Tra i cinque mastodonti candidati
all’ambito premio per la miglior regia ce n’è uno che
risulta essere un Davide travestito da Golia. Stiamo parlando del
giovane Benh Zeitlin che, a soli trent’anni con il suo primo
lungometraggio Re della terra selvaggia (Beast
of the southern wild) si trova a dover fronteggiare mostri
sacri come Ang Lee, David O. Russell, Michael
Haneke e Steven Spielberg.
E proprio Spielberg sembra
destinato a dover lasciare andare questa statuetta in quello che
era stato definito dalla critica come “l’anno di Spielberg” a
fronte di una produzione colossale da 50 milioni di dollari per
Lincoln, che si è
guadagnato ben 12 nomination. Nomination più che meritate per una
produzione lontana dai soliti canoni di Spielberg che è per lo più
narrazione di una storia, lezione di politica e di grande cinema.
La guerra civile da cui prende piede la vicenda è infatti solo lo
spunto, mostrato all’inizio e alla fine della pellicola, per
parlare del problema che il presidente più popolare degli Stati
Uniti d’America si era trovato ad affrontare alla fine della
guerra: la schiavitù. L’impresa registica, tentata e superata,
costruita per la maggior parte in interni che necessitano di una
visione d’insieme per poter restituire la giusta voce allo
spettacolo messo in atto, è quella di rendere la politica una
questione intima e personale, facendo di una caso di giustizia ed
equità un’esperienza interiore imprescindibile da qualsiasi
proclama elettorale.
L’incanto di una figura umana,
troppo umana, deve però scontrarsi con quello delle immagini della
cosmogonia di Ang Lee nel suo Vita di Pi. Già
forte della statuetta per miglior regista conseguita sette anni fa
con la struggente storia d’amore di Brokeback
Mountain, il regista torna con tutt’altro genere, dando la
luce a un racconto magniloquente e dai toni new. Meno criptico del
regista statunitense, Lee prende parte all’adattamento de romanzo
di Yan Martel dopo svariate turbolenze cominciate nel
lontano 2003 che hanno visto il susseguirsi di svariati registi
fino allo stop imposto al progetto nel 2010 per aver chiesto un
budget troppo alto: 70 milioni di dollari. Lee ha dichiarato più
volte di aver girato un film impossibile da girare che ha come
co-protagonista una tigre scampata a un naufragio. Le atmosfere
oniriche ed estremamente new age sono state agevolate da un uso
sapiente del 3D, finalmente utilizzato in maniera funzionale alla
narrazione della storia e non come semplice giustapposizione di
qualche effetto in qualche scena. Un visionario racconto popolare,
tenero e crudele allo stesso tempo che è riuscito a mettere
d’accordo in maniera unanime la critica coniugando in modo
eccellente realtà e computer grafica rischia di essere uno dei
maggiori possibili candidati ad ambire la statuetta.
Tanto la bellezza delle immagini di
Lee è elevata quanto cruda e spietata è la risposta in immagini
alla domanda “Cos’è l’amore” che si pone l’austriaco Michael Haneke. Dopo il successo a Cannes con
Il nastro bianco, il regista di Funny Games torna al
cinema con Amour, bissa la Palma d’Oro sulla
Croisette e si appresta minacciosamente a fare sua anche
l’imminente notte degli Oscar con un film semplice, lineare e
perfetto nel suo assetto narrativo. Amour è un knock out
tecnico che avviene non appena il film comincia, dopo solo qualche
scena, quando dei pompieri sfondano la porta di un appartamento
borghese, corrono in camera da letto attirati dall’odore e la
telecamera fa il resto: una donna stesa sul letto con dei fiori
attorno, un momento di indugio per assimilare la scena, stacco e la
comparsa del titolo del film bianco su sfondo nero che ne è anche
la cifra stilistica: Amour. Un film sentimentale che non indugia
sul sentimento ma che punta tutto sul racconto dell’amore visto
come atto estremo.
Sullo stesso filone di Haneke si
pone David O. Russel con la
sua commedia amara Il lato positivo
(Silver Linings Playbook) che porta in scena le
vicende di due outsider, il protagonista Patrick che dopo otto mesi
in un ospedale psichiatrico tenta di reinserirsi nella società non
riuscendo però a dimenticare la sua ex moglie Nikki e la sua nuova
fiamma Tiffany, altrettanto se non più problematica, rimasta vedova
decisamente troppo presto. A colpire maggiormente è la toccante e
umanissima delineazione psicologica dei due “scombinati” Patrick e
Tiffany, coppia alle prese con i propri demoni personali che tenta
tra mille errori di trovare un punto di connessione. Dopo la
nomination avuta per The Fighter, Russel cambia
genere raccontando la storia di due “scombinati” che cercano un
qualche punto di raccordo tra loro e il resto del mondo, immersi in
ambientazioni dimesse ma efficaci, scene costruite con dialoghi a
volte assurdi e una regia incollata ai personaggi, vera forza di
una pellicola che sebbene indulge verso una risoluzione facile
della vicenda spicca per sensibilità dei temi toccati.
Probabilmente destinato ad avere
meno chance di tutti di fronte alla rivelazione Benh Zeitlin che ha stupito e incantato il
mondo imponendosi come rivelazione del 2012, vincendo
inaspettatamente il Sundance Film Festival e uscendo trionfante dai
principali eventi cinematografici internazionali fino a
conquistarsi ben quattro nomination per l’ottantacinquesima notte
degli Oscar tra cui quella per miglior regia. Sospeso tra poesia e
realismo allucinato di Lucy Alibar, il racconto della dolce
Hushpuppy, appartenente a una piccola comunità della Louisiana che
vive con regole ai limiti della civiltà convenzionale e al di fuori
della modernità, in una zona paludosa (“la vasca”) a continuo
rischio uragani e inondazioni, è stato etichettato a ragione veduta
come “il film che ha stupito il mondo” ponendosi come un vero e
proprio gioiellino nell’attuale panorama cinematografico. Un
tripudio di immagini investe del tutto lo spettatore, ammaliato da
una bambina che ama ascoltare battere il cuore degli esseri viventi
come prova dell’esistenza stessa. Un film dalla portata emotiva
gigantesca, catalizzata tutta dalla piccola Hushpuppy, brutale e
affascinante, proiettato in un tempo ipotetico che prende spunto da
eventi reali per creare una personale mitologia della natura
ribelle dell’animo umano.
Quest’anno la grande novità per
l’Academy sarà proprio questa: dover scegliere tra passato e
presente, tra convenzione e innovazione, tra grandi nomi e nuovi
arrivati nel mondo del cinema. E il risultato potrebbe non essere
poi così scontato, visto e considerato il precedente dell’anno
scorso creato da Michel Hazanavicius con il suo film muto in
bianco e nero The Artist.