L’inchiostro che sporcava
le mani di John Keats in
Bright Star si trasforma ne Il potere
del cane in materia fangosa, pronta a rivestire i corpi
selvaggi di uomini e donne che recidono i legami con la propria
umanità, andandosi a mescolare con il sudore, la terra, l’essenza
primigenia e primitiva di istinti privi di raziocino.
La delicatezza delle dita
che sfiorano i tasti di un pianoforte in
Lezioni di piano, dando vita a sinfonie
conturbanti e commoventi, lasciano spazio a urla interiori di
uomini e donne inascoltate, invisibili agli sguardi di chi ha occhi
per ammirare la bellezza di un paesaggio ameno, ma non di
un’umanità che brucia come boschi nel cuore di un incendio.
Montana, 1925. I fratelli
Burbanks, Phil e George, sono gli eredi di un grande ranch di
famiglia, che mandano avanti occupandosi dello spostamento di
mandrie, dell’essicazione delle pelli e dell’addestramento degli
uomini di fatica. Mentre George è un uomo sensibile e desidera una
famiglia, Phil è un uomo che si scalda facilmente, ossessionato dal
mito del suo mentore Bronco Henri. Quando George prende in sposa la
giovane vedova Rose e la porta al ranch, Phil prende di mira la
donna e suo figlio Peter e non smette di tormentarli.
Suggestiva amenità in
rattrappita umanità
Sviluppata in
orizzontale, con carrellate che si sostituiscono, moltiplicandosi,
allo sguardo di un uomo che ammira lo spazio immenso dinnanzi a
lui, la regia di Jane Campion crea una passerella
bucolica di ambienti vasti, che finiscono per rendere ancora più
piccoli, i suoi protagonisti. Pochi i primi piani destinati a ogni
personaggio che attraversa il suo campo di visione. Colto
nell’ambiente che più lo rappresenta, Phil, Peter e Rose diventano
essi stessi parte di quello spazio, sia esso domestico, che
naturale. Un’estensione umana di carte da parati, lenzuola di letti
disfatti, o acque di laghi nascosti, i personaggi della Campion
perdono la loro compattezza umana per abbigliarsi di astrattezza.
Ciò comporta un’incapacità da parte dello spettatore di comprendere
appieno le loro intenzioni, racchiudere i loro pensieri,
immedesimarsi negli spazi incancreniti, o non del tutto maturarti,
della loro umanità.
Nell’anima di Phil tutto
è contrastato da un senso di repressione, sia affettiva che
sentimentale per un’omosessualità latente e non accettata. Una
lotta interiore che intacca la resa narrativa in cui tutto è
suggerito senza essere indagato a fondo. Una superficialità emotiva
che stride con una maniacalità estetica di passaggi colti nella
loro bellezza ed enfatizzati da una fotografia tenue, che tutto
prende e dipinge di luce e tonalità calde. Una galleria di quadri
impressionisti incastonati in sguardi dai ritratti caravaggeschi
dove l’ombra dell’anima si scontra con la luce tenue, romantica
(nel senso poetico del termine) della natura.
Se l’ambiente esterno è
quasi tangibile, il mondo interno dei personaggi è un compendio
astratto, sfuggente, di anime in perpetuo cambiamento e difficili
da tratteggiare. Un labirinto empatico che lascia persi, senza
senso dell’orientamento, i propri spettatori, ma al posto di
incuriosirli con fare perturbante, finisce per lasciare loro in
bocca un senso di insoddisfazione.
I personaggi di Il potere
del cane sono spettri che nascono dalla profondità
della terra; esseri luciferini, i cui sguardi incendiati da fuochi
interiori incapaci di tradursi in dialoghi e sfoghi verbali, sono
filtrati da occhi brucianti, e gesti autodistruttivi. La discesa
nell’inferno personale di questi personaggi, immortalata
dicotocamente in un paesaggio bucolico e paradisiaco, è un cammino
segnato da una musica empatica, martellante, che grazie al talento
di Jonny Greenwood segna il ritmo sincopato di passi destinati a un
arco narrativo incompiuto, sebbene orientato verso un masochismo
latente, scevro di partecipazione affettiva.
Dopo
Lezioni di piano, due mondi così in netto
contrasto come quello dei fratelli Burbanks da una parte, e quello
di Rose e Peter dall’altra, si incontrano e scontrano ai piedi di
un micro-universo fatto di polvere e pelli, mentre le facce si
sporcano di sangue. L’essere che non sa comunicare e che cerca di
aprirsi al mondo un po’ come la mano che scriveva d’amore senza
averlo mai conosciuto in
Bright Star, non viene del tutto sviluppato
nella sua potenza latente con il personaggio di Phil. È lui il
perno centrale attorno a cui vanno a svilupparsi le dinamiche di
Il potere del cane.
Un uomo solitario, come sottolineato
dalle inquadrature della Campion che lo isolano dagli altri,
destinando la ripresa solo alla sua figura evitando di coinvolgere
anche piccole parti di coloro che lo circondano, e che impedisce,
proprio a causa di questa sua incapacità di relazione, di portare a
compimento la linea narrativa dedicata ai personaggi. I volti dei
protagonisti – e quello di una Mary che da angelo del focolare si
tramuta in diavolo domestico in primis – si fanno ritratti
simulacrali di più sconfitte, di un passato che ritorna senza
sfociare in alcun barlume di futuro. Le inquadrature sembrano
accarezzare un incanto feroce, quello di una bestialità che non
dimentica l’umanità. Ciò che ne consegue, tra pennellate
cinematografiche di interesse estetico ed estatico, è un ritratto
subliminale di un paesaggio di matrice western fatto di memorie
torbide e rimosse.
La perfezione del singolo
nella delusione del totale
Preso singolarmente, ogni
componente narrativo, visivo e musicale che va a formare Il
potere del cane è una gemma preziosa di rara bellezza
estetica. Una volta messi insieme, ogni elemento è come se
depotenziasse ciò che lo precede e lo segue, rubandosi forza vitale
gli uni agli altri. È paradossale constatare come la combinazione
studiata di parti strutturali esteticamente perfetti, crei una
figura umana straniante: attraente se vista da vicino in ogni
singola cellula epidermica, scialba se osservata da lontano nel suo
complesso.
Se lo sguardo della
Campion ha il potere di rendere sensuale ogni cosa, i suoi
personaggi restano bloccati in potenza, imprigionati tra i bordi
dei tipi sociali e narrativi a loro affidati. Un’aspirazione a
un’evoluzione incapace di compiersi che finisce per limitare al
ruolo di semplici figure figuranti i suoi protagonisti, diavoli
distanti che non riescono a coinvolgere lo spettatore nel loro
inferno personale.
La tematica e le vicende
personali già affrontate da Thomas
Savage nel romanzo da cui il
film trae ispirazione, è qui declinata in modo deludente,
sprofondando in un’afasia di linguaggio affettivo che tanto
vorrebbe dire e poco riesce a comunicare. E così l’istinto si
prosciuga, il dolore si rattrappisce e la bestialità violenta si
limita a divenire un senso di angosciosa paura; la paura di un cane
che abbaia, ma non morde.