Disegnatore ed autore complesso,
creatore di mondi profondamente personali ed autobiografici, il
cinema di Tim Burton è popolato da inquietanti
ombre che si riflettono sul volto, quasi sempre pallido ed
infossato, dei suoi protagonisti, teneri mostri incompresi
caratterizzati da sentimenti spesso molto più umani rispetto a
quella controparte di persone “normali” che tanto li rifiutano e
fuggono.
Tim Burton, filmografia
L’intera filmografia di
Tim Burton è attraversata da una linea
allo stesso tempo macabra e gentile, spaventosa ma divertente, come
a voler esorcizzare demoni e paure nascoste quali la morte, il
diverso, una dimensione in cui i “freaks”
burtoniani si rifugiano per allontanarsi da un mondo che li ha
attirati a sé spinto dalla curiosità, per poi rinnegarli
brutalmente data la loro natura avulsa e anticonformista; calati in
scenografie contorte e surreali, che riflettono pienamente il loro
stato d’animo in perenne conflitto tra luce ed ombra, questi “figli
del diverso e dell’incompreso“, una volta cacciati da quel mondo
ordinario che avevano tentato di approcciare, scelgono di tornare
nella loro dimensione oscura spesso con una mal celata serenità:
nonostante la profonda sofferenza e solitudine cui saranno
destinati, il conforto di poter vivere in una dimensione “altra” e
tutta loro è innegabile, un sollievo che gli permette di gettare
uno sguardo personale e distorto su quel mondo esterno non
dimostratosi all’altezza della loro struggente sensibilità, un
luogo che, forse, è più consigliabile sognare piuttosto che
vivere.
Tim Burton, biografia
Nato nel 1958 a Burbank,
Timothy William Burton vive un’infanzia popolata
dalla visione di tutti i classici Horror prodotti dalla Universal Pictures e
dalla Hammer Film Productions ,
lasciando che la potenza evocativa di quelle immagini conquisti la
sua fervida mente: sin da piccolo dimostra infatti una crescente
attrazione nei confronti dei più famosi mostri cinematografici di
sempre, dal Frankestein di Boris
Karloff al Dracula di Bela
Lugosi, passando poi per un’infinità di pellicole di serie
b che contribuiranno ad accrescere il suo immaginario personale.
Appena diciottenne, frequenta la California Institute of
Arts, per poi essere assunto dalla Disney come
animatore, un’esperienza che però si rivelerà molto frustrante per
lui, costretto a piegarsi alle esigenze artistiche di un mondo,
quello della casa di Topolino, stilisticamente ben lontano dal
suo.
Nel 1982 gira “Vincent”,
il suo primo cortometraggio realizzato con la tecnica dello
stop motion, ispirato al leggendario attore
Vincent Price; atmosfere lunari e cupissime, eventi macabri e
conditi da un’ironia spesso crudele e compiaciuta, danno vita a
questo prodotto dalla breve durata ma efficacissimo nel
tratteggiare alcune delle ossessioni più ricorrenti di Burton. Due
anni dopo è la volta di “Frankeweenie”,
tenera rivisitazione del mito di Frankestein in
cui un bambino tenta di riportare in vita il suo cane recentemente
investito da una macchina. Il conflitto società-mostro emerge
ancora una volta, immergendo lo spettatore in una fiaba nera che
ribalta ogni convenzione che ci si possa aspettare di trovare in
una storia sull’amicizia tra un cane ed il suo padrone, tingendo di
nero e di esperimenti folli un cortometraggio dall’atmosfera
straniante e divertente allo stesso tempo.
Tim Burton, la filmografia
Nel 1985, finalmente,
Tim Burton realizza il suo primo lungometraggio,
“Pee-wee’s Big adventure”, basato sul personaggio
televisivo di Pee-wee Herman, un giovane uomo dal temperamento
estremamente fanciullesco e gioviale, deciso ad intraprendere un
viaggio ricco di strambe avventure al fine di ritrovare la sua
bicicletta rubata, verso la quale nutre un amore quasi maniacale;
coloratissimo e surreale, il film è un grandissimo successo sia di
critica che di pubblico, oltre a rappresentare la prima
collaborazione tra Burton ed il musicista Danny
Elfman, che diverrà un suo collaboratore quasi fisso.
L’anno di Beetlejuice – Spiritello
porcello
Nel 1988 realizza il
divertentissimo “Beetlejuice – Spiritello porcello”,
commedia nera in cui una coppia di fantasmi, morta di recente, si
rivolge ad un bio-esorcista (interpretato da uno straordinario
Michael Keaton) al fine di scacciare una
famiglia di “vivi” venuta ad abitare nella loro casa; scurrile,
scorretto e pungente, il film colpisce per il suo continuo vizio di
ribaltare i luoghi comuni più abusati, tanto che chi osserva si
ritrova a parteggiare per una coppia di spettri innamorati.
Il film si aggiudicherà inoltre un
Oscar per il miglior Trucco. Il 1989 è un anno fondamentale per
Tim Burton, quando gli viene affidata la regia di
“Batman” : tra una produzione
estremamente preoccupata per lo stile troppo cupo del giovane
regista e numerosi problemi economici, Burton riesce comunque a
confezionare un film dalle atmosfere dense e nerissime, spogliando
l’uomo pipistrello da ogni scontata convenzione supereroistica,
rendendolo invece più simile ad un animale ferito e vendicativo,
spesso fuori controllo; ad ostacolarlo, un
Jack Nicholson che regala una performance
strepitosa nel ruolo del Joker, storica nemesi di
Batman.
Nasce nel 1990 la Tim
Burton production che battezza il commovente
“Edward mani di
forbice”, pellicola personalissima per il
regista, sulla quale, grazie all’enorme successo di
“Batman”, ha un controllo pressoché
totale; in questa favola incantata ed incantevole, Tim
Burton tratteggia un personaggio struggente e dolcissimo,
una creatura che incarna tutte le caratteristiche “mostruose” dei
mostri cinematografici di un tempo, donandogli però un animo
purissimo ed innocente che dovrà, ancora una volta, fare i conti
con una società pronta a fagocitarlo e a corromperlo; alla
pellicola partecipa Vincent Price, leggendario
interprete di molti classici dell’horror, nel ruolo di uno
scienziato.
Per Tim
Burton è un sogno che si avvera: avrà infatti l’occasione
di lavorare con uno dei suoi miti di sempre. Il film rappresenta,
inoltre, la prima collaborazione con
Johnny Depp (qui totalmente calato nella parte
del protagonista), dando vita ad un sodalizio tra i due proficuo ed
inossidabile.
Due anni dopo esce
“Batman il ritorno”, che però
non ottiene lo stesso successo del primo capitolo: il film è però
un capolavoro, di gran lunga più cupo del predecessore, con
Danny De Vito nei panni del Pinguino e
Michelle Pfeiffer in quelli di
Catwoman, mentre Michael Keaton è di
nuovo l’uomo pipistrello; trattando questi tre personaggi
principali come fossero creature animalesche solitarie e deviate,
Burton mette in relazione le ossessioni di ciascuno di essi, dando
vita ad un trio di “freaks” che, psicologicamente,
necessitano l’uno dell’altro per completare se stessi, il tutto
nella cornice di un impianto visivo onirico e distorto. Recuperando
una vecchia storia scritta ai tempi in cui lavorava alla Disney e
avvalendosi della collaborazione dell’amico e regista Henry Selick,
Tim Burton realizza “The
Nightmare before Christmas”, gioiello in stop
motion che segue le vicende della città di Halloween il cui
personaggio più popolare, Jack Skellington, stanco della solita
festa di paura da riproporre anno dopo anno, scopre che nella città
del natale le celebrazioni hanno tutt’altra atmosfera e deciderà
quindi di appropiarsene, con risultati disastrosi; il film è oggi
divenuto un classico senza tempo, una gemma di ritmo e humor
macabro, popolato da personaggi memorabili e impreziosito da una
colonna sonora straordinaria, che ci cala in un mondo dove, ancora
una volta, tutto viene visto attraverso gli occhi dei diversi, dei
rinnegati, dei perdenti.
Nel 1994 Tim
Burton omaggerà quello che oggi viene considerato come il
“peggio regista di tutti i tempi”, ovvero Edward D. Wood
Junior, autore, nella Hollywood degli anni ’50, di pellicole a
bassissimo budget particolarmente brutte, ma dotate di una certa
genuinità comica che permetterà al suo creatore di divenire un
personaggio di culto; Burton, decidendo di girare in bianco e nero,
crea un film che ripercorre le disavventure cinematografiche di
Ed Wood
(interpretato da
Johnny Depp) e della sua sgangheratissima
troupe, in una pellicola che è un atto d’amore verso tutto quel
cinema di “bassa lega” che tanto Burton aveva amato da bambino.
Seguono “Mars Attack” (1996) e
“Il mistero di Sleepy
Hollow” (1999): il primo è un chiaro omaggio
alla fantascienza anni ’50 tanto cara al regista, un film di cui Ed
Wood stesso sarebbe stato fiero, dichiaratamente comico, demenziale
ed irriverente, che si prende gioco di tutti i tòpoi del
genere, con il chiaro intento di divertire (da ricordare che le
fattezze degli alieni del film sono ispirate ad una serie di
figurine pubblicate nel 1962).
Il secondo, tratto dal classico
della letteratura statunitense di Washington Irving incentrato
sulla figura del cavaliere senza testa, è un horror splendidamente
realizzato e debitore delle atmosfere dei classici della Universal
anni ’30, di cui riprende anche i toni talvolta ironici,
mescolandoli abilmente a quelli spaventosi; la fotografia
estremamente desaturata dona alla pellicola un’aria sfuggente, come
fossimo sospesi in un incubo fatto di sangue e teste mozzate, in
cui Burton dà libero sfogo a tutto quell’immaginario gotico
accumulato durante gli anni. Segue il remake de “Il
pianeta delle scimmie” , un film su commissione che
si rivelerà essere anche uno dei meno riusciti di Tim
Burton, che darà vita ad una pellicola poco ispirata anche
se estremamente curata tecnicamente, verso la quale però dimostrerà
sin da subito scarso interesse, anche a causa di una produzione
invadente e non così disposta a garantirgli libertà di scelte
artistiche.
Con “Big
Fish” (2003), torna in territori a lui più congeniali,
adattando il romanzo di Daniel Wallace incentrato sulla storia di
un figlio che tenta di fare chiarezza sulla vita del padre,
instancabile narratore di storie fin troppo fantasiose e assurde
riguardanti varie vicende della sua esistenza; Burton firma il suo
film più “solare”, non rinunciando al suo solito tratto fiabesco e
surreale quando si tratta di tradurre in immagini le fantasie dei
personaggi. Complice forse anche la scomparsa del padre del
regista, avvenuta poco prima l’inizio della lavorazione, Big Fish è
sentito, toccante e malinconico nell’esplorare il rapporto
conflittuale del protagonista con suo padre, un rapporto
sicuramente non così diverso da quello che c’era tra Burton e suo
padre, verso il quale si è sempre sentito, per sua stessa
ammissione, umanamente “distante”. Due anni dopo adatta il celebre
racconto “La fabbrica di cioccolato” di
Roald Dahl, traendone un film profondamente diverso da quello
realizzato negli anni settanta con Gene Wilder nel
ruolo del cioccolatiere Willy Wonka; Tim Burton
segue fedelmente il libro, piegandolo però totalmente al suo stile
sia dal punto di vista visivo (ottenendo risultati portentosi) che
da quello narrativo, aggiungendo variazioni in linea con le sue
ossessioni: quello che era un classico racconto di formazione,
nelle sue mani diviene anche un viaggio all’interno del mondo di un
cioccolatiere stralunato e malinconico, che ha fatto della sua
fabbrica la sua prigione per fuggire il mondo esterno. Nel ruolo di
Willy Wonka, un
Johnny Depp superlativo e in grado di
cogliere ogni sfumatura del personaggio. Sempre del 2005 è
“La
sposa Cadavere” , altro film in stop motion
che ci presenta uno spassosissimo confronto tra il mondo dei vivi
(deprimente e grigio) e quello dei morti (festoso e coloratissimo)
quando il giovane Victor si ritrova sposato, per un grossolano
errore, con il cadavere di una dolce fanciulla. Si cimenta poi con
il musical “Sweeney Todd: il diabolico barbiere di
Fleet Street” (2007), adattando il leggendario spettacolo
teatrale di Broadway firmato da Stephen Sondheim, un musical
atipico che parla di vendetta, cannibalismo ed omicidi, con
personaggi sempre in bilico tra il comico ed il terrificante.
Ne esce uno dei film più disillusi
e violenti del regista, che sembra rinunciare in parte alla sua
solita dimensione da “sogno” per gettarsi nella cruda realtà di una
storia torbida e disperata, sfruttando i geniali testi delle
canzoni per condire il tutto con il solito umorismo, stavolta più
nero del solito.
Tim burton torna in Disney per Alice nel paese delle
meraviglie
Tornerà poi a lavorare su
commissione per la Disney con una nuova versione di
“Alice
nel paese delle meraviglie” , traendo spunto
anche dal successivo romanzo di Lewis Carroll
“Attraverso lo specchio” e fondendone insieme gli elementi: il
risultato è un clamoroso successo di botteghino, a discapito però
dell’integrità artistica in quanto, pur essendo un prodotto di
intrattenimento visivamente d’impatto, cede spesso il passo ad
esigenze commerciali strettamente legate alla casa di produzione;
gli elementi burtoniani non mancano, ma sono stavolta riconoscibili
solo da chi abbia seguito questo regista da sempre, rendendo il
film un strano mix di ottimi spunti ma anche di scontatezza, non
aiutato da un 3D pessimo che ne svalorizza il pregevolissimo
impianto visivo. Il 2012 sarà invece l’anno di “Dark
Shadows”, una horror/comedy tratta da una
famosa soap opera degli anni ’60 caratterizzata da vampiri,
licantropi e fantasmi e di una nuova versione in stop motion di
“Frankweenie”, entrambi ancora in lavorazione e
attesissimi.