Sono iniziate ufficialmente a
Pittsburgh le riprese di Abduction, il thriller di John Singleton
con
Taylor Lautner, Lily Collins, Alfred Molina e
Sigourney Weaver.
Il Daily Mail pubblica le
primissime foto dal set, che mostrano il giovane attore diciottenne
in sella a una Aprilia arancione: per buona parte del giorno
Lautner ha girato le sue scene su quella moto.
Nel cast assieme a Lautner anche
Lily Collins, Sigourney Weaver, Alfred Molina, Maria Bello e
Elisabeth Röhm. Quest’ultima interpreterà la madre biologica del
personaggio di Lautner. La Weaver invece sarà la psichiatra di
Lautner, il quale dopo aver scoperto una sua foto da bambino su un
sito di persone scomparse indaga sul proprio passato e scopre una
terribile verità, sulla quale farà luce assieme alla sua
fidanzata.
Haley Joel Osment, bambino prodigio
de Il Sesto Senso e struggente cyborg in A.I., sembrava fosse per
sempre sparito dalla circolazione come accade spesso a molti
bambini-prodigio che vengono accantonati dopo qualche film di
successo. Il giovane attore che ormai è un adulto sta però per
ritornare sugli schermi con una commedia dal titolo Ed Sex.
Amanda Seyfried (Mamma Mia!,
Jennifer’s Body) sarà la protagonista femminile di I’m mortal,
nuova proposta fantascientifica dell’autore Andrew Niccol
(Gattaca, S1mone, la sceneggiatura di The Truman Show).
Con un po’ di ritardo rispetto
all’effettiva data di produzione arriva anche in Italia Il
Solista (The Soloist) trasferta americana del più
britannico dei registi contemporanei, Joe
Wright.
La storia ruota intorno a Steve
Lopez (Robert
Downey Jr.), giornalista del L.A.
Times, ed a Nathaniel Ayers (Jamie
Foxx), ex studente della prestigiosa Juilliard e ora
barbone mentalmente instabile che suona un vecchio violino a due
corde per le strade della Città degli Angeli.
Una storia di incontro e di
amicizia, di redenzione che forse sa di scontato ma che riesce a
toccare lo spettatore, soprattutto e grazie alla musica che
copiosa sgorga dalle dita di Jamie Foxx (ormai quasi più musicista che
attore). Viene alla mente Shine, splendido film con
Goeffrey Rush protagonista; quando troppa
dedizione e troppa passione conducono la mente a lacerarsi. E
questo succede a Nathaniel, prodigio del violoncello senza la forza
emotiva necessaria per riuscire a sopportare un tale dono. E così
si riduce a fare il solista, lui che suona uno strumento nato per
il concerto, si ritrova a suonare alla città con il solo applauso
del volo dei piccioni. E poi arriva un giornalista, in cerca di una
storia, e per sbaglio trova una possibilità di riscatto, la coglie
e riesce a volgerla in un’occasione di crescita.
La sostanziale banalità
della trama de Il Solista si dipana per i suoi 117
minuti coinvolgendo all’inizio ma rallentando decisamente troppo
nella seconda parte.
Tuttavia il film ha un’eleganza
formale notevole, firma ormai riconoscibile
Wright, e si fregia di due degli attori più dotati
del panorama odierno: Jamie Foxx che grazie alla musica ha già vinto
un Oscar (per Ray) e Robert Downey Jr. che abbandonata ogni corazza
e spavalderia fumettistica ci regala un ritratto sobrio e
convincente del giornalista Lopez, da un libro del quale è tratto
il soggetto originale del film.
Lunghi e lenti movimenti di
macchina cavalcano le note di Beethoven, sulla città assolata e sui
parcheggi deserti, un’intensità di immagine che solo la grande
musica accostata al cinema riesce a dare, e non è un caso infatti
che tutta la musica del film ha un imput diegetico per poi
esplodere nell’extra-diegetico o comunque nell’oltre-fisico della
mente del musicista schizofrenico. Sarà un caso ma la visione di
colori che esplodono al ritmo di musica ricorda una delle più
particolari sequenze di un famosissimo classico che fonda su musica
e immagini la sua efficacia: Fantasia
di Topolino.
Notevole anche la scrittura
soprattutto in fase di dialogo ed ottima la costruzione dei
personaggi, delle loro caratteristiche, delle loro vicissitudini
quotidiane, nel caso del giornalista, e del loro passato doloroso,
nel caso del barbone/musicista. Ma Il Solista
offre anche un ritratto impietoso di una città che agli occhi del
mondo è solo la scintillante culla del cinema a stelle e
strisce.
Un ventre malato che ospita
barboni, folli e sfortunati che trovano nella strada la loro unica
casa e nella follia la loro unica fuga. E così siamo costretti ad
ammettere che per quanto la musica possa innalzare l’animo verso
l’alto, la realtà è sempre pronta ad ancorare le persone al suolo,
talvolta provando a tirare più giù.
The Fall è il
film del 2008 diretto da Tarsem Singh e con
protagonisti nel cast Lee Pace, Catinca Untaru,
Justine Waddell, Daniel Caltagirone, Leo Bill.
La trama di The Fall
Los Angeles,
1920. Alexandria, una bambina rumena figlia di contadini immigrati,
ricoverata in ospedale per una frattura al braccio, fa la
conoscenza di Roy, uno stuntman rimasto paralizzato dopo una caduta
(accidentale o volontaria?).
Roy inizia a raccontarle una storia
fantastica su cinque uomini che hanno una missione in comune:
vendicarsi di un malvagio governatore da cui hanno subìto terribili
soprusi.
La narrazione procede in base agli
sbalzi emotivi di Roy, il quale ha bisogno che Alexandria faccia
qualcosa di importante per lui. Grazie all’immaginazione della
piccola, ben presto realtà e finzione cominciano a confondersi…
La recensione di The
Fall
Quando guardi una
pellicola come The Fall, ti accorgi che il tuo
amore per il cinema è assai più grande di quello che immagini. Può
darsi che ciò sia dovuto anche al modo in cui la passione per la
settima arte trapeli in ogni fotogramma di questo film realizzato
da uno dei registi più visionari in circolazione, Tarsem
Singh (The Cell).
A testimonianza
di ciò, esemplare è la sequenza in bianco e nero dei titoli di
testa, tra le più stupefacenti ed eleganti che si siano mai viste:
sulle note del secondo movimento della Settima Sinfonia di
Beethoven, assistiamo a un salvataggio al di sotto di un ponte
ferroviario, tutto rigorosamente in slow motion, mentre volti
convulsi sottolineano la drammaticità del momento.
Tutto appare
confuso malgrado la lentezza dei movimenti, impagabile la
combinazione tra staticità e dinamica, che il regista ha definito
“il caos senza l’energia”. Capiremo a fondo questa indimenticabile
sequenza soltanto alla fine del film, o magari alla seconda visione
dello stesso.
La scritta “Los
Angeles. C’era una volta” ci introduce poi nell’ospedale dove è
ambientata la vicenda principale, quando la piccola Alexandria
incontra Roy per la prima volta. E se dopo diversi minuti Roy dà
inizio al suo racconto, al quale assistiamo con gli occhi
dell’immaginazione di Alexandria, non dobbiamo pensare che la
vicenda all’ospedale sia passata in secondo piano o sia soltanto un
pretesto per raccontare la storia dei cinque uomini relegati
sull’Isola Farfalla: al contrario, è il rapporto tra i due
protagonisti a influenzare le scelte narrative del racconto
fantastico che, dopo una svolta drammatica nella vita reale, si
farà piuttosto tragico.
Alexandria immagina i
personaggi del racconto con i volti di persone a lei note:
pazienti, infermieri, operai dell’aranceto in cui lavora la sua
famiglia, finché inserirà lo stesso Roy (di cui scopriremo la
drammatica esperienza per la quale è diventato paraplegico), oltre
a trovare un ruolo per se stessa, non accettando la parte di
comprimaria. La bambina, che non riesce più a distinguere la realtà
dalla finzione, pretende un lieto fine che Roy è poco incline a
garantire, riflettendo la vita reale, quando, nella parte finale
decisamente commovente afferma scoraggiato: “Non c’è alcun lieto
fine per me”.
Ma Alexandria
riuscirà a salvare Roy?
Cos’è dunque la
caduta (the fall)? Si tratta della caduta fisica che procura danni
alla spina dorsale o la rottura di un braccio, le ragioni per le
quali i due protagonisti sono stati ricoverati, ma anche di una
delle tante azioni rischiose contemplate nella professione di Roy,
stuntman cinematografico. La caduta va anche letta in ambito
metafisico, rappresentando il dramma vissuto da Roy, una disgrazia
a causa della quale non riesce a risollevarsi. Spunti interessanti
sviluppati alla perfezione da Tarsem, il cui lavoro alla regia è
semplicemente lodevole.
Basti pensare al
lavoro fatto con gli attori. Nessun nome di primo piano, ma una
recitazione credibile e genuina da parte di tutti, soprattutto i
protagonisti. Lee Pace, che offre un’eccezionale interpretazione,
era all’epoca un attore sconosciuto, aveva all’attivo un solo film
e qui ha avuto la sua prima importante prova.
La piccola
Catinca Untaru, esordiente di nazionalità rumena, è la vera stella
del film: vivace e curiosa, ha imparato l’inglese sul set, e il suo
inglese è infatti uno degli aspetti pregevoli del film in lingua
originale. Le scene in ospedale sono state girate in maniera
consequenziale, così il progressivo miglioramento linguistico della
bambina (oggi tredicenne) è evidente.
Catinca è
spontanea e istintiva, e la sua straordinaria performance è
garantita anche dal gioco tra realtà e finzione avvenuto sul set e
creato apposta per lei da Tarsem: il regista ha convinto Lee Pace a
fingersi paraplegico per davvero, in modo da facilitare
l’immedesimazione di Catinca in Alexandria. Così, per due mesi,
Pace ha recitato un ruolo supplementare, quello di un altro se
stesso, mentre la verità era nota soltanto al regista e a pochi
membri della crew (bellissimo il momento della rivelazione a
Catinca, alla fine delle riprese in ospedale: un vero shock per la
piccola al quale si può assistere qui).
Durante la
promozione di questo film, Tarsem ha dichiarato di
aver impiegato diciassette anni alla sua lavorazione – meglio, alla
preproduzione – un intervallo di tempo lunghissimo destinato alla
ricerca delle location adatte. E il risultato è evidente.
Come rimanere indifferenti all’incredibile impostazione
scenografica di The Fall?
In un’era
cinematografica in cui la sospensione del dubbio risulta necessaria
per via dell’abitudine dello spettatore ad assistere a kolossal
mastodontici dagli effetti speciali imponenti, una perla come
The Fall è una di quelle eccezioni da recuperare
per saziare i nostri occhi alla ricerca del vero.
The
Fall non possiede effetti speciali: la costruzione di ogni
scena non ha fatto uso né di green screen né di grafica
computerizzata per creare sfondi o quant’altro. Ogni albero,
montagna, città, monumento, specchio d’acqua è rintracciabile su
questo pianeta.
E i numeri
parlano chiaro: The Fall è stato infatti girato in
ben diciotto Paesi, tra cui India, Sudafrica, Argentina, Italia,
Turchia, Indonesia, Egitto e Cina. Un progetto multietnico che
racchiude non soltanto paesaggi suggestivi situati in variopinti
luoghi del globo, ma anche vari esponenti di diverse civiltà.
Pensiamo ai personaggi. Gli eroi della storia raccontata dal
protagonista paraplegico sono caratterizzati da profondi legami
affettivi al di là delle differenze culturali: si tratta di un ex
schiavo africano, un guerriero indiano, un esperto di esplosivi
italiano, Charles Darwin e un bandito mascherato
che sembra spagnolo (ma Roy avrà modo di correggere la nostra
impressione). L’aspetto multietnico è palesato anche nei
meravigliosi costumi di Eiko Ishioka (che ha vestito il
Dracula di Francis Ford Coppola): su
tutti, quelli del personaggio di Justine Waddell.
Altri aspetti
interessanti della pellicola sono un’incredibile sequenza in
animazione stop motion e citazioni visive (l’arte di Escher) e
onomastiche (Ota Benga, la scimmia Wallace).
Impossibile non
rimanere estasiati di fronte a una pellicola di tal fatta, girata
fra il 2004 e il 2006, mai uscita in Italia. Perché tra dervisci
rotanti, maschere, rituali mistici, parole magiche, elefanti che
nuotano, amore e tradimento, viaggio e vendetta, c’è la sostanza:
cinema, puro cinema, come testimoniato inoltre dagli ultimi minuti,
un’autentica dichiarazione d’amore al cinema anni ’20.
The
Fall è un capolavoro assolutamente da vedere con gli
occhi, il cuore e la mente, è ciò che il cinema dovrebbe essere e
talvolta non è: arte cinematografica.
Tutto pronto per le riprese di This
Must Be the Place: inizieranno in agosto a Dublino e dureranno
dieci settimane le riprese di This Must Be the Place, di
Paolo Sorrentino, con Sean Penn e Frances McDormand…
Giorni di riprese per le strade di
Chicago per Transformers 3, ed ecco arrivare un mucchio di altri
video, tra inseguimenti, esplosioni e spettacolari voli di
paracadutisti tra i grattacieli!
I primi tre video provengono ancora
dalla prima giornata di lavori, e mostrano degli stunt in skydiving
mentre usano la zona del parco Lake Shore East Park come pista di
“atterraggio”, paracadutandosi da elicotteri i volo tra i
grattacieli:
Ieri, invece, è toccato a
esplosioni, fiamme e detriti. Nel primo video vediamo Optimus Prime
che riesce a evitare una esplosione, mentre il secondo mostra gli
Autobot al seguito di tre “Stunticon” (i veicoli Nascar che avevamo
visto ieri nelle foto).
I vari filmati e le foto diffuse
finora hanno permesso di desumere qualche conferma, tra cui il
fatto che l’automobile viola che si vede assieme agli Autobot non è
Jolt la Chevrolet, ma una Mercedes E350. Non è ancora chiaro quale
personaggio rappresenti. Questo significa comunque che, per ora,
abbiamo cinque nuovi Transformer: i tre “Stunticon” (che si suppone
siano Decepticon, ma non è ufficiale), la Mercedes (Autobot) e una
Chevrolet Tahoe (Decepticon), oltre alla Ferrari Testarossa
(Autobot).
Giorni di riprese per le strade di
Chicago per Transformers 3, ed ecco arrivare un mucchio di altri
video, tra inseguimenti, esplosioni e spettacolari voli di
paracadutisti tra i grattacieli!
Dopo la dichiarazione unilaterale
di Kevin Feige dei Marvel Studios di due giorni fa,
nella quale si confermava che Edward Norton non sarebbe stato nel
cast dei Vendicatori per il ruolo di Hulk, ieri l’agente
dell’attore ha seccamente replicato a Feige mettendo in chiaro che
Norton non aveva avuto alcun ruolo nella decisione.
Sono stati assegnati i premi del
Festival di Ischia. Miglior documentario dell’ottava edizione
dell’Ischia Film Festival è Mi vida con Carlos di Germàn Berger
Hertz, viaggio autobiografico di un figlio in cerca della memoria
del padre assassinato durante la dittatura cilena.
Durante i junkets del suo nuovo
spy-thriller Salt la protagonista Angelina Jolie ha parlato
di alcuni progetti che avevano visto il suo nome coinvolto.
Dopo l’eroico salvataggio della
principessa, l’avere a che fare con le incombenze di corte e
realizzare finalmente che la paternità non è poi il peggiore dei
mali, l’orco verde della DreamWorks si trova a
fronteggiare, in questo quarto capitolo della sua avventura
cinematografica, la famosa e ritrita crisi di mezza età, per quanto
possa sembrare un orco piuttosto giovane. Così non resta che
barattare un solo giorno della sua monotona vita familiare, con un
altro del suo passato, quando faceva spaventare la gente… Questa è
la premessa di Shrek e vissero felici e contenti,
ultimo (ad oggi) capitolo della storia cominciata ormai 10 anni or
sono. Se nel terzo episodio ci eravamo annoiati tutti in poltrona
scommettendo su quale altro personaggio gli sceneggiatori avessero
tirato fuori dal mazzo, ora la noia e arginata da un racconto dal
pretesto, appunto, pretestuoso ma comunque ordinato e con un logico
filo conduttore. Pur se lo svolgimento non è dei più brillanti,
interessante la sceneggiatura che conserva una certa freschezza
soprattutto per i dialoghi assegnati ai personaggi di contorno, su
tutti il Gatto e Ciuchino.
Questa volta però si è aggiunto il
3D al comico carrozzone e il risultato è sicuramente un bel
pacchetto che purtroppo non è all’altezza dei primi due episodi,
punta sulla tecnologia per dare una spinta di innovazione al
franchise. Anche qui non mancano le citazioni, in alcuni casi quasi
letterali, come quella chiarissima de La Bella e la
Bestia nel finale, con la clessidra al posto della
famigerata rosa stregata.
Si è ripercorsa tutta la strada dal
primo incontro tra i due orchi fino al lieto fine ‘e vissero per
sempre felici e contenti’ in un cerchio perfetto di una tetralogia
che volendo considerare il terzo episodio una sorta di incidente di
percorso, sarebbe stata benissimo anche come trilogia. Non resta
ora che aspettare di vedere gli incassi del film, per sapere se la
parola fine a questa storia è stata scritta al quarto episodio,
oppure dovremmo aspettarcene un quinto.
Toy Story 3 soffia il primo posto a
Eclipse, con un risultato tuttavia non
eccezionale. Dietro i due titoli più forti dell’estate, il deserto.
Le altre new entry non si piazzano neppure nella top20.
Arriva l’estate: il mare, le
vacanze, il caldo opprimente, le ragazze in bikini, il gelato ed il
cinema. Strano? no, perché cosa c’è di meglio di una allegra e
leggera commedia americana per passare una piacevole serata estiva
al cinema? Laureata… e adesso?
Laureata… e
adesso? racconta la storia della giovane e bella Ryden
Malby (Alexis Bledel), appena laureatasi in
Lettere e pronta per il suo primo lavoro, magari nel campo
dell’editoria a cui lei ambisce. La strada verso il successo è
quindi spianata? Come noi italiani ben sappiamo, il groviglio di
colloqui fallimentari e delusioni è ben lungi dall’essere breve e
Ryden sarà costretta a mettere da parte (momentaneamente) le sue
ambizioni nel costruirsi una vita indipendente. Eccola quindi
barcamenarsi tra lavoracci nel negozio di valigie del padre, una
nonna fin troppo moderna e la scelta sentimentale tra l’amico che
le è sempre stato vicino o il passionale ragazzo che le abita
accanto.
Laureata … e adesso?
Tutta la pellicola segue
pedissequamente il manuale della commedia americana perfetta; non
affronta mai il tema della disoccupazione con profondità ma lo
lascia come sfondo alle disavventure di Ryden facendolo emergere di
tanto in tanto, la colonna sonora ben costruita e gli attori
bellocci fanno il resto. Al centro dell’attenzione c’è la famiglia
Alby, una sorta di guazzabuglio male assortito di parenti strambi
che renderanno la vita di Ryden piuttosto movimentata.
Non siamo quindi di fronte alla
mediocrità di un A proposito di Steve ma più dalle
parti del divertente Ricatto D’amore tanto per rimanere in tema
Bullock. Da sottolineare anche la prova efficace e sopra le righe
di Michael Keaton nei panni del genitore
caciarone e volenteroso, che dona qualche guizzo comico alla
pellicola, come la divertente faccenda del gatto del vicino. Quindi
se cercate un film senza pretese, divertente e leggero, magari da
vedere con il proprio partner, questa potrebbe essere la scelta
giusta.
E’ online da oggi nella sezione
Rubriche, un nuovo mondo dedicato allo Sci-fi, ovvero alla
fantascienza che si mischia con il mistero e la paura. Nella
sezione sono già presenti diversi titoli che hanno solcato gli
schermi delle recenti stagioni cinematografica, ma non finisce qui,
perché nell’immediato futuro arriveranno analisi dei grandi film
che hanno fatto la storia del cinema: da Alien a Terminetor,
passando per Predators e molto altro. Analizzeremo i lavori di
autori come Ridley Scott, Steven Spielberg, James Cameron, Robert
Wise e molti altri. Dunque non perdete nulla della nuova rubricha
che va ad arricchire la sezione già numerosa con: Horror e
dintorni, Gli invisibili, Animazione, Serie Tv, Doc, e Corti.
Scritto e diretto da David
S. Goyer, acclamato sceneggiatore dei
Batman Begins di Christopher Nolan, Il mai
nato si presenta come un horror riuscito, che a classici
temi di fantasmi, della compresenza del mondo dei morti con quello
dei vivi, associa volti nuovi, come quello di Odette Yustman,
simbologie e credenze di connessioni tra i gemelli, e temi
caratterizzanti, come il misticismo e la cabala ebraica e il tema
dell’esorcismo che rimanda a ben più noti e riusciti film di
genere.
La trama di Il mai
nato si dipana nell’atmosfera fredda e invernale del film,
dondogli insolita solidità considerando il genere che spesso e
volentieri non da molte spiegazioni. Goyer cerca di dare profondità
alla storia anche attraverso il tempo arrivando addirittura a
scomodare un bambino morto ad Auswitz. Resta un film di non troppo
ampio respiro, pieno di ogni stereotipo tipico del genere, ma si
distingue dai vari Scary Movie che non danno
troppo importanza alla trama.
Straordinario come di consueto
Gary Oldman, che tolti i panni dell’ormai
commissario Gordon, indossa quelli del coraggioso rabbino
esorcista. Interessante e mai scontata è l’idea del male che si
nutre della paura della propria vittima, metafora, anche se un po’
troppo stiracchiata, del momento storico che vive il mondo.
G.I. Joe – La nascita dei
Cobra è il film del 2009 diretto da Stephen Sommers e
basato sull’omonima serie di giocattoli. Protagonisti nel
cast Dennis Quaid, Channing
Tatum, Sienna
Miller, Joseph Gordon-Levitt, Marlon
Wayans, Rachel Nichols, Ray
Park, Lee Byung-hun, Adewale
Akinnuoye-Agbaje, Saïd Taghmaoui, Arnold
Vosloo.
G.I. Joe – La nascita dei
Cobra, la trama: Nel film che porta al cinema e in
live action i celebri giocattoli della Hasbro, G.I. Joe diventa
l’acronimo di “Global Integrated Joint Operating Entity”, il nome
di una task force internazionale anti-terrorismo con sede a New
York. Ambientato 10 anni nel futuro, il film racconterà della lotta
tra la task force ed un’organizzazione internazionale nota come
COBRA.
Dalle montagne centroasiatiche ai
deserti egiziani, attraverso le affollate strade di Parigi fino ai
ghiacci del Polo Nord, la squadra di ultra professionisti nota come
G.I.JOE si lancia in un’avventura senza sosta, in cui la tecnologia
di ultima generazione e il più sofisticato equipaggiamento militare
saranno impiegati per combattere il pericoloso trafficante d’armi
DESTRO ed evitare che la minacciosa e occulta organizzazione COBRA
getti il mondo nel caos.
G.I. Joe – La nascita dei
Cobra, l’analisi
Stephen Sommers ci
presenta ancora una volta una pellicola d’azione che rispetta le
aspettative del pubblico in cerca di intrattenimento senza troppe
pretese.
Ancora la Hasbro cerca di guadagnare sfruttando il cinema per
i suoi leggendari giocattoli, dopo il travolgente successo di
Transformers, che , almeno per il primo episodio, ha
decisamente più consistenza e valore di questo film.
In G.I. Joe – La
nascita dei Cobraa storia è quella
dei Joe, una squadra speciale che deve salvare il mondo da un
gruppo di cattivi. Niente di nuovo nella forma e nella sostanza,
anche se qualche scena ben congeniata riesce ad interessare lo
spettatore, vedi la scena dell’attacco a Parigi.
I personaggi di G.I. Joe –
La nascita dei Cobra, sono quasi tutti volti emergenti del
nuovo panorama cinematografico, riesco a convincere, chi più chi
meno, nei ruoli loro assegnati, su tutti la bella Rachel
Nichols, la rossa Joe. Bello il personaggio di Snake Eyes,
interpretato da Ray Park, che ricorda un po’ della malinconia degli
X-Men.
Sommers si tira
dietro un po’ di cast della
Mummia, Brendan Fraser e
Arnold Vosloo, e combina diversi elementi action e
comedy, per creare un film che senza pretese intrattiene, ma non
convince e si dimentica presto. Anche visivamente, numerose sono le
immagini e le suggestioni che ricordano
Transformers, segno che forse le ambizioni di
Sommers erano superiori a quelle poi avveratesi.
G.I. Joe – La nascita dei
Cobra è un film d’azione che sfrutta la tecnologia
spettacolare per realizzare scene ben ritmate ma non destinate a
passare in fretta nella storia del cinema e nell’immaginario degli
spettatori.
Dopo un tremendo nubifragio, una
fittissima ed anomala nebbia (The Mist del titolo)
scende su una cittadina americana. Questo il misterioso prologo
diThe Mist , che vede tornare alla regia
Frank Darabont (Le ali della
libertà), dopo quasi dieci anni dall’uscita di Il
Miglio Verde. Proprio come dieci anni fa, il regista si
occupa della trasposizione di un romanzo di Stephen
King, anche se ne modifica l’andamento e soprattutto il
finale, con l’entusiasta approvazione di King stesso.
La pubblicità di The
Mist ci ha fatto credere che il film fosse l’ennesimo
splatter – horror fantascientifico con disgustosi mostri che
divorano indifesi esseri umani. Tuttavia il film non si risolve
affatto in questo.
The Mist, tra suspance e
fantascienza
Con un lavoro di
scrittura molto accurato, anche se a tratti didascalico,
Darabont entra nel supermercato, scena principale
del film, ed osserva le persone da vicino. Frequenti infatti, molto
più del necessario, i primi piani. Quello che viene fuori è
l’incondizionata e ingiustificabile cattiveria umana. In
The Mist, oltre ai terribili mostri nascosti nella
nebbia, sono gli esseri umani che mostrano la loro peggiore
essenza, la loro mostruosità. Numerose le caratteristiche del
racconto che ricordano la presenza di King alla base della storia,
come l’esistenza di un mondo parallelo ed ostile, oppure come la
figura della fanatica religiosa (una
Marcia Gay Harden particolarmente in forma,
inquietante), che genera il panico e che scatena la violenza degli
uomini contro i loro simili, indice efficace di quello che nella
cronaca quotidiana è l’integralismo religioso.
I tipi, i caratteri umani vengono
messi in scena nelle loro peggiori varianti, tutti i difetti
dell’uomo vengono portati a galla dalle circostanze, anche se non
manca poi l’eroe, l’uomo integerrimo e coraggioso, che cerca di
risolvere le cose nella maniera più ragionevole possibile. Proprio
questa figura, il protagonista, sarà quello punito nella maniera
più crudele alla fine del film, e non dagli extraterrestri. Finale
pessimistico, quindi, per un film che pur avendo qualche momento di
tensione, può essere considerato un horror perché fa paura, ma
anche perché mette a nudo l’essere umano nelle sue sfaccettature
peggiori, e genera appunto orrore e senso di distacco nello
spettatore.
Con un discreto risultato al
box office il film si posiziona al quinto posto nella classifica
italiana dei film più visti. La resa del film è basata
esclusivamente su inquadrature ravvicinate con cambi frequentissimi
di fuoco, probabilmente con l’intento di pilotare l’attenzione
dello spettatore a seguire gli spostamenti dell’azione nello stesso
quadro, ma che non sono al servizio della storia.
Il film potrebbe essere molto di
più di un horror poiché mette nudo i moti dell’animo umano,
prevalentemente cattivo, tuttavia il suo limite risiede nel voler
spiegare attraverso i dialoghi ciò che le immagini e la storia
mostrano in modo molto più efficace. La cattiveria, la violenza,
mostrate nella loro crudeltà non hanno bisogno di essere spiegate,
si mostrano autonomamente nella loro incomprensibilità.
L’attesissimo sequel di Terminator,
Terminator Salvation è arrivato nelle sale,
promettendo adrenalina spettacolo, soprattutto un approccio più
moderno rispetto all’originale, che resta l’indimenticato primo
film.
A volte le promesse non si
mantengono, altre volte si, altre volte ancora si esagera e si
finisce col portare nelle sale film che risultano fastidiosi. E’,
purtroppo, il caso di Terminator Salvation, che
lungi dall’essere un film totalmente negativo è troppo immerso
nell’universo machista che fa di Christian Bale un
soldato urlatore e spara-tutto, insulso ed egoista nel suo
personaggetto di Jhon Connor, che avrebbe meritato un trattamento
ben migliore. Ma non diamo la colpa al Christian che invece si
impegna diligentemente, com’è suo solito, a portare a termine la
missione pur con qualche capriccio di troppo sul set.
Chi mai incolperemo per aver fatto
di uno dei film più attesi della stagione un clamoroso fiasco (non
al bottighino…)? Gran parte della colpa è senza dubbio di McG, il
regista che dopo un inizio esaltante, vedi il piano sequenza
dell’elicottero che precipita con Bale all’interno, si concentra
tutto sullo spara spara contro le cattivissime ed attrezzatissime
macchine. Un abbozzo di storia decisamente interessante che crolla
su se stesso, senza risparmiare nemmeno il ben costruito
personaggio di Sam Wartinghton, umano meccanico che ruba la
scena al povero Christian Bale che già ne Il Cavaliere Oscuro
si era fatto offuscare dal talento di Heath Ledger.
Si capisce bene, considerando la
travagliata vicenda della sceneggiatura, la richiesta di soccorso
inviata a Jonathan Nolan, per risollevare le sorti
del film. Il buon Jonathan Nolan arriva sul set,
consola l’amico Christian e mette mano alla sceneggiatura
modificandone l’ultima parte. Il finale infatti si salva
parzialmente anche se, come per tutto il film, resta quel qualcosa
di inespresso che una storia comunque bella poteva dare. Bello il
cameo di Shwarzy, ovviamente ricostruito in digitale, come è
‘espressivo’ lui nel ruolo di macchina mortifera nessuno! Risultato
complessivo appena sufficiente, si salva infatti l’aspetto visivo
del film…ma dopotutto non si tratta di un quadro, e una fotografia
azzeccata non solleva un film mediocre.
C’era una volta Sigmund Freud che nella
sua opera “Totem e tabù” dichiarava: «l’uomo civile ha barattato
una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di
sicurezza» – sicurezza che in Surrogates gli uomini sembrano aver
trovato in macchine che rispecchiano i loro canoni estetici e se ne
vanno in giro in loro vece a vivere la vita, mentre l’operatore,
comodamente rilassato nell’imperturbabilità della propria casa,
controlla ogni sua movenza.
Uno sfavillio di luce galattica
avvolge lo spettatore che si lascia prendere da una storia di
nascita e origini. ancora una volta, come già accaduto per il
batman di nolan, per il restyling del mito si torna alle origini
dell’uomo (o nel caso, del vulcaniano), alla nascita e
all’educazione, per capire i ruoli i rapporti i sentimenti che
legano gli eroi che tante avventure hanno attraversato insieme
sull’enterprise tra tv e cinema.
J.J. Abrams
ochestra tutto con maestria ed equilibrio, misurando emozione e
phatos, adrenalina e battaglie, prediligendo lo spostamento della
camera al cut della pellicola, per farci seguire con lo sguardo,
per accompagnarci nei meandri di una storia bella e ben raccontata,
da un punto di vista visivo ma soprattutto da quello narrativo,
merito di due sceneggiatori di tutto rispetto roberto orci e alex
kurtzman che insieme avevano già dato prova di sapere il fatto loro
con transformers, usando la commedia per entrare nell’action puro e
per arrivare attraverso di esso ai sentimenti primordiali del bene
e del male, dimensioni talvolta banalizzate ma sempre attuali.
Merito anche di un cast
convincente, il film si dipana in tutta la sua notevole durata,
senza pesare minimamente sullo spettatore, dosando con reminisenze
(oso dire) kubrikiane riferimenti ben più calzanti e vicini come
star
wars e coinvolgendo lo spettatore che esce dalla sala
soddisfatto, con gli occhi pieni di immagini poderose ed
emozionanti.
Prendi un po’ de “La
cosa” di Carpenter, lo spunto visivi di “Cloverfield”
e un po’ della visione Spielberghiana del mondo alieno ed ecco che
per magia appare District 9. Ma veniamo a noi e
appunto al film. Ambientato nel natio Sudafrica, a Johannesburg,
lasciata da Blomkamp all’età di 18 anni per il Canada,
District 9 parte come un reportage su un evento
ormai cristallizzato: la presenza di una gigantesca nave aliena
sospesa sul cielo della capitale sudafricana.
Trovate in fin di vita, disidratati
e affamati a bordo, centinaia di migliaia di “clandestini” vengono
curate e rinchiuse in un ghetto alla periferia della città. Un
ghetto vero, sporco e malsano, in cui queste creature insettiformi
sopravvivono mangiando cibo per gatti, vittime dei traffici dei
boss nigeriani della zona (anche questo basato su una situazione
reale a Johannesburg, senza connotazioni razziste). Quando la
situazione diventa esplosiva, il governo affida a una corporazione
privata, la MNU, il compito di evacuare e bonificare la zona, per
spostare gli alieni altrove. Da lì prende le mosse, tra
un’intervista e un reportage televisivo, che danno alla storia uno
straordinario carattere di film verità nella prima parte (forse
l’unico spunto interessante dell’opera), la trama che vede
protagonista un ambizioso ma ingenuo dipendente della MNU e un
alieno col figlio, determinato a far funzionare la tecnologia che
li riporterà alla nave madre e quindi in patria.
Se qualcuno si aspettava più
originalità e rivoluzione nel genere Sci-fi,
rimarrà un po’ deluso. Il film per l’appunto pecca di originalità,
soprattutto riguardo all’evolversi della storia, troppo
convenzionale e più delle volte prevedibile. Chi si aspettava un
re-start per il genere Sci-fi che tanta soddisfazione ha dato con
film come Alien e Predator deve fare ammenda di fronte ad un film
lontano da quelle dimensioni.
District 9, il
film
Tuttavia, il film contiene degli
ottimi spunti registici, che per buona parte del film mantengono
alta l’attenzione. L’inizio in stile documentario incuriosisce e al
tempo stesso da un tocco sottile ed intrigante alla vicenda, e
sotto questo punto di vista il regista si dimostra bravo ad
amalgamare i vari pezzi tra il doc e la fiction, riuscendo
nell’impresa di tirare fuori un buon prodotto fruibile dal grande
pubblico in quella che ha detta di molti, anzi a dette di tutti è
la natura del cinema: l’intrattenimento. In aggiunta c’è anche
spazio alla riflessione degli avvenimenti sociali che
caratterizzano gran parte della contemporaneità e la sua situazione
a dir poco spiacevole su ciò che riguarda la clandestinità,
razzismo a cui si vanno ad aggiungere problemi di natura di
diversità religiose etc.
In definitiva il film rappresenta
un tentativo sufficiente a riproporre un genere che ha affascinato
le menti di molti giovani e che proietta il debuttante
Blomkamp verso un futuro assai migliore, sempre
che James Cameron con il suo Avatar non si piazzi in
mezzo e dica: “ehi sono io il maestro del genere”. Di
fronte a ciò nemmeno lo stesso Blomkamp
riuscirebbe a contraddirlo, visto che Alien è il suo film
preferito.
Intervistato da ComingSoon.net all’anteprima stampa di Salt, il
super-produttore Lorenzo Di Bonaventura ha parlato
dell’allontanamento di Megan Fox da Transformers 3, avvenuto pochi
giorni prima dell’inizio delle riprese del film di Michael Bay. La
produzione aveva già uno script finito, e tutto era pronto per il
ritorno dell’attrice quando improvvisamente i rapporti si sono
spezzati..
Intervistato da ComingSoon.net all’anteprima stampa di Salt, il
super-produttore Lorenzo Di Bonaventura ha parlato
dell’allontanamento di Megan Fox da Transformers 3, avvenuto pochi
giorni prima dell’inizio delle riprese del film di Michael Bay. La
produzione aveva già uno script finito, e tutto era pronto per il
ritorno dell’attrice quando improvvisamente i rapporti si sono
spezzati..
E’ online il trailer di Incontrerai uno Sconosciuto Alto e
Bruno, il nuovo film diretto da Woody Allen con Naomi Watts,
Antonio Banderas, Anthony Hopkins, Josh Brolin e Freida Pinto…
La città verrà distrutta
all’alba è il remake dell’omonimo film del 1973 diretto
dal maestro George Romero (titolo originale “The Crazies).
Alla regia c’è Breck Eisner, regista statunitense non alle prime
armi col genere horror e che già ha mostrato le sue abilità in
molti sceneggiati televisivi in terra americana, come produttore
esecutivo ritroviamo Romero che dovrebbe in un certo senso
garantire una certa qualità sotto la sua supervisione.
La trama del remake La città verrà distrutta
all’alba
La trama di La città
verrà distrutta all’alba è presto detta: Ogden Marsh è una
cittadina americana dove tutto scorre tranquillamente, gli abitanti
sono i classici cittadini modello e lo sceriffo non ha grossi
grattacapi finché un giorno durante una partita di baseball,
l’agricoltore Rory Hamill non decide di entrare sul campo con un
fucile senza un non ben precisato motivo se non quello che di
uccidere qualche sconosciuto, Dadid Dutton è quindi costretto ad
ucciderlo per non rischiare la vita di nessun innocente.
La cosa sembra finire lì ma ben
presto la maggior parte degli abitanti comincia a comportarsi
stranamente per poi nel giro di 48 ore diventare degli assassini
senza scrupoli.
Lo sceriffo decide quindi, in una città allo sbando totale, di
fuggire insieme a pochi superstiti non contagiati.
La questione sembrerebbe già
complicata così, se non che il governo venuto a conoscenza della
situazione cittadina, decide di intervenire con forze armate alla
disinfestazione e all’uccisione di chiunque mostri i sintomi della
pazzia.
Devo dire che La città
verrà distrutta all’alba è uno dei pochissimi remake in
grado di migliorare le pellicole da cui prendono spunto, sarà che i
mezzi odierni hanno permesso notevoli migliorie per gli effetti
speciali e che la regia di Eisner non è niente male regalando anche
alcune scene particolarmente affascinanti (una per tutte la moglie
dello sceriffo illuminata dai fari della trebbiatrice abbandonata)
sta di fatto che la pellicola scorre senza problemi ricalcando in
pieno lo spirito che faceva parte dell’originale.
Certamente non vi è nulla di nuovo
sotto al sole e per chi conosce bene le regole di questo genere
cinematografico non vi è nulla di innovativo, ma una buona dose di
colpi scena e una tensione sempre vivida rendono la pellicola
piacevole e sopra la sufficienza.
Più che un sequel, il nuovo
Predators, prodotto da Rodriguez, diretto da
Antal e interpretato da Adrien Brody, ha tutta l’aria di essere un
remake o reboot del primo capitolo. Ed è certamente la prova che se
un film lo si fa con spiccato talento ed un pizzico di furbizia,
non importa poi così tanto che sia un remake o un rifacimento di
una precedente opera.
Senza alcun dubbio uno dei punti
forti del film è proprio la regia; equilibrata nella giusta
maniera, senza eccessive stramberie, riesce a mantenere alto
l’interesse per le vicende, sin dalle prime battute fino ad
arrivare ad un finale forse un po’ scontato. Buona
anche l’idea di mantenere le stesse ambientazione del primo famoso
capitolo e in molti punti stessa trama.
Se da un lato quest’opera ha il
pregio di partire con un inizio molto enigmatico ed interessante,
dove non vi è traccia dei mostruosi Predators e di futili morti
senza senso, successivamente l’eccessivo dilungarsi di un’assente
vera caccia all’uomo e forti echi derivanti dai vari
LOST, per dirne qualcuno, o addirittura dello
spilberghiano Jurassic Park, ma senza bambini,
sminuisce un po’ le intenzioni e ridimensiona decisamente il
film.
Nonostante ciò la sceneggiatura
regge molto bene e diventa quasi funzionale nella seconda parte a
cui faranno seguito scene di pura azione e adrenalina, mantenendo
giustamente un’aurea enigmatica che da un tocco più intrigante al
film. Da qui si può evincere un altro punto forte dell’opera,
ovvero la buona costruzione dei personaggi, partendo da quello di
Adrien Brody che interpreta egregiamente l’ex
militare Royce, mercenario impassibile che diventa leader della
squadra di violenti assassini bloccati nel pianeta, anche se ad
insidiare la sua prova c’è un gruppo ben nutrito di caratteristi
che sanno il fatto loro e in molti momenti emergono vincendo il
confronto con il protagonista. Mi riferisco a Danny
Trejo (fidato collaboratore di Rodriguez) trafficante
messicano di droga di Los Zeta, esperto di guerra fra bande;
Mahershalalhashbaz Ali, membro della squadra della morte della RUF
in Sierra Leone, e anche lo stesso Laurence Fishburne, che interpreta
magistralmente Noland, da tempo abitante nel pianeta di caccia dei
Predator, che malgrado tutto riesce a sopravvivere
nascondendosi.
In definitiva, da polpettone
americano, sparattutto e fracassone, e negli ultimi rifacimenti
abbastanza vuoto, il nuovo Predators, si presenta invece come
un buon prodotto, godibile da un pubblico più vasto, coraggioso nel
scegliere un approccio più “classico” in senso lato,
riprendendo i punti forti dei primi film e imbastendo un’operazione
che se non altro si presta ad un analisi più stimolante.
In un periodo dove sbucano come
funghi trilogie, remake e prequel, non poteva mancare un nuovo
pargolo come The Final Destination 3D, ultimo
capitolo dell’omonima serie sulla morte composta ad oggi da ben
quattro pellicole. C’era quindi bisogno di questa nuova
pellicola?
E’ fuori di dubbio che il primo
Final Destination avesse già detto tutto
(risultando anche piuttosto gradevole e ben fatto), detto ciò ,
l’ultimo arrivato arriva trainato dal carrozzone sfavillante degli
effetti 3d, qui usati per la prima volta ed in modo massiccio.
I personaggi cambiano ma la storia
ricalca fedelmente quelle passate: Nick O’Bannon (Bobby Campo) ha
una visione mentre assiste ad una gara automobilistica, di lì a
pochi minuti ci sarà un incidente che ucciderà molti spettatori tra
cui lui, la sua ragazza Lori (Shantel van Santen) e una coppia di
amici; Hunt (Nick Zano) e Janet (Haley Webb).
Nick riesce appena in tempo e con
difficoltà a portare fuori dall’autodromo i suoi compagni, che
nello stadio si conferma la sua tragica visione. Dopo alcune morti
sospette, Nick si convince che tutti coloro che sono scampati
all’incidente, siano destinati comunque a morire seguendo l’ordine
cronologico con cui perivano nella sua visione.
L’unico modo per salvare lui ed i
suoi amici è quello di “spezzare” la catena salvando la vita ad
almeno una persona destinata a morire prima di loro, Nick avrà ogni
volta una visione che gli darà alcuni indizi sul modo in cui sarà
colpita la prossima vittima.
Come marchio di fabbrica della
serie non mancano momenti di puro splatter, così come sono sempre
presenti le morti più assurde ed il salvataggi all’ultimo istante,
ciò nonostante la pellicola soprattutto per chi ha già visto i
precedenti Final Destination sa di trito e ritrito lontano un
miglio.
I personaggi sono tutti
preconfezionati, dal classico spavaldo che se ne infischia del
pericolo a Nick ragazzo coraggioso dal cuore d’oro (pure troppo);
alla fine il divertimento si riduce esclusivamente nel capire in
quale modo bislacco sopraggiungerà la morte dello sfortunato di
turno.
E se questo poteva bastare nel
primo film della serie nel trasmettere un po’ di pathos, giunti
ormai alla quarta “riedizione”, si fa una fatica tremenda a trovare
un motivo valido per vederlo sino alla fine.
Il prodotto (perchè di questo si
tratta) è confezionato per gli adolescenti in vena di emozioni
facili, con attori bellocci e inquadrature che esaltano le curve
delle bellone di turno e non bastano purtroppo dei buoni (e
tamarrissimi) effetti 3d a rendere Final Destination 3d un horror
che sarà ricordato in futuro.
Prendendo in considerazione l’idea
che mai come adesso siamo di fronte ad una contaminazione fra due
tipologia di film ben differenti (Fiction e Doc), e fermo restando
che nella storia questa pseudo contaminazione era già avvenuta a
vari livelli sia da una parte che dall’altra, ora con Il
quarto tipo siamo davvero arrivati ad un inedita
estensione di questa contaminazione dove la realtà e la finzione si
mischiano in maniera totalmente angosciosa ed inquietante.
Avevamo ampiamente avuto modo di
vedere esempi quali District 9 e Cloverfield, ma
questa operazione è qualcosa che va oltre la rappresentazione
stessa della storia in modalità documentaristica, qui siamo di
fronte all’utilizzo vero e proprio di materiale registrato dalla
protagonista della storia che anch’essa appare nel film
intervistata dal regista stesso della pellicola e che nella
finzione è interpretata da Milla Jovovich.
Il quarto tipo, il film
In Il quarto tipo
la storia è quella di una psicologa americana -Abbey Tyler- che
durante una ricerca su una serie di disturbi del sonno che
affliggevano alcuni abitanti della città di Nome, in Alaska, si
trovò di fronte a una serie di coincidenze inspiegabili e fu
vittima in prima persona di eventi particolarmente traumatici.
Durante il suo studio la dottoressa
Tyler registrò molte delle sedute di ipnosi con supporti audio e
video che il regista abilmente e in maniera del tutto inedita,
monta ed accosta in modo diretto (tramite lo split screen) con la
ricostruzione cinematografica, quasi a voler creare una sorta di
parallelo fra il mondo reale e quello di finzione, in cui il labile
confine che divide i due mondi diventa pressoché inesistente. In
questo caso siamo di fronte ad un film che è visibilmente tratto da
una storia vera, senza nessun affabulazione di sorta. E la
sensazione è quella di non potersi dissociare dal film e dalla sua
rappresentazione, perché non è finzione.
Il risultato è un’opera che, a
prescindere dalle opinioni in merito al tema dei rapimenti alieni,
è profondamente inquietante e riesce ad aprire la porta a dubbi e
interrogativi che l’uomo e la nostra società bigotta cercano di
accantonare e di rimuovere o ancor peggio di nascondere. Sotto
l’aspetto linguistico, Il quarto tipo segue un
buon ritmo sin dall’inizio, veicolando abilmente (va detto) la
tensione dello spettatore, fortemente incuriosito (paurosamente)
dal materiale della psicologa, soprattutto dall’intervista con la
vera Tyler che come una voce narrante racconta gli accadimenti così
come sono avvenuti. Ma ancor più interessante è il fatto che di
fronte a tutto ciò, il film non cerca mai di giudicare o di
prendere una posizione netta e chiara.
Per spiegare ciò la frase di
chiusura è emblematica: “Alla fine siete voi padroni di credere o
non credere”. Con quest’ultimo accenno, con astuzia e caparbietà,
Osunsanmi lascia a noi la facoltà di esprimerci,
rendendo il gioco ancora più indecifrabile e rendendo l’ Audience
tremendamente attivo.
In chiusura, il riferimento alla
pazzia o comunque al malessere interiore dei protagonisti e le
continue panoramiche sulle montagne innevate e l’ambientazione in
genere, rimandano a quelle “….montagne della follia” ed al genio
del suo autore, H.P. Lovecraft, padre incontrastato di certa
letteratura fantastica.