Dopo dieci giorni di film, quando
un improvviso senso di vuoto per la mancanza di proiezioni ti
assale, viene naturale riflettere e rivedere quelle tante idee,
quelle riflessioni sui vari film visti, che durante la maratona
cinematografica ti hanno a volte esaltato, spesso fatto arrabbiare
e molte volte lasciato indifferente. Si ripercorre il programma,
segnato come un campo di battaglia, o come un disordinato taccuino
d’appunti, per vedere cosa rimane di un mucchio di opere con le
quali hai condiviso tanti giorni e l’ennesima fine d’estate
Veneziana.
Molte volte, a fine proiezione, è
sorto un naturale senso di indignazione per aver visto inseriti in
concorso film che forse non dovevano essere neanche presentati
nella selezione generale, poi cala un po’ l’arrabbiatura e si
inizia a ragionare; si arriva così alla conclusione che quel film
andava semplicemente collocato in una sezione differente, magari
collaterale.
La mia è semplicemente un’idea
personale, una serie di pensieri a voce alta e non è assolutamente
un volersi accanire con un singolo film, che magari preso da solo,
o visto nel contesto giusto, risulterebbe anche piacevole. Ma
d’altronde il cinema è così, si può essere critici plurilaureati e
armati di tutti i parametri d’analisi possibili e immaginabili,
oppure semplici spettatori che cercano nella sala un’evasione dallo
stress di una vita insoddisfacente, ma alla fine è solo e un’unica
cosa che decreta il giudizio su un film appena visto: il gusto
personale. Quante volte, nelle file per entrare in sala, si porge
l’orecchio a discussioni scaturite attorno a un film appena visto e
si sentono pareri discordanti, difese a oltranza, bocciature senza
possibilità d’appello, ma alla fine spesso di fronte a uno ‘stallo
messicano’ di natura critica si sente dire “comunque a me è
piaciuto”, oppure “sarà anche un capolavoro, ma
sinceramente io non lo sopporto”. E attenzione, non sono
commenti di semplici spettatori paganti muniti di biglietto, ma di
critici inviati da importanti testate, di studenti di cinema, di
persone che giornalmente lavorano nella realizzazione e diffusione
di film, e diciamolo, anche di una masnada di infiltrati, quasi
sempre di Venezia e dintorni, muniti di accredito ottenuto non si
sa come.
Sorge spontaneo
ragionare sul fatto, che a differenza di tanti altri festival
importanti, in quello di Venezia svetta la dicitura ‘d’ Arte
Cinematografica’ e quindi, almeno nella sezione concorso ci si
aspetterebbe di trovare opere che siano consone a tale appellativo.
Poi ci si imbatte in Piuma
di Roan Johnson, storia sicuramente ben raccontata
e dignitosa nella sua esposizione, ma assolutamente lontana
dall’essere una forma rappresentativa di un cinema inteso come
linguaggio espressivo. E ancora, Questi
giorni di Giuseppe Piccioni, per
il quale vale la stessa identica considerazione, con l’aggravante
del fatto che ci troviamo invece di fronte a un autore navigato,
che forse potrebbe permettersi l’ardire di provare a sperimentare,
allontanandosi dal mero mestiere, o da quel navigare in acque
sicure che tanto piace e rassicura la produzione italiana ma non
solo. Per fortuna ci è stato evitato di trovare in concorso
L’Estate addosso, del buon vecchio
Gabriele Muccino, o Tommaso di Kim
Rossi Stuart, evitandoci così di dilungarci in ulteriori
disquisizioni sulle tristi derive del nostro cinema. Sarebbe stato
bello vedere in gara The Young
Pope di Paolo Sorrentino, che
però saggiamente trincerato nell’approdo sicuro della serialità
televisiva si toglie dalla mischia e dimostra che si può eccome
essere ancora autori e far nascere schieramenti opposti di seguaci
e detrattori, ma soprattutto afferma che si può sperimentare e
raccontare in maniera personale, provando a ricercare quel qualcosa
che sembra dimenticato, o sarebbe meglio dire ‘rimosso’, dal mero
scopo di raccontare.
E il problema più grande forse sta
proprio nel narrare a tutti costi una storia e del rimanere
inesorabilmente ingabbiati nella struttura narrativa, sciorinando
strutture, dispositivi e modelli ormai prevedibili, scontati,
per non dire inutili. Ma poi a metà percorso arriva Spira
Mirabilis di Massimo D’Anolfi e
Martina Parenti, discutibile certo, ma sicuramente
in linea con quello spirito di ricerca che ci si auspicherebbe in
un concorso d’Arte Cinematografica. E poi Voyage of Time: Life’s
Jorney di Terrence Malick, con
il quale, nel bene e nel male, al di là del gusto personale si
rientra in carreggiata.
Ricerche e sperimentazioni
interessanti si intravedono anche in Nocturnal
Animals di Tom Ford, in
La Regiòn Savaje di Amat
Escalante, in Franz
di Francoise Ozon, in Les Beaux Jours
d’Aranjuez di Wim Wenders, in
Paradise di Andrej
Konchalowsky, in Ang Babaeng Humayo (The
Women Who Left) di Lav Diaz.
Peccato invece per
autori come Emir Kusturica,
che tanto hanno regalato in passato all’arte cinematografica, con
opere che hanno influenzato il modo d’intendere l’espressione
cinematografica, ma che oggi appaiono assai stanchi, esauriti
e manieristi nei confronti di se stessi.
E anche fuori della competizione
ufficiale si incontrano opere estremamente interessati per ricerca
espressiva e utilizzo del linguaggio cinematografico per evadere
creativamente e costruttivamente dalla rigida gabbia della
struttura narrativa. Mi riferisco allo splendido e toccante film su
Nick Cave One More Time With
Feeling di Andrew Dominik, al
sorprendente Boys in the Trees di
Nicholas Verso, dove sotto la patina del
teen-movie a tinte horror si scopre una ricerca visiva e
introspettiva di rara sensibilità, incentrata sul difficile,
drammatico passaggio tra adolescenza ed età adulta, o al film
interamente costruito con spezzoni d’archivio Dawson
City: Frozen Time di Bill
Morrison.
Non sono mancati chiaramente e
giustamente film colossali di grande presa visiva e costruiti per
sbancare al botteghino, dove la presenza di una star o di un’altra
fa la differenza, alla faccia della ricerca espressiva o della
manipolazione del linguaggio per indagare sulla narrazione. Ma in
fondo è giusto che ci siano in un festival film di questo genere
perché rappresentativi di quello che oggi è diventato il mezzo
cinema e oltretutto piacevoli per spezzare l’inevitabile seriosità
che spesso si annida nel fare Arte Cinematografica.
Concludo sottolineando ancora una
volta che queste considerazioni sono personali e totalmente
discutibili. Cercavo dal festival stimoli, idee e soprattutto
motivazioni che mi facessero tornare al mio lavoro carico di voglia
di fare e soprattutto di sperimentare. E la 73° Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica non mi ha deluso in questo,
con una valida selezione rappresentativa a tutto tondo del modo di
intendere e fare cinema in questo momento nel mondo, senza
preclusioni di tecniche, generi, e soprattutto di entità economiche
per la realizzazione di un film.
Il nostro speciale di Venezia
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