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#RomaFF13: Il vizio della speranza vince il premio del pubblico BNL

Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis si è aggiudicato il “Premio del Pubblico BNL” alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Il “Premio del Pubblico BNL”, in collaborazione con il Main Partner della Festa del Cinema, BNL Gruppo BNP Paribas, è stato assegnato dagli spettatori che hanno espresso il proprio voto sui film in programma nella Selezione Ufficiale utilizzando myCicero, con l’app ufficiale della Festa del Cinema, RomeFilmFest (realizzata da Pluservice), e attraverso il sito www.romacinemafest.org.

Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis arriverà in sala giovedì 22 novembre 2018, distribuito da Medusa.

#RomaFF13: Il vizio della speranza, la recensione del film di Edoardo De Angelis

SINOSSI: Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un’esistenza trascorsa un giorno alla volta, senza sogni né desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. È proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è da sempre la più grande delle rivoluzioni. “A me non mi uccide nessuno”.

IL REGISTA: Edoardo De Angelis, nato nel 1978 a Napoli, a diciannove anni scopre il cinema e gira i suoi primi cortometraggi. Nel 2006 si diploma in regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma: il suo saggio di fine corso è il corto Mistero e passione di Gino Pacino. Del 2011 è il suo primo lungometraggio da regista, Mozzarella Stories. Nel 2014, con la società fondata con Pierpaolo Verga, la O’Groove, realizza Perez, opera seconda. Nel 2016 dirige Indivisibili, che vince sei Nastri d’argento, otto Ciak d’oro, un Globo d’oro, e riceve diciassette candidature ai David di Donatello, vincendone sei.

#RomaFF13: Edoardo De Angelis racconta Il Vizio della Speranza

NOTE DI REGIA: Nel fotogramma passato, presente e futuro. Nessuna presentazione dei personaggi, nessuna divagazione. La storia delle donne e degli uomini è scritta sul corpo: nelle cicatrici il passato, nei gesti il presente, negli occhi il futuro. Il corpo è lo strumento principale della narrazione perché la sua materia mobile esprime la trasformazione dei personaggi; è veicolo tematico in quanto mostra la bellezza ferita di essere umani in attesa di qualcosa o qualcuno, disperati attaccati a un’ultima speranza; infine, il corpo esprime la volontà dell’anima di sovvertire l’ordine della disperazione, attraverso la resistenza e, al momento giusto, la ribellione. Pensate a un inverno freddo, un tempo in cui tutto attorno a noi sembra morto e accendiamo il fuoco per scaldarci, in attesa che cambi. La terra genera, la terra ospita, la terra lascia prosperare e poi sovrasta il corpo morto; il vento soffia sul fuoco e spinge l’acqua del fiume verso la terra, per ravvivarla. La vita si ostina a lottare contro la morte: l’arco del mondo si trasforma attraverso la nascita, la morte e la rinascita. Tutto ciò che resta immobile muore. Ciò che si muove vive. Per chi ha la forza di resistere, il premio è il miracolo del mondo che nasce.

#RomaFF13: il tappeto rosso di Stan & Ollie con Reilly e Coogan

John C. Reilly e Steve Coogan hanno portato alla Festa del Cinema di Roma Stan & Ollie, il nuovo film che li vede protagonisti nei panni dei due comici Stan Lauren e Oliver Hardy.

Di seguito, le foto dal red carpet su cui hanno sfilato gli attori, in compagnia del regista Jon S. Baird.

Finita l’epoca d’oro che li ha visti re della comicità, vanno incontro a un futuro incerto. Il pubblico delle esibizioni è tristemente esiguo, ma i due sanno ancora divertirsi insieme, l’incanto della loro arte continua a risplendere nelle risate degli spettatori, e così rinasce il legame con schiere di fan adoranti. Il tour si rivela un successo, ma Laurel e Hardy non riescono a staccarsi dall’ombra dei loro personaggi, e fantasmi da tempo sepolti, uniti alla delicata salute di Oliver, minacciano il loro sodalizio. I due, vicini al loro canto del cigno, riscopriranno l’importanza della loro amicizia.

Stanlio e Ollio, recensione del film con John C. Reilly e Steve Coogan

#RomaFF13: il giorno di Barry Jenkins con If Beale Street Could Talk

Dopo il successo di Moonlight, vincitore di tre premi Oscar, presentato a Roma nel 2016, il regista Barry Jenkins torna alla Festa del Cinema: domani, domenica 21 ottobre alle ore 19.30 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, sarà infatti presentato il suo nuovo film, If Beale Street Could Talk (Se la strada potesse parlare), tratto dall’omonimo romanzo di James Baldwin.

Il film è ambientato negli anni settanta, nel quartiere di Harlem, Manhattan. Uniti da sempre, la diciannovenne Tish e il fidanzato Alonzo, detto Fonny, sognano un futuro insieme. Quando Fonny viene arrestato per un crimine che non ha commesso, Tish, che ha da poco scoperto di essere incinta, fa di tutto per scagionarlo, con il sostegno incondizionato di parenti e genitori. Senza più un compagno al suo fianco, Tish deve affrontare l’inaspettata prospettiva della maternità. Mentre le settimane diventano mesi, la ragazza non perde la speranza, supportata dalla propria forza interiore e dall’affetto della famiglia, disposta a tutto per il bene della figlia e del futuro genero.

If Beale Street Could Talk: il trailer del nuovo film di Barry Jenkins

#RomaFF13: Go Home – A Casa Loro, recensione del film di Luna Gualano

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Nasce da una riflessione estemporanea, da una scintilla, il fuoco che ha portato Luna Gualano a realizzare Go Home – A Casa Loro, lo zombie movie presentato ad Alice nella Città durante al tredicesima Festa del Cinema di Roma. La regista ha infatti spiegato che l’idea è partita mentre discuteva con il suo compagno, il produttore musicale Emiliano Rubbi (autore della sceneggiatura) dell’omicidio a Fermo del migrante nigeriano, ucciso in seguito ai suoi tentativi di difendere la sua compagna, insultata.

“Questa rabbia, questo odio sembra quasi il tema del contagio dei film di zombie, dovremmo fare un film su questo” avrebbe detto Rubbi, e così è nata la storia di Go Home: un’epidemia zombie si diffonde durante uno scontro tra estremisti di destra e i responsabili di un centro di accoglienza.

Il film, dal budget bassissimo (stimato intorno ai 35mila euro), è la traduzione di questa riflessione: la rabbia e l’odio, concetti universali, sembrano pervadere sempre più a fondo la nostra società, dalle istituzioni alla quotidianità, e questi sentimenti forti generano l’infezione e quindi l’epidemia. Il racconto è elementare e riesce con questa semplicità a mettere in evidenza due punti interessantissimi. Il primo riguarda appunto lo stimolo che ha generato il film intero, il concetto di rabbia come malattia che corrompe e deforma i corpi e le menti delle persone, che siano essi estremisti di destra, migranti o chi cerca semplicemente di aiutare.

go home poster
Il poster firmato da Zerocalcare.

A questa riflessione si collega direttamente un ritorno dell’horror e in particolare dello zombie movie alla metafora politica, intenzione confermata dallo stesso sceneggiatore che chiama in causa George Romero, che con il suo Zombi ha trasformato il genere in un atto d’accusa verso il capitalismo. Lo zombi, in quanto creatura fantastica, si presta benissimo a questo tipo di utilizzo, diventando di volta in volta metafora di tante cose, a seconda del la lettura che si dà alla creatura stessa.

Dopo tanto cinema e tante televisione che hanno riportato in auge lo zombie, proponendolo in termini più leggeri ed edulcorati rispetto a quelli “politici” che Romero aveva raccontato nel 1978, la Gualano sceglie di tornare all’origine. Il suo approccio è sicuramente schierato dalla parte di chi accoglie i migranti, tuttavia riesce a rimanere imparziale nella rappresentazione dell’odio e della rabbia, che serpeggiano da entrambi i lati della barricata. Nessuno è immune e nessuno viene risparmiato.

Go Home – A Casa Loro è una fotografia impietosa e senza speranza, scattata attraverso la lente del genere fantastico, che attribuisce di nuovo al genere il suo valore sociale e politico.

Il progetto ha incontrato da subito il sostegno di tanti personaggi pubblici che hanno partecipato alla produzione, da Piotta, il Muro del piantoTrain to Roots , fino al fumettista Zerocalcare, che ha disegnato il poster.

#RomaFF13: Giuseppe Tornatore incontra il pubblico

#RomaFF13: Giuseppe Tornatore incontra il pubblico

La Festa del Cinema celebra uno degli autori più amati e premiati del cinema italiano: domani, giovedì 25 ottobre alle ore 18 presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, Giuseppe Tornatore sarà protagonista di un Incontro Ravvicinato con il pubblico. Il regista siciliano è stato in grado di produrre un linguaggio universale a partire da uno stile assolutamente personale, firmando storie che hanno spesso varcato i confini nazionali: dall’Oscar® con Nuovo Cinema Paradiso alla nomination per L’uomo delle stelle, da Malèna a Baarìa, da La leggenda del pianista sull’oceano a La sconosciuta, da La migliore offerta a La corrispondenza. Alla Festa, Tornatore approfondirà con il pubblico la sua passione per il noir, fra cinema e letteratura.

Tre i film in programma nella Selezione Ufficiale.

Alle ore 20, sempre in Sala Petrassi, si terrà l’anteprima del documentario in due parti, Corleone, il potere e il sangue e Corleone, la caduta di Mosco Levi Boucault. “Ho cominciato a ripercorrere la strada di Salvatore Riina. E del solo Riina, per avere un’unità narrativa dalla sua sanguinaria ascesa al potere fino alla sua caduta – ha detto il regista – Un Riina raccontato dai protagonisti che l’hanno

affrontato (il procuratore Ayala, il poliziotto Accordino) e da quelli che l’hanno assecondato (i suoi sicari Brusca, Marchese, Anzelmo, Mutolo). Da fuori e da dentro. E attraverso quelli che l’hanno assecondato, dare un’idea di che cosa è l’essere mafioso, la mafiosità”.

Alle ore 19.30 la Sala Sinopoli ospiterà Monsters and Men di Reinaldo Marcus Green. A Brooklyn, un uomo di colore disarmato viene ucciso dopo una lite con le forze dell’ordine. L’episodio è il punto di partenza di una complessa indagine, che vede coinvolto un distretto di polizia e un quartiere dove vive una comunità di persone strettamente unite tra loro. Nella vicenda sono implicati anche un testimone oculare che ha ripreso l’aggressione con il suo smartphone, un ufficiale di polizia e un giovane studente promessa del baseball. Attraverso i loro occhi, arriveremo a comprendere in profondità una comunità in fermento a causa di tensioni razziali, che lotta per un futuro migliore.

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Las niñas bien di Alejandra Márquez Abella sarà proiettato alle ore 21.30 presso il Teatro Studio Gianni Borgna Sala Siae. I protagonisti del film sono Sofía e Fernando, coppia della medio-alta borghesia: i due hanno tutto ciò che si può desiderare, denaro, belle case, domestici. Fernando ha ereditato tutte le sue ricchezze da suo padre, che le ha conquistate grazie all’aiuto dello zio Javier. Ma una sera, a cena, Javier annuncia che ha deciso di farsi da parte. Nubi oscure e minacciose si addensano all’orizzonte: una grave crisi economica si sta abbattendo sul Messico. Inizialmente il mondo di Sofía e Fernando sembra conservarsi intatto, ma gradualmente compaiono delle crepe nelle loro vite, mentre l’ordine economico e sociale sembra crollare intorno a loro. Sofía si vedrà costretta a salvare le apparenze, ma la sua caduta sarà ineluttabile.

#RomaFF13: Edoardo De Angelis racconta Il Vizio della Speranza

Quarto lungometraggio firmato da Edoardo De Angelis, due anni dopo il successo di Indivisibili (6 David di Donatello e 5 Nastri d’Argento), Il Vizio della Speranza è il primo dei film italiani presentati durante la tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma inaugurata ieri da 7 Sconosciuti a El Royale di Drew Goddard (qui potete leggere la nostra recensione).

Il regista, accompagnato all’incontro con la stampa dal cast insieme allo sceneggiatore e ai produttori, esordisce spiegando che il suo nuovo lavoro  “è l’immagine di un inverno dove tutto sembra morto, così accendiamo un fuoco per riscaldarci mentre aspettiamo che passi e che la natura rinasca e con essa ogni forma di esistenza. Nel film vince chi resiste e chi ha la pazienza di aspettare che qualcosa cambi. E quando questo succede, come nel caso di Maria [la protagonista], la scoperta di avere una possibilità diventa l’unica forma di sopravvivenza.”

Interpretata da Pina Turco (Gomorra – La serie), Maria è una giovane donna la cui esistenza scorre, senza sogni né desideri, mentre si prende cura della madre assente e lavora per una madame che gestisce un traffico illegale di neonati. Insieme al suo pitbull la ragazza traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine, eppure la speranza tornerà a farle visita nel modo più inaspettato e naturale possibile.

Per me la speranza è il seme di ogni rivoluzione“, interviene la Turco, “Tutto nasce dalla fiducia, e la fiducia diventa fede, con cui ognuno può scrivere il proprio destino. Niente era più semplice e bello come raccontare questa storia attraverso la nascita di un bambino, che è il miracolo della vita.” E sul lavorare con De Angelis ed essere diretta da suo marito, l’attrice confessa che “a spronarmi è stata la sfiducia iniziale di Edoardo, che era scettico sull’affidarmi un ruolo così importante. Non pensava fossi pronta. Ma questa sfiducia è diventata il mio vizio della speranza, l’ho coltivata, ho letteralmente mangiato la polvere e, infine, l’ho ringraziata“.

Festa del cinema di Roma: i nostri film più attesi

Nel cast figura anche Cristina Donadio, nota al grande pubblico per aver vestito i panni della boss Scianel nella serie Gomorra. E se per quel personaggio l’attrice partenopea aveva detto di essersi ispirata alla tragedia greca, qui è stato il valore della sottrazione la chiave per interpretare al meglio la sua Alba: “Scianel era un archetipo del male, da lì quindi il riferimento a Clitennestra, ma in questo caso avevo davanti un personaggio ancora più tremendo perché consapevole dell’orrore che mette nel rapporto con figlia. Una donna affetta da una sorta di catatonia esistenziale, che si fa scivolare vita addosso e che aveva bisogno di meno elementi possibili. Sarò sempre grata a Edoardo per avermi affidato Alba, perché questa storia mi ha ricordato cosa sia realmente il vizio della speranza…ogni volta che narri qualcosa che nasce da una ferita, tutto quello che viene fuori è un monito e un incantamento; così, anche nell’orrore di questa madre, c’è un monito e un incantamento, come tutte le anime perse del microcosmo che mostriamo“.

Con le parole dello sceneggiatore Umberto Contarello, condivise da tutti i presenti, ci si congeda riflettendo sul significato del film e sul tema: “Siamo partiti da un’idea, tortuosa ma bella proprio per questo, e cioè dal fatto che Edoardo volesse raccontare al cinema un tema universale, spirituale, mistico, religioso, insomma esplicitamente cristiano. E più andavamo avanti, più mi sembrava lampante come la nostra storia somigliasse ad una parabola. E in quanto tale aveva un cuore antichissimo, quasi arcaico, perché per essere universali devi attingere a quell’immaginario, mentre se attingi ad attualità non sei universale ma prigioniero di una galera. La nostra parabola affronta con coraggio un tema quanto mai attuale, ovvero la convinzione che un figlio nasca quando ha la culla pronta, quando invece il film ci sta dicendo che è il figlio a costruire la culla.”

Il vizio della speranza, la trama

Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un’esistenza trascorsa un giorno alla volta, senza sogni né desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. E’ proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è da sempre la più grande delle rivoluzioni.

#RomaFF13: è il grande giorno di Martin Scorsese

#RomaFF13: è il grande giorno di Martin Scorsese

La tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma celebra Martin Scorsese, uno dei più grandi cineasti della storia della settima arte: domani, lunedì 22 ottobre alle ore 19 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, il maestro statunitense riceverà il Premio alla Carriera, che sarà consegnato da Paolo Taviani.

Nell’occasione, Scorsese sarà protagonista di un Incontro Ravvicinato con il pubblico durante il quale ripercorrerà la sua carriera che lo ha visto autore di una straordinaria serie di capolavori da Mean Streets e Taxi Driver a Toro Scatenato, da Quei bravi ragazzi a Casinò, da Gangs of New York a The Departed – Il bene e il male, da The Wolf of Wall Street a Silence. Scorsese mostrerà inoltre alcune sequenze scelte fra i film italiani che hanno maggiormente influenzato la sua vita e la sua opera.

L’Incontro Ravvicinato con Martin Scorsese si svolgerà con il sostegno di Campari. Da sempre impegnato in primissima linea nella battaglia per la conservazione del cinema del passato, il regista ha poi selezionato per gli spettatori della Festa tre film per il cui restauro è stata impegnata la Film Foundation da lui promossa: domani, lunedì 22 ottobre, presso il Teatro Studio Gianni Borgna Sala Siae (ore 16.30) sarà la volta di Ganja & Hess di Bill Gunn (1973), restaurato da The Museum of Modern Art con il supporto di The Film Foundation.

Viste le numerose richieste, la Festa del Cinema ha organizzato un secondo appuntamento con Martin Scorsese, che incontrerà il pubblico prima della proiezione di San Michele aveva un gallo (mercoledì 24 ottobre ore 16 Sala Petrassi).

#RomaFF13: Drew Goddard presenta i suoi 7 sconosciuti a El Royale

Film d’apertura della tredicesima edizione della Festa del cinema di Roma, 7 Sconosciuti a El Royale (in originale Bad Times at El Royale) segna la seconda regia dello sceneggiatore Drew Goddard, candidato all’Oscar con The Martian, ma anche conosciuto come collaboratore di Joss Whedon e J.J.Abrams su Buffy: l’ammazzavampiri e Lost.

Ambientata all’interno di un misterioso e fatiscente hotel al confine tra California e Nevada, l’El Royale sul lago Tahoe, la pellicola segue l’incontro di sette estranei, ognuno con un passato da nascondere e un segreto da proteggere, in una notte decisiva per tutti.

Amo il cinema perché trascende ogni mondo e riesce a portare lo spettatore ovunque tu voglia.” esordisce con entusiasmo Goddard in conferenza stampa, “E qui volevo raccontare la storia di sette persone che si incontrano una notte nello stesso hotel, un luogo che riflette le loro caratteristiche e le loro sfumature, ma anche il concetto di dualismo e di come nulla corrisponda alle apparenze. Per questo era importante che El Royale fosse un crocevia fisico tra California e Nevada e che il suo design rappresentasse le differenze tra gli ospiti.”

Insieme al regista c’è una delle protagoniste, Cailee Spaeny (in scena interpreta Rose Summerspring, giovane vittima di una setta), che loda il lavoro di Goddard e parla del processo di preparazione al ruolo “fatto di lunghe chiacchierate con Drew per capire da dove venisse questo personaggio e quale fosse il suo background. Da sola invece ho provato a entrare nella testa di Rose, e visto documentari riguardanti le sette, cercando di capire quali fossero i suoi pensieri partendo dall’innamoramento verso Billy Lee [Chris Hemsworth] e dalle cose più semplici con cui riuscivo a relazionarmi.

7 sconosciuti a El Royale: il trailer del film con Chris Hemsworth

Amo lavorare con gli attori, ma più di tutto amo creare personaggi e creare storie dove questi entrano in un rapporto di empatia nonostante le differenze.” continua Goddard, “E sebbene la struttura del film sia formalmente complicata, mi sono concentrato proprio su di loro, senza rendere uno più importante dell’altro. Tutti erano sotto i riflettori, ognuno è protagonista sullo schermo, dunque il vero divertimento era scrivere gli incastri e il modo in cui questi entravano in scena“.

E a chi gli chiede da dove nasca questo splendido sodalizio con Chris Hemsworth, con il quale aveva già lavorato in Quella casa nel bosco (2012), e perché l’abbia voluto anche qui in Bad Times at El Royale, il regista risponde che “conoscere Chris da dieci anni mi ha permesso di vedere quanto è talentuoso e quante sfumature possiede come attore. Volevo dargli finalmente la possibilità di fare ciò che non aveva mai fatto finora al cinema, consapevole che abbia ancora degli angoli oscuri da esplorare“.

Sulla sceneggiatura del film Goddard ha spiegato che “il progetto è nato circa cinque anni fa, e all’epoca non avevo l’intenzione di raccontare una storia sull’onda del movimento Me Too che ha sconvolto Hollywood di recente. Si, ci sono personaggi femminili vittime del maschilismo tossico, e donne di colore in cerca di riscatto, tuttavia sono convinto che siano gli stessi temi e problemi che avevamo negli anni Settanta e che possiamo ritrovare nella società attuale. Purtroppo vivremo sempre in tempi durissimi, ma voglio sperare che dopo il buio ci sia sempre uno spiraglio di luce. E ci sarà sempre spazio per la redenzione. Credo che in tal senso, il centro del film sia proprio questo, espresso attraverso il potere dell’arte; perché l’amore di una donna per il canto ristabilisce l’inestimabile valore della musica in un periodo così buio, ed è ciò che intendo celebrare.

Vi ricordiamo che 7 Sconosciuti a El Royale arriverà nelle nostre sale il prossimo 25 Ottobre, distribuito da 20th Century Fox. Nel cast figurano, oltre alla Spaeny, Chris HemsworthDakota JohnsonJon Hamm e Jeff Bridges.

#RomaFF13: Drew Goddard e Cailee Spaeny inaugurano il red carpet

#RomaFF13: Drew Goddard e Cailee Spaeny inaugurano il red carpet

Sono Drew Goddard e Cailee Spaeny, rispettivamente regista e attrice di 7 sconosciuti a El Royale, le prime due star internazionali che hanno calcato il tappeto rosso della cavea dell’Auditorium Parco della Musica, nella prima serata della Festa del Cinema di Roma 13.

7 sconosciuti a El Royale: il trailer del film con Chris Hemsworth

Di seguito gli scatti di Aurora Leone:

#RomaFF13: Drew Goddard presenta i suoi 7 sconosciuti a El Royale

Vi ricordiamo che 7 Sconosciuti a El Royale arriverà nelle nostre sale il prossimo 25 Ottobre, distribuito da 20th Century Fox. Nel cast figurano, oltre alla Spaeny, Chris HemsworthDakota JohnsonJon Hamm e Jeff Bridges.

#RomaFF13: Claire Foy racconta la sua Lisbeth Salander

#RomaFF13: Claire Foy racconta la sua Lisbeth Salander

Presentato in anteprima mondiale alla tredicesima Festa del Cinema di Roma, The Girl in the Spider’s Web (Millennium: Quello che non uccide) è il nuovo capitolo della saga dedicata al personaggio Lisbeth Salander e adattamento del del primo romanzo della serie scritto da David Lagercrantz (edito in Italia da Marsilio Editori), che ha raccolto il testimone di Stieg Larsson.

Presenti alla rassegna capitolina per incontrare la stampa il regista Fede Álvarez, la protagonista Claire Foy (che a breve rivedremo al cinema in First Man di Damien Chazelle) e gli altri interpreti Sverrir Gudnason, Sylvia HoeksSynnøve Macody Lund.

A rompere il ghiaccio è il regista: “Quando ti approcci ad un progetto simile ma soprattutto ad una serie di cui è sono stati già prodotti diversi adattamenti il punto non diventa fare meglio di chi ti ha preceduto, ma fare ciò che pensi sia giusto per la storia. E se hai uno stile e un punto di vista originale è un valore aggiunto che renderà il film diverso dagli altri. D’altronde stiamo raccontando un mondo e dei personaggi che si sono evoluti nel tempo e nei romanzi, quindi era giusto cambiare insieme a loro e spingere sulle sfumature più noir, come se fosse un capitolo di 007“.

Quello che non uccide è il terzo lungometraggio di Alvarez dopo i due horror Evil Dead e Man in The Dark, due lavori che sembrano aver influenzato il suo approccio alla saga di Millennium: “La matrice dell’orrore mi ha aiutato senza dubbio, perché questo progetto si legava allo stesso tono delle altre cose che ho girato. A cominciare dalla costruzione della suspense e finendo con ciò che ritengo da sempre il mio obiettivo principale: realizzare due film contemporaneamente, uno per me e uno per il subconscio. C’è qualcosa che vedi sullo schermo, letterale, e qualcosa che cerchi di suggerire utilizzando la musica, la messa in scena, insomma tutti gli elementi del genere. Facendo come diceva Hitchcock, ovvero girando scene d’amore come quelle di morte, contraddire insomma ciò che mostri con qualcos’altro.”

claire foy festa di roma

Quello che non uccide: trailer e poster italiani del film con Claire Foy

Gli occhi della sala però sono tutti puntati verso la “Regina”, Claire Foy, nuova Lisbeth Salander dopo Rooney Mara nella pellicola diretta da David Fincher. Per lei calarsi nei panni questo personaggio è stato interessante perché “Lei non è la classica protagonista, non è piacevole e non vuole piacere per ovvie ragioni. Non cerca di essere attraente in ogni modo, è complessa e difficile, con una profondità d’animo incredibile. Abbiamo fiducia nel fatto che il pubblico possa accogliere qualcuno come lei di cui non si fida e pian piano entrare nella sua testa…perché magari è proprio questo che cercano e che cerchiamo, qualcuno di non convenzionale, vediamo in loro qualcosa che ammiriamo.”

E a dispetto dell’apparenza, Lisbeth non voleva sembrare l’ultima delle supereroine invincibili del grande schermo: “Non ho mai pensato che lo fosse, ma ne ho sempre ammirato il forte spirito di sopravvivenza e il modo di pensare e agire più velocemente di chiunque. Si nasconde dietro uno scudo di sicurezza che nasconde una grande fragilità, come se Davide e Golia convivessero nella stessa persona.

A chi invece chiede se ci sia una differenza d’approccio tra persone realmente esistite e persone frutto di finzione, l’attrice spiega che “il processo è uguale ogni volta, scegli il personaggio perché vuoi esplorare parti di te stessa nuove. O perché c’è qualcosa che riconosci che vuoi comunicare. Quando il personaggio è realmente esistito bisogna partire dal presupposto che qualsiasi cosa tu faccia sarà sempre sbagliato, e che non sarai mai quella persona; puoi solo pensare di poter portare te stesso e la tua esperienza nel ruolo. Un modo di lavorare liberatorio, istintivo, che implica un’immensa fiducia in te stessa e nel regista“.

Ma c’è qualche punto di contatto tra la hacker di Millennium e la Regina Elisabetta interpretata nelle prime due stagioni di The Crown? “Non direi che abbiano molto in comune. Tranne il fatto che per ragioni diverse provengono da un background in cui era vietato esprimere le proprie emozioni. Lisbeth pensa che le emozioni la rendano fragile, come quando nel primo libro capisce di essere innamorata di Mikael Blomkvist e questa cosa la terrorizza. Elizabeth invece è stata costretta in posizione sociale dove le emozioni non aiutano, almeno in pubblico.

Vi ricordiamo che Quello che non uccide arriverà in sala il 31 ottobre.

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#RomaFF13: Cate Blanchett illumina il tappeto rosso in John Galliano

Cate Blanchett è stata la protagonista del venerdì della Festa del Cinema di Roma, incontrando il pubblico e presentando il film di Eli Roth, Il mistero della casa del tempo. Ecco come ha sfilato sul tappeto rosso della cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, offrendosi ai fan e ai fotografi.

Dopo il completo Armani scelto per la giornata, la Blanchett ha indossato un Maison Margiela by John Gallianoper il red carpet. Ecco le foto di Aurora Leone:

#RomaFF13: l’incontro ravvicinato con Cate Blanchett

#RomaFF13: Alice nella città, i vincitori dell’edizione 2018

#RomaFF13: Alice nella città, i vincitori dell’edizione 2018

Sezione autonoma e parallela della Festa del cinema di Romadedicata alle giovani generazioni, Alice nella città ha svelato oggi i suoi vincitori. Tra gli 11 film in concorso nella sezione Young Adult la giuria di assegna il premio come miglior film a “Jelly Fish” primo lungometraggio di finzione di James Gardner che ci racconta una delicata storia d’identità sostenuta dal forte desiderio di fuggire via quando la tua famiglia e tutto il mondo intorno sembrano rimanere immobili. Un’opera onesta e dura – è la motivazione dei giovani giurati – che riesce a raccontare una situazione difficile con la crudezza che le appartiene. Con sguardo e tempi spietati Gardner racconta la vita di una giovane donna che tra senso di responsabilità e rabbia tenta di diventare adulta con ironia e forza.

Il premio speciale della giuria va invece all’attesissimo “Ben is Back” di Peter Hedges. Nel cast il figlio Lucas Hedges e Julia Roberts che per la stampa italiana ha regalato un’interpretazione da Oscar. Secondo la giuria il film racconta con umana fragilità l’amore di una madre, un amore che proteggendoci a volte ci impedisce di crescere, in un eterno ritorno di colpe e dipendenze. La sinergia tra la Roberts e Lucas Hedges racconta la lottà alla tossicodipendenza con uno sguardo inedito e disperato.

Il premio speciale della giuria per il miglior attore va a Thomas Blachard per “The Elephant and the butterfly” secondo lungometraggio della regista Amelie Van Elmbt prodotto dai Fratelli Dardenne con la produzione esecutiva di Martin Scorsese. Il film esplora la tensione tra reale e immagiario e mette in scena con grande delicatezza tutte le sfumature di tre giornate in cui una bambina si ricongiunge con il suo padre sconosciuto.

Il Premio giuria opera prima My Movies va a “The Harvesters“. “Siamo onorati di premiare questo film – dichiarano i giurati – per il suo stile cinematografico maturo e personale e inoltre per l’abilità del regista nel definire le contraddizioni e le fragilità di una società attraverso l’emozionante figura di un adolescente che combatte contro i terribili cambiamenti nella sua vita e il difficile distacco dalle tragedie della sua infanzia.”

Jelly Fish di James Gardner porta a casa un altro premio con la Menzione Speciale opera prima My Movies per la miglior interpretazione alla giovane protagonista Liv Hill.

Il Premio Roma Lazio FIlm Commission, rivolto alle produzioni del Panorama Italia girate nel territorio del Lazio va a Go Home, opera prima di Luna Gualano, un’iperbole che ci accompagna verso un horror allegorico, uno zombie movie, scritto da Emiliano Rubi che vuole utilizzare gli zombie come metafora per una società sempre più chiusa, spaventata, aggressiva nei confronti dei migranti, dei profughi, del “diverso da se” in generale.

Grazie alla collaborazione con Premiere Film quest’anno Alice ha inaugurato con grande successo il concorso Internazionale Cortometraggi. La giuria composta dal regista Fabio Guaglianone, dalla giornalista Rai Cinema Channel Manuela Rima, da Maria Theresia Braun di Studio Universal e dall’attore Edoardo Natoli decreta come vincitore “Beauty” di Nicola Abbatangelo per il dichiarato intento di mostrare e diffondere bellezza, per l’ambizione visiva e produttiva, per la padronanza della messa in scena e della gestione artistica e pratica di un micro sistema complesso, per l’esplorazione di un genete narrativo spettacolare e inusuale come il “musical”.

Da quest’anno Alice assieme a Leone Film Group promuove il talento presentando un format innovativo dal corto al lungo. I 10 registi concorrenti hanno partecipato a un campus di tre giorni e la giuria composta da Raffaella Leone, Marco Belardi, Maite Bulgari, Ughetta Curto, Serena Lonigro e Carlo Salem assegna il primo premio a “Il mondiale in Piazza“. Il regista Marco Belardi si aggiudica un premio di 3000 euro per l’opzione del soggetto di 18 mesi e il possibile sviluppo della sceneggiatura.

Per Istant Stories Alice Cinemotore Award la giuria composta da Paolo Genovese, Nicola Giuliano, Nicola Maccanico, Antonio e Marco Manetti e Paola Minaccioni ha assegnato il premio a Ilaria Marchetti per “Another me“, una storia innovativa e coinvolgente.

 

TUTTI I PREMI

Young Adult – Concorso

Miglior film
“Jelly Fish” di James Gardner

Menzione speciale
“Ben is Back” di Peter Hedges

Miglior attore
Thomas Blanchard – The Elephant and the butterfly di Amelie Van Elmbt

Giuria Opera Prima – My Movies

Primo Premio
“The Harvesters” di Etienne Kallos

 

Menzione speciale miglior attrice
Liv Hill – Jelly Fish

 

Premio Roma Lazio Film Commission
Go Home – Luna Gualano

 

Concorso internazionale cortometraggi
“Beauty” di Nicola Abbatangelo

 

Dal corto al lungo – Leone Film Group
“Il mondiale in piazza” – Marco Belardi

 

Istant Stories Alice Cinemotore Award
“Another Me” di Ilaria Marchetti

#RomaFF13: 7 sconosciuti a El Royale di Drew Goddard apre la Festa di Roma 2018

Bad Times at the El Royale (7 sconosciuti a El Royale) scritto e diretto da Drew Goddard sarà il film di apertura della tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma (18 – 28 ottobre 2018) al via oggi nei magnifici luoghi dell’Auditorium. Lo annuncia il Direttore Artistico Antonio Monda in accordo con Laura Delli Colli, alla guida della Fondazione Cinema per Roma, e Francesca Via, Direttore Generale.

L’opera seconda di Drew Goddard – autore della sceneggiatura di Cloverfield e The Martian, che gli è valsa una candidatura all’Oscar®, creatore della serie Netflix Daredevil e regista di Quella casa nel bosco – rientra nella grande tradizione del noir: all’interno di un misterioso e fatiscente hotel al confine tra California e Nevada, l’El Royale sul lago Tahoe, si incontrano sette estranei, ognuno con un passato da nascondere e un segreto da proteggere. La notte del loro incontro sarà un momento decisivo: tutti avranno un’ultima, fatidica possibilità di redenzione. Nel cast del film, il premio Oscar® Jeff Bridges, Cynthia Erivo, Dakota Johnson, Jon Hamm, Cailee Spaeny, Lewis Pullman, Nick Offerman e Chris Hemsworth. Il film uscirà nelle sale italiane il 25 ottobre distribuito da 20th Century Fox.

7 sconosciuti a El Royale: ecco il trailer del film con Chris Hemsworth

Bad Times at the El Royale è un film raffinato, intelligente, ironico, sorprendente ed elegante – ha detto Antonio Monda – All’interno della grande tradizione del noir, Drew Goddard dirige magnificamente uno splendido cast, divertendosi a svelare i segreti dei protagonisti, e regalandoci soprattutto il piacere del vero cinema”.

#Romaff13, Tye Sheridan presenta il film Friday’s Child

#Romaff13, Tye Sheridan presenta il film Friday’s Child

Nella rassegna dedicata ai più giovani di Alice nella Città durante la Festa del Cinema di Roma 2018, è stato presentato il film di A.J. EdwardsFriday’s Child”, con Tye Sheridan, Imogene Poots, Caleb Landry Jones e Jeffrey Wright.

Tye Sheridan interpreta Richie, un ragazzo cresciuto tra una famiglia affidataria e un altra, senza una vera e propria figura di riferimento o qualcuno a cui dar conto delle sue azioni. Inevitabilmente impara a farsi valere da solo, qualche furto qua e là, ma anche tanto duro lavoro, soprattutto quando decide di lasciare il sistema della foster care e diventare “adulto” a 18 anni andando ad abitare da solo. Per caso conosce Joan (Imogene Poots) e tra i due inizia una frequentazione, scaturita soprattutto dalla voglia di non stare soli. Joan ha un background diverso da quello di Richie, ma questo non crea un ostacolo per loro. Una mattina, la signora da cui Richie aveva preso in affitto una stanza (Brett Butler) viene trovata morta nel suo ufficio e Richie entra nella cerchia dei sospettati. In questa lenta spirale di avvenimenti, per Richie non aiuta la sua amicizia con Swim (Caleb Landry Jones), un tossico conosciuto una notte su un autobus che non lo vuole lasciare in pace.

Il regista A.J. Edwards lascia parlare le immagini riducendo al osso i dialoghi tra i personaggi, sia perché il suo personaggio Richie non è di molte parole e ma anche perché è evidente l’influenza del suo grande maestro Terrence Malick, con cui ha lavorato a The Tree of Life, film nel quale c’era sempre lo stesso Sheridan, che cerca un po’ di imitare nello stile. Quello che ne esce è un film confuso, con grandi ambizioni ma che fallisce nel far arrivare un messaggio chiaro allo spettatore, che si ritrova a spiare nella vita di Richie senza effettivamente capirci molto. Quello però in cui riesce bene il film è mettere in risalto il talento di Sheridan, un attore versatile e molto promettente.

Tye Sheridan è arrivato a Roma per presentare il film e ha parlato di come è nata l’amicizia con il regista: “In realtà conosco A.J. Edwards, scrittore e regista di questo film, da quando avevo 10 anni, quindi è la persona che conosco da più tempo in questa industria. È stato davvero bello risentirci adesso, in un momento diverso delle nostre vite, nonostante fossi rimasto sempre in contatto con lui durante gli anni. Mi ha presentato il progetto e mi ha detto che era un film molto importante per lui perché toccava argomenti importanti e parlava del Texas, dove entrambi siamo nati e cresciuti. Sono così orgoglioso di vedere quello che sta riuscendo a fare come film-maker e quello che ha imparato anche da Malick: è stato davvero bello fare questo film insieme”.

“A.J. ha fatto tutto da solo, le ricerche sulla problematica e si è messo in contatto con diverse fondazioni che operano nel territorio del Texas per aiutare i ragazzi in affido e questo ha dato molta autenticità alla storia e al mio personaggio”, ci ha detto Tye, parlando dei temi trattati nel film e continua, “A.J. mi ha dato diversi libri da leggere per capire meglio cosa si potrebbe ad essere un foster kid e la maggior parte parlavano proprio della loro emancipazione dalle famiglie affidatarie, quindi è stato utile per me questo materiale. Altri invece trattavano cose basiche, come fare il bucato, come cambiar l’olio alla macchina… Insomma cose normali, ma che ad esempio a me sono state insegnate dai miei genitori e che ho sempre dato per scontato e che invece per altri ragazzi sono grandi difficoltà. Questo mi ha fatto capire questi ragazzi che tipo di background hanno e soprattuto di che tipo di supporto avrebbero bisogno”.

Accanto a lui nel film c’è Imogene Poots, un’altra stella nascente del panorama del cinema indipendente e  per Tye, l’aiuto del regista è stato essenziale per lavorare con lei: “È molto importante essere sempre rispettosi del lavoro altrui ma soprattutto essere sulla stessa pagina e nel caso di questo film il merito va ad A.J. Edwards che ha fatto un lavoro enorme nel guidare il cast. Per quanto riguarda il mio personaggio e quello di Imogene, è stato sempre molto interessante esplorare i contrasti tra i due: il mio usciva dalla foster care, mentre lei, anche se non si sa granché del suo passato, si vede che proviene da una vita più agiata, ha avuto un educazione e una famiglia alle spalle. Quindi la cosa più interessante era proprio vedere la chimica che creavano insieme questi due personaggi”.

Visto che Olivia Cooke dice di aver firmato un contratto per tre film, è impossibile non chiedergli se farà parte del futuro di Ready Player One, il film di Steven Spielberg di cui è protagonista che lo ha reso famoso: “Non so che contratto abbia firmato la mia costar Olivia, non ne so niente, mi piacerebbe vedere questo contratto. Detto questo, sicuramente prenderei in considerazione l’idea di partecipare ad un possibile sequel” e infine, dopo Malick e Spielberg, con che registi gli piacerebbe lavorare? “Ce ne sono tantissimi, ma sono sempre stato un grande fan di Paul Thomas Anderson e anche Darren Aronofsky. E poi è pieno di nuovi giovani talenti e mi piacerebbe molto esplorare e provare con loro nuove strade”.

#Romaff13, Paolo Virzì presenta Notti Magiche

#Romaff13, Paolo Virzì presenta Notti Magiche

A chiusura della Festa del Cinema di Roma, Paolo Virzì è arrivato per presentare al pubblico il suo ultimo film, Notti Magiche, la storia di un omicidio ambientato proprio durante Italia ’90, che sarà al cinema dall’8 novembre 2018. Il regista Virzì, accompagnato da Giancarlo Giannini, Marina Rocco e i tre ragazzi protagonisti esordienti, Mauro Lamantia, Giovanni Toscano e Irene Vetere, ha raccontato come è nata l’idea dietro questo film, scritto insieme a Francesca Archibugi e Francesco Piccolo.

“Quella stagione lì ha suscitato delle emozioni che sono rimaste evidentemente indelebili, che poi si sono trasformate in qualcos’altro, come nostalgia o si riaffacciavano nei sogni quelle giornate e nottate che sono rimaste memorabili. C’è sicuramente qualcosa di autobiografico, come si fa sempre: si prendono cose che si conoscono, elementi della propria vita e si usano per trasformarli in qualcos’altro. Ci sono senz’altro pezzetti della mia e delle vostra vita e ricordi però allo stesso tempo c’è il disegno narrativo, l’affresco di una grande galleria di personaggi e ritratti. E c’è anche la seduzione potente che suscitava avvicinarsi alla corte dei grandi maestri del cinema, in una stagione bellissima e le emozioni di un ragazzetto come me che a 20 anni sognava di lavorarci: tutte cose reali che abbiamo voluto mettere in questa storia. E soprattutto c’è uno spirito che è controverso perché da una parte aderisce a questo mito ma dall’altra c’è la burla, canzonatura e quel modo caricaturale di raccontare”.

Quanto ha pesato su di te e sulla tua generazione questa eredità del grande cinema italiano?

Si però d’altro canto è lo stesso problema con cui si confrontavano loro quando erano giovani. Avendoli conosciuti da vicino io so quanto in realtà simulassero in realtà un sentimento di sofferenza verso il fatto che certa critica li sminuisse rispetto a qualcosa che era ritenuto più nobile o quello che era reputato un cinema d’autore o che era la parte più seria del cinema. Ad esempio La Grande Guerra quando uscì suscitò molto dissenso, oggi lo celebriamo. Comunque io ho deciso di fare questo film, mi ci ha fatto pensare Francesco Piccolo in un intervista, il giorno in cui abbiamo salutato Ettore Scola alla Casa del Cinema: sentivo che con lui erano andati via un po’ tutto e avevo voglia di dire loro ‘Grazie’. Ma avevo voglia anche di fare come loro e prenderli in giro, ‘Vi voglio bene ma mi avete anche insegnato l’arte di essere irriverente’ e quindi ho voluto raccontare quanto fossero seducenti ma anche terribili i grandi maestri del cinema italiano.

Sono 25 anni dalla morte di Fellini e nel film c’è un ultimo ciack girato da lui che sembri simboleggiare uno spartiacque tra quello che era la commedia e quello che è il nuovo cinema…

Sì, proprio uno dei motivi per cui abbiamo pensato di ambientarlo per 1990 è perché è stato l’anno dell’ultimo film di Fellini. Tra l’altro ho chiesto il permesso a Roberto Benigni di usare la sua voce e ci ha rivelato una cosa che non sapevo, che per davvero l’ultima scena inquadrata è stata proprio l’ultima scena girata da lui… Proprio come l’abbiamo inscenata noi.

Notti Magiche: Il trailer

Come mai ha deciso di ambientare la storia proprio durante la notte dei Mondiali?

Quello è un espediente narrativo per far riverberare un evento che ha riguardato tutta l’Italia e c’è anche una piccola considerazione sul cinema e su che cosa vuol dire raccontare. Ed è interessante notare come mentre avviene qualcosa di rilevante qualcuno guarda qualcos’altro. Qui mentre avviene il principale evento del nostro racconto, tra l’altro un evento piuttosto notevole, nessuno se ne accorge perché sono tutti a guardare il rigore sbagliato.

Nel film si fanno nomi e cognomi, mentre di altri no… Come mai?

Il sistema usato è stato molto semplice: laddove i grandi personaggi erano menzionati con nome e cognome noi li guardavamo da lontano, perché non mi potevo permettere di ricreare persone come Scola o Scarpelli. Laddove invece li abbiamo avvicinati, abbiamo cambiato i loro dati biografici e ci siamo sentiti liberi di prendere dei pezzetti di ciascuno in modo più umoristico, parola che poi ci hanno insegnato proprio loro.

Giancarlo Giannini, si è ispirato a qualcuno in particolare per creare il suo personaggio?

Tutti dicono Cecchi Gori, in realtà per niente! Anzi io ho lavorato con lui, gli ho anche fatto degli scherzi molto strani: ad esempio una volta che stava producendo un film per me e doveva darmi una barca per una settimana, ho chiesto ad un aiuto regista una forbice, mi sono tagliato dei capelli e me li sono riattaccati in testa e sono andato nel suo studio e facendo finta di strapparmi i capelli gli dicevo “guarda che succede!”, insomma… Lo conoscevo molto bene! Invece no, mi sono ispirato ad un altra persone, di cui non farò mai il nome perché è anche un mio amico. Ma questo film è bello perché è così autobiografico anche per me, anche io ricordo perfettamente questi momenti. Virzì invece aveva l’età dei protagonisti a quel tempo e quindi è autobiografico in modo anche un po’ malinconico. Io ho incontrato questi grandi registi come Pasolini, Antonioni e alla fine, quando li conoscevi, erano le persone più semplici del mondo. Ad esempio Fellini alle 4 del mattino sul set che mi faceva vedere in una stagnola del parmigiano dicendomi ‘Vieni qua ci facciamo degli spaghetti al ragù con questo parmigiano appena arrivato da Parma’ e così io infatti ho una foto con lui che mangio gli spaghetti. E Virzì è un po’ come loro: è sempre sul set con il sorriso, malinconico forse, ma il cinema è un gioco. Per tornare alla domanda, ho messo insieme tante persone che ho conosciuto e mi sono divertito a fare il produttore che frega le persone, perché era sempre senza una lira come tutti i produttori e allora doveva inventarsi delle storie ammaliando questi giovani portandoli sul set di Fellini in un modo o in un altro. Si può dire che il film ha una curiosa malinconica verità ma comunque abbastanza  sincera… Che è quello che io ho scoperto in Virzì, un regista che ride ride, perché si diverte prendendo in giro e rappresentando in modo ironico quei tempi.

Notti Magiche è un film su quel tempo, ma anche sull’oggi: che cosa si rimpiange  di quell’epoca e invece cosa siamo contenti non ci sia più?

Non c’è dubbio che quello era un modo originale di avvicinarsi al cinema, per un giovane aspirante l’unica strada era intrufolarsi su un set per avvicinarsi nella corte di un maestro. Adesso si può girare anche un film con uno smartphone, metterlo in rete e sperare di avere milioni di visualizzazioni, ma il ricambio generazionale è un tema sempre attuale. Un altro dei conflitti che mettiamo in scena è quello ‘maschi contro femmine’, che probabilmente c’è ancora ma a livelli diversi. Una cosa che raccontiamo di quella stagione del cinema è che era un ambiente molto maschilista, fatto tutto da uomini e dove le poche femmine si mascolinizzavano. E in questo senso mi fa molto pace aver scritto questo copione Francesca Archibugi, che è stata, oltre che una amica e sorella, la prima regista italiana ad andare sul set con la gonna. Non sto dicendo un iperbole, è stato proprio così e ha segnato la fine di un’epoca. E mi fa piacere vedere che, nonostante il nostro sia un paese macista con elementi di squilibrio nel rapporto tra i due sessi, dati bassissimi di accesso al lavoro da parte delle donne, ci siano tante brave autrici nel nostro cinema.

 

 

 

#RomaFF13, Michael Moore: “Sono molto preoccupato per la situazione del cinema oggi”

Protagonista della terza giornata della Festa del Cinema di Roma è il regista Michael Moore, autore di documentari come Fahrenheit 9/11 (Palma d’Oro al Festival di Cannes) e Bowling a Columbine (premio Oscar al miglior documentario). Moore presenta nella Selezione Ufficiale della Festa il suo nuovo film, Fahrenheit 11/9, dedicato alla vittoria politica di Donald Trump e al suo governo.

Sin dal suo ingresso sul palco Moore si dimostra energico, ricco di voglia di parlare senza freni di ciò che più gli sta a cuore della società odierna. Questo suo brio viene ripagato con numerose ovazioni di approvazione, che sembrano essere il segnale di una contraccambiata voglia da parte del pubblico di documentazione concreta sui temi più attuali del mondo contemporaneo, cosa con cui Moore ha da sempre soddisfatto i suoi appassionati.

“Sono molto preoccupato per la situazione del cinema oggi. – esclama Moore, inaugurando così l’incontro –  Quand’ero giovane nei cinema americani si trovavano film provenienti da tutto il mondo. Oggi la situazione è cambiata, e difficilmente si riescono a trovare altri film da quelli americani nei cinema degli Stati Uniti. Il cinema è la forma d’arte del popolo, di cui ognuno può e deve beneficiare. È una forma d’arte che va assolutamente protetta. La minore possibilità di vedere film stranieri ci rende meno consapevoli del mondo che ci circonda, e questo porta all’ignoranza.”

“Circa il 60% della popolazione degli Stati Uniti non ha un passaporto, – continua il regista – il che significa che non ha mai lasciato il proprio paese, non ha mai viaggiato per il mondo. Quindi il cinema diventa per queste persone l’unica porta verso il resto del mondo. È quindi fondamentale non soltanto che il cinema venga salvato, ma che prosperi anche.”

Una volta rotto il ghiaccio, il regista passa ad esprimere, senza peli sulla lingua, il bisogno di produrre sempre più opere artistiche di valore, in grado di far sopravvivere l’arte cinematografica. “Nel cinema che gestisco, mi impegno a far vedere film che provengono da tanti paesi del mondo. Questo dev’essere un impegno reciproco. D’altra parte anche l’Italia deve continuare ad impegnarsi a produrre film di valore, che siano grande arte, così come il cinema italiano ha fatto negli ultimi cento anni. Quindi meno schifezze, più cinema di valore.”

Si entra poi nel vivo dell’incontro e del dibattito, inevitabilmente e giustamente politico, parlando del nuovo film che Moore presenta quest’oggi in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Un affresco liberale e anticonservatore che non prende di mira solo l’amministrazione degli Stati Uniti, ma anche le politiche dei Democratici e dei Repubblicani che hanno portato all’attuale situazione politica.

FAHRENHEIT 11/9 Michael Moore

Da Fahrenheit 9/11 a Fahrenheit 11/9, da Bush a Trump, Moore è chiamato a esporre ciò che secondo lui è cambiato in questi anni nella società americana. “La presenza di Trump non mi farà mai, mai rimpiangere Bush. Egli è un criminale di guerra. Purtroppo non molto è cambiato dal governo Bush al governo Trump. Entrambi hanno preso il numero minore di voti, eppure hanno vinto. Questa non è democrazia. E la colpa è anche dei democratici, che già all’epoca di Bush avrebbero dovuto battersi più duramente affinché questa clausola presente nella nostra Costituzione venisse modificata.”

Altro bersaglio, contro cui Moore si scaglia ferocemente nel suo film è quello dei media, colpevoli di aver instupidito la gente. “I media non hanno prestato attenzione a ciò che stava succedendo nel paese. Hanno vissuto nella loro bolla, non per strada. Non parlano con la gente, ma raccontano le storie che vogliono raccontare. La stampa ama Trump, perché lui è puro intrattenimento da tabloid. Lo amano a tal punto da avergli dato il soprannome affettuoso di “The Donald”. Tutti ridevano quando lui disse di volersi candidare alla presidenza. Io tentai di far notare la gravità della cosa, di far notare che lui non stava affatto scherzando, ma tutti mi ridevano dietro. “La gente è troppo intelligente per votare uno così”, ma la gente non è assolutamente intelligente.”

L’ignoranza è dunque per Moore la causa dei mali del nostro mondo. “Se distruggi l’istruzione, se si chiudono le biblioteche, se si consente alle grandi multinazionali di acquistare e controllare i media, e se poi su questi media si raccontano esclusivamente cose che fanno appello alla stupidità che è in tutti noi, alla fine si finisce con il rincretinire un’intera nazione. E l’ignoranza porta ad eleggere personalità come Trump, o Berlusconi e Salvini qui in Italia.”

Fahrenheit 11/9

“La causa di questi disastri politici è da imputare anche ai partiti di sinistra. – continua Michael Moore, sempre più politico e spietato – Gli italiani, come è successo negli Stati Uniti, vedono Salvini e lo trovano divertente, vedono in lui dell’intrattenimento. Ma non c’è assolutamente nulla di intrattenimento in quello che fa. E questo penso sia colpa della sinistra, che ha lasciato che questo avvenisse. La sinistra, negli Stati Uniti come forse anche qui in Italia, ha cominciato a pensare che per vincere contro queste persone fosse meglio non essere troppo di sinistra, ma più di sinistra centro, un po’ più a destra, magari definendosi come dei “Berlusconi intelligenti”, ma come si possono anche solo accostare queste due parole? Questo è stato il loro più grande errore. Ciò che ha portato le persone a votare queste figure politiche è il fatto che queste si mostrano per quello che sono, se fanno una dichiarazione idiota ne sono orgogliose. Un po’ come Bush, che si faceva vanto di arrivare a malapena alla sufficienza, come a voler dire al popolo “vedete, io sono come voi”. All’epoca di mio padre, in fabbrica, tutti volevano votare John Fitzgerald Kennedy perché egli aveva avuto l’opportunità di studiare e aveva un intelletto superiore, che quindi potesse fare qualcosa di meglio per il paese.”

Concludendo l’incontro, Moore riassume la sua speranza, che cerca di concretizzare anche attraverso i suoi film, di una maggior attenzione globale nei confronti del cambiamento della società che ci circonda. “Solo l’interesse verso l’altro può permetterci di riappropriarci delle nostre facoltà fondamentali, come quelle di scelta e pensiero.”

#Romaff13, George Tillman Jr.: “Una sola voce può essere l’inizio del cambiamento”

Il regista George Tillman Jr. è arrivato a Roma per presentare alla Festa del Cinema il film The Hate U Give, tratto dall’omonimo romanzo di Angie Thomas che narra la storia di Starr, una ragazza Afro americana che assiste alla morte del suo amico Khail per mano della polizia. 

Quando ha scoperto questo romanzo e cosa l’ha colpita di questa storia?

A gennaio 2016 stavo lavorando alla serie tv Luke Cage per la Marvel e la Disney e fui molto fortunato perché il libro non era stato ancora pubblicato e io l’ho letto in anteprima. Appena l’ho iniziato a leggere ho capito che ero realmente connesso alla storia e mi ci sono subito ritrovato. Per prima cosa ho parlato al telefono con la scrittrice Angie Thomas e una delle cose che più mi hanno colpito era questa idea di identificazione che c’era alla base. Nella cultura afroamericana cec questo modo di comportarsi che si chiama “code switching”, che in poche parole significa che sei un afroamericano quando sei nella tua comunità ma quando vai nel mondo dei bianchi cambi quello che sei. Diventi qualcun altro solo per far sentire meglio le altre persone e questa è una cosa che tutti gli afroamericani affrontano ogni giorno anche se va bene essere se stessi. Ero molto legato alla storia personale di Starr: sentivio che l’idea della police brutality fosse una storia importante ma è la storia di Starr che cerca la sua voce rimanendo se stessa e non compromettendosi, che mi ha veramente colpito.

Non pensa che il problema alla base sia che la popolazione americana detiene il 40% delle armi nel mondo?

Certamente e infatti questa è un altra parte della storia della Thomas che mi ha colpito molto: c’è un enorme problema relativo al controllo delle armi. Ma perché la razza è un problema così grande? Io penso che sia possibile ricollegarlo al capitalismo e di conseguenza ai primi schiavi: quando gli schiavi cercavano di scappare c’erano le pattuglie che li prendevano e li riportavano nelle loro terre. Le forze di polizia in America sono un evoluzione delle pattuglie degli schiavi e una cosa dopo l’altra è normale che la razza sia così rilevante in questo discorso. La frase più importante che viene detta nel film secondo me è “Il colore della nostra pelle è la nostra arma”: tutto è riconducibili alla schiavitú, alle proprietà, al commercio… quindi riconducibile al controllo delle droghe nella comunità, dei lavori, delle prigioni e infine di nuovo al capitalismo. È tutto un enorme cerchio e chi è che ne paga le conseguenze? Il controllo delle armi è sicuramente un grande problema ed è per questo che ho voluto venisse rappresentato nel film.

All’inizio del film Starr viene istruita e le vengono detti quali sono i suoi diritti: non sarebbe giusto che ogni ragazzino, bianco o nero, ricevesse una lista dei diritti di cittadino?

C’è una grande divisione al momento nel paese di genitori che fanno discorsi ai propri figli. Il “discorso” che viene fatto ai bambini bianchi o privilegiati riguarda le api e i fiori, al fatto che vanno usati i preservativi e che bisogna essere rispettosi e rispettare l’altro quando si parla di sesso. Invece in altre comunità, che siano afroamericane o di ceto sociale più basso, bisogna affrontare il problema della violenza da parte della polizia, quindi il “discorso” è molto importante perché concerne la loro vita di tutti i giorni e il loro modo di sopravvivere. In alcune parti dell’America certe persone non hanno mai sentito questo tipo di “discorso” ed è per questo che il film inizia partendo dalla strada di questa comunità come tante fino a che non si avvicina ed entra nella finestra di questa famiglia. È una situazione di tutti i giorni. Quindi c’è una grande divisione su gente totalmente ignara di questa realtà perché la loro vita privilegiata gli ha permesso di mai doversi preoccupare di come comportarsi di fronte alla polizia. Penso che tutti i genitori però dovrebbero insegnare queste cose o almeno a rispettare gli altri, ascoltare, aiutare e far notare che il problema esiste.

Partendo dal libro, quale è il messaggio che voleva comunicare da regista?

C’è una scena alla fine che è stata una mia interpretazione rispetto a cosa c’è nel libro e il suo significato è che queste cose non devono continuare ad accadere e il saper usare la propria voce, sia da piccoli che da adulti, è molto importante. Lottare per le cose in cui si crede anche se bisogna superare grandi ostacoli è il messaggio che volevo far trasparire come regista e anche che una sola voce può influenzarne tante altre o far pensare a cose a cui ancora non si era pensato.

Alla Festa del Cinema è stato presentato il film di Barry Jenkins un film che affronta la stessa tematica e lui aveva un idea abbastanza precisa che nonostante tutto l’odio, abbiamo tanta bellezza, dignità e forza per superarlo. Dal punto di vista del suo film, crede che queste cose possano bastare a superare queste tragedie?

Si è questa è una cosa molto importante per me parlando di Starr e la famiglia Carter. Ricordo anche quando, negli anni 70, mio padre venne licenziato e circa nello stesso momento un giovane uomo venne ucciso non lontano da casa nostra. Lui ci disse che siccome era stato licenziato sarebbe stato un Natale più duro e ricordo perfettamente che nonostante questo è tutto quello che stava succedendo nella nostra comunità, la mia famiglia restò concentrata, felice, unita, gioiosa: c’erano risate e c’erano anche lacrime. La vita in famiglia era piena di alti e bassi, non solo nella nostra ma anche la vita dei nostri vicini, ma trovavamo sempre un motivo di gioia. Quello che volevo fare con la famiglia Carter era proprio questo: mostrare checnonostante fossero tempi duri, trovavano comunque il modo di essere uniti, felici, ridere e pregare insieme. E penso che questo sentimento sia universale: si trova sempre qualcosa di buono per andare avanti e questo è di grande ispirazione per me.

C’è in progetto di mostrare questo film nelle scuole, ai più giovani, visto che insegna quanto la parola possa essere potente se usata in modo corretto?

Si, quella è una lezione molto importante. Voglio veramente che i ragazzi vedano questo film perché per prima cosa i social media hanno un impatto molto grande nella loro vita: ad esempio in una scena Starr mette su Tumblr delle foto di altre persone uccise dalla polizia e la sua amica non ne è felice perché non vuole effettivamente vedere queste cose e questo le fa capire che è solo il primo passo nell’usare la propria voce. Ma una delle cose che facciamo con i più giovani è dirgli di dover usare la loro voce per poi censurare, magari dicendo “forse non lo dovevi dire” o “non lo hai detto nel modo giusto”. Questa era una cosa che volevo affrontare nel film: far capire che sei hai qualcosa da dire bisogna dirla, senza avere paura. Non volevo fare un film young adult, anche perché ho oltre quarant’anni: volevo fare un film per tutti perché so che i ragazzi sono molto sofisticati, sono svegli, si informano e sentono puzza di cavolate non appena le vedono. Per questo volevo un film che avesse un vero impatto su di loro. 

Avere Trump a capo del paese, cosa comporta per questo tipo di battaglia?

Riguardo a Trump, stanno per arrivare le elezioni di mezzo mandato quindi spero che ci sarà un cambiamento. Ho voluto fare questo film perché penso che gli USA siano molto divisi in termini di razza e classi più che mai e penso che Starr e gli altri giovani nel film possano raccontare bene cosa sta succedendo nel paese in questo momento. 

Parlando del titolo del film, non c’è il rischio che le nuove generazioni siano già compromesse? Lei è fiducioso?

Amo molto l’idea del titolo, The Hate U Give, che proviene da “Thug Life” (The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody), una cosa che si inventò Tupac ad inizio anni 90, dopo un confronto con un poliziotto ad Atlanta. Si tratta della gerarchia di potere e del fatto che tutto l’odio che si riceve da piccoli, dalla comunità, dalla mancanza di lavoro, dalla violenza della polizia… tutto torna indietro, perché i giovani sono svegli, stanno attenti e captano tutto. Quindi come si potrebbe cambiare? Cosa succederebbe se la gerarchia di potere desse amore invece che odio? Tornerebbe indietro amore. Per questo ho voluto fare il film, per farci questa domanda: come ricominciamo tutto da capo? Come facciamo a cambiare? Per prima cosa si deve fare una cosa molto semplice: iniziare a a trattarci tra di noi in modo migliore. 

#RomaFF13, Cate Blanchett apre gli Incontri Ravvicinati

Cate Blanchett, una delle interpreti più intense e raffinate del cinema contemporaneo, due volte Premio Oscar, inaugurerà il programma degli Incontri Ravvicinati della tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma: domani, venerdì 19 ottobre alle ore 17.30 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, l’attrice australiana salirà sul palco per ripercorrere con il pubblico la sua straordinaria carriera.

Premiata dall’Academy per le interpretazioni in The Aviator di Martin Scorsese e Blue Jasmine di Woody Allen, sette volte candidata all’Oscar dal 1999 a oggi, Cate Blanchett vanta un’eccezionale lista di collaborazioni, da Steven Spielberg a Peter Jackson, da Wes Anderson a Ron Howard, da David Fincher a Steven Soderbergh, da Shekhar Kapur a Todd Haynes. Alla Festa del Cinema l’attrice australiana parlerà anche della sua attività quotidiana nell’ambito di iniziative sociali e ambientaliste: nel 2016 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati l’ha nominata Goodwill Ambassador per il suo impegno umanitario.

Cate Blanchett è inoltre protagonista del nuovo film di Eli Roth, The House With a Clock in Its Walls, che sarà presentato al pubblico alle ore 19.30 nella Sala Sinopoli. “Volevo che questo film facesse molta paura, e penso che ci si possa divertire e spaventare allo stesso tempo – ha detto il regista – Film come Gremlins ed E.T. lo hanno dimostrato. È una storia che racconta come, quando accadono cose terribili, alcuni vogliono andare avanti e affrontarle, mentre altri vorrebbero tornare indietro nel tempo per non farle succedere. È un vero film horror per ragazzi e famiglie”.

#RomaFF13, Barry Jenkins: “Il mio cinema celebra la bellezza della vita”

La vita di Barry Jenkins, regista cresciuto nel quartiere di Liberty City a Miami, è totalmente cambiata dopo l’Oscar vinto con Moonlight nel 2017 (ricordate la gaffe dei presentatori che pronunciarono per errore il nome di La La Land?). “Solo un po’, ma perché adesso – al contrario di qualche anno fa – la gente inizia a rispondere alle mie mail. Oggi la sfida è saper dire di no e rifiutare le proposte con saggezza“, racconta Jankins sorridente durante la conferenza stampa di If Beale Street Could Talk, terzo lavoro presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo il passaggio a Toronto.

Il film traduce sul grande schermo il romanzo omonimo di James Baldwin, ambientato negli anni settanta nel quartiere di Harlem, a Manhattan, dove la diciannovenne Tish e il fidanzato Alonzo, detto Fonny, sognano un futuro insieme. Ma quando il ragazzo viene arrestato per un crimine che non ha commesso, Tish, che ha da poco scoperto di essere incinta, fa di tutto per scagionarlo, con il sostegno incondizionato di parenti e genitori.

If Beale Street Could Talk

Sono un fan di Baldwin fin dai tempi del college, dove fu una ragazza con cui stavo e che mi mollò a suggerirmi di leggere questo libro. Amo il suo modo di scrivere e l’espressione della sensualità attraverso una voce che riesce a combinare amore, passione e critica del sistema giudiziario e sociale nei confronti dei neri in America“, spiega Jenkins soffermandosi sul processo di adattamento cinematografico: “Come sceneggiatore e regista cerco sempre di restare fedele allo spirito del romanzo, m anche di riflettere nel film il mondo in cui sono cresciuto e tutto ciò che ho imparato semplicemente guardando gli altri e i piccoli gesti che compievano. Ciò che mi interessa è proprio questo, restituire i dettagli delle relazioni, che è quello che ci unisce come persone“.

If Beale Street Could Talk: il trailer del nuovo film di Barry Jenkins

Del libro di Baldwin, pubblicato nel 1979, il regista dice di aver conservato “la stessa idea di amore che aiuta a supera ogni difficoltà, anche nella situazioni difficili in cui si sono ritrovati gli afroamericani durante tutto il corso della storia a causa di fondamenta sbagliate. Perché nonostante il dolore e la sofferenza c’è ancora gioia, e con il cinema voglio ancora celebrare la bellezza della vita. E la bellezza per me è come un ricordo, non realistico, ma quasi evanescente, che appartiene ad un’altra realtà espressionista e romantica“.

Sulle differenze tra la protagonista di If Beale Street Could Talk e il personaggio principale di Moonlight, Barry Jenkins spiega che “non c’è somiglianza fra i due. Chiron era un ragazzo molto distante dal pubblico con cui era difficile relazionarsi perché stava fuggendo da se stesso; Tish invece rappresenta  qualcuno che vorresti proteggere, come fa la sua famiglia e come ho cercato di fare io come regista. Volevo che ogni scena fosse un abbraccio verso di lei.

If Beale Street Could Talk arriverà nelle nostre sale il prossimo 14 febbraio 2019 distribuito da Lucky Red.

#RomaFF13, a Isabelle Huppert il Premio alla Carriera: “Non ho nulla in comune con i miei personaggi”

Nel terzo giorno della Festa del Cinema di Roma, il pubblico ha avuto la possibilità di partecipare ad un interessante Incontro Ravvicinato con l’attrice Isabelle Huppert.

Parigina, ha recitato in oltre 100 film, in modo versatile e mettendosi sempre alla prova, lavorando con i più grandi registi, da Jean-Luc Godard, Cimino, Haneke, i fratelli Taviani e Olivier Assayas, tra gli altri.

Tra le più premiate al mondo, l’attrice francese è stata accolta da Antonio Monda e Richard Pena per aggiungere un altro traguardo al suo lunghissimo curriculum: il Premio alla Carriera, che le è stato consegnato da Toni Servillo.

Bellissima, con un lungo abito avorio di Giorgio Armani, la Huppert è salita sul palco per parlare delle sue più grandi interpretazioni in una piacevole e informale chiacchierata, sorprendendo tutti rispondendo alla prima domanda in un quasi perfetto italiano, poi virando sull’inglese e poi arrendendosi al suo elegantissimo francese.

Quanto è importante per lei aver lavorato in teatro?

Per me non c’è una divisione tra cinema e teatro. L’attrice è sempre la stessa, sia sul palcoscenico che sullo schermo. A teatro spesso ci si imbatte di più in personaggi più conosciuti nella memoria collettiva, come i grandi classici, mentre il cinema ti offre ruoli più inediti e grazie alle persone con cui ho lavorato ho potuto fare entrambi, partendo dalla mia formazione teatrale. Lo spettatore teatrale è molto cambiato. Il teatro è sempre più vicino al cinema, si usano anche spezzoni video e la domanda di Monda quindi è molto pertinente, perché penso che la frontiera tra cinema e teatro stia un po’ scomparendo dal punto di vista estetico.

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

Sono state scelte sei clip per rappresentare la carriera di Isabelle Huppert, partendo dal premiatissimo Elle, film di Paul Verhoeven del 2016.

Quanto è cambiato il personaggio nel corso delle riprese, anche con l’aiuto del regista?

Abbiamo avuto molte conversazioni con Paul, ma c’erano delle scene che potevano fare un po’ paura o che erano più provate, ma devo dire di no: si tratta di film che sfuggono alla psicologia in maniera generale e ancora di più ad una psicologia di tipo classico… Quindi o le si capisce dall’interno o non si riesce a spiegarle, non si può dire ‘Forse facciamo così’ o ‘Forse è meglio così’. In realtà non ci siamo detti quasi nulla: ci salutavamo la mattina, quello certamente, ma abbiamo parlato veramente pochissimo, non abbiamo mai fatto effettivamente una conversazione sul film. Io ho la mia teoria: credo che la messa in scena sia una risposta a tutte le domande che ci si può porre ed è la regia che risponde, dipende dalla distanza della macchina da presa, dipende dall’inquadratura, se è solo il volto o il corpo. 

È questo che risponde alle domande che possiamo farci: il cinema è questo, non è soltanto una questione di sentimenti o il percorso di un personaggio. È l’insieme di elementi che raccontano un personaggio e quindi improvvisamente lo spettatore riesce a vedere tutto quello che racconta il mio personaggio, che però viene ‘agito’ dagli altri ed è qualcosa che accade nel momento. Ed un’altra cosa che ho constatato con Paul è l’arte del movimento e lui è un maestro in questo: è impossibile da spiegare, la macchina da presa si muove insieme all’attore e mentre dico questo penso ad una citazione di Rossellini che al primo film con Ingrid Bergman un po’ spaventata dal suo modo di lavorare, pare le abbia detto ‘Muoviti affinché io riprenda ciò che c’è intorno a te’ e trovo sia una bellissima definizione del rapporto tra l’attore e il film.

La seconda clip è stata tratta da “La pianista”, film di Michael Haneke del 2001 e successivamente il film di Marco Bellocchio del 2012, “Bella Addormentata”.

Preferisce un regista che lascia spazio all’interpretazione o si attiene alla sceneggiatura?

Il mio grande amico Bob Wilson dice “Acting is improvisation”: nella mente della gente l’improvvisazione fa pensare ad un qualcosa inventato su due piedi, ma anche se si recita un testo imparato, è sempre improvvisazione. L’improvvisazione è molto difficile da gestire e il regista con cui l’ho fatto in modo più significativo è Maurice Pialat in ‘Loulou’: ci sono nel film scene totalmente improvvisate, non erano proprio state scritte e poi invece c’erano anche scene molto scritte. Mi fa piacere abbiate scelto questa scena del film di Haneke perché l’abbiamo girata 48 volte! Sì perché nel libro era descritto molto bene il mio personaggio e il tipo di espressione che doveva avere in questa scena, un po’ animalesca e Haneke cercava in me proprio quell’espressione.

Quanto è importante per te relazionarti o essere vicina al personaggio che interpreti?

In realtà non ho nulla a che vedere con questi personaggi, non mi sono per nulla vicini. E’ come se incontrassi una sconosciuta per strada e poi improvvisamente divento lei: un po’ il paradosso dell’attore, è lontano ma è vicino contemporaneamente. Ma la prossimità non significa che devo amarle: nasce dell’empatia e la volontà di riconoscerle e capirle.

Il passaggio dalla pellicola al digitale ha influito sul suo modo di recitare?

Certo si possono fare tantissime inquadrature, ma a me non cambia molto sul piano del lavoro. È un cambiamento che interessa di più i registi. Forse si, cambia un po’ perché ci facciamo meno domande però non ho l’impressione che il regista prenda questa possibilità per cambiare modo di girare.

Per rappresentare la grandissima collaborazione con Claude Chabrol, è stata mandata una clip dal film “Il buio nella mente”, dove Isabelle Huppert interpreta un personaggio molto particolare e che ha segnato la sua carriera.

Cosa le è piaciuto maggiormente di questo personaggio?

La scena che avete mostrato, dove Jeanne e Sophie sparano a tutta la famiglia, è straordinaria. Una scena sconvolgente: quando il film è uscito si è detto che era un film marxista, sulla lotta di classe, però trovo che Chabrol sia geniale in questa scena. La bellezza, qualcosa di selvaggio al contempo… C’è tutto. Quando mi ha chiesto di scegliere tra i due personaggi sapeva benissimo quale avrei scelto perchè si vedeva che il personaggio che poi andò a Sandrine Bonnaire parlava di più,mentre il mio personaggio era molto buffo e al contempo terrificante, in lei troviamo tutto l’orrore.

Le ultime due clip presentate sono state tratte dal film “La Truite” di Joseph Losey e infine “I cancelli del cielo”, opera del 1980 di Michael Cimino.

C’è qualche ruolo che ha rifiutato e poi se ne è pentita?

Sì c’è un ruolo, sempre un film di Haneke, “Funny Games”, che poi ha fatto Susanne Lothar, che purtroppo non è più con noi ed era un’attrice straordinaria. Mi piaceva dire che con HAneke avevamo iniziato ‘Non facendo un film insieme’: prima mi aveva proposto Funny Games, poi Time of the wolfs e non abbiamo potuto farlo e poi finalmente abbiamo fatto insieme La Pianista. Di Funny Games avevo letto la sceneggiatura e non posso dire di aver rimpianto quel ruolo, perchè non c’era nulla che facesse appello al mio immaginario, invece poi Susanne Lothar e suo marito sono stati straordinari. Era un film molto significativo, ma non l’ho rimpianto.

Come è stato lavorare con Michael Cimino?

È stata un’avventura incredibile. Già se sento la musica mi ritornano le lacrime agli occhi e rivedere questa scena mi emoziona. Michael ormai non c’è più da 4 anni ma tutta la sua vita è stata segnata da questo film: il fallimento di questo film non lo ha mai superato e che lo ha un po’ trasformato alla fine della sua vita, in un personaggio completamente distaccato da tutto. Io credo che sia stato un regista geniale ma talmente iconoclasta e particolare che c’è stato qualcosa che forse non ha resistito ad un certo classicismo Hollywoodiano. Anche se ha fatto film notevolissimi dopo, credo non si sia mai ripreso da questo fallimento e io quando rivedo il film ne rimango sconvolta perché è un film anche molto concettuale. Con tutti questi movimenti concentrici che raccontano la vita che gira un po’ in tondo, un film da una regia straordinaria e la macchina da presa vagava un po’ ovunque. Infatti Michael diceva che questo film andava preso come se fosse stato un sogno. Il film è estremamente personale, singolare ma anche politico, contro il mito dell’America e forse è stato questo il problema.

#RomaFF12: Xavier Dolan sul red carpet dell’Auditorium

#RomaFF12: Xavier Dolan sul red carpet dell’Auditorium

Xavier Dolan, regista prodigio canadese, è stato ospite alla Festa del Cinema di Roma 2017, incontrando il pubblico dell’Auditorium. Di seguito gli scatti dal red carpet.

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#RomaFF12: Valley of Shadows, recensione del film di Jonas Matzow Gulbrandsen

Valley of Shadows, presentato in anteprima al Toronto International Film Festival, fa parte della selezione ufficiale della Festa del cinema di Roma 2017 ed è scritto e diretto da Jonas Matzow Gulbrandsen.

Il film narra una vicenda tragica pennellandola con tinte fiabesche e immaginifiche. In un villaggio tra il mare e le montagne norvegesi, il piccolo Aslak, dopo aver visto tre cadaveri di pecore dilaniate, si avventura in un viaggio sempre più misterioso.

Il regista dialoga con l’abitazione dalle stanze anguste e spoglie delle case e con il paesaggio montuoso circostante e utilizza maggiormente  inquadrature serrate raramente intervallate da  inquadrature più ampie. Il tutto avvolto nella semioscurità di rado rischiarata da fuoco, da raggi lunari o da un pallido sole.  Il ritmo narrativo è molto lento, soprattutto nella parte centrale del film e i dialoghi sono scarni: Gulbrandsen lascia spesso  parlare la natura (vento, scorrere dell’acqua) e riempie i silenzi con la musica solenne composta da Zbigniew Preisner. Tutti questi elementi contribuiscono a creare un’atmosfera suggestiva e misteriosa. La fotografia sottolinea queste caratteristiche con una resa dai contorni sfumati.

Valley of Shadows

Per quanto riguarda i personaggi il piccolo Aslak, interpretato da Adam Ekeli, è un bambino dotato di grande curiosità che lo spinge ad avventurasi in luoghi che non conosce oltrepassando i confini che gli adulti gli impongono. Lui è il vero perno del racconto ed è il personaggio meglio tratteggiato. È spesso da solo e guarda avanti senza lasciarsi sopraffare dalla paura.  La madre Astrid, interpretata da Katherine Fagerland, è una donna razionale ancorata alla realtà dei fatti anche quando questi sono tragici. È confinata nel suo mondo e mai si sognerebbe di andare oltre. Lasse, amico di Aslak, e il padre appartengono a quel genere di persone che si lasciano convincere dalle credenze popolari e prendono tutto alla lettera. Lo prova il fatto che Lasse mostra ad Aslak un libro con illustrazioni mostruose appartenenti al mondo fiabesco ed è convinto che simili creature esistano veramente. Astrid e Lasse hanno un ruolo marginale nella storia proprio perché il regista ha voluto dare risalto alle larghe vedute di Aslak.

Il regista, al suo primo lungometraggio, realizza un prodotto in cui lascia parlare soprattutto i bambini mostrando come siano in grado di andare oltre e di vedere le cose con occhi diversi senza distorcere la realtà, con un richiamo, voluto o meno, all’Io non ho paura di Gabriele Salvatores. Il racconto  manca di picchi di tensione, di depistaggi, di colpi di scena  che avrebbero dato più sapore al tutto.

#RomaFF12: Una questione privata dei Fratelli Taviani

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#RomaFF12: Una questione privata dei Fratelli Taviani

Secondo giorno alla Festa del cinema di Roma ed arriva il primo e unico film italiano nella selezione ufficiale, Una questione privata dei Fratelli Taviani con protagonisti Luca Marinelli, Lorenzo Richelmy e Valentina Bellè.

Nel film “Over the Rainbow” è il disco più amato da tre ragazzi nell’estate del ‘43. S’incontrano nella villa estiva di Fulvia, adolescente e donna. I due ragazzi sono Milton e Giorgio, l’uno pensoso, riservato, l’altro bello ed estroverso. Amano Fulvia che gioca con i sentimenti di entrambi. Un anno dopo Milton, partigiano, si ritrova davanti alla villa ora chiusa. La custode lo riconosce e insinua un dubbio: Fulvia, forse, ha avuto una storia con Giorgio. Per Milton si ferma tutto, la lotta partigiana, le amicizie… Ossessionato dalla gelosia, vuole scoprire la verità. E corre attraverso le nebbie delle Langhe per trovare Giorgio, ma Giorgio è stato fatto prigioniero dai fascisti…

In merito al filmi Fratelli Taviani hanno commentato

Oggi, nel nostro tempo ambiguo, tempo di guerra non guerreggiata, Fenoglio ci ha suggestionato con il suo “Una questione privata”: l’impazzimento d’amore, e di gelosia, di Milton, il protagonista, che sa solo a metà e vuole sapere tutto. Da qui siamo partiti per evocare, in una lunga corsa ossessiva, un dramma tutto personale, privato appunto: un dramma d’amore innocente e pur colpevole, perché nei giorni atroci della guerra civile il destino di ciascuno deve confondersi con il destino di tutti.

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#RomaFF12: Scotty and the secret history of Hollywood, recensione

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Scotty Bowers è un arzillo novantenne che vive a Los Angeles da quando è tornato dalla Seconda Guerra mondiale. È un accumulatore compulsivo, le varie case che ha sono stracolme di oggetti, cimeli e semplice spazzatura. Scotty ha scritto e pubblicato un libro in cui racconta come a partire dagli anni ’50 la sua principale attività fosse fornire “servizi di piacere” ai divi di Hollywood e non solo.

Tra le sue braccia sono passati da Cary Grant a Katharine Hepburn, fino a Edward e Wallis, duchi di Windsor.

Matt Tyrnauer, regista di Valentino: The last emperor torna al documentario con una storia unica nel suo genere, con un personaggio di fatto eccezionale.

Scotty, se non portasse con sé una memoria della Hollywood del periodo dello star system, sarebbe un anziano signore che non ha mai affrontato i suoi traumi, alcuni agghiaccianti, che hanno segnato la sua infanzia.

Il suo istinto di sopravvivenza gli ha permesso di sopravvivere alle difficoltà affrontate da giovane con la creazione di un mondo e di una professione in cui portare il piacere ai divi di Hollywood fosse una via di fuga dall’affrontare altrimenti una infanzia difficile.

Perfettamente lucido nonostante la veneranda età, e perfettamente a tempo con questo periodo storico di Hollywood, Scotty racconta quello che la Mecca del cinema è stata, è, e sempre sarà: un luogo di glamour, arte e di una relativa perversione.

Evitando commenti sugli eventi di questi mesi, Scotty ripercorre il periodo in cui gli attori per contratto dovevano essere i vicini ideali: belle persone con moglie o marito (strettamente del sesso opposto) non avere dipendenze e non essere infedele al proprio partner.

Con naturalezza Scotty racconta quello che poi accadeva nella realtà e nella sua assoluta discrezione: parla della relazione “bianca” tra due icone come Katharine Hepburn e Spencer Tracy, o il vero amore che legò per anni Randolph Scott e Cary Grant, dice lui, anche se le famiglie hanno sempre negato che i due fossero qualcosa di più che semplici amici e coinquilini.

I suoi racconti si spingono fino a raccontare le perversioni della coppia reale che diede scandalo prima di Carlo e Diana: Wallis e Edward, i cui gusti sessuali a quanto pare erano abbastanza variopinti.

Un ritratto di un’epoca, che si ferma agli anni ’80 con lo spettro della diffusione dell’AIDS e probabilmente anche di una moralità imposta più rigida e dalla quale emerge che nulla è scandaloso, o abusante, se lo scopo è il piacere.

Perlomeno questo è il punto di vista di Scotty, che a differenza di molte voci che si stanno alzando in questi mesi, ha deciso di raccontare le sue avventure solo dopo la morte di tutti i diretti interessati.

Il documentario è stato presentato in concorso alla Festa del cinema di Roma 2017, dopo essere stato presentato al Toronto Film Festival 2017, ancora non ha una data di distribuzione in Italia, ma data l’attualità del soggetto un passaggio in televisione è prevedibile.

#RomaFF12: Scott Cooper con Rosamund Pike e Wes Studi presentano Hostiles

Scott Cooper, con i suoi attori Rosamund Pike e Wes Studi, hanno aperto la Festa di Roma 2017, dodicesima edizione, con Hostiles, nuovo western del regista americano che racconta una storia di bene, male, vendetta e redenzione ambientato nelle pianure del centro america, nel 1892, quando i nativi erano quasi tutti sterminati e i restanti prigionieri o predoni.

Una storia che racconta quindi il rapporto con il diverso, in un’attualità che sembra pericolosamente ricordare quel periodo. Cooper almeno non può fare a meno di sottolineare come, dallo scorso novembre (dall’elezione di Trump), gli USA siano diventati sempre di più simbolo di una separazione razziale, che cresce di continuo.

Ma il punto di vista “interno”, ovvero di un attore come Wes Studi, che, nativo americano, ha lasciato il segno a Hollywood, interpretando grandi film nel corso degli anni, tra cui L’Ultimo dei Moicani, fino ad Avatar, è leggermente diverso: “Per noi è la continuazione di un processo di adattamento che continua a procedere. Il film parla alla contemporaneità e al passato, ma spero sarà che non così anche per il futuro.”

Protagonista femminile è Rosamund Pike, resa celebre dallo straordinario ruolo di Amy Dunne in L’Amore Bugiardo. L’attrice inglese interpreta una donna che ha perso tutta la sua famiglia a causa dei Comanche e che intreccia il suo cammino e il suo destino con quello per personaggio di Christian Bale, capitano Joseph J. Blocker.Hostiles rosamund pike

“Quello che Scott ha scritto era reale – ha cominciato Rosamund – quindi mi sono basata solo sulla vita. Il mio personaggio si trova ad intraprendere un viaggio tremendo, perdite incolmabili. Quando la incontra il capitano Blocker, non ha più voglia di vivere. E quindi la cosa interessante è stata trovare per lei una nuova ragione per vivere, che potesse essere la fede, la connessione con la sofferenza di un altro, scoprire quanto puoi sopportare quando scopri che la vendetta non è soddisfacente. Il mio personaggio vede e capisce, testimonia e cresce molto.”

In quest’ottica, secondo la Pike, la sua donna non è solo forte quando imbraccia un fucile, ma soprattutto quando si fa carico di essere colei che ricorda al protagonista che è un uomo buono, quando è lei a mandare via l’oscurità dalla sua vita.

E sul potere che le donne hanno sul futuro e sulla società? La Pike è lapidaria e terribilmente attuale: “Abbiamo visto cosa possono causare le donne, quando collaborano.”

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#RomaFF12: Sally Potter presenta il suo film The Party

#RomaFF12: Sally Potter presenta il suo film The Party

Nel secondo giorno della Festa del Cinema di Roma, la regista e sceneggiatrice inglese Sally Potter è arrivata all’Auditorium Parco della Musica per presentare il suo film The Party, un dramma comico in bianco e nero, che ha per protagonisti Kristin Scott Thomas, Timothy Spall, Bruno Ganz, Patricia Clarkson, Emily Mortimer, Cherry Jones e Cillian Murphy.

Come mai ha deciso di fare questo film in bianco e nero?
In un certo senso il bianco e nero è coloratissimo, perché forza l’immaginazione a perdersi nelle ombre e nelle luci e riempirle con sentimenti. Il bianco e nero è alle radici del cinema e inoltre non è vero che la gente non guarderebbe le cose in bianco e nero, perché sempre più registi giovani creano video musicali in bianco e nero perché pensano sia più eccitante.

Una delle cose più interessanti del film è questo delicato equilibrio tra il dramma e la commedia, quanto è difficile a livello di scrittura e quanto invece magari influisce l’armonia sul set e complicità tra gli attori nel trovare il tono giusto?
Il 95% della commedia è nella scrittura e tutti gli attori possono confermare: se non hanno il testo è un altro tipo di commedia. Il testo ti da il senso, il sub-testo, il ritmo e il significato e solo allora gli attori possono, attraverso il corpo, portare in scena il tempismo comico. Si può dire che questa sia una commedia fisica, con il cuore di una tragedia. Tecnicamente è stata una sfida a livello di scrittura, perché devi immaginare come reagirà il pubblico a questi tempi comici, ma devo ammettere che lavorare con gli attori su questo testo è stata una vera gioia, abbiamo riso tantissimo insieme.

Ha filmato in ordine cronologico, come ha lavorato con gli attori?
Ho lavorato individualmente con ogni attore. Sono andata da loro e abbiamo iniziato insieme a lavorare lentamente e nei dettagli sul testo, sull’aspetto, sulla scena, sulla voce, sui movimenti, su tutto… Quindi quando è arrivato il momento di incontrarli tutti insieme, erano già molto sicuri a livello individuale sulla loro parte. Abbiamo fatto solo due o tre giorni di prove e poi due settimane di riprese: una cosa davvero veloce e intensa.

Leggi anche: The Party, recensione del film di Sally Potter

Il tema centrale della storia è sembrato “la verità”, è corretto?
Sì, esatto. La verità è al centro e tutto gli gira intorno e anche quando le persone pensano di dire la verità, gradualmente realizzano che stanno omettendo qualcosa oppure scoprono qualcosa che non sanno, perché si trovano in situazioni di crisi e si comportano in maniera diversa rispetto alla loro precedente immagine di loro stessi. In questa storia si tratta di capire quale sia il divario tra chi penso di essere e quello che effettivamente faccio in un momento di crisi.

Nonostante sia stato scritto molto prima, questo film riflette anche sulla situazione Brexit rispetto alla politica e la società: secondo lei quanto di quegli aspetti ci sono nel film?
Il referendum sul Brexit in realtà è avvenuto proprio a metà delle nostre due settimane di riprese e posso dirle che erano tutti molto tristi la mattina dopo sul set perché il cast e la crew erano estremamente internazionali, l’esempio vivente di una vita senza confini. Designer argentini, troupe del suono francesi, cinematografi russi, un editor danese, direttore delle luci irlandese… e potrei andare avanti con la lista. Per noi quello era il modo giusto di essere e di lavorare, mentre con la Brexit si va esattamente nella direzione opposta. Isolazione invece che cooperazione. Quando ho iniziato a scrivere non c’era discussione a riguardo, è tutto uscito dal niente, come un terremoto. Quindi forse mentre scrivevo sentivo inconsciamente questa sensazione di imminente divisione nella cultura che nella storia si è tradotta in divisione tra gli individui.

Il film è molto attuale e tratta anche l’argomento delle donne e il potere: qual’è il suo commento a riguardo, anche alla luce dei fatti di cronaca recenti?
Intende il caso Harvey Weinstein? Quello che è accaduto è qualcosa che è diventato visibile ma prima era semplicemente nascosto, ma accade ovunque, non solo nel mondo del cinema. Non solo tra un potente produttore e un attore che ha bisogno di un lavoro, ma ovunque ci sia uno squilibrio di potere. Tra uomini e donne, ma anche tra uomo e uomo. Ad esempio lui aveva anche la reputazione di essere molto severo con altri uomini nella compagnia ed anche questo non veniva raccontato molto. Anche questo fa parte di quella cultura che salva spesso i bulli, ma anche quello è solo un microcosmo di un più grande situazione politica dovuta ad uno squilibrio di potere in uno sistema patriarcale e capitalista, dove la gente viene bullizzata per fare soldi o altro. Questa situazione di Harvey Weinstein probabilmente sta però portando al pubblico a capire la nozione che non è ok umiliare o molestare qualcuno, non è assolutamente un modo giusto di comportarsi e questa è una cosa buona.

#RomaFF12: Rosamund Pike sul red carpet dell’Auditorium

#RomaFF12: Rosamund Pike sul red carpet dell’Auditorium

Rosamund Pike, con Scott Cooper e Wes Studi, ha calcato il tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma 2017, durante la serata inaugurale della kermesse romana, per presentare, nella selezione ufficiale, Hostiles, film con protagonista Christian Bale.

Ecco le foto:

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#RomaFF12: Paolo Genovese presenta The Place

#RomaFF12: Paolo Genovese presenta The Place

Film di chiusura della Festa del Cinema di Roma 2017, tra le pellicole italiane più attese della stagione, The Place di Paolo Genovese ha fatto il suo debutto nelle sale dell’Auditorium per la curiosità di accreditati e addetti ai lavori. Il regista, con tutto il cast al seguito, ha presenziato poi l’incontro con la stampa che ha visto protagoniste, come sempre in questi casi, battute e risate, grazie soprattutto alla verve comica di alcuni degli ospiti sul palco (su tutti Marco Giallini e Rocco Papaleo).

Per quanto riguarda la scelta del cast, Genovese si è affidato a un cast molto numeroso, dichiarando: “Ognuno ha lavorato un giorno o due, tranne Valerio che per tredici giorni è stato seduto immobile su quella sedia. Quest’anno se vince il David sarà quello per la scenografia, è l’unico che gli manca. Amo la coralità, per la possibilità che regala di raccontare da più punti di vista, che in questo caso era nella natura stessa della storia. Dove possiamo arrivare per avere ciò che desideriamo? Questo ci viene chiesto, declinandolo per dieci personaggi, con dieci esigenze diverse. In questo periodo giudichiamo molto e in fretta, specie sui social, dove tutti commentano ed esprimono giudizi.”

The Place, recensione

Genovese poi diventa molto schietto in merito alle possibilità che lo hanno portato a The Place. Poteva dirigere qualsiasi cosa, grazie al successo di Perfetti Sconosciuti, ma ha scelto questa storia: “L’ho fatto perché mi sono imbattuto casualmente in quest’idea, una piccola serie. C’è sicuramente un filo rosso che lega Perfetti sconosciuti e The Place: uno ci mostra quanto poco conosciamo le persone intorno a noi, quest’ultimo quanto poco conosciamo noi stessi.”

A differenza degli altri personaggi, tutti che portano la loro storia nel film, il misterioso uomo interpretato da Valerio Mastandrea non ha una storia, non ha un passato, apparentemente, ma aiuta gli altri ad andare avanti con la propria, di storia: “Il mio personaggio non ha una storia da raccontare, ma aiuta gli altri, in questo riguarda me come tutti. Mi ha portato a riflettere su alcune sfumature nascoste nell’idea di aiutare gli altri, come la necessità talvolta di non mettere toppe nella loro vita, aiutandoli invece ad autodeterminarsi. Non l’ho mai vista come un’entità demoniaca, magica o angelica, ma come uno specchio.” Insomma, per Mastandrea il personaggio è ancora peggiore di coloro che sono disposti a commettere anche i peggiori crimini per ottenere ciò che vogliono.

The Place uscirà in sala il 9 novembre, distribuito da Medusa in circa 500 copie.

#RomaFF12: Orlando Bloom all’Auditorium – foto

#RomaFF12: Orlando Bloom all’Auditorium – foto

Anche Orlando Bloom ha partecipato alla Festa del Cinema di Roma 2017 dove ha presentato Romans, opera seconda dei fratelli britannici Ludwig e Paul Shammasian, evento speciale di Alice nella Città.

Ecco di seguito le immagini dell’attore:

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#RomaFF12: Michael Shannon sul red carpet

#RomaFF12: Michael Shannon sul red carpet

Michael Shannon è stato il protagonista della serata del 2 novembre alla Festa del Cinema di Roma 2017. L’attore americano è arrivato presentando il suo ultimo film, Trouble no more, un omaggio a Bob Dylan nel periodo della sua conversione cristiana.

Ecco le foto dell’attore sul tappeto rosso dell’Auditorium:

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