad un altro
completamente opposto.
Nelle scelte di Amar non c’è una
via di mezzo, passa dall’essere completamente sordo al proprio
credo religioso, dal completo disinteressamento verso l’Islam
all’ascoltarlo troppo, al non considerare altro. Tutto per lui
diventa peccato e il suo vecchio stile di vita, accanto alla donna
amata, non è più accettabile. Jasmila Žbanic ha
saputo abilmente raccontare una storia, dove è facile riconoscersi
e che ci aiuta a renderci conto di come la donna sia ancora
troppo sola e soggiogata. Il Sentiero è un film
che arriva dritto al cuore anche grazie al lavoro dell’attrice
protagonista Zrinka Cvitešic è bravissima nel
mostrare tutte le suggestioni che prova il personaggio di Luna,
dimostrandosi un talento che va tenuto d’occhio e valorizzato.
Arriva l’intervista dal set di Tate Taylor e
Kathryn Stockett, rispettivamente regista e autrice del romanzo di
The Help. The Help è una storia drammatica, ambientata a Jackson,
nel Mississippi dei primi anni Sessanta ed esplora i temi del
razzismo e del perbenismo di facciata delle famiglie del Sud. In
questo video l’autrice ed il regista parlano di come sono nati il
romanzo ed il film The Help. Dal 20 gennaio 2012 al cinema. Grande
cast: Emma Stone, Viola Davis, Octavia Spencer, Jessica Chastain,
Bryce Dallas Howard.
Il trailer ufficiale del film
“A.C.A.B. (All Cops Are Bastards)” di Stefano Sollima, con
Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Andrea Sartoretti e Marco
Giallini. Ulteriori info nella nostra Scheda-Film
Già da qualche mese si parla di
Kill Your Darlings, il nuovo passo della carriera post-potteriana
di Daniel Radcliffe, che vedrà l’attore inglese vestire i panni di
Allen Ginsberg, uno dei principali esponenti della beat generation.
Il cast del film si sta ora completando, con la partecipazione di
Dane DeHaan, Jack Houston e soprattutto Elizabeth Olsen, che si è
fatta recentemente apprezzare per i suoi ruoli in Silent House e in
Martha, Macy, May, Marlene (in italiano La fuga di Marta,
presentato nel 2011 al Sundance e a Cannes e atteso in febbraio
sugli schermi italiani).
La Olsen è peraltro la sorella
minore delle più famose gemelle, ma al momento sembra aver mostrato
ben altre doti di attrice. Kill Your Darlings non è un biopic
propriamente detto, concentrandosi piuttosto su un episodio ben
preciso della vita di Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs:
quello della morte dello studente universitario David Kammerer,
della quale si assunse la responsabilità Lucien Carr, altro
componente del loro gruppo. Burroughs e Kerouac vennero arrestati
per aver tentato di coprire lo stesso Carr; il primo fu
liberato su cauzione dal padre; a favore di Kerouac intervenì
la sua compagna, la studentessa Edie Parker, che lui sposò
mentre si trovava carcere. Elizabeth Olsen interpeterà proprio la
Parker. Dane DeHaan, che interpeterà Carr, sarà presto sugli
schermi col supereroistico Chronicle, mentre Jack Houston (Kerouac)
è giusto alla notorietà col ruolo di Richard Harrow in Boardwalk
Empire. Il film sarà diretto da John Krokidas; l’inizio delle
riprese è previsto per marzo.
Nuovo progetto per James Franco,
che continua ad essere uno degli attori più richiesti di Hollywood,
col suo nome continuamente accostato a nuove produzioni, ultimo in
ordine di tempo: il biopic sul celebre fotografo Robert
Mapplethorpe. Rimasto famoso per i suoi ritratti, spesso nudi, in
bianco e nero, durante la sua carriera Mapplethorpe è stato spesso
al centro di polemiche, sulla censura e sul finanziamento pubblico
delle arti.
Celebri sono rimaste soprattutto le
foto di artisti e musicisti, come Andy Warhol, Debbie Harry, Grace
Jones e Patti Smith, che usò proprio una foto di Mapplethorpe per
l’artwork del suo album Horses. Mapplethorpe morì nel 1989, a
seguito di complicazioni dell’AIDS; poco prima della sua morte,
fondò la Robert Mapplethorpe Foundation, che ha promosso il suo
lavoro in giro per il mondo, raccogliendo milioni di dollari di
donazioni per la lotta all’AIDS. Di un film incentrato sulla vita
del fotografo si parla già da un paio d’anni: a conquistarne i
diritti è stata l’attrice (e da qualche tempo anche produttrice) di
origine albanese Eliza Dushku (nota soprattutto per la sua
partecipazione a varie serie televisive); per il ruolo di
Mapplethorpe si era inizialmente parlato del fratello della stessa
Dushku, Nate, ma in seguito ci si indirizzati verso Franco; a
dirigere il film dovrebbe essere Ondi Timoner, fino a oggi noto
soprattutto per i suoi documentari. La data di inizio delle riprese
non è ancora stata decisa.
Arrivano i primi premi della stagione
appena iniziata, quella che porterà agli Oscar 2012. Infatti, la
Broadcast Film Critics Association ha annunciato i vincitori
dei Critics’ Choice Movie Awards, il premio
annuale della più ampia associazione di critici americani e
canadesi, che riunisce oltre 250 tra i più importanti critici di
televisione, radio e internet.
Le riprese di Man of Steel sono
entrate nel vivo in Canada. Infatti, da quanto si evince da queste
nuovissime foto rubate dal set sono anche molto catastrofiche. La
foto arriva direttamente dalla pagina facebook dei fan del
film:
Vi ricordiamo che L’Uomo
d’Acciaio è uscito negli USA il 14 giugno 2013, e
da noi il 20 giungo. Nel cast oltre a Henry
Cavill eRussell
Crowe ci sono
anche AmyAdams, Diane
Lane, Kevin Costner, Laurence
Fishburne, Michael Shannon. L’uomo d’Acciaioè
diretto da Zack Snyder.
Tutte le info utili nella nostra
Scheda Film: L’Uomo
d’Acciaio. Tutte le news nel nostro
speciale: Superman: Man of steel
In una interessantissima intervista concessa a
MTV.com il regista Tim Burton si confessa su i progetti futuri in uscita
nel 2012:
Frankenweenie e Dark
Shadows, e il film da lui prodotto Abraham
Lincoln: Vampire Hunter
Arrivano nuove immagini del
Cavaliere Oscuro il ritorno, sequel del fortunatissimo Il Cavalere
Oscuro, nonché attesissima chiusura della Saga targata Christopher
Nolan. Le foto accompagnate da alcuni dettagli sul film arrivano
questa volta da Entertainment Weekly che dedica un
grosso articolo al regista Christopher Nolan:
Dall’articolo comparso sulla
rivista sono emersi alcuni dettagli preziosi che però per molti
potrebbero rappresentare degli Spoiler quindi fate
attenzione nel leggere:
Come sappiamo, il Cavaliere Oscuro – il
Ritorno inizierà 8 anni dopo la fine del secondo film. Bruce
Wayne si sta ancora riprendendo fisicamente e psicologicamente
dalle vicende legate a Joker e a Due Facce.
La Batcaverna farà il suo
ritorno nel film. Stesso dicasi per la cascata, il lago e un nuovo
piano comandi di plastica che emerge dall’acqua premendo un
bottone. Bruce Wayne dovrà recuperare il legame con Alfred e
Lucius Fox, che evidentemente negli anni era andato
deteriorandosi.
Riguardo le polemiche sulla voce
di Bane, questo spiega Christopher Nolan:
Penso che quando la gente vedrà
il film metterà a fuoco tutti gli elementi. Bane è un personaggio
complesso e interessante, e quando la gente vedrà il film lo
riuscirà a seguire.
Christian Bale commenta il fatto di
indossare il costume di Batman per l’ultima volta:
L’ultimo giorno con il costume
di scena è stato anche l’ultimo giorno di riprese per me. Ero a New
York, in cima a un grattacielo downtown. Il giorno era iniziato con
Morgan Freeman ed è finito con Anne Hathaway. Ho dovuto dire addio
da dentro il cappuccio di Batman.
Vi ricordiamo che il
film uscirà in Italia il 29 agosto 2012.
Il cast comprende Anne Hathaway, Christian
Bale, Gary Oldman, Joseph Gordon-Levitt, Juno
Temple, Marion Cotillard, Matthew Modine, Michael
Caine, Morgan Freeman, Tom Conti, Tom
Hardy.
Per ulteriori info vi segnaliamo la
nostra scheda-film
Fonte: EW via Badtaste che ha tradotto le
dichiarazioni.
Il Festival presenterà l’intera opera
cinematografica del regista: una quarantina di pellicole che
saranno proiettate nelle migliori copie disponibili in 35mm. Come
per la retrospettiva dedicata a Ernst Lubitsch (2010) e quella a
Vincente Minnelli (2011), le proiezioni saranno accompagnate da
presentazioni di cineasti, attori e critici cinematografici
presenti a Locarno.
Debi Mazar e
Cory Hardrict entrano nel cast di
Lovelace, biopic sulla vita della pornstar Linda
Lovelace (1949-2002) diretto da Rob Epstein e
Jeffrey Friedman; nel ruolo della protagonista ci sarà Amanda
Seyfried. Debi Mazar, che vanta l’interpretazione di una miriade di
personaggi secondari sul grande come sul piccolo schermo, vestirà i
panni di Dolly Sharp, la Jenny di Gola Profonda. Cory Hardrict
(World Invasion: Battle Los Angeles) vestirà invece i panni del
famoso DJ radiofonico Frankie “Hollywood” Crocker. Le riprese del
film, scritto da Merritt Johnson e Andy Bellin, sono già in corso a
Long Beach, Los Angeles.
Isabelle Fuhrman
(Orphan) entra nel cast del fantascientifico After
Earth, diretto da M. Night Shyamalan, scritto da Gary
Whitta e targato Columbia Pictures. After Earth racconterà la
storia di un padre e un figlio, rispettivamente interpretati da
Will Smith e dal figlio Jaden, i quali, a causa di un’avaria, sono
costretti ad atterrare sulla Terra mille anni dopo che il genere
umano ha abbandonato il pianeta.
Isabelle Fuhrman interpreterà
Rayna, un’amica del personaggio del piccolo Smith. Il mese scorso,
il cast ha registrato gli ingressi di Zoe Kravitz e Sophie Okonedo:
saranno la figlia e la moglie di Will Smith. Le riprese inizieranno
a marzo, con location in Utah e Pennsylvania. After Earth,
inizialmente intitolato 1000 A.E., sarà nelle sale nel 2013.
Il prossimo 13 gennaio preparatevi
ad accogliere nei vostri cuori L’incredibile storia di
Winter il delfino, una storia vera, una fiaba tanto
commovente quanto realistica, capace di avvolgere lo spettatore in
un turbinio di emozioni uniche e spingerlo, infine, a guardare al
mondo con occhi diversi.
In L’incredibile storia di
Winter il delfino Winter, magistralmente
interpretato dal delfino Winter nella parte di se stesso, dopo
essere rimasto impigliato in una trappola per granchi viene tratto
in salvo e trasportato al Clearwater Marine Hospital. Qui,
gravemente ferito, viene assistito dal Dr. Clay Haskett che, pur a
malincuore, si ritrova costretto ad amputare la coda del povero
esemplare. Ma per Winter l’amputazione è solo l’inizio di una lunga
lotta. Una lotta contro la diversità, la disabilità, una
lotta estenuante per la vita. Senza coda il destino di Winter
sembra ormai segnato.
Sara così soltanto l’amicizia di
Sawyer, bambino timido e dalla grande bontà d’animo, con la sua
determinazione ed il suo coraggio, a strappare via Winter
dall’abisso del dolore e della solitudine. Grazie all’intervento
del Dr. Cameron McCarthy, Sawyer riuscirà a compiere un vero e
proprio miracolo, regalando al delfino un nuovo felice epilogo. Con
una protesi appositamente studiata Winter tornerà infatti a
nuotare, a giocare, ma soprattutto a vivere.
Oggi il vero Winter è diventato per
milioni di persone il simbolo della speranza. Il tema della
disabilità, che nel film emerge in primo piano con quello
dell’amicizia straordinaria tra uomini e animali, si sposa
perfettamente con quello della rinascita e di una ritrovata
libertà. Ed ecco che allora, quando valicare limiti, spesso
autoimposti, diventa qualcosa di realizzabile, la disabilità si
tramuta in null’altro che in un’effimera etichetta.
Perché in fondo si può essere
liberi e “illimitati” anche in un corpo diverso, perché dopotutto
una via c’è sempre. Basta saperla cercare.
Conferenza stampa affollata alla
Casa del Cinema per la presentazione de L’industriale, ultimo
lavoro di Giuliano Montaldo, che sarà nelle sale italiane da
venerdì 13 gennaio, distribuito in 85 copie. Presenti i
protagonisti, Pierfrancesco Favino e Carolina Crescentini, ma anche
Elisabetta Piccolomini, Francesco Scianna, Elena Di Cioccio, Gianni
Bissaca, lo sceneggiatore Andrea Purgatori, il produttore Angelo
Barbagallo, e Paolo Del Brocco di Rai Cinema che coproduce la
pellicola e la distribuisce con 01 Distribution.
Montaldo dimostra con
questo film che il suo sguardo su quello che avviene in Italia e
nel mondo non si è mai affievolito e continua a essere interessante
e di forte attualità
Giuliano Montaldo: “Quando abbiamo pensato questo film, un po’
di anni fa, (…) non era così: c’era un mare in burrasca, ma non
c’era certamente lo tsunami che adesso ha colpito tutta Europa e
non solo. Adesso la situazione è grandemente peggiorata”. Riassume
la trama del film (che vede protagonista Favino nei panni di Nicola
Ranieri, industriale travolto dalla crisi che rischia di veder
fallire l’azienda che ha ereditato, creata dal padre, ex operaio,
assieme ai suoi compagni di lavoro. Crisi che diventa presto
esistenziale e travolge il suo rapporto con la moglie
Laura/Carolina Crescentini, facendo emergere il lato peggiore di
lui). Poi torna a parlare di come la realtà oggi vada oltre la
finzione e questa crisi sia più difficile da risolvere di tante
altre nel passato: “(…) Stiamo leggendo ogni giorno cose terribili.
Io continuo a non capire. Leggo sui giornali: oggi hanno bruciato
200 miliardi, ma chi è il piromane? Dov’è il fumo? Perché non
arrivano i pompieri? Non lo so.” “Una volta ce la sbrigavamo da
soli, era l’Italia, se la zecca ti dava un po’ più di soldi (…),
poi magari con qualche piccolo sacrificio, si rimettevano a posto
le cose.” Mentre oggi la crisi è europea: “Ma il cerino sta
bruciando anche nelle nostre mani, ci stiamo scottando tutti. È
chiaro che in un periodo come questo, com’è accaduto al nostro
industriale, Ranieri, nel film, accade che le banche chiudono gli
sportelli, che gli usurai sono pronti a divorare chi ha bisogno di
aiuto.”
A Crescentini e Scianna:
cos’ha rappresentato per voi lavorare con un maestro come Montaldo?
Come avete lavorato sul personaggio? Cosa vi ha dato? Anche a
Favino, parlaci del ruolo di questo industriale.
Carolina Crescentini per questa sua
seconda esperienza con Montaldo parla di “gioia infinita” e
aggiunge che “il suo set è assolutamente speciale. C’è una
concentrazione, un’ironia, una semplicità che non si trovano
facilmente”. Riguardo al suo ruolo spiega: “Il mio personaggio era
una donna in crisi, che compiva anche delle azioni sbagliate,
perché era confusa.” E sul metodo di lavoro: “Mi sono dovuta far
travolgere dalla sua crisi e soprattutto ho dovuto smettere di
giudicarla. Infatti, il primo istante è stato di giudizio e non
riuscivo a capire alcune azioni: anche questo interesse per
Gabriel, in realtà è il risultato della confusione, del provare a
essere vista da qualcuno, provare a sentirsi leggera o speciale.
Quando ho gettato l’ascia del giudizio siamo entrate in contatto,
ed è stato bello. Chiaramente mi ha lasciato con un po’ di
bruciature che poi pian piano si sono risanate.”
Entusiasta anche Francesco Scianna,
che del lavoro col maestro dice: “La cosa che ho percepito
ancora di più lavorando con lui è che la cultura e la conoscenza
sono anche leggerezza (…). Essere diretti da un grande maestro è
fondamentale, perché riesci a entrare in profondità nel lavoro,
nella conoscenza del personaggio, e anche nel gioco di lasciarsi
andare all’istinto, ma con la sicurezza (…) che dietro la macchina
da presa c’è una figura che conosce bene i meccanismi
dell’interpretazione e del racconto” Questo, dice, “è un
regalo bellissimo” ricevuto da parte di Montaldo. Riguardo al
personaggio: “E’ stato bello per me perché è nuovo rispetto a
quelli che ho interpretato finora” soprattutto, aggiunge, è stato
bello poter “lavorare su un personaggio doppio, che fa i propri
interessi a discapito del suo cliente. (…) Non lo stimo come
professionista, però non l’ho giudicato mentre lavoravo,
semplicemente mi ci sono abbandonato”
Pierfrancesco Favino: “Io sono
stato rapito da Giuliano il giorno in cui, incontrandolo a casa
sua, dopo aver iniziato a parlare del film (…) e a un certo punto
mi offre un caffè – che fa lui e di cui è orgogliosissimo
(…), è il nostro Clooney… – mi porta nel bagno di servizio e mi
dice: ‘Alla fine del nostro lavoro, tu finirai qui’. Perché lui ha
tutte le sue locandine in bagno, e questo la dice lunghissima sulla
leggerezza e la serietà di cui parlava prima anche Francesco. Io
sono stato rapito da questa cosa qua e sono molto, molto
orgoglioso, per chiunque di voi che avrà occasione di mingere in
casa Montaldo, di trovare il mio faccione lì.”
Questo film ci riporta alla
tradizione del grande cinema italiano di racconto della nostra
società, di denuncia, che ci fa pensare ai toni di Una vita
difficile, o altri grandi film. Perché in Italia per così tanto
tempo non abbiamo avuto cinema di questo tipo? Quanto è difficile
realizzarlo? Potrebbe tornare ora? Una considerazione sul “cinema
della crisi”, che è anche, come in questo film, crisi esistenziale:
cosa succede alle persone nella crisi?
G.M.: “Di crisi ne ho viste
tante” Racconta, specie nel cinema, dove già si parlava di crisi ai
tempi dei suoi inizi come attore, nel 1950. Ma, “il cinema italiano
ce l’ha fatta, ha superato molte crisi, si è inventato di tutto,
s’è inventato il western all’italiana, ha inventato i film che
Tarantino considera dei capolavori”. Tuttavia, dei problemi pratici
si pongono, come quello di trovare produttori e distributori
disponibili ad investire in progetti di questo tipo. E a tal
proposito Montaldo dice: “Dobbiamo dire grazie (…) a Rai Cinema e a
01 Distribution che tiene alta questo tipo di qualità, devo dire
grazie a un produttore come il mio amico Angelo Barbagallo, che ha
detto sì subito ad un’impresa che all’inizio poteva essere
disperante.” E ricorda come non fosse facile neanche in passato:
“C’ho sempre messo tre, quattro anni a convincere qualcuno a fare
dei film” Anche per Sacco e Vanzetti, a proposito del quale,
racconta, qualcuno che non voleva produrlo disse: “Che è ‘na ditta
de import-export? (…)”. Rivendica poi le sue scelte ribadendo: “Ho
scelto imprese difficili, però volevo raccontare la mia
insofferenza per l’intolleranza, l’ho raccontata con questi
film”.
Ci metti un po’ per fare i
film, quindi non potevi avere già in tasca tutto quello che è
successo negli ultimi anni (per esempio Pierfrancesco sembra uno di
quegli imprenditori che si sono suicidati ultimamente). Come sei
andato a pescare qualcosa che non era ancora successo, come l’hai
trovato?
G. M. “Nel film c’è una scena
con una fabbrica occupata (…). Volevamo cercare una fabbrica
occupata vera (…) a Pinerolo, ma di andare nelle fabbriche
dismesse, occupate o in crisi non ce la siamo sentita, allora
chiedemmo l’autorizzazione ad una fabbrica in funzione, una delle
poche a Pinerolo che aveva un grande successo. Nella notte il
nostro (…) scenografo (Frigeri), si mise a lavoro, mettendo
striscioni (….), fotografie dei figli, scegliendo gli operai uno
per uno, truccati eccetera … E’ scoppiato un casino che non
immaginate: la gente è arrivata, gruppi di persone disperate (…).
Abbiamo dovuto dire: è cinema. Questo accade quando la finzione
diventa realtà. La crisi c’è. È profonda ed è drammatica: quel
giorno abbiamo dovuto quasi abbracciare persona per persona, per
rassicurarli che i familiari fossero dentro a lavorare”.
A Pierfrancesco, una
considerazione “critica”: hai fatto Cosa voglio di più e
L’industriale, che secondo me hanno tantissimo a che vedere l’uno
con l’altro, perché entrambi raccontano la precarietà di un mondo
come il nostro, il momento di difficoltà che poi si tramuta in una
precarietà sentimentale assoluta. Mi faceva piacere una tua
riflessione su questo.
P. F. “Io di mestiere faccio
l’attore e quello che le storie raccontano è quello che capita alle
persone (…). Sicuramente siamo colpiti contemporaneamente nelle
tasche ma forse più gravemente, almeno dal mio punto di vista forse
un po’ ideologico, nella nostra emotività. E questo è quello di cui
non si parla mai, fino a quando non si arriva ai gesti di cui si
parlava prima.” E a proposito di questo ritardo nell’affrontare
certi temi, ricorda che già nelle cronache di cinque anni fa
c’erano casi di imprenditori, fabbriche e lavoratori in difficoltà.
ma in quanto attore, afferma di non essere interessato “alla
storicizzazione o alla politicizzazione degli eventi” “A me
interessa sapere che cosa accade ad un uomo. In questo caso, o nel
caso di Cosa voglio di più, accade che [la situazione economica e
sociale] influisce enormemente su quello che puoi sentire,
addirittura su quello che tu puoi permetterti, in alcuni casi, di
sentire.” Ma sottolinea anche come a risentire di questa crisi, di
questa precarietà, non siano solo i quarantacinquenni come Nicola,
protagonista del film: “Trovo che si parli sempre poco di quello
che succede tra i 18 e i 25 anni, quando le persone si iniziano a
formare un’identità attraverso il lavoro”. “Dal punto di vista
propulsivo per una società, togliere a (…) questi ragazzi la
possibilità di sentirsi integrati (…) è molto grave, (…) e le
conseguenze si raccolgono dopo”. Descrive poi il personaggio di
Nicola come “un uomo che (…) usa una virtù nel lavoro, che è la sua
tenacia. La stessa virtù nel lavoro, nell’ambito familiare,
pratico, diventa il suo difetto, la sua condanna.” E aggiunge:
“Ora, una riflessione su quello che è significato in questi ultimi
vent’anni l’aggressività, l’arroganza come aspetto vincente
dell’essere umano, in particolare maschile, (…) secondo me va
fatta. Credo che sotto questo film ci sia tutto questo, e che sia
meravigliosamente lasciato dall’intelligenza di Giuliano e di
Andrea (Purgatori ndr) a una deriva di fiction.” E su un aspetto
fondamentale del personaggio di Nicola, la solitudine, precisa:
“Una emozione che sente moltissimo chi si trova in una situazione
del genere, è la solitudine, è il fatto di pensare che il mondo gli
si rivolti contro, solo a lui. Vedere rappresentato in un film
questo, è qualcosa che non dico dia speranza, ma ti fa pensare che
non sei solo, perché quando hai i debiti, pensi che (…) ci
sia una scatola che ti si sta chiudendo intorno e nessuno lo
capisce, che sei solo, che sei abbandonato a te stesso.”,
rivendicando anche l’utilità del cinema in questo senso: “Vedere
tutto ciò rappresentato in un film, ora che sembra che si possa
parlare di crisi, (…) credo che abbia un valore molto importante.
(…) Secondo me, fa bene, perché ti fa capire che ci sono altri
nella tua stessa condizione. Negarlo e dire: il pubblico vuole
ridere e basta, secondo me è sbagliato”.
Andrea Purgatori: “(…) Io
venerdì sarei molto felice se Passera e Monti andassero all’Adriano
a vedere questo film, perché se è vero che il cinema italiano
riesce o riprova a raccontare questo paese, è anche vero che chi
guida questo paese forse può avere un punto di vista, una
intuizione, un suggerimento, una suggestione da una storia che, pur
essendo di cinema, può aiutarli ad avere uno sguardo più ampio di
quello che si può avere all’interno di una stanza, per quanto possa
essere grande la stanza di Palazzo Chigi. Mi auguro che Monti e
Passera vadano a vedere questo film anche per un altro motivo: (…)
domenica Monti è andato da Fazio (Fabio Fazio, conduttore di Che
tempo che fa ndr), riconoscendo in qualche modo al servizio
pubblico la capacità di poter spiegare ciò che la politica in
questo momento drammatico sta facendo, dando alla televisione
pubblica un riconoscimento di elemento strategico, fondamentale
nella vita di un paese. Se vanno al cinema a vedere questo film, ma
non solo questo, forse danno anche al cinema un riconoscimento di
elemento strategico nella conservazione, nello sviluppo e nel
mantenimento della cultura italiana, e della nostra capacità
di raccontare”.
Com’è nata l’idea di questo “quasi bianco e nero”,
di raccontare questa storia con questo stile che le dà una
drammaticità, una forza particolare?
G. M.: “Normalmente, finita la
sceneggiatura, faccio degli appunti (…), un’analisi di quello che è
scritto in sceneggiatura per dare ai collaboratori degli elementi
ulteriori. (…) Tra i primi appunti c’era scritto: ‘Questo film io
lo penso, lo vedo, lo sogno in bianco e nero. So che è una
provocazione, che sarà molto difficile arrivarci, ma non riesco a
immaginarlo che così (…), una storia che non ha colore, il colore è
fuori scena’. Devo dire che, quando il direttore della fotografia
Arnaldo Catinari mi ha portato a Cinecittà, mi ha detto: ho una
sorpresa per te (…. E mi ha cominciato a far vedere queste immagini
desaturate con questa nuova tecnologia (…). È cominciato lì il
passaggio. (…) Quando anche il nostro produttore è venuto a vedere
questo esperimento, l’ho visto subito aderire, come anche Rai
Cinema, a questa idea.” Mentre, riguardo a personaggi come il
banchiere presente nel film (interpretato da Roberto Alpi), che
approfittano delle disgrazie altrui per fare profitti, dice senza
mezzi termini: “Ma che sciacalli!”, e aggiunge: “Non si deve dire:
approfitti di chi è in mezzo ai guai, così lei fa un affare. È
sciacallaggio. Come si chiama? Portatemi altri nomi e io sarò
felice di ascoltarli.”
Il contrasto “caldo-freddo”
di cui si parla nelle note di regia, e che emerge durante tutto il
film, è anche legato al concetto di vergogna? Come avete lavorato a
questo aspetto e in generale alla sceneggiatura per arrivare a un
risultato così buono?
A.P.: “Innanzitutto, Giuliano
Montaldo, grande autore del nostro cinema, è (…) tra i pochi che
hanno profondo rispetto per la scrittura di un film. (…) Non solo
ha rispetto per chi scrive il film, ma ha anche la capacità e la
lungimiranza di capire che se non si fa imprigionare dall’essere
semplicemente coautore della sceneggiatura, può accettare di andare
molto oltre e di migliorarla. Questa è una qualità rara nel nostro
cinema, dove invece stranamente, ci si sente autori solo se si fa
tutto: si scrive, si gira ecc … Questo secondo me è un primo
elemento importante, perché quando abbiamo scritto, Giuliano è
stato sempre molto attento negli stimoli e molto capace di aiutarmi
all’interno delle scene, a tirare fuori quel caldo e freddo ogni
volta che ce n’era bisogno, perché mentre io scrivevo lui stava già
lavorando con la testa per cercare di capire come interpretare e
andare oltre la sceneggiatura. Questa è stata un po’ la chiave.”
Inoltre, sempre sull’elaborazione di soggetto e sceneggiatura:
“Questa crisi non la scopriamo nella tragicità di oggi, è una crisi
che si vedeva benissimo anche due o tre anni fa. In questo
naturalmente c’è l’intuizione che ha avuto Giuliano insieme a Vera,
di immaginare un soggetto da calare dentro questa crisi, e poi c’è
il lavoro fatto per cercare di mettere in scena una realtà: quella
delle banche, dello strozzinaggio (…), la solitudine (…). Abbiamo
parlato dei suicidi e abbiamo cercato, ovunque era possibile, di
inserire tutti quegli elementi che oggi incredibilmente fanno sì
che questo film sembri scritto e girato stamattina.”
“Caldo e freddo io l’ho subito
durante le riprese”, scherza Montaldo. Ma poi torna serio e loda
tutti i suoi collaboratori: “Un copione è come un bello spartito,
parte da un’idea (…). Se nel golfo mistico ci sono dei bravissimi
collaboratori (lo scenografo, il direttore della fotografia, il
collaboratore alla regia, l’aiuto, il montatore e (…) dei bravi
cantanti, ergo attori, (…) il regista-direttore d’orchestra basta
che faccia così” e fa il gesto di dirigere l’orchestra col braccio
“ (…) Se hai fatto queste buone scelte, un passo avanti l’hai già
fatto.” È questo il motivo, spiega, per cui scrive: “regia di”,
anziché “film di”, “Perché il film non è mio, è nostro.”
Volevamo sentire due parole
anche dalle due donne borghesi e dall’operaio …
Gianni Bissaca: “(…) Saverio è un personaggio piccolo ma
interessante, perché mi ha un po’ ricordato quando a Torino è morto
l’avvocato (…): c’era una gran folla ai funerali (…). Tra gli
altri, c’erano molti operai della Fiom (…). Non credo che andassero
ai funerali dell’avvocato per una sorta di piaggeria o perché era
morto il re. C’era davvero qualcosa che legava tutto il mondo del
lavoro e che forse oggi non lo lega più. Questo film lo racconta
molto bene.”
Elisabetta Piccolomini dice del suo
personaggio: “C’è un’ottusità in questa mamma ricca”, e afferma
con ironia e schiettezza: “Sono andata a scuola di stronzaggine per
fare questo film”
Elena Di Cioccio: “Qualcuno mi
ha detto: questa è l’esperienza più bella, più accogliente che ti
potrà mai capitare su un set, ed effettivamente è stato così”.
E racconta come nel suo rapporto con Carolina Crescentini set e
vita reale si siano intrecciati, dando vita a una vera amicizia
: “Come sua amica, ho vissuto tutto il suo lavoro, anche
emotivo, sul personaggio. L’amica sta al fianco, sa tutto, conosce,
vede prima, se ne accorge, vive di riflesso ciò che vive la
protagonista. L’abbiamo vissuto, e soprattutto lei me lo ha fatto
vivere.”
Non pensate che la crisi
privata del personaggi prenda un po’ il sopravvento sulla crisi
dell’industriale?
G. M. “Abbiamo pensato che
queste crisi irrompano in maniera terrificante all’interno delle
case, perché abbiamo letto di persone che sono morte, non solo
dentro, come sta per morire lui (Favino/Ranieri), ma si sono
suicidate, anzi pare che siano arrivati ad un numero terrificante,
soprattutto nel Nord-est”. Nel film però, non ci si concentra sulla
morte fisica, ma su “la morte dell’amore, ferito in maniera
terrificante dall’orgoglio di Nicola e dal suo desiderio di farcela
da solo (…).”
Qui la crisi viene vista
per la prima volta dal punto di vista dell’industriale. Potrebbe
accadere secondo lei che operai e industriali si unissero per
combattere la crisi?
G. M. “Credo che nelle piccole
aziende (…) questo possa accadere e accada. Normalmente il cinema,
anche i miei colleghi più illustri, non hanno fatto molti film
sulla classe operaia. (…) A parte Petri, Monicelli (…). È come se
ci fosse un pudore da parte nostra: di raccontare un mondo e non
raccontarlo come protagonista (…), con la passione e con
l’attenzione di chi lo conosce bene (…).”
Chiudono l’incontro gli
interventi di Paolo Del Brocco di Rai Cinema e di Angelo
Barbagallo.
Paolo Del Brocco: “(…) Questo è
un film perfetto dal punto di vista di Rai Cinema (…), perché
racconta (…) la nostra società. Anzi, addirittura forse l’ha
anticipata, perche quando il film è stato pensato e realizzato, sì,
c’erano i segnali, ma forse non eravamo a questo punto. Quindi è
perfetto per quello che deve fare, in molti casi, una società del
servizio pubblico: intercettare la società, rappresentarla,
raccontare quello che accade, non solo con storie che (…)
raccontino il generale, ma che partano dal particolare, dalla vita
di un uomo e da quello che prova una famiglia rispetto a una
situazione che ha un impatto sociale fortissimo.”
Angelo Barbagallo: “(…) Per
tutti quelli che fanno questo mestiere è importante che Rai e Rai
Cinema continuino a produrre e a finanziare questi film,
perché è l’unico modo per farli. (…) Riguardo al fatto che
non se ne vedono tanti di film così, che un film come questo è un
po’ un ritorno, anche a me ha fatto particolarmente piacere
partecipare a questo ritorno”. “Non sono moltissimi gli esempi di
cinema così riuscito su questi temi. (…) Abbiamo attraversato tutto
il periodo del cinema politico, che era noiosissimo (…). Questo
film, pur raccontando una storia così drammatica, è un piacere
vederlo, perché è cinema in una forma classica (…), molto ben
interpretato e molto ben diretto da Giuliano. Lavorare con lui è
stato piacevolissimo (…), verificare la sua passione, vivacità, che
mi fanno sperare che ci sia un seguito.”
Passato quasi in sordina
a Venezia
a causa dell’effetto Shame, arriva in Italia La
Talpa (Tinker, Tailor, Soldier, Spy in
originale) opera secondo di Tomas Alfredson. Si
tratta di uno dei film più attesi della stagione, dal momento che
oltre ad avere al timone il regista rivelazione di Lasciami Entrare, ha al suo attivo un cast di
pezzi da novanta, capitanati nientemeno che da Gary Oldman, già bravissimo e amatissimo
commissario Gordon per Christopher Nolan. Insieme a lui sua altezza
reale Colin Firth, il bravissimo John Hurt,
Mark Strong che sta diventando uno dei migliori
caratteristi in circolazione, il Warrior
Tom Hardy e Benedict Cumberbatch, noto ai più come
Sherlock Holmes, protagonista dell’omonima e
recentissima serie tv della BBC One.
La Talpa, tratto
dal romanzo di John
le Carré, si concentra in un periodo storico molto
teso, che vede al suo apice le tensioni tra USA e URSS nel corso
della Guerra Fredda. Di mezzo c’è una presunta ‘talpa’, un
infiltrato nei servizi segreti britannici che sta dalla parte dei
sovietici e che potrebbe incrinare i preziosi rapporti di amicizia
che ci sono tra Regno Unito e i cugini d’Oltreoceano. Incaricato di
stanare la talpa è assegnato a George Smiley (Gary
Oldman), che mettendosi sulla pista lasciatagli dal
suo superiore dal nome in codice Controllo (John
Hurt), si muove con astuzia in mezzo alle difficili trame
nascoste dei servizi segreti. Alfredson mostra per
la seconda volta la sua accattivante eleganza con la macchina da
presa centellinando parole e note, per lasciare spazio alle
immagini, ai piani larghi e ai gesti misurati di un protagonista
immenso, che con uno sguardo, un’inclinazione del viso o
un’increspatura delle labbra riesce a dire tutto ciò che serve.
La Talpa, tra stile e
regia
Lo stile del regista riesce,
rinunciando a qualsiasi espediente esterno come la musica e il
montaggio frenetico, a mantenere alta l’attenzione in una vicenda
che ne richiede molta, soprattutto considerando che viene
raccontata in base ad un susseguirsi di eventi cronologicamente non
lineari e che, soprattutto all’inizio rischiano di confondere lo
spettatore. Purtroppo, proprio questo interessante elemento di
ricercatezza stilistica ha il difetto di appesantire la narrazione,
rendendo il film un po’ meno appetibile. La sensazione che si ha
alla fine è quella di un film concluso, compiuto nella sua
contingenza narrativa ma che promette un futuro in cui altro deve
ancora accadere e dando l’impressione che infondo non è veramente
importante chi sia la talpa, ma chi, una volta rimossa ‘la mela
marcia’, riesce ad ottenere il permesso di guidare i meccanismi
segreti che reggono una nazione.
La Universal celebrerà il prossimo
30 aprile i suoi primi cento anni e si prepara ad accompagnare
l’evento con numerose iniziative, tra le quali il restauro e il
rilancio di alcuni dei suoi maggiori classici: la lista al momento
include 13 film tra cui Gli uccelli, Schindler’s List, Niente
di nuovo sul fronte occidentale, Dracula, Lo Squalo ed E.T. Per
l’occasione è stato ideato un nuovo logo.
Dell’elenco dei film restaurati per
l’occasione fanno parte anche La mia Africa, La moglie di
Frankenstein, La Stangata, Il letto racconta e Gianni e Pinotto
reclute. Inaugura i festeggiamenti, proprio in gennaio, l’edizione
in Blu-ray de Il buio oltre la siepe con Gregory Peck, che
festeggia tra l’altro il suo cinquantesimo anniversario, mentre
E.T. compierà quest’anno i suoi primi trent’anni.
Si intitolerà Sinister uno dei
prossimi film che vedranno protagonista Ethan Hawke, per la regia
di Scott Derrickson (The Exorcism of Emily Rose, Ultimatum alla
Terra). Il film appartiene al classico filone delle ‘case
stregate’, con Hawke nei panni di uno scrittore di thriller che per
trovare l’ispirazione si reca in una casa teatro del massacro di
una famiglia; nella stessa casa, troverà i video di altre uccisioni
avvenute lì, finendo per diventare protagonista di un’indagine dai
risvolti paranormali e vedendo messa in pericolo la sua stessa
famiglia.
Stando a queste anticipazioni,
Sinister sembra destinano a non essere particolarmente originale,
ricordando innumerevoli precedenti (1408 con John Cusack uno degli
esempi più recenti); al film parteciperà anche Vincent D’Onofrio.
Il regista Scott Derrickson ha una lunga consuetudine con l’horror:
ha invatti diretto alcuni sequel, come Hellraiser: Inferno e Urban
Legends: Final Cut, prima dei già citati The Exorcism Of Emily Rose
e del remake di Ultimatum alla Terra; recentemente, il suono nome è
stato collegato ai progetti di altri remake, come quelli di
Poltergeisy e de Gli Uccelli; inoltre è dato come possibile regista
delle trasposizioni dei romanzi del Ciclo di Hyperion dello
scrittore di fantascienza Dan Simmons.
Dopo il cambio di regista, da Patty
Jenkins ad Alan Taylor, la Marvel ha individuato chi si
incaricherà di riscrivere la sceneggiatura del secondo capitolo
della saga dedicata al Dio del Tuono: la scelta è caduta su Robert
Rodat, già autore di Salvate il soldato Ryan e, più recentemente,
ideatore della serie TV Falling Skies.
Dopo una prima stesura da parte di
Don Payne, uno degli sceneggiatori del primo episodio, la Marvel ha deciso di procedere ad
una revisione, scegliendo Rodat per il compito. L’uscita del
secondo film di Thor è prevista per metà novembre 2013; le riprese
dovrebbero cominciare in estate: del cast, oltre a Chris Hemsworth,
dovrebbero tornare a fare parte anche Anthony Hopkins, Natalie
Portman e Tom Hiddleston.
Robert Downey jr. ha parlato
brevemente di due suoi prossimi progetti: il sequel di Iron
Man 2 e le voci che lo vedono in lista per il
Pinocchio targato Warner e che potrebbe dirigere
Tim
Burton.
Il film di Paolo e
Vittorio Taviani, Cesare deve
morire e il film di Billy Bob Thornton,
Jayne Mansfield’s Car,che vede protagonisti oltre allo stesso
regista, Robert Duvall, John Hurt
e Kevin Bacon entrano a far parte del concorso del
62° Festival internazionale del cinema di Berlino. Nel primo
weekend della Berlinale 2012 sarà presentato anche il film
In the Land of Blood and Honey, che vede il
debutto di Angelina Jolie dietro la macchina da
presa.
Il film dei Taviani è una docufiction
sui laboratori teatrali realizzati nel Carcere romano di Rebibbia
dal regista Fabio Cavalli, autore di adattamenti
shakespeariani interpretati dai detenuti. Il film segue le prove e
la messa in scena finale del Giulio Cesare, ma anche le vite
quotidiane dei detenuti. Fra i film italiani che hanno tentato la
via berlinese Diaz di Daniele Vicari e
Romanzo di una strage di Marco Tullio
Giordana. Vedremo nei prossimi giorni se troveranno posto
alla prossima Berlinale.
Arrivano dalla Directors Guild le
prime nomination per la stagione dei premi che presto entrerà nel
vivo. L’associazione dei registi americani ha annunciato la
cinquina con la sorpresa David Fincher, regista di Millennium: uomini
che odiano le donne, che presto arriverà anche da noi.
Approderà nelle nostre sale il 13
gennaio, La chiave di Sara (Elle s’appelait
Sarah), film diretto da Gilles Paquet-Brenner ed
interpretato da Kristin Scott Thomas. La pellicola ripercorre
la storia di Julia Jarmond, giornalista americana
che vive in Francia da 20 anni e sta facendo un’inchiesta sui
dolorosi fatti del Velodromo D’inverno, il luogo in cui vennero
concentrati migliaia di ebrei parigini prima di essere deportati
nei campi di concentramento.
Lavorando alla ricostruzione degli
avvenimenti Sara si imbatte in una donna che aveva 10 anni nel
luglio del 1942, e ciò che per Julia era solo materiale per un
articolo, diventa una questione personale, qualcosa che potrebbe
essere legato ad un mistero della sua famiglia. A 60 anni di
distanza è possibile che due destini si incrocino portando alla
luce un segreto che sconvolgerà per sempre la vita di Julia e dei
suoi cari?
A volte una verità che
appartiene al passato comporta un prezzo da pagare nel
presente… è una delle frasi che recita nel film il personaggio
interpretato con grande bravura ed eleganza da
Kristin Scott Thomas, che con una performance
attoriale perfetta conduce per mano lo spettatore nelle ombre di
uno dei momenti più oscuri della storia contemporanea francese.
La chiave di Sara,
un film che guarda al passato senza remore
Il pregio più grande di La
chiave di Sara è forse la capacità di guardarsi indietro
senza remore, in maniera lucida e schietta, con l’intento di
riscrivere la storia così com’è avvenuta, senza la presunzione di
giudicare ma con il semplice obiettivo di raccontare la
verità, violenta e tragica che sia. Ne viene fuori un sorprendete
ritratto di una Francia in mano ai tedeschi e in completa devozione
a Hitler, mentre tutto il resto della popolazione semplicemente
cerca di sopravvivere, molto spesso chiudendo un occhio e forse
due.
Dietro La chiave di
Sara c’è una regia che racconta attraverso un
continuo alternarsi tra flashback e flashforward le vicende delle
due protagoniste in maniera quasi sempre efficace. Forse la seconda
parte del film viene eccessivamente oberata da una carica emotiva
che in qualche modo condiziona la lucidità del racconto ma è
altrettanto vero che è quasi inevitabile dover fare i conti con un
presente che non è altro che il prodotto del nostro passato. Quindi
si può perdonare una seconda parte un po’ scontata e non
altrettanto sorprendete come la prima.
Tutto sommato però questo non
limita la pellicola che riesce nell’intento di raccontare una
storia ancora oggi avvolta in un velo di assordante silenzio.
Guardarsi indietro con coraggio è sinonimo di crescita e maturità
che la cinematografia francese sembra possedere, come quella
americana, al contrario della nostra che è ben lungi dall’essere
lucida, schietta e matura.