Si è tenuta oggi pomeriggio,
nonostante il cielo minaccioso e scuro, la proiezione del delizioso
(letteralmente!) film Amore, Cucina e
Curry (The Hundred- Foot
Journey). Alla Casa del Cinema di Villa Borghese era
presente, per parlarne con la stampa, il regista Lasse
Hallstrom. La prima domanda, ovviamente, riguarda uno dei
suoi film più celebri (a base di cucina ed amore) cioè
Chocolat (2000): per quale motivo ha
deciso di girare un nuovo film con tematiche analoghe dopo ben 14
anni?
Sicuramente è rimasto colpito dalla
sceneggiatura originale, consigliata da Spielberg (produttore del
film) e dalla Dreamworks: gli è stata data la possibilità di
realizzarlo nonostante le similitudini con la precedente pellicola,
cercando però- similitudini evidenti a parte- di poter realizzare
un prodotto con degli spunti diversi.
Hallstrom stesso è spesso
sceneggiatore dei suoi film, ma- come in questo caso- si è
ritrovato a lavorare su una sceneggiatura scritta da terzi: qual è
la differenza?
Per il regista realizzare un film
seguendo pedissequamente una sceneggiatura già scritta è noioso e
inutile: l’unica chiave di lettura possibile è rendere originale e
personale il risultato.
Nel cinema del regista, spesso il
tema dell’integrazione del diverso è un minimo comune denominatore
che accomuna numerose pellicole: quei film “buoni”- come,
ironicamente, li definisce lui- sono quelli dove ha portato in
scena i comportamenti umani, difetti inclusi. È interessato agli
attori, e per questo cerca sempre di creare dei ruoli che li
possano mettere alla prova. Per tali motivi la figura dell’outsider
è una presenza costante della sua produzione: personaggi in grado
di vivere ai margini della vita ma spinti da una forza enorme a
cercare di ricadere, alla fine, all’interno del flusso stesso
dell’esistenza. Hallstrom si identifica con questi personaggi, che
vogliono- e cercano in tutti i modi- di integrarsi con un mondo,
una realtà diversa dalla loro ma alla quale sognano di appartenere:
racconta da sempre storie del genere, venate soprattutto da un
tocco di commedia e sentimentalismo.
Anche Hallstrom stesso è, a suo
modo, un outsider: uno svedese trapiantato in America che lavora lì
da anni, e il personaggio di Hassan- protagonista di
Amore, Cucina e Curry – ricorda la sua
storia: la sua visione del mondo, la sua determinazione… si rifanno
ai suoi interessi principali, anche se quando una storia lo attrae
si sente come un “attore frustrato” che ha già in mente tutto il
film, completo, con lui stesso nei panni del protagonista che si
ritrova però… ad assistere impotente dall’altra parte della
Macchina da Presa. Inoltre, adora il processo attoriale, che cerca
di mediare e indirizzare: il momento più emozionante è senza dubbio
quando cattura con la MdP il momento della verità, riflessa negli
occhi e nelle azioni dei protagonisti stessi. Con il suo tocco è
spesso in bilico tra drammi forti e struggenti conditi da commedia
sentimentale, cercando- in equilibrio- di creare un accordo mediato
tra commedia e dramma.
Spesso questo sguardo particolare,
“dolce”, mostra un’altra faccia tagliente, costituita dallo sguardo
critico sulla realtà e le debolezze umane: per il regista, mentre
si racconta una storia- che spesso ha il tocco di una fiaba, come
in questo film- cerca sempre di inserire degli elementi ancorati
alla realtà, che contribuiscono al fascino della storia
(soprattutto per il pubblico); lavorando pure sulle improvvisazioni
dettate dalle personalità degli attori stessi.
A proposito di attori, Hallstrom
spende due parole sull’eccezionale performance di Helen “The Queen”
Mirren: in realtà si rimane sempre sorpresi dalle grandi attrici-
dichiara- dotate di senso dell’umorismo, donne dai mille volti in
bilico tra fragilità, insicurezza e senso dell’umorismo: la Mirren
non si sottrare a questo “allure” particolare, una vera signora che
ben conosce il Cinema sotto ogni punto di vista, una donna priva di
arroganza!
Tra le ultime domande da parte dei
critici, la prima riguarda- parlando di cucina!- il piatto
preferito del regista: forse i fegatelli di pollo in salsa di vino,
il primo piatto che ha cucinato e che da trent’anni non assaggia.
Per cui, a dispetto dei film che realizza, non è una buona
forchetta raffinata: ammira il buon cibo salutare (ora è vegano) ma
non è un vero intenditore.
Spesso la cucina mette d’accordo
culture diverse, avvicinandole (o dividendole… vittime dei
pregiudizi culturali): per Hallstrom il cibo, senza essere filtrato
da barriere, è una via rapida ed efficace per il cervello, una via
per riportare alla memoria i ricordi di un tempo, come in un
romanzo di proustiano memoria…
Ha cercato- tecnicamente- di trovare
un modo nuovo per riprendere il cibo: diventato protagonista della
pellicola insieme agli attori stessi.
Nel film gli scontri culturali sono
vere e proprie “guerre dei mondi” anche di natura “fisica”:
generazioni diverse, culture diverse… come è riuscito, Hallstrom, a
preparare gli attori per le varie scene del film, creando
all’inizio un conflitto che poi sfocia in un clima positivo?
Secondo lui, per riuscire a creare
emozioni e sensazioni, bisogna creare un coinvolgimento completo
tra attori e personaggi: li spinge a lasciarsi coinvolgere
emotivamente improvvisando, facendoli diventare parte integrante
del processo creativo.
Anche questa pellicola è
girata nel sud della Francia (come Chocolat) ricostruendo
uno dei due ristoranti- set delle vicende, NdA- in una villa:
girare in un luogo vero, reale, può aiutare la naturalezza del
film?
Per Hallstrom lo è stato nel
passato, perché oggi è difficile percepire una reale differenza: ad
esempio una delle due cucine è stata ricostruita su di un set, ma
non si avverte la differenza: grazie alle nuove tecnologie sempre
più all’avanguardia, si ha la percezione di essere sul luogo
stesso.
Quindi, girare su un unico
set è un vantaggio o una svantaggio?
Al regista svedese l’ardua sentenza:
In Chocolat aveva trovato delle difficoltà analoghe: aveva
dovuto ricostruire una piazza in uno studio inglese, per problemi
economici, mentre in questo caso, in Amore, Cucina e
Curry, la vera sfida è stata avere due edifici frontali,
realizzati in post produzione grazie al chroma key e ad alcune
strade ricostruite.
Un’ultima domanda riprende uno dei
temi già affrontati in precedenza, ovvero: come equilibrare Il
processo di integrazione descritto nel film- che qui assume dei
toni fiabeschi, surreali- con la realtà effettiva? Hallstrom forse
si nasconde dietro questa scusa, (almeno, secondo il regista
stesso) soprattutto quando nel film avvengono i passaggi più
radicali: vorrebbe che la parte psicologica fosse più realistica,
ma bisogna accettarla così com’è, semplificata, per ribadire il
concetto fondamentale: tutti dobbiamo imparare a comprendere
l’altro e ad essere aperti all’integrazione.