Uscite al cinema del 6 maggio 2011
Fast & furious 5 – Dopo aver attaccato un bus di detenuti per permettere a Dominic Toretto di sfuggire alla prigione, Mia Toretto e l’ex agente Brian O’Conner scappano in Brasile. Qui, durante una spettacolare rapina a un treno, ritrovano Dominic e scoprono che il mandante del furto è un ricco affarista corrotto di Rio De Janeiro, Hernan Reyes, interessato a recuperare un chip nascosto nell’autoradio di una macchina rubata contenente tutte le tracce dei suoi traffici illeciti da centinaia di milioni di dollari. Dom e Brian decidono così di utilizzare le informazioni del chip per fare un ultimo colpo e derubare tutte le finanze di Reyes. Ma per farlo hanno bisogno di formare una nuova squadra.
Dopo gli inizi a tutto gas, nel suo lungo e costante tragitto, la saga di Fast and Furious sembrava destinata a sbandare. Invece, due anni fa, complice la volontà di tornare a “sporcarsi le mani” (anche come produttore) da parte di Vin Diesel, la saga ha ritrovato i suoi pezzi originali e ha saputo tornare in pista, recuperando anche il controllo di una narrazione seriale finita in testacoda.
Machete – Machete è un agente federale che si pensa sia morto in uno scontro con la banda del pericolosissimo boss Torrez. Ma non è così. Machete ha cercato rifugio in Texas dove viene coinvolto nell’attentato a un senatore xenofobo. Scoprirà di essersi infilato in un machiavellico complotto che vede lui come capro espiatorio. Ha contro il capo dei vigilantes Von, il perfido uomo di affari Booth e, ancora una volta, Torrez. Al suo fianco c’è solo Sartana Rivera, giovane e seducente ufficiale della squadra anti-immigrazione che ha compreso che non tutto è come sembra.
A partire dalla sequenza iniziale sino ad arrivare all’ultima inquadratura di un film in cui non ci sono ruoli cameo ma attori che si mettono in gioco come De Niro, Steven Seagal, Don Johnson facendo ironia su se stessi divertendosi (lo si percepisce) enormemente e divertendo il pubblico. Il pupillo di Quentin Tarantino – noto ai più per aver diretto Sin City – Robert Rodriguez firma il suo sedicesimo film. Un regista che fa sentire al pubblico tutta la sua voglia di fare cinema, senza secondi fini o sofisticate pretese.
Come l’acqua per gli elefanti – Nell’America della Grande Depressione, Jacob Jankowski è a un esame dalla laurea e da una notte d’amore con la più bella ragazza del corso di medicina veterinaria. Un tragico incidente, in cui muoiono i genitori, sconvolge la sua vita e i suoi piani di studente, conducendolo su un binario alternativo e imprevisto. Lasciata la propria casa per coprire i debiti accumulati dal padre e abbandonata l’università, Jacob sale su un treno in corsa e spera nella buona sorte che avrà il volto dolce di Marlena, stella equestre del Benzini Bros Circus e moglie dell’instabile August, impresario e domatore crudele di artisti e animali. Rivelate presto le sue evidenti doti di veterinario, Jacob viene accolto con entusiasmo da August e promosso al ruolo di addestratore dell’elefantessa Rosie, ingombrante ‘primadonna’ col vizio del whisky. Innamoratosi perdutamente della bionda Marlena, il ragazzo dovrà vedersela coi reiterati soprusi di August e trovare come un funambolo un nuovo equilibrio nell’universo circense.
Nell’America ‘depressa’ di fine anni ‘20 si svolge il melodramma circense di Francis Lawrence, ispirato dalle pagine di Sara Gruen (“Acqua per gli elefanti”) e idealmente prossimo al Trapezio e al ménage à trois di Carol Reed. Accantonati re biblici e leggende moderne (come Costantine o Io sono Leggenda), il regista americano rispolvera leoni, elefanti e bionde acrobate, sceneggiando il Circus di Britney Spears, diretta tre anni prima nell’omonima clip musicale. D’altronde ha diretto anche altre clip musicali di altri artisti pop: Justin Timberlake, Janet Jackson, Will Smith (per il film Men in Black II), Aerosmith.
Senza arte né parte – Siamo in Salento. Il Premiato Pastificio Tammaro decide di modernizzarsi. La vecchia fabbrica viene chiusa e se ne apre una nuova, completamente meccanizzata. Tutta la squadra di operai addetti allo stoccaggio manuale, tra cui Enzo, Carmine e Bandula, si ritrovano disoccupati. Enzo è sposato con Aurora che lavora saltuariamente come traduttrice, e hanno due figli piccoli. Carmine vive con la vecchia madre e con Marcellino, il fratello minore e scapestrato. Bandula è un’immigrato indiano, ormai al verde e senza più un posto dove dormire.
La situazione è drammatica. In quei giorni, la moglie di Tammaro eredita una bizzarra collezione d’arte contemporanea, che viene sistemata proprio nel vecchio pastificio. Tammaro offre a Enzo un lavoro provvisorio in nero: guardiano del magazzino dove è custodita la collezione d’arte. Enzo e i suoi amici, scoprono sbalorditi l’arte contemporanea, e soprattutto, che quegli oggetti all’apparenza strani e privi di senso, valgono così tanti euro. Ed ecco che si inventano inventori di improbabili opere di arte moderna…
Secondo film per Giovanni Albanese, dopo A.A.A.ACHILLE uscito ben dieci anni fa. Una commedia gradevole e divertente, che sdrammatizza sulla crisi economica e sui licenziamenti, e che al contempo esalta la proverbiale “arte di arrangiarsi” tipica dei meridionali. Nel cast spicca la presenza di Vincenzo Salemme nei panni di Enzo, e quella di Donatella Finocchiaro in quelli della moglie ereditiera Aurora.
Hai paura del buio – Eva è una ragazza di poco più di vent’anni che lavora in una fabbrica a Bucarest. Nel suo ultimo giorno dopo che non le è stato rinnovato il contratto, decide di mettere in vendita tutto quello che possiede e di comprare un biglietto per l’Italia. Raggiunge la stazione di Melfi e trascorre la notte vagabondando senza meta finché trova un’auto aperta dove ripararsi dal freddo. La macchina appartiene ad Anna, giovane operaia presso la fabbrica della FIAT, che decide di accoglierla nella casa in cui vive assieme ai genitori e alla nonna malata.
Nel suo percorso come autore televisivo, Massimo Coppola si è mosso in una direzione opposta rispetto ai flussi e alle formule dei format popolari. Attraverso monologhi brand new, anti-reality di finzione e documentari sui ventenni ai margini di servizi e talk show, Coppola ha sempre cercato di mostrare, all’interno di un canale giovanile e “giovanilista” come Mtv, un’alternativa al pensiero comune e alla visione a senso unico sulle nuove generazioni. Dallo sguardo maturato coi ritratti giovanili di “Avere Ventanni” e da quel bisogno di porre una frattura fra rappresentazione e identità dei giovani d’oggi, sembra nascere anche il suo ingresso nel cinema di (cosiddetta) finzione.
Dopo i due documentari Politica zero – nato sempre dall’esperienza maturata da Massimo Coppola e dai suoi fidati amici e collaboratori, Giovanni Giommi e Alberto Piccinini, con il programma “Avere Ventanni” in onda su Mtv – e Bianciardi! del 2007, Coppola arriva dunque al suo primo e autentico lungometraggio non-documentario. Capace di stesso a parlare dei giovani e dei loro problemi.
Tatanka – Dopo ”Gomorra” e’ la volta di ”Tatanka Scatenato”. Un racconto di Roberto Saviano estratto dal libro “La bellezza e l’inferno” (ed. Mondadori), portato sul grande schermo questa volta da Giuseppe Gagliardi, alla sua opera seconda dopo ”La vera leggenda di Tony Vilar” con la produzione di Margherita Film e Minerva.
La sceneggiatura, firmata dal regista insieme a Maurizio Braucci, Massimo Gaudioso, Salvatore Sansone e Stefano Sardo ha ottenuto 1.400.000 euro di contributo da parte del Ministero dei Beni Culturali, che ha riconosciuto di interesse culturale il progetto. Questo racconto di Saviano e’ incentrato sui pugili di Marcianise e sul loro rappresentante principe, il vicecampione olimpico Clemente Russo, che sara’ anche protagonista del film. Le riprese si sono svolte tra l’Italia e Berlino.
Un film sull’esaltazione dello sport come mezzo per evadere dai contesti sociali difficili in cui si vive. E magari, uno dei “salvati”, sfiora anche l’oro alle Olimpiadi.
Il primo incarico – Puglia, anni ’50. Nena è una giovane maestra, innamorata di un ragazzo dell’alta borghesia, messa sotto pressione dalle preoccupazioni della madre. Quando arriva la lettera di assunzione in una piccola scuola nel sud salentino, fa le valigie e parte a malincuore, curiosa della sua nuova esperienza ma triste per la lontananza dal suo amore. Dopo le prime difficoltà di integrazione nella piccola comunità agreste, riesce a trovare un equilibrio che verrà nuovamente messo in discussione dalla notizia dell’innamoramento del fidanzato per un’altra donna. Scegliere come protagonista di un film una professoressa degli anni Cinquanta, vuol dire prediligere il punto di vista femminile a quello maschile. Gli uomini, nel film, non fanno bella figura: sono rozzi e insensibili o vittime inconsapevoli di un sistema classista, irrigidito sul lusso di privilegi atavici. Le donne sanno far da mangiare e si occupano della casa.
Isabella Ragonese, senza trucco e senza vezzi, dimostra ancora una volta di essere un’ottima interprete versatile. Il tocco elegante della regista Giorgia Cecere, al suo primo film, rende apprezzabile una storia piccola che, per essere raccontata, ha bisogno di un narratore che sappia osservare. Un film sulle difficoltà che incontrava, e in fondo incontra ancora, una donna che vuole emanciparsi nel Sud Italia.
La misura del confine – In cima al Monte Rosa, sotto nubi prepotenti, è stata ritrovata una mummia ma nessuno ha ancora stabilito se il luogo della scoperta sia terra italiana o svizzera. Così due squadre di esperti partono alla ricerca del soggetto ma il maltempo smarrisce nelle nebbie la spedizione svizzera e spinge quella italiana a ripararsi in un rifugio accogliente. Dopo aver dichiarato che il corpo è “italiano”, i due gruppi si uniscono a festeggiare insieme e, chiacchierando di amori del passato e affetti del presente, si accorgono di avere a che fare con un misterioso delitto.
La montagna, silenziosa e ruvida, accoglie una storia intrigante che comincia come una sorta di documentaristica cronaca di una spedizione scientifica per trasformarsi poi in un raffinato giallo investigativo.
Secondo film per Andrea Papini, dopo La velocità della luce del 2008, un Noir esistenziale che indaga sulle ombre e sullo smarrimento dell’animo umano. Anche La misura del confine ha un nonsoché di misterioso ma al contempo razionale, che a molti farà venire in mente serie tv americane alla Csi Miami.
Il primo incarico: recensione del film con Isabella Ragonese
Al suo esordio dietro la macchina da presa Giorgia Cecere, già assistente alla regia di Gianni Amelio (Porte aperte, Il ladro di bambini) e sceneggiatrice per Edoardo Winspeare (Sangue vivo, Il miracolo) ha scelto di raccontare ciò che conosce meglio: la sua terra d’origine e una storia d’ispirazione familiare. Il primo incarico, infatti, è ambientato in Puglia negli anni ’50: una Puglia cittadina, ma anche e soprattutto rurale, aspetto dominante della regione almeno fino a qualche decennio fa, e ancora vivo soprattutto in certe zone.
Al centro della vicenda, una giovane maestra di modeste origini, Nena/Isabella Ragonese, che dalla cittadina del sud in cui vive, deve trasferirsi nella campagna pugliese per il suo primo incarico. Si trova così di fronte a una realtà per lei nuova: una vita semplice, una casa spoglia, una scuola con una sola aula – una stanza col soffitto crepato – e dei contadini ospitali, ma taciturni e fieri. Una vita in mezzo alla natura, con tutti i pro e i contro che questo comporta. In più, il nuovo incarico affidatole la porta a separarsi dal suo amato: un giovane di famiglia altolocata, con il quale stava costruendo il suo sogno d’amore. Il primo incarico è il racconto di una crescita, di molteplici mutamenti, che Nena attraversa, ritrovandosi, alla fine, una persona nuova.
Il primo incarico, il film
Il suo amore “da favola” non reggerà la lontananza, rivelandosi inconsistente. Mentre nella sua nuova vita troverà posto una relazione molto meno “perfetta” ma più reale. È un percorso di crescita e un viaggio interiore – un western dei sentimenti l’ha definito la stessa regista – alla ricerca di ciò che veramente si vuole. Questo è ciò che fa Nena, prima costretta dagli eventi, poi scegliendo consapevolmente per il suo futuro. All’inizio, il trasferimento, il matrimonio con un uomo che non vuole, la conseguente vita nel ruolo di moglie e casalinga, che non sente suo, sono vissute da lei come costrizioni, come una specie di incubo in cui s’è ritrovata senza volerlo e che le fa letteralmente “sbattere la testa al muro”. Le nuove condizioni e il nuovo ambiente le permettono però, col tempo, di capire meglio sé stessa e di comprendere che lì c’è proprio ciò che vuole e di cui ha bisogno. Alla fine sarà lei a scegliere di tornarci non perché costretta, ma perché lo vuole.
Dallo scontro tra due mondi apparentemente inconciliabili, si passa, quindi, a una relazione a volte conflittuale, ma viva e non priva di momenti felici: così con i bambini cui Nena insegna, così col marito Giovanni, giovane muratore sposato sull’onda della delusione per l’abbandono del suo precedente amore e per ottemperare alle vigenti convenzioni sociali. Così con tutto quel mondo arcaico e maschilista. Un mondo che lascia però spazi di libertà inaspettati. Emblema ne è la relazione tra i due protagonisti: non un rapporto di subalternità, di costrizione, come forse ci si sarebbe aspettati, ma davvero libero. Ciascuno infatti fa quello che vuole e il matrimonio resta per lungo tempo un sigillo formale, che ciascuno dei due ha posto non per convinzione, ma per convenienze di tipo diverso. Altrettanto libera e forte la scelta finale della protagonista.
Isabella Ragonese – unica attrice professionista – sa ben interpretare l’evoluzione del complesso personaggio di Nena, dalle illusioni dell’adolescenza alla pienezza della vita adulta, passando per un ampio ventaglio di emozioni: dall’ingenuità sognante dell’inizio, allo straniamento, all’autentica disperazione, alla rabbia, alla frustrazione, fino alla lenta scoperta della felicità, che può dare una vita del tutto diversa da quella che aveva immaginato. La rigidità e l’impaccio dell’esordiente Francesco Chiarello a tratti si notano, ma sono adatti a rendere l’atmosfera tesa del rapporto con Nena e caratterizzano bene il personaggio: il tipico contadino del sud, dal carattere chiuso, rude, fiero. Ben costruiti i dialoghi, asciutti e incisivi.
Nel seguire il viaggio esistenziale di Nena riviviamo – elemento fondamentale del film – la realtà di quegli anni e di quei luoghi (la pellicola è stata girata in vari comuni del Salento, tra cui Cisternino e Castrignano del Capo). La ricostruzione è assai convincente, accurata nei particolari e riesce davvero a trasportare indietro nel tempo e altrove nello spazio, per farci conoscere uno spaccato di storia italiana del nostro recente passato, o farcelo ricordare se, come chi scrive, condividiamo con la regista le origini e abbiamo visto o sentito raccontare quella realtà, non così lontana.
Quello che regista e sceneggiatori sono riusciti ad ottenere (accanto alla Cecere collaborano alla sceneggiatura Pierpaolo Pirone e Li Xiang-Yang), però, non è, almeno non soltanto, un affresco nostalgico – una nostalgia che potremmo dire pasoliniana per un mondo contadino (quasi) scomparso. Sono vividamente presenti, infatti, anche gli aspetti duri e aspri della vita di campagna, la semplicità si muove accanto alla rudezza, alla fissità quasi granitica di tradizioni e abitudini che paiono invariate da secoli, e asfitticamente invariabili. E lo straniamento iniziale di Nena è simile a quello dello spettatore odierno, posto di fronte a quella realtà, così diversa dall’attuale.
In Il primo incarico Molto bella la fotografia di Gianni Troilo. Grande attenzione è riservata ai colori, alle inquadrature, alla luce, in generale alla cura dell’immagine, in special modo laddove Nena è immersa nella natura. Le inquadrature hanno un gusto “pittorico” – il che dipende certo dalla sensibilità particolare del cinese Li Xiang-Yang, appunto pittore, e qui al suo esordio come sceneggiatore, che si fonde abilmente con quella della regista.
X-Men – L’inizio: trailer del film in arrivo al cinema
La 20th Century Fox ha diffuso il trailer ufficiale italiano di X-Men – L’inizio, prequel della trilogia cinematografica dedicata ai personaggi della Marvel, gli X-Men (X-Men, X-Men 2, X-Men – Conflitto finale), narra le vicende di Charles Xavier (Professor X), Erik Lehnsherr (Magneto) e del loro primo tentativo di formare una scuola per i ragazzi mutanti.
Tutto quello che sappiamo su X-Men – L’inizio
Nel cast di X-Men – L’inizio protagonisti Michael Fassbender, James McAvoy, Jennifer Lawrence, Rose Byrne, Nicholas Hoult, January Jones, Oliver Platt, Kevin Bacon, Edi Gathegi, Lucas Till, Alex Gonzalez, Morgan Lily, Jason Flemyng, Caleb Landry Jones, Corey Johnson, Glenn Morshower, Matt Craven, Laurence Belcher, Bill Milner, Zoë Kravitz, Demetri Goritsas, James Remar, Rade Sherbedgia, Ray Wise.
Tratto dall’omonimo fumetto della Marvel, il film racconta della giovinezza di due amici che scoprono di avere poteri speciali, Charles Xavier e Erik Lensherr; del loro lavorare assieme, con altri mutanti, contro la più grande minaccia che il mondo abbia affrontato; del loro allontanarsi causa un dissidio che li vedrà diventare arcirivali con i nomi di Professor X e di Magneto. Il film è ambientato negli anni ’60, all’alba dell’era spaziale, l’epoca di JFK. Un periodo storico all’insegna della Guerra Fredda, in cui l’intero pianeta era minacciato dalle crescenti tensioni fra Stati Uniti e Russia. L’era in cui il mondo scoprì l’esistenza dei mutanti.
La Banda degli Onesti: recensione del film con Totò e Peppino
Metti l’esilarante e affiatata coppia Totò e Peppino, aggiungici una spalla simpatica e buffa come Giacomo Furia, il tutto contestualizzato nell’Italia degli ingenui, onesti e squattrinati, e otterrai La Banda degli onesti. Scritto dalla coppia Age & Scarpelli, questo film datato 1956 è diretto da Camillo Mastrocinque, regista che ha firmato 64 film, tra cui diversi lungometraggi con la coppia Totò-Peppino, o anche uno solo dei due, e Walter Chiari. Lavorando con autentici geni della comicità, Mastrocinque limitava molto il suo intervento sul set, lasciando carta bianca alla spontaneità degli attori protagonisti.
La trama di un’Italia ingenua ma vera
Metti insieme l’esilarante coppia Totò e Peppino, aggiungi una spalla irresistibile come Giacomo Furia, colloca il tutto in un’Italia popolata di ingenui e onesti squattrinati, ed ecco La banda degli onesti. Il film racconta di Antonio Buonocore (Totò), portiere romano dal cuore buono che, per caso, entra in possesso di un set di cliché e carta filigranata rubati alla Banca d’Italia. Invece di distruggere il materiale, come promesso a un moribondo, decide di usarlo per stampare banconote false, coinvolgendo il tipografo Lo Turco (Peppino De Filippo) e il pittore Cardone (Giacomo Furia). I tre, animati più dal bisogno che dal crimine, si improvvisano falsari in una serie di gag irresistibili e di situazioni al limite del paradossale. Quando però Buonocore scopre che il figlio, giovane finanziere, sta indagando proprio su quelle banconote, la commedia sfocia in un’irresistibile ironia morale.
Totò e Peppino, maestri della comicità e del carattere italiano
Diretto da Camillo Mastrocinque, che lascia grande libertà d’improvvisazione ai suoi attori, il film è un perfetto esempio di equilibrio tra comicità surreale e critica sociale. La coppia Totò–Peppino funziona come un orologio comico: Totò con la sua mimica e i suoi giochi linguistici costruisce un’umanità buffa e tragica, mentre Peppino, con la sua bonaria rigidità, ne è il contrappunto ideale. Le scene cult – dalla prima stampa della banconota alle riunioni notturne della “banda” – restano modelli di ritmo comico e di scrittura cinematografica.
Age & Scarpelli firmano una sceneggiatura che nasconde, dietro la farsa, una riflessione sull’onestà come valore relativo in un Paese dove la povertà spinge a compromessi. L’Italia che emerge è quella dei piccoli sogni, delle illusioni di riscatto, delle tentazioni morali, raccontata con un’ironia che oggi conserva intatta la sua forza.
Un inno all’onestà e alla commedia di costume
La banda degli onesti non è solo un film comico, ma un ritratto sociale di un’Italia sospesa tra miseria e dignità, che ride dei propri limiti per non soccombere ad essi. La regia di Mastrocinque, apparentemente semplice, lascia parlare gli attori e il linguaggio popolare, mentre la fotografia e l’ambientazione romana restituiscono il tono realistico e affettuoso del Paese di quegli anni. Rivederlo oggi significa riscoprire un cinema capace di far riflettere con il sorriso, dove la risata non cancella la malinconia ma la sublima.
Anche Joe Mantegna sul Walk of Fame
Festeggiato durante la breve cerimonia da David Mamet che per l’occasione ha regalato all’attore un “piede di porco” con tanto di dedica, insieme ad amici e colleghi tra cui Andy Garcia e Denniz Franz.
Vin Diesel presenta il suo quinto Fast & Furious
Belli, muscolosi e sorridenti, così i protagonisti di Fast & Furious 5 si sono presentati questa mattina alla conferenza stampa per presentare ai giornalisti romani il nuovo capitolo della saga più roboante di sempre: mattatore dell’incontro un Vin Diesel su di giri che ha confessato, apparentemente senza riserve, il suo amore per Roma
Philippe Le Guay racconta la sue donne del 6°
Parlando a margine della proiezione di Le donne del 6° piano, il regista del film, Philippe Le Guay, ha diffusamente discusso riguardo alle motivazioni che l’hanno spinto a concretizzare quest’opera, a partire dal desiderio, finora irrealizzato di lavorare con attori non francesi; il casting per i ruoli delle estroverse cameriere spagnole si è svolto a Madrid, dove il regista si è trattenuto per tre settimane, dividendosi tra lavoro e visite culturali: in proposito Le Guay ha raccontato di come, nel corso degli incontri pomeridiani con le aspiranti protagoniste, avesse l’impressione di ritrovarsi di fronte alle versioni in carne ed ossa dei protagonisti delle opere di artisti come Goya e Velazquez, visti nelle visite mattutine al Prado.
La vicenda prende spunto da un avvenimento storico ben preciso: il fenomeno migratorio che, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 portò tante donne spagnole, per la maggior parte provenienti dalle campagne, a fuggire dalla povertà (la Spagna all’epoca scontava un ritardo di quasi un secolo nel suo sviluppo economico rispetto alla Francia) e a farsi impiegare come domestiche, in particolare nelle case della medio-alta borghesia parigina.
Per accentuare il realismo della vicenza, Le Guay ha peraltro intervistato alcune di quelle donne, ormai anziane, oltre che attingendo dalla propria vicenda personale, con la quale peraltro quella del film ha molti punti di contatto. Come il protagonista del film, anche il padre del regista era un agente di cambio, professione peraltro tramandata in famiglia da generazioni, e come nel film, anche la famiglia di Le Guay aveva assunto una domestica spagnola. Come si evince dallo stesso titolo, si tratta di un film incentrato sulle donne: una scelta voluta da Le Guay, che nel film ha voluto riflettere l’allegria di quelle donne, felici del senso di libertà e di affrancamento dall’oppressione maschile, nonostante la durezza dei lavoro che dovevano svolgere e degli orari cui erano costrette.
Parlando del protagonista del film, il regista ha affermato di non aver voluto raccontare tanto la storia di una crisi di mezza età con tanto di innamoramento per una ragazza più giovane, quanto quella di una sorta di ‘risveglio’: anche la sua scelta di appoggiare il gruppo di domestiche, andando oltre i confini di classe e culturali, non è frutto di una posizione ‘a monte’, ma di un’evoluzione, di una presa di coscienza, dalla voglia di farsi coinvolgere e contaminare da una realtà prima sconosciuta, in contrapposizione con lo stile di vita ‘borghese’, rappresentato dai figli, ma anche contro la ‘resistenza’ alla modifica dello ‘status quo’ (e quindi all’andare oltre i rapporti stabiliti dalla società, come appunto quello domestica – padrone), rappresentato anche dal personaggio di Carmen Maura.
Nell’economia della storia, i figli impersonano certo i canoni più rigidi della borghesia francese, ma anche quelli più fedeli alla tradzione e le leggi: figli che allo spettatore possono sembrare meschini e un pò cattivi, ma che in fondo risultano anche divertenti, nel tradizionale rovesciamento di ruoli: a loro sta richiamare ai doveri famigliari un padre improvvisamente scopertosi ‘libero’. Il personaggio della moglie, interpretato da Sandrine Kiberlaine, potrebbe sembrare algido, incurante dei sentimenti del marito e dedito solo alla conservazione delle convenzioni sociali; tuttavia Le Guay ha invece spiegato di aver voluto piuttosto portare sullo schermo un modello di donna della provincia francese, che non vede (o non vuol vedere) il cambiamento del marito, ma non lo giudica nemmeno, in contrapposizione alle amiche cittadine subito pronte a consigliarle un buon divorzista.
Ciò che però il regista ha voluto rimarcare con più forza nel corso della conferenza stampa, è stato volere con questo film porre l’accento sul concetto di ‘comunita’: il film in fondo propone un’utopia, all’insegna dell’interclassismo, dell’accoglienza e del rapporto con ‘l’altro’ come occasione di cambiamento in contrapposizione con il clima attuale, che anche in Francia, soprattutto negli ultimi anni, è stato caratterizzato da una crescente spinta all’esclusione – e dunque all’espulsione – dello ‘straniero’.
Le donne del 6° piano: recensione del film di Philippe Le Guay
In Le donne del 6° piano Jean-Louis è un agente di cambio che vive un’esistenza monotona, scandita dai ritmi sempre uguali del lavoro e da quelli ugualmente poco vivaci della vita famigliare, tra un moglie troppo attenta ad apparenza e formalità e la poca comunicazione coi due figli pre-adolescenti. Sarà un gruppo di cameriere spagnole con la loro umanità calorosa e debordante a restituire al protagonista il gusto dei rapporti umani prima e dei sentimenti poi, attraverso la storia d’amore con una di loro.
Le donne del 6° piano sarebbe passato probabilmente inosservato dalle nostre parti se non fosse stato per il successo riscosso in Francia (2 milioni di spettatori raggiunti in poco tempo), che gli ha fatto guadagnare la classica definizione di ‘caso cinematografico dell’anno’. La storia ce la racconta Philippe Le Guay, praticamente sconosciuto dalle nostre parti, e autore non troppo prolifico (“Le donne…” è la sua quarta pellicola in oltre vent’anni): il ‘canovaccio’ potrebbe forse apparire poco originale (il tipo un pò ‘piatto’, che sommerso nell’anonimato di una vita fin troppo convenzionale, ritrova il piacere della vita), così come lo svolgimento all’insegna di una certa prevedibilità, ma alla fine il tutto viene presentato con modi tali da poter sorvolare sulla scontatezza, anche grazie a una sorta di cambio di registro in corso d’opera: laddove ormai sembra di essersi incanalati nei binari della farsa, ecco che si devia verso la commedia sentimentale.
Una scelta comunque azzeccata, il cui limite è che forse il cambio di traiettoria è un pò improvviso: a un certo punto le risate si esauriscono, e nel proseguio prevalgono i sentimenti, il film perde di ritmo e coesione, con sequenze che finiscono per sembrare un pò ‘giustapposte’, rendendo meno fluido lo scorrimento della storia. A salvare il film ci pensano comunque gli interpreti, a partire da Fabrice Luchini (una lunga carriera nel cinema francese, dall’esordio di In ginocchio da Claire di Rohmer, a Potiche – La bella statuina di Ozon) nel ruolo del protagonista, capace di dare vita a quel personaggio che, prima in modo titubante e poi sempre più convinto, si fa travolgere dagli eventi, con una mimica efficace sia nel suscitare la risata, che nell’evocare maggiore riflessività; con lui le convincenti Sandrine Kiberlaine (una moglie a cavallo tra conspavelozza e voluta indifferenza di fronte al mutamento del marito), Natalia Verbeke (che dipinge con delicatezza la cameriera della quale il Jean-Louis si innamora, dominata dalle incertezze derivanti da un vissuto in parte drammatico).
A fianco a loro naturalmente spicca il gruppo di esuberanti signore, guidate dall’attrice – feticcio di Alomodòvar, Carmen Maura, tra le quali vi è un’altra frequentatrice abituale dei set del regista spagnolo, Lola Duenas. Non a caso, la presenza delle due interpreti, accomunate alle altre dalla provenienza spagnola nella finzione cinematografica, può ricordare certe ‘comunità’ dei film di Almodòvar, finendo in certi frangenti per spingere ad immaginare cosa sarebbe stato questo film nelle sue mani, senza peraltro nulla togliere alla capacità di Le Guay di dare comunque vita a un film gradevole.
Le donne del 6° piano pur con qualche passaggio a vuoto resta infatti un film efficace, divertente, che riesce a strappare in più di un’occasione risate di gusto, e che oltre a raccontarci il ritorno alla vita di un individuo schiavo delle sue abitudine, ci racconta anche di quanto il contatto con altre culture e modi diversi di affrontare la vita alla fine possa essere via per migliorarsi: un messaggio più che mai necessario in tempi nei quali l’immigrato è vissuto fin troppo spesso come una ‘minaccia’ o, nel migliore dei casi, come un problema del quale liberarsi in fretta.
Come l’acqua per gli elefanti: recensione del film
Arriva al cinema distribuito da Come l’acqua per gli elefanti, il film diretto da Francis Lawrence, con Robert Pattinson e Reese Witherspoon.
In Come l’acqua per gli elefanti Jacob è un giovane studente di veterinaria, figlio di immigrati polacchi, che nel giorno del suo esame finale all’università perde entrambi i genitori in un incidente stradale. Siamo negli anni ’30 e gli Stati Uniti sono nel pieno della Depressione. Il ragazzo decide quindi di andare verso la città, ma sulla strada salta su di un treno che si rivela essere quello del circo itinerante dei fratelli Benzini. Entra subito nelle simpatie di un altro espatriato polacco, che gli troverà lavoro come spalatore di deiezioni degli animali. Il suo primo giorno di lavoro, Jacob rimane folgorato da Marlena, stella del circo oltre che moglie del bipolare August, capo della struttura. August alterna momenti di tenerezza e amore per la moglie a scatti d’ira che rivolge con la stessa violenza su esseri umani e animali. Dopo aver scoperto gli studi di Jacob, lo promuove veterinario del circo e in seguito addestratore della nuova attrazione: Rosie l’elefantessa. Grazie all’animale, ma anche a causa della sempre maggiore irascibilità del marito di Marlena, i due si avvicineranno inevitabilmente.
Come l’acqua per gli elefanti, il film
Francis Lawrence, regista di questo film, ha al suo attivo la regia di Constantine, film apocalittico con Keanu Reeves arcangelo e Io sono leggenda, altro film apocalittico con Will Smith. Anche in questo caso un animale accompagna la storia del film e c’è da dire che probabilmente è quello che riesce a procurare le maggiori emozioni. Come l’acqua per gli elefanti infatti, che vuole narrare una storia di amore osteggiato, durante la Depressione degli anni Trenta, non prende mai decisamente la strada del melodrammatico, i personaggi non sono mai delineati a livello caratterialmente profondo, non c’è un cattivo contro il quale opporsi e anche i buoni comunicano poca empatia. Christoph Waltz si impegna enormemente, riuscendo a caratterizzare con successo il suo personaggio come uno psicotico, non è alla fine il male assoluto, e dall’altro canto Robert Pattinson e Reese Witherspoon non sembrano mai disperatamente attratti l’uno dall’altra.
Le carte in tavola per un film che potesse sbaragliare il campo c’erano tutte: su tre personaggi principali, figurano due premi Oscar, con l’aggiunta da box office dell’idolo delle teenager in vena di riscatto attoriale. Il progetto però fallisce, visto che tra i tre non si percepisce un lavoro fatto in armonia, non ci sono tracce di chimica, ognuno recita il suo ruolo a prescindere dalla presenza dell’altro. Di sicuro si cerca, anche attraverso la fotografia, virata sul giallo/ambra di Rodrigo Prieto di creare l’atmosfera di quegli anni, anche sottolineando l’assoluta assenza di idee riguardanti ad esempio, la violenza sugli animali o una certa etica professionale.
Inoltre, e questo è parte ormai delle strategie della distribuzione italiana, nel titolo si richiama il film di Alfonso Arau “Come l’acqua per il cioccolato”. Questo non vi tragga in inganno, i due non sono affatto tormentati, o osteggiati dalla società, la sicurezza della fuga che i due faranno insieme si percepisce già dalle prime sequenze. L’elemento di distrazione da una storia essenzialmente lineare ce lo danno quindi gli animali, che come dice uno dei personaggi, sono al primo posto come importanza nello spettacolo. Anche in questo, inteso come opera filmica. La chiave di volta della storia Come l’acqua per gli elefanti, forse non a caso, ricade infatti nelle loro zampe.
Il ragazzo che vide la fine del mondo: Jake Gyllenhaal
Occhi azzurri e broncio da eterno ragazzino, Jake Gyllenhaal è entrato nell’immaginario collettivo dando corpo a Donnie Darko, il ragazzino un po’ asociale che tra disquisizioni pseudo dotte sul sesso dei puffi e visioni inquietanti ha previsto la fine del mondo nel 2001.
Dopo 10 anni di vita al cinema e dopo aver interpretato numerosi personaggi importanti per la filmografia mondiale a diversi livelli, Jake ritorna al cinema in Source Code, thriller fantascientifico magistralmente diretto da Duncan Jones, lo stesso del semisconosciuto e prodigioso Moon. In Source Code Jake mostra la sua padronanza della scena, seppur claustrofobica, palesando agli occhi dello spettatore che il ruolo del soldato è quello che gli si addice maggiormente, infatti già Sam Mendes nel 2006 ne aveva fatto un marines in Jarhead.
Una vita nel cinema: il nostro giovane Jake nasce in una famiglia inserita nell’ambiente, padre, Stephen Gyllenhaal, regista di origine svedese; madre, Naomi Foner, sceneggiatrice ebraica e newyorkese; ha anche una sorella maggiore, Maggie, splendida attrice cinematografica vista accanto a lui in Donnie Darko, ma anche in Secretary e soprattutto ne Il Cavaliere Oscuro nei panni di Rachel, amica e amata di Bruce Wayne/Batman. Non solo la famiglia ma anche la sua cerchia di amici e (come spesso succede) amori gira intorno ad Hollywood: fidanzato con Kirsten Dunst per due anni, poi con Reese Witherspoon e per un po’ di tempo anche con Taylor Swift; trai suoi migliori amici si contano la bella e più volte compagna di set Anne Hathaway, il compianto Heath Ledger, anche lui collega nel discusso I Segreti di Brokeback Mountain, ma anche il cigno Natalie Portman e i componenti dei Maroon 5.
Il ragazzo che vide la fine del mondo: Jake Gyllenhaal
Il giovane Jake Gyllenhaal Inizia la sua carriera all’età di 5 anni come protagonista nel video della canzone Lay It Down della band rock Ratt, ma il suo vero debutto sul grande schermo avviene nel 1991, all’età di 10 anni, nel film Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche di Ron Underwood. Prima del diploma, l’unico film non diretto dal padre al quale ha potuto partecipare è Josh and S.A.M., un film d’avventura per bambini poco conosciuto. Dopo essersi diplomato alla Harvard-Westlake High School di Los Angeles nel 1998, si iscrive nel 2000 alla Columbia University di New York per seguire un corso di Religioni Orientali e Filosofia, ma dopo due anni abbandona gli studi per concentrarsi sulla sua carriera d’attore.
Il primo ruolo da attore protagonista ci sarà nel 1999 con il film Cielo d’ottobre di Joe Johnston, nel quale interpreta la parte di un figlio di minatori che, colpito dal lancio dello Sputnik, decide di costruire un proprio razzo per lanciarlo nel cosmo. Il film incassa 32 milioni di dollari e Jake riceve commenti molto positivi dalla critica per la sua performance; il ragazzino dallo sguardo imbambolato comincia a farsi notare e presto arriverà l’occasione di una vita: Donnie Darko. La notorietà internazionale e il plauso della critica arrivano infatti nel 2001 grazie al film cult di Richard Kelly. Presentato al Sundance Film Festival il 19 gennaio del 2001, il film non ottiene buoni incassi ma strega una solido gruppo d fan che ne porteranno avanti il ‘mito’ e o faranno diventare un piccolo cult. Elvis Mitcheel, giornalista del New York Times, dice: «La performance di Gyllenhaal è particolarmente inquietante: è probabilmente lontano solamente un paio di grandi ruoli dal diventare una star».
Nello stesso anno incontra Heath Ledger, con il quale partecipa al provino per Moulin Rouge! di Baz Luhrmann. Come sappiamo il ruolo fu poi affidato ad Ewan McGregor, ma Heath e Jake divennero molto amici da allora, tanto che l’attore prematuramente scomparso indicò proprio il nostro Jake quando si trattò di scegliere un padrino per la sua primogenita Matilda, nata dall’unione con Michelle Williams. Dopo Donnie Darko partecipa a diversi film più o meno indipendenti e recita accanto a Jared Leto (attore e front man dei 30 Seconds to Mars), Jennifer Aniston, Susan Sarandon, Dustin Hoffman, oltre a debuttare a teatro accanto a Hayden Christensen e Anna Paquin in This Is Our Youth di Kenneth Lonergan, che rimane in cartellone a Londra per 8 settimane.
Nel 2004, arriva una grande opportunità che purtroppo Jake non riesce a cogliere (non per suo demerito). Infatti Tobey Maguire rimase infortunato durante le riprese di Spider Man 2 e Sam Raimi prende in considerazione Gyllenhaal come sostituto di Tobey. Come sappiamo però Maguire si ristabilisce e Jake può così partecipare al catastrofico The Day After Tomorrow – L’alba del giorno dopo, del 2004, lavorando per Roland Emmerich accanto a Emmy Rossum e Dennis Quaid. Jake è Sam, brillante studente in visita a New York per una competizione insieme ad altri suoi compagni di scuola. In città, Sam rimarrà prigioniero nella biblioteca attanagliato dal gelo di una improvvisa, implacabile nuova Era Glaciale.
Ma il 2005 è l’anno del successo planetario: il regista Ang Lee lo sceglie per interpretare Jack Twist, mandriano che scopre l’amore in Ennis Del Mar, interpretato dall’amico Heath Ledger. Il film è I segreti di Brokeback Mountain e la performance dei due attori protagonisti viene acclamata, forse anche per scongiurare accuse varie di omofobia, all’unanimità da critica e pubblico: il film ottiene, infatti, 71 premi e 52 nomination. Il Jack interpretato da Jake è un uomo sensibile e innamorato, che non accetta la ritrosia del suo compagno e vive una vita priva di gioia, sempre in attesa che il suo Ennis faccia qualcosa per potergli stare accanto. Per la sua interpretazione, Gyllenhaal riceve numerosi riconoscimenti tra i quali un premio BAFTA, uno Screen Actors Guild, in entrambi i casi nella categoria di “miglior attore non protagonista” e un MTV Movie Award nella categoria “miglior bacio” con il collega Heath Ledger. Sempre nella categoria “Oscar al miglior attore non protagonista” riceve una candidatura al Premio Oscar.
È in questo film che Jake incontra anche Anne Hathaway, che interpreta Lureen Newsome, ricca e un po’ rozza texana che sposerà Jack. La coppia Gyllenhaal/Hathaway si è dimostrata vincente anche di recente al cinema, con Amori e altri rimedi, firmata Edward Zwick, dramma travestito da commedia, ridanciano e scollacciato in cui i due giovani attori sono due amanti e fanno bella mostra dei loro corpi belli e giovani. Lo stesso Zwick ha sottolineato: “Eravamo tutti d’accordo nel dare autenticità a questa relazione. Per quanto riguarda la mia esperienza, quando due persone si mettono insieme trascorrono un sacco di tempo a letto. Il letto diventa il loro mondo. Se Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway avessero tenuto le lenzuola fino al mento sarebbe stato ridicolo”. Inoltre i due attori, amanti sul set, sono amici ‘di cucina’: sono soliti scambiarsi consigli e ricette culinarie; i due si sono ritrovati a scambiarsi SMS per qualche consiglio culinario, ma è soprattutto Jake – che è considerato un cuoco provetto, ad Hollywood – ad aiutare la collega, che invece non è particolarmente brava in questo campo. “Lei mi manda messaggi quando ha dei dubbi in materia di cucina” – ha rivelato Gyllenhaal – “L’altra sera Annie mi ha chiesto un consiglio su come fare velocemente il pangrattato, e io le ho scritto tutte le istruzioni, mettendoci 15-20 minuti. E lei mi ha risposto: “Ah sì, ci pensato. Ma non funziona.”
Nel 2005, recita nella pellicola del regista Sam Mendes sulla guerra del Golfo, Jarhead, assieme al cognato Peter Sarsgaard e in Proof – La prova di John Madden, accanto a Gwyneth Paltrow e Anthony Hopkins. Dopo una pausa di due anni, David Fincher lo vuole sul set di Zodiac, film che tratta dell’omonimo serial killer statunitense, mai catturato. Gyllenhaal interpreta Robert Graysmith, vignettista fanatico di parole crociate e rebus, che insieme all’ispettore David Toschi (Mark Ruffalo) ed al giornalista disfattista e alcolizzato Paul Avery (Robert Downey Jr.) proveranno a dare la caccia al serial killer Zodiac. Il ritmo dilatato del film di Fincher da ampio spazio alla prova attoriale di Jake che si mostra all’altezza del regista e dei suoi illustri colleghi.
Sempre nel 2007 esce Rendition – Detenzione illegale di Gavin Hood, accanto a Reese Witherspoon, Meryl Streep e di nuovo Peter Sarsgaard. Ma presta anche la voce al cortometraggio d’animazione The Man Who Walked Between the Towers di Michael Sporn, in cui commenta l’impresa dell’acrobata francese Philippe Petit che, il 7 agosto 1974, camminò su una fune da una Torre Gemella all’altra, venendo poi “condannato” ad esibirsi al Central Park davanti ad un pubblico di bambini. La stessa storia viene raccontata nel bellissimo documentario premio Oscar Man on Wire, presentato in anteprima mondiale al Festival di Roma del 2008.
Dal 6 luglio 2006 è tra i 120 nuovi invitati a far parte della Academy, con diritto di voto per le assegnazioni degli Oscar. La sua nomina, come le altre, è stata ufficializzata il 20 settembre 2006 nel corso di una cerimonia tenutasi al Fairbanks Center for Motion Picture Study di Beverly Hills. Considerato un sex symbol nel mondo dello spettacolo, nel 2006 viene confermata la sua posizione dalla rivista People che lo piazza nella classifica “50 Most Beautiful People” e in quella di “Hottest Bachelors of 2006”, ma Jake in realtà si contraddistingue proprio per la differenza tra la sua prestanza fisica, che si nota soprattutto in Prince of Persia del 2008, e il suo viso, da eterno ragazzo.
Del 2008 sono Brothers, film di Jim Sheridan, con l’amica Natalie Portman e l’ex ‘rivale’ Tobey Maguire, e Prince of Persia: Le sabbie del Tempo, film tratto dell’omonimo videogioco, in cui Gyllenhaal interpreta il principe Dastan, accanto a Gemma Artenton. Per questo ruolo Jake si è dovuto allenare molto, costruendosi una fisicità che prima non aveva affatto in modo da poter fare il più possibile a meno di controfigura e stun. Il 4 febbraio 2011 esce in Italia Amore & altri rimedi, di cui abbiamo già parlato e per la quale Jake ha ricevuto una candidatura ai Golden Globes.
E’ attualmente in fase di post produzione Nailed, commedia romantica che vede Jake Gyllenhaal recitare accanto di Jessica Biel e James Marsden. Nel film una giovane cameriera di una piccola città, in seguito ad un incidente, subisce sbalzi di comportamento. A Washington un giovane senatore la prende sotto la sua ala protettrice, ma l’amore ci metterà lo zampino. Alla regia il ritrovato David O. Russel reduce dal successo del suo The Fighter. Source Code, nelle sale italiane dal 29 aprile, aprirà il prossimo Southwest Film Festival.
Molto legato alla sua famiglia, ha più volte dichiarato di essere di fede ebraica, religione professata dalla madre e, all’età di 13 anni, ha celebrato il suo Bar mitzvah. Jake Gyllenhaal, come gli altri membri della sua famiglia, è impegnato in numerosi progetti che promuovono la cultura, l’educazione, i diritti umani, la non-violenza e la difesa dell’ambiente. È sostenitore dell’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili), dell’associazione Not in Our Name che promuove un patriottismo pacifico, e del College Summit, un’organizzazione no-profit che aiuta, anche economicamente, l’ingresso al college degli studenti poco abbienti. Nel 2004 ha partecipato alla campagna elettorale di John Kerry, candidato democratico alla presidenza USA. In occasione della 78ª Notte degli Oscar, si è recato al Kodak Theater di Los Angeles su una macchina che produce l’80% in meno di emissioni inquinanti, aderendo con vari altri candidati e presentatori all’iniziativa Red Carpet, Green Cars. L’attore, inoltre, sostiene le attività della CarbonNeutral Company in difesa dell’ambiente, e nel 2010 è entrato a far parte della campagna Stand Up To Cancer insieme ad altre star di Hollywood.
CURIOSITA’
- Madrina di Jake è l’attrice Jamie Lee Curtis, mentre il suo padrino è Paul Newman. Il fascinoso attore dagli occhi di ghiaccio, che è un grande appassionato di motori, ha dato a Jake le prime lezioni di guida.
- Jake Gyllenhaal ha rivelato che suo cognato Peter Sarsgaard gli ha fatto conoscere la comodità di correre a piedi nudi, o quasi. Jake infatti ha detto che non indossa normali scarpe da ginnastica, perchè le trova scomode, e preferisce quelle con una suola molto sottile, che gli garantiscono comodità e al tempo stesso gli impediscono di farsi male quando corre in città.
- Il buio oltre la siepe è il libro preferito di Jake Gyllenhaal, tanto che l’attore ha chiamato i suoi due cani Boo e Atticus, come due personaggi principali del romanzo di Harper Lee.
- Uno dei docenti di Jake Gyllenhaal ai tempi in cui frequentava la Columbia University, era Robert Thurman, padre di Uma Thurman.
- Jake è inoltre discendente di Johan Abraham Gyllenhaal, geologo e mineralogista, uno dei membri della famiglia nobile svedese dei Gyllenhaal. Il cognome Gyllenhaal, in svedese, potrebbe significare “salone d’oro”.

