È sempre in cerca di novità, di
approcci originali, il suo cinema non dà mai nulla per scontato, e
questa è certo una delle sue migliori doti, affatto scontata a sua
volta, visto che a settant’anni suonati (classe 1939), dopo una
lunga e fruttuosa carriera, avrebbe potuto tranquillamente riposare
sugli allori o darsi a un cinema auto celebrativo. Ma chiunque
conosca almeno in parte il lavoro di Marco
Bellocchio sa che un simile atteggiamento non è nelle sue
corde.
Marco Bellocchio, la filmografia
Col suo film d’esordio I
pugni in tasca (1965), a soli 26 anni suscitò scalpore,
mettendo a nudo senza sconti l’universo di una tranquilla famiglia
borghese, dietro le cui apparenze si celano legami malati,
costrizioni, rancori, desiderio di ribellione e quella vena di
follia che, più o meno marcata, ritroviamo in quasi tutti i suoi
film.
E sulla famiglia si sofferma spesso
il suo lavoro (Nel nome del padre, Salto nel vuoto, La
balia, L’ora di religione, Sorelle, Sorelle Mai).
Istituzione fondante – e si direbbe “sacra” – della nostra società,
essa però costringe, ingabbia l’individuo e può, talvolta,
impedirne il sano sviluppo psicofisico, a meno che da quei legami
non si abbia il coraggio di emanciparsi, intraprendendo un cammino
indipendente. Oggetto di critica da parte del regista di Bobbio
sono poi tutte le altre istituzioni costrittive o tese a
creare un effetto di “intorpidimento” dell’individuo: le
forme di religiosità cieca e bigotta, i mass media se usati per
manipolare fatti e opinioni, la cattiva politica (a prescindere
dagli schieramenti). Un cinema d’impegno e di denuncia, mai
superficiale,che non teme di scavare nell’individuo e nella
società, e di dire tutto ciò che c’è da dire, con coraggio, ma
senza pretendere adesione da parte dello spettatore, che si vuole
vigile e attento alle tematiche proposte, ma non asservito al punto
di vista del regista.
Marco Bellocchio, gli inizi
Il percorso artistico di
Marco Bellocchio inizia al Centro
Sperimentale di Cinematografia di Roma, nel 1959. Qui tre
anni dopo ottiene il diploma di regia, per poi partire alla volta
di Londra, dove continuerà a studiare cinema. Al suo ritorno, nel
’65, come s’è detto, il suo folgorante esordio I pugni in
tasca, che gli vale subito riconoscimenti: la stampa non
fatica a rintracciare in lui un indubbio talento, coraggioso e
dissacrante e il film si aggiudica il Nastro d’Argento per il
Miglior Soggetto e la Vela d’Argento al Festival di Locarno per la
Miglior Regia. Lou Castel nei panni di Alessandro
e Paola Pitagora in quelli di Giulia, sono perfetti protagonisti di
questo dramma familiare: due dei cinque componenti di questo nucleo
malato che è la famiglia al centro della pellicola, in cui la
rabbia e il rancore sempre covati nascostamente da Alessandro, alla
fine esplodono nel gesto più estremo. Il tutto è accompagnato dalle
musiche di Ennio Morricone, mentre al
montaggio c’è Silvano Agosti, che
collaborerà ancora con Bellocchio.
Dopo la
famiglia, Marco Bellocchio sceglie la
politica ipocrita e trasformista come bersaglio della sua ficcante
analisi in La Cina è vicina (1967), protagonista
il professore e aspirante assessore Vittorio Gordini
Malvezzi/Glauco Mauri, assieme al ragioniere Carlo/Paolo Graziosi,
che lo aiuta nel suo tentativo di ascesa sociale e politica
all’interno del PSU (Partito Socialista Unificato). Accanto a
questo, però, ancora una volta non manca il sarcasmo verso
l’ipocrisia in ambiente familiare (Carlo diverrà amante e poi
marito, suo malgrado, della sorella di Vittorio, il quale sposerà
l’ex fidanzata di Carlo, unitasi a lui per vendetta verso il suo
precedente compagno). Ancora musiche di Ennio
Morricone, mentre il montaggio è stavolta affidato a
Roberto Perpignani. E ancora premi: Nastro
d’Argento per il Soggetto (dello stesso Bellocchio) e la Fotografia
di Tonino Delli Colli, Premio Speciale della giuria a Venezia. Nel
’69 il regista partecipa, assieme a nomi del calibro di
Bertolucci, Lizzani, Pasolini e Godard, al film
Amore e Rabbia, di cui dirige l’episodio
Discutiamo, discutiamo. Nel ’72 dirige Nel
nome del padre, film ispirato in parte a vicende
autobiografiche, relative agli anni dell’educazione religiosa del
regista, avvenuta presso i Salesiani.
Il film è ancora una volta un
feroce attacco, stavolta rivolto alle istituzioni religiose e alla
loro volontà di controllo e repressione. La vicenda è ambientata
alla fine degli anni ’50 e il protagonista, Angelo Transeunti/Yves
Beneyton, è un giovane indisciplinato e recalcitrante alle regole
costrittive, che entra in un collegio religioso. Qui fa valere la
sua forte personalità, scontrandosi continuamente con l’autorità
(il vicerettore Corazza/Renato Scarpa) e le ferree regole della
“repressione cattolica”, che denigra. La volontà di ribellione
culminerà in due rivolte, entrambe fallite, e forse presaghe di
altri fallimenti reali. Non manca poi, intrecciato al tema
principale, quello della costrizione dei legami familiari. Al film
partecipa anche Gisella Burinato, già attrice teatrale, qui per la
prima volta sul grande schermo. Dall’unione tra attrice e regista
nascerà, due anni dopo, il figlio Pier Giorgio.
Dello stesso anno invece, è
Sbatti il mostro in prima pagina.
Qui Marco Bellocchiosi concentra sulla
“repressione mediatica”, ovvero sul potere dei mezzi di
comunicazione di influenzare le menti degli spettatori, di
“intorpidirle”, di distrarle. È quello che avviene nel film
dove un cinico e straordinario Gian Maria Volonté
(memorabile la sua “lezione di giornalismo” all’ingenuo neoassunto
Roveda), direttore di un noto quotidiano, orchestra una campagna
stampa ad hoc su un sanguinoso fatto di cronaca, per poi
strumentalizzarlo politicamente.
Marco Bellocchio, il 70′
Nel ’75 Marco
Bellocchio, che nei suoi film si occupa spesso di psiche e
di instabilità mentale, dirige con la consueta passione, assieme a
Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia,
il documentario Nessuno o tutti – Matti da
slegare, che punta il dito contro l’istituzione
manicomiale italiana, denunciandone abusi e storture, aggiungendovi
una personale analisi che rintraccia nella società l’origine del
disagio psichico. Occorre dire che la passione documentaristica lo
accompagna fin dal 1969, quando firmò Il popolo calabrese
ha rialzato la testa (Paola) e vi tornerà spesso.
Nel 1976 dirige Marcia
Trionfale, in cui bersaglio della sua critica è il mondo
militare machista e repressivo, protagonisti il giovane soldato
Paolo Passeri/Michele Placido e il suo severo superiore
Asciutto/Franco Nero. L’impeccabile regia di Bellocchio gli vale il
David di Donatello. Il ’77 lo vede invece impegnato
nell’adattamento de Il gabbiano di Anton Čechov. Il 1978 è l’anno
dell’incontro con lo psichiatra Massimo Fagioli, da cui nascerà
un’intensa collaborazione, che darà i suoi frutti negli anni a
venire. Intanto, il regista di Bobbio torna ad occuparsi di
universi familiari malati e instabilità mentale. Lo fa con la
solita lucidità e pregnanza in Salto nel vuoto (1980). Al centro
della pellicola, la storia di due fratelli, Mauro Ponticelli/Michel
Piccoli e Marta/Anouk Aimeé.
Mauro, convinto che la sorella sia
sull’orlo della follia, architetta un piano per spingerla al
suicidio, con la complicità di un piccolo delinquente, Giovanni
Sciabola/Michele Placido. Il piano però fallisce e anzi, Marta
riesce finalmente ad emanciparsi dal perverso legame che la teneva
avvinta al fratello, anche grazie alla sua relazione con Sciabola.
Alla fine, a compiere il “salto” sarà Mauro.
Nello stesso
anno, Marco Bellocchio torna, dopo I pugni in
tasca, ai luoghi natii, col documentario Vacanze in Val Trebbia,
che vede protagonista lui stesso, accanto a Gisella Burinato e al
figlio Pier Giorgio, all’esordio davanti alla macchina da presa.
Nel 1982, Bellocchio torna a dirigere Lou Castel, già protagonista
de i pugni in tasca e poi ritrovato in altre pellicole firmate dal
regista.
Qui è di nuovo protagonista, nei
panni di Giovanni Pallidissimi, attore, alle prese
con la risoluzione di nodi nei suoi rapporti familiari, in
particolare con la madre e con Wilma, fidanzata del fratello morto
suicida. Stavolta, però, a differenza di quanto accadeva ne I pugni
in tasca, tutto si risolve positivamente, in un’ideale percorso di
maturazione e crescita. Sceneggiato con Vincenzo
Cerami, si avvale delle musiche di Nicola Piovani (come
già numerosi altri lavori del regista, a partire da Nel nome del
padre). Segue l’adattamento per il grande schermo del dramma
pirandelliano Enrico IV, protagonista Marcello Mastroianni. Ancora
una volta, i temi cari a Bellocchio: potere, religione, ipocrisia,
follia. Accanto a Mastroianni, Claudia Cardinale, Leopoldo Trieste
e Paolo Bonacelli, musiche di Astor Piazzolla.
A metà anni ’80 vede la luce il
primo lavoro ispirato dal sodalizio con Fagioli, i cui frutti
saranno visibili in tre pellicole: Diavolo in
corpo (1986), La condanna (1991),
Il sogno della farfalla (1994). Tra questi, la
pellicola che avrà maggior fortuna è senz’altro La
condanna, che otterrà il Gran Premio della Giuria al
Festival di Berlino, protagonisti Vittorio Mezzogiorno e
Claire Nebout.
Terminata la collaborazione con lo
psichiatra Fagioli, Marco Bellocchio si rifà
a un testo teatrale, che decide di portare sullo schermo. Si tratta
de Il principe di Homburg (1997), fedele
trasposizione dell’omonimo dramma di Kleist. Nel ’99 il regista di
Bobbio attinge ad un’altra fonte letteraria: la novella
pirandelliana La balia. Protagonisti
Valeria Bruni Tedeschi e
Fabrizio Bentivoglio, coppia alto borghese
d’inizio Novecento, la cui tranquilla esistenza subisce un brusco
mutamento con la nascita di un figlio, con il quale la madre non
riesce a stabilire un legame affettivo. Il neonato viene così
affidato alle cure di una balia (Maya
Sansa al suo esordio cinematografico), che invece
entra subito in sintonia con il bambino, ma ciò provoca ulteriori
tensioni. Dunque, è ancora una volta l’universo familiare ad essere
scandagliato dall’analisi di Bellocchio, sulla scorta della fonte
letteraria. L’affresco storico sociale resta sullo sfondo, in
favore dell’aspetto esistenziale ed intimo. Nel cast anche
Michele Placido e Pier Giorgio
Bellocchio.
Il nuovo millennio di Marco
Bellocchio
Nel nuovo millennio, il regista
torna ad occuparsi di religione e famiglia in L’ora di
religione (2002), non rinunciando a svelarne ipocrisia e
opportunismo. Protagonista della vicenda, genialmente surreale, è
Ernesto Picciafuoco/Sergio
Castellitto (ultimo di una lunga serie di indovinati
nomi parlanti, cari a Bellocchio), pittore, che conduce da anni la
sua vita, rigorosamente laica, lontano dal resto della blasonata
famiglia.
Tutto cambia, quando viene
informato dell’imminente canonizzazione della madre, ordita da una
zia (una Piera degli Esposti splendidamente
cinica) nella speranza di un ritorno economico che rinverdisca le
finanze familiari. Perché il processo vada in porto c’è bisogno
della collaborazione di tutti, in special modo dei figli della
donna: Ernesto, Ettore/Gigio Alberti,
Erminio/Gianfelice Imparato ed Egidio/Donato
Placido. La canonizzazione è dunque l’occasione per Ernesto di
rincontrare la sua famiglia d’origine – oltre a una serie di
stravaganti personaggi che si profileranno sul suo cammino – e per
il regista di farci scoprire, tassello dopo tassello, un universo
familiare lacerato e devastato dalla pochezza di spirito,
dall’inadeguatezza, e dall’ottuso bigottismo della donna che si
vorrebbe santificare, che di esso è stata per anni il fulcro, e il
tarlo.
Scopriamo così che uno dei
fratelli, Egidio (nell’intensa interpretazione di Donato Placido),
è stato internato in una struttura psichiatrica, proprio in seguito
all’omicidio della madre, e ritroviamo quindi anche il tema della
follia. Non manca il sarcasmo nei confronti di una Chiesa che bada
alle apparenze e non alla sostanza, come verso l’alta borghesia
perbenista e ipocrita, da cui il protagonista s’è voluto staccare,
ma che torna anche nella sua nuova famiglia (anche la moglie vuole
approfittare dei vantaggi della canonizzazione e vuole far
battezzare il loro figlio, così come insiste per fargli seguire a
scuola l’ora di religione). Il Bellocchio di sempre, dunque, ma
certamente il miglior Bellocchio, che sa dare nuova linfa e
originalità alla trattazione cinematografica di temi noti, in un
film drammatico, e insieme ironico e brioso.
I premi arrivano copiosi: Menzione
Speciale a Cannes, 4 Nastri d’Argento (tra cui Miglior Regia),
David di Donatello a Piera degli Esposti e European Film Award
(EFA) a Sergio Castellitto per le rispettive interpretazioni. Il
regista e l’attore si ritroveranno insieme nel 2006, quando l’uno
dirigerà l’altro nel più leggero Il regista di matrimoni.
Nel 2003, il regista emiliano torna
invece ad occuparsi di politica, scegliendo una delle pagine più
buie e controverse della nostra storia. Rielabora infatti le
vicende relative al sequestro Moro in Buongiorno
notte, liberamente ispirato al libro Il
prigioniero, scritto da Anna Laura
Braghetti, brigatista. La pellicola si incentra sulla
prigionia di Moro e dunque sul dramma da lui vissuto, ottimamente
reso da
Roberto Herlitzka, oltre che sulle dinamiche
all’interno del gruppo di rapitori, tra cui Chiara/Maya
Sansa, dapprima convinta, poi dubbiosa sugli sviluppi
del sequestro. Nel cast anche
Luigi Lo Cascio, Paolo Briguglia, Pier Giorgio
Bellocchio. Il film è un successo al botteghino,
rivelandosi uno dei più soddisfacenti del regista in questo senso.
Ottiene anche svariati premi, ma non il Leone d’Oro a Venezia, per
il quale pure era favorito. Riconoscimenti arrivano comunque:
Premio FIPRESCI agli EFA a Bellocchio, David di Donatello e Nastro
d’Argento a Herlitzka; Globo d’Oro e Ciack d’Oro a
Maya Sansa , Premio Ioma per Miglior Film.
Tre anni dopo, torna ad occuparsi
di una vicenda privata, ma al tempo stesso dagli evidenti risvolti
politici. Con Vincere infatti il regista porta
sullo schermo la storia di Ida Dalser, amante di
Benito Mussolini, e madre di suo figlio Benito
Albino. L’idea del film è nata, dic e Marco
Bellocchio, dalla scoperta di questa forte figura
femminile, attraverso la lettura della sua corrispondenza. A
colpirlo, infatti, sono proprio la sua incrollabile fiducia e
l’abbandono col quale si getta nella storia d’amore col Duce, così
come l’ostinazione con la quale poi non accetterà di essere da lui
abbandonata, assieme al figlio. Ad interpretarla un’efficacissima
Giovanna Mezzogiorno, adatta a renderne la
caparbietà, a dispetto della realtà e dell’evidenza. E di nuovo il
confine tra sanità e follia è labile. Lo stesso può dirsi per gli
altri due personaggi principali della storia, Benito Mussolini e
Benito Albino, teso verso orizzonti di gloria il primo, e quasi
assente dalle sue vicende personali; allevato nell’ossessione
dell’ingombrante padre traditore il secondo, che finirà i suoi
giorni in manicomio.
Filippo Timi interpreta magistralmente
entrambi. Il film, unico italiano in concorso nel 2009 al
Festival di Cannes, non otterrà in questa sede i
premi sperati. In compenso però farà incetta di riconoscimenti ai
David di Donatello, conquistandone ben sette, tra cui quello per la
Miglior Regia. Nastro d’Argento a Giovanna Mezzogiorno.
La passione di Marco
Bellocchio per il suo lavoro si esprime però anche nella
conduzione del laboratorio Fare Cinema, scuola di regia e
recitazione che si tiene ogni anno, in estate, nella natia Bobbio,
cui si accompagna il Bobbio Film Festival. E da questa esperienza
nasce nel 2006 un primo lungometraggio dal titolo Sorelle, il cui
soggetto sarà poi ripreso nel film Sorelle Mai
(2010), che ne è ulteriore elaborazione.
La pellicola raccoglie materiale
girato durante il laboratorio nel corso di dieci anni, a detta del
regista senza l’intento iniziale di farne un film, ma che ne ha poi
preso la forma. Al centro, inevitabilmente, un nucleo familiare,
che in parte coincide con quello del regista stesso: le sorelle
Letizia e Maria Luisa, il figlio Pier Giorgio, la figlia Elena,
inseriti però in una vicenda di fantasia, tra allontanamenti
e ritorni nella terra natia, vittorie e sconfitte. Ed è proprio
alle sue sorelle, con la loro vita “di confortevoli rinunce”, come
la definisce lui stesso, che Marco
Bellocchio dedica il film. Con quest’opera il regista
ci spiazza ancora una volta, accettando e vincendo quella che per
lui resta “la sfida” del cinema oggi: parlare di ciò che ci
riguarda, farlo in maniera profonda e originale, nella specificità
estetica del cinema, senza scimmiottare modelli televisivi, e non
cercare mai di compiacere nessuno, ché altrimenti viene meno la
libertà espressiva.