Il film di
Maria Sole Tognazzi si presenta autonomamente dal
titolo “L’uomo che ama”, e se c’è
qualcosa di chiaro in questo film è appunto questo: il
protagonista, Pierfrancesco Favino, è innamorato. Tuttavia
nessuna buona storia può reggersi solo su un presupposto, infatti
Favino, non solo ama, ma soffre, piange e fa
soffrire.
Roberto è un tranquillo farmacista
quarantenne che vive un’intensa relazione con Sara, la quale
tuttavia decide di lasciarlo quando lui scopre, per caso, che la
donna aveva rivisto un ex, di cui probabilmente era ancora
innamorata. Lui è distrutto e cerca varie volte di incontrarla, con
il risultato di sentirsi respingere perché lei non lo ama. Persino
la titolare della farmacia in cui lavora nota la sua disperazione e
gli consegna delle pillole per aiutarlo a dormire. Nella seconda
parte del film Roberto è insieme ad Alba, una bella donna che lo
ama sinceramente; lei si occupa di allestimenti nelle mostre
d’arte. Ma le cose non sono quello che sembrano.
Un film presuntuoso per come si
presenta: un saggio sull’amore visto dall’uomo. In realtà si
risolve in un racconto per immagini che smarrisce il filo
conduttore facendo perdere anche lo spettatore, una serie di lunghe
passeggiate e di docce che vedono come protagonista l’attore
romano che si barcamena tra una bellissima ed
innamoratissima Bellucci che soffre, ed una misteriosa e sfuggente
Rappoport che fa soffrire.
La sofferenza de L’uomo che ama
Annunciato come un film innovativo
che dovrebbe mostrare l’altra metà dell’amore, si risolve nella
fiera della banalità: anche l’uomo soffre, anche la bellissima
viene lasciata, l’amore viene e va. Neanche la regia di
Maria Sole Tognazzi riesce a dare al film un
guizzo di originalità, tanto che il risultato appare come un
videoclip poco ispirato. L’uomo che ama è capace
di affossare anche attori bravi come Pierfrancesco
Favino, ormai lanciato verso una carriera
internazionale, e la Rappoport che aveva offerto una splendida
prova ne La Sconosciuta di
Tornatore.
Scelto per inaugurare la sezione
Premiere del Festival di Roma, L’uomo che
ama si fa portavoce di una tendenza del cinema italiano
che si trascina sin da troppo tempo in cui il senso del racconto è
annacquato da una classicità pretestuosa che avrebbe bisogno di una
rivoluzione, con volti e voci nuove, che al momento non trovano
spazio.
Nota positiva in chiusura, le
musiche della sempre ispirata Carmen Consoli.
La distruzione, quindi, come la
creazione, è uno dei mandati della natura
(Sade, La filosofia del Boudoir)
Il fatto che esistano dei bisogni
sessuali negli esseri umani e negli animali è spiegato in biologia
con la assunzione di un «istinto sessuale», per analogia con
l’istinto di nutrizione (nel caso della fame). Il linguaggio d’ogni
giorno, per quanto concerne i bisogni sessuali, non possiede una
parola che corrisponda a «fame», mentre la scienza fa uso, a questo
proposito, del termine «libido».
(Freud, Le aberrazioni sessuali)
“La borghesia non può più in alcun
modo liberarsi della propria sorte […] e […] qualunque cosa un
borghese faccia, sbaglia”
(Pasolini, Teorema)
Escono a distanza di poco tempo,
1974 e 1975, forse i due film in assoluto più estremi che la
storia cinematografica del nostro paese abbia mai visto.
Si tratta di La grande abbuffata di Marco Ferreri e Salò o le 120
giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
Molto spesso parte della critica ha accostato questi film per i
loro tratti in comune.
Se indubbiamente i due film presentano aspetti simili in certe
situazioni rappresentate, nei temi e negli assunti che li
muovono, diverse sono invece sono le premesse ideologiche e
tematiche, nonché gli sviluppi espressivi e le strategie
linguistiche messe in atto dai due autori, entrambi passati alla
storia come provocatori e fustigatori di costumi.
Vediamo brevemente le trame di entrambi i film.
La grande abbuffata. Quattro uomini
-un pilota di linea, un giudice, un produttore televisivo, un
ristoratore- si chiudono in una villa nei pressi di Parigi al fine
uccidersi mangiando oltremisura. A loro si unirà poi una maestra
d’asilo. Uno per volta moriranno tutti, mentre la maestra si
rinchiuderà nella villa.
Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il film è basato sull’opera del marchese De Sade Le 120 giornate di
Sodoma, ma trasposto nella Repubblica Sociale Italiana.
Quattro signori, rappresentanti altrettanti aspetti del potere
(Eccellenza, Monsignore, Presidente, Duca) si riuniscono in una
villa in compagnia di altrettante meretrici (tre di loro
ecciteranno dei signori mediante racconti, mentre la quarta le
accompagnerà al pianoforte).I signori rapiscono un gruppo di
ragazze e ragazzi tra le brigate partigiane per disporne
crudelmente e indiscriminatamente attuando su di essi atroci
perversioni, seviziandoli e torturandoli. Il regolamento stilato
dai quattro signori proibisce ogni insubordinazione, l’assoluta
obbedienza e le pratiche religiose punibili con la morte, nonché i
coiti tra individui di sesso diverso. Durante l’orgia finale di
sesso e violenza, due giovani collaborazionisti dei signori
improvvisano maldestramente qualche passo di valzer.
Sono evidenti i nodi comuni alle
due pellicole. Entrambe fanno leva sull’eccesso (e infatti il
Monsignore di Salò commenta il crudele regolamento stilato dai
quattro signori con la frase “Tutto è buono quando è eccessivo”).
La prima pone l’accento sugli eccessi alimentari (ma non manca
l’aspetto sessuale, proprio dell’altro film), l’altra sugli eccessi
sessuali (ma non manca l’aspetto del cibo, dominante in quella di
Ferreri). C’è forse un dato ulteriore, che accomuna queste
due opere, ma tale dato è assunto e sviluppato in maniera
differente dai due registi: il loro fondo critico nei confronti di
alcuni aspetti caratteristici della società neocapitalistica, quali
l’edonismo antiumanitario, assoluto e indiscriminato, e
l’altrettanto assoluta opulenza, nonché le perversioni spesso
represse. Benché l’acredine e il piglio provocatorio sia
comune a entrambi i film (e pressoché anche all’intero opus dei due
autori), scrivevo poco più sopra che diversa è invece la modalità
con cui la critica viene messa in atto dai due registi.
La grande abbuffata (di cui Pasolini stesso aveva scritto sulla
rivista “Cinema Nuovo” nel numero di settembre-ottobre 1974,
elogiandone alcuni aspetti e rimproverando invece l’arbitrarietà e
la mancanza di articolazione dei principi metafisici e metaforici
che sembrano aleggiare nel film, già colti da Maurizio Grande) si
presenta, così come altri film del secondo Ferreri (dopo la fase di
“commedie nere” quali La donna scimmia e L’ape regina), quale film
“eventico” o fenomenologico, un po’ come il precedente Dillinger è
morto (1968) o il successivo L’ultima donna (1978).
Non si può dire che in questi film vi sia una trama, intesa in
senso tradizionale, come intreccio dove a un conflitto iniziale
debbano seguire azioni che conducano al suo scioglimento, ma
piuttosto una serie di eventi, atti (più che azioni drammaticamente
dette) interpolati a una situazione di base pressoché priva di
intreccio.
Del resto, quello della trama così intesa è un concetto forse più
proprio di certa letteratura (il romanzo classico), o al limite di
buona parte del teatro (almeno fino a Beckett escluso), mentre non
è necessariamente attributo specifico del cinematografo.
Nel caso specifico di questo film, la situazione di base è presto
detta e potrebbe essere liquidata in due righe: quattro amici
appartenenti alla borghesia medio-alta compiono un quadruplice
pantagruelico suicidio. Tutto il resto di ciò che vediamo nel film,
dalla passione del pilota Marcello per le macchine d’epoca, alle
inclinazioni artistiche del produttore Michel che suona il piano o
improvvisa dei passi di danza, ai siparietti del cuoco Ugo che
imita il Brando de Il padrino, non è che una serie di eventi
accessori a quella situazione di base che segue il suo proprio
clinamen del tutto indisturbata e in maniera inarrestabile, come
inarrestabile è l’orgia gastronomica dei protagonisti. Tali eventi
accessori, del resto, non contraddicono, non ostacolano, ma neppure
accelerano l’iter della situazione di base.
D’altro canto Ferreri non ci lascia spiegazioni palesi del perché i
suoi quattro protagonisti decidano di darsi ad eccessi alimentari
fino a morirne. Probabilmente, non ne abbiamo bisogno. Egli non
voleva fornirci che un apologo, privo di scavo psicologico (e del
resto i personaggi –sempre che a Ferreri interessi ciò che siamo
soliti definire “personaggio”- mantengono i nomi degli attori che
li interpretano: Ugo-Tognazzi; Michel-Piccoli; Philippe-Noiret;
Marcello-Mastroianni; Andreà-Ferreol), dove i protagonisti sono
presentati dapprima come esemplari della borghesia medio-alta,
ritratto ognuno nel suo ambiente personale, grigio, vacuo,
squallido, ed osservati poi nella villa solo nel loro comportamento
(con sguardo eventico, dicevamo), come animali.
Risultano illuminanti a questo proposito le parole del regista:
“Nel mio film il mangiare diventa l’ultima speranza e disperazione
presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici
particolari ho voluto rappresentare, come davanti allo specchio,
dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui
sentimenti ed è per questo che ho voluto fare un opera fisiologica.
(…) Ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non
al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di
questa vita”.
Ed ecco, non è che il corpo l’unica tragica realtà di questa vita,
allo stesso modo che per gli animali, così per gli uomini:
l’assunto materialista di Ferreri è semplicissimo, tale che non
necessita di spiegazioni logiche, quasi una tautologia.
Ma cosa accade quando è un borghese -ovvero un appartenente a
quella classe che fa dell’autosufficienza, dell’autoconservazione,
dell’integrità morale spesso paralizzante, dell’abbondanza i propri
modus vivendi- a realizzare questa “tragica realtà” del corpo?
Un borghese non può che accostarsi ad essa in maniera
automaticamente perversa, poiché si riappropria del naturale e
delle sue uniche tragiche certezze (il corpo e il suo
sostentamento) in maniera violenta ed eccessiva: egli è un complice
della società dei consumi e della sua cultura (quella delle norme
per il giudice interpretato da Noiret, quella dello spettacolo per
il produttore Piccoli, quella del benessere alimentare e del
successo dei personaggi di Tognazzi e Mastroianni), per cui il
ritorno alla natura e all’animalità fisiologica –che è anche, come
vedremo successivamente, un regressus ad uterum o ad nihil- non può
attuarsi più secondo le norme (borghesi) della autoconservazione,
ma attraverso la pulsione di morte in pieno disprezzo verso il
proprio essere.
Se i protagonisti ferreriani appaiono in certo qual modo come folli
o masochistici latori di un disprezzo antiumanitario, i
quattro signori del film pasoliniano sono inequivocabilmente dei
sadici, mossi anch’essi da disprezzo. La differenza più evidente
tra i quattro protagonisti ferreriani e i quattro signori del film
di Pasolini è che questi ultimi sono uomini di Potere. Ma se
Ferreri, per sua stessa affermazione, non ha voluto tanto
rappresentare dei significati metaforici (quelli che del resto
Pasolini, nel suo articolo su La grande abbuffata, aveva criticato
come inerti e arbitrari perché non compiutamente articolati),
Pasolini invece si serve almeno di due livelli metaforici.
Il primo è quello del sesso inteso come metafora dei rapporti di
potere, come dominio diretto esercitato da alcuni individui sul
corpo di altri (simile in questo, a un altro film maledetto,
anch’esso, come Salò, uscito postumo: Querelle di Fassbinder).
Un sesso non più vissuto –come accadeva nella Trilogia della vita
(Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una
notte) in maniera totalmente naturale, sempre gioiosa anche nelle
sue manifestazioni che la nostra cultura tende a demonizzare (il
poeta omosessuale e i tre giovani ne Il fiore delle mille e una
notte, ad esempio), ma esclusivamente come borghese possesso, dove
gli atti sessuali non hanno mai come fine il piacere che da essi
–naturalmente- deriva, ma il piacere che deriva dall’infliggerlo
come crudeltà alle loro vittime. Del resto, la sessualità dei
quattro signori, appare come perversa perché ancora –Freud alla
mano- infantile (anale-escrementizia), o consumata sui corpi morti
delle vittime nel finale.
Anche i quattro personaggi del film ferreriano, hanno, a ben
vedere, una sessualità ancora infantile: evidente nel giudice
Philippe che chiede alla maestra Andreà di sposarlo dopo che questa
gli ha praticato un rapporto orale (stesso atto che abbiamo visto
compiere precedentemente –ed è significativo- dalla sua balia), o
nel fallocentrismo latente di Marcello, o in Ugo, che muore
ingurgitando un enorme paté facendosi masturbare da Andreà.
In oltre, benché i personaggi de La grande abbuffata non siano
visti secondo un modello tradizionale di scavo psicologico, è pur
vero che molti tratti del film sono leggibili secondo certi
parametri della letteratura psicoanalitica e antropologica.
In questo senso mi sembrano illuminanti le teorie di Abraham
riprese poi da André Green.
Abraham distingue due modalità nella fase orale dello sviluppo
della libido: la prima in cui prevale la suzione (del seno
materno); la seconda (che corrisponde alla sottrazione del seno
materno) in cui prevale il piacere di mordere e lacerare che
corrisponde alla fase sadico-orale.
I personaggi ferreriani apparirebbero dunque tutti appartenenti
alla seconda fase descritta da Abraham: essi sembrano sfogare il
piacere di mordere e lacerare legato alla fase sadico orale
connessa alla sottrazione del seno materno. Il giudice Philippe
(rimasto sessualmente puer, come notava Pasolini), d’altro canto
muore proprio dopo aver ingurgitato un gigantesco budino a forma di
seno. Potremmo dire, in termini psiconanalitici, che egli ha
realizzato il desiderio di incorporazione del seno materno proprio
di quella fase dello sviluppo della libido. La figura materna del
film è naturalmente il personaggio della maestra Andreà, che
accompagna i quattro nel loro disfacimento, che è dunque anche una
sorta di regressus ad uterum, simile (ma più cruento) a quello dei
personaggi del successivo Chiedo asilo, che nel finale ritornano
alle acque –materne- del mare.
Veniamo ora al secondo livello metaforico del film di Pasolini, che
è quello della Storia. Il romanzo di Sade, autore settecentesco,
trasposto nella Repubblica Sociale, coi quattro signori che citano
a più riprese anche scrittori posteriori al tempo in cui il film è
ambientato, non è un gratuito gioco colto d’autore.
Questa operazione può intendersi meglio alla luce dell’Abiura dalla
trilogia della vita scritta dal poeta friulano all’indomani
dell’uscita del film, protestando contro la falsa tolleranza che
aveva scavalcato la lotta per la liberazione sessuale e il
proliferare dei film boccacceschi usciti a seguito della sua
trilogia.
In essa, Pasolini scrive fra l’altro: “Il crollo del presente
implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di
insignificanti e ironiche rovine.”
È l’amara constatazione di un intellettuale che si rende conto che
le armi della propria logica, della sua cultura e della sua
coscienza storica non sono sufficienti a contrastare l’orrore del
suo tempo, poiché il presente mantiene un terrificante rapporto di
specularità col passato, e il Potere omologante di oggi, della
neocapitalistica società dei consumi, non è diverso da quello
fascista, come non è diverso dai crudeli personaggi sadiani: essi
hanno come unico fine il dominio pieno e antiumanitario degli
esseri umani.
Notava giustamente Moravia a proposito del film che in esso
Pasolini si è servito “di Sade come di una pietra da lanciare
contro la società italiana, con l’intento provocatorio di farla
uscire allo scoperto, fuori dalla sua corruzione e dalla sua
contraddittoria condanna dell’omosessualità.”
Lo sguardo di Pasolini è qui, in questo suo ultimo film, amaro più
che altrove. La logica stessa, che egli adoperava da intellettuale
per fustigare i costumi, non è che un prodotto della società
dominante, un ulteriore strumento di tirannia di cui essa si serve
per stabilire delle norme, discriminando ciò che è logico e ciò che
non lo è. Ecco allora dove risiede la differenza sostanziale che
separa il film di Pasolini da quello di Ferreri. Quest’ultimo ha lo
sguardo di un entomologo o di un etologo, e come tale non riconosce
alcuna logica alla cosiddetta società civile ma neppure –a livello
metafisico- alla realtà stessa (ed era Pasolini stesso a notarlo,
nell’articolo più volte citato su La grande abbuffata: “una
contestazione assoluta, che mette in scacco «globalmente» la logica
del reale, non ammettendo la possibilità di alcun genere di
logica”): per Ferreri l’uomo non è aristotelicamente animale
razionale, e dunque egli non può dare spiegazioni logiche né alla
naturalezza del corpo (tanto nella sua creazione che nel suo
disfacimento inteso anche come regressus ad uterum), né del
quadruplice suicidio pantagruelico da lui messo in scena.
Pasolini ha invece l’amarezza di chi ha creduto fermamente, da
intellettuale, che la logica e la ragione potessero essere
ristabilite, con passione civile, anche lì dove sembravano “regnare
l’arbitrarietà e il mistero”, benché la logica borghese del buon
senso comune sia stata da lui criticata in più occasioni
(l’episodio del film Le streghe “La terra vista dalla luna”,
“Teorema”). Quella di Pasolini è una presa di coscienza da parte di
un uomo, come scriveva Moravia “tradito dal suo paese”, per il
quale ha lottato con forte passione, suo modo, ma ne è stato come
respinto per la sua diversità morale e sessuale. Quella diversità
sessuale che la società italiana borghese gli aveva fatto sentire
come nemica, in un senso di colpa latente.
Anche il linguaggio è usato nei film in maniera differente: se per
i protagonisti di Ferreri il linguaggio è quello della chiacchiera
(heideggerianamente, il linguaggio del “si dice”) tipicamente
borghese, usato come funzione meramente fatica (e forse in questo
legato al puro piacere di dire, e perciò alla fase orale), i
signori del film di Pasolini citano a memoria Baudelaire,
Nietzsche, Klossowski: sono uomini di potere che hanno fagocitato
la cultura dei pensatori “incendiari” di otto e novecento.
La condanna del Salò di Pasolini riguarda dunque in maniera
specifica il Potere e la società borghese, quella di Ferreri certi
aspetti della cultura borghese, ma il suo film appare distante da
possibili visioni in termini politici o di lotta di classe (poiché
da entomologo che non crede all’animale razionale, semplicemente,
da anarchico disincantato non può credere neppure all’animale
politico, ma solo all’animale in quanto tale?) e dunque la sua
condanna viene ad assumere tinte metafisiche e kafkiane, come di
un’oppressione dalla quale non è dato uscire, ma alla quale ci si
può solo arrendere senza troppe rimuginazioni, come fosse “l’unica
tragica realtà di questa vita”, la nostra stessa esistenza corporea
che conosce la creazione come il disfacimento.
Festen (Dogme
#1-Festen, Dan., Sve., 1998) è il primo film girato secondo i
dettami del manifesto del movimento Dogma 95. I
primi ad aderire al movimento, oltre al regista del film in
questione Thomas Vinterberg e all’altro firmatario del
manifesto (detto “voto di castità”) Lars Von Trier, furono Kristian
Levring e Soren Kragh-Jacobsen.
Come è noto, il manifesto si
proponeva di contrastare una certa tendenza del cinema che siamo
soliti definire mainstream, rinunciando agli effetti speciali, agli
investimenti ad alto budget, alle luci, a musiche non diegetiche,
etc… , reagendo così anche all’impiego delle tecnologie digitali in
uso nei film hollywoodiani e indicando una proposta alternativa di
uso delle nuove tecnologie.
Eppure non si può non essere
iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema
anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti,
semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città. (Enrico
Ghezzi)
Analizzando qui una sequenza del
film, mi propongo di rintracciarne le affinità di tipo tecnico e
linguistico con tutta una serie di altri canali mediatici
storicamente e linguisticamente diversi da quello cinematografico
in senso tradizionale. Da qualche tempo a questa parte si assiste
infatti a quella che alcuni critici e teorici dei media hanno
definito nei modi più diversi “contaminazione”, “ibridazione”,
“intersezione”, “rimediazione”, etc… tra i linguaggi dei media così
come storicamente li conosciamo e il nuovo volto che essi stanno
assumendo nell’era del digitale.
Come nota giustamente Sanfilippo
nel suo saggio La mimesi come produzione, i primi “film dogma”
Festen e Idioti (Dogme #2-Idioterne, Dan., Sve.,
Fra., Ola., Ita., 1998) sono spie di un nuovo corso della
produzione cinematografica che “cerca di attestare il suo potere
mimetico non attraverso l’ideologia dell’illusione referenziale ma
imitando alcune pratiche diacritiche del video amatoriale”.
In tal senso, l’operazione svolta
da Vinterberg con Festen si configurerebbe dunque come la ricerca
di una strategia narrativa, espressiva mimetica diversa da quella
dell’illusione referenziale del cinema classico e dell’attuale
cinema mainstream, che sembra trovare il proprio corrispettivo
linguistico appunto nelle varie pratiche attuali di video
amatoriale.A questo proposito è necessario innanzitutto guardare al
modo in cui i registi firmatari del manifesto si accostano al nuovo
mezzo digitale, e dunque la telecamera da essi scelta.
Vintenberg usa delle telecamere da
consumer più che da prosumer (e in tal senso la sua scelta
apparirebbe, almeno sotto questo aspetto, più radicale di quella di
Von Trier, che invece usa per il suo Idioti una telecamera
analogica tradizionale da cui elimina però le lenti anamorfiche).
Ne consegue un diverso modo di girare, di inquadrare, di narrare.
Lo stesso Von Trier propone come nuovo termine atto a definire le
operazioni da lui svolte in quanto operatore: “puntare”, più che un
“inquadrare”.
L’operazione svolta da Vinterberg con Festen
Viene messa da parte la
regolarità del découpage tradizionale, e il modo di girare sembra
farsi più sensibile alle tentazioni del caso. Mi sembra che ritorni
a questo proposito un’affermazione di Godard, che vale la pena
citare per intero: “Ci sono grosso modo due generi di cineasti.
Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che
camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene
attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d’improvviso la
testa e girarla ora a sinistra ora a destra e cogliere con una
serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I
secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul
punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film le
inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle
dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi si troverà
un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla
tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di
macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma
con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang).”
Ciò è simile a quanto possono
trovarsi a fare coloro i quali usano la videocamera compatta o
qualsiasi strumento da consumer o videoamatore (oggi anche i più
avanzati modelli di telefoni cellulari). Un videoamatore
probabilmente non si dà tanto pensiero di ottenere un’inquadratura
corretta o un corretto découpage secondo le regole della grammatica
cinematografica. La sua attenzione è invece di volta in volta
attirata da questo o da quell’elemento, da questa o quella
situazione, in maniera più o meno casuale e imprevedibile.
Credo che in effetti Vinterberg
somigli ai cineasti che camminano a testa bassa. Non sembra
curarsi, proprio come un cineamatore della precisione delle
inquadrature offrendo un decoupage disparato ma sensibilissimo alla
tentazione del caso. Vengo ora all’analisi di una sequenza del film
che mi sembra particolarmente rappresentativa di quanto appena
enunciato.
È la sequenza in cui Kristian, dopo
essere stato scacciato dal fratello Mikhael, rientra nella sala
dove si sta festeggiando il sessantesimo compleanno di suo padre,
tra parenti e amici, dinanzi ai quali ha accusato il genitore di
aver abusato sessualmente di lui e della sorella (ora morta
suicida) da bambini, e ora accusa violentemente la madre di essere
rimasta indifferente di fronte alle atrocità compiute dal marito
sui figli.
Kristian rientra nell’Hotel dove si
tiene il festeggiamento, e si dirige con decisione verso la sala da
pranzo. Un montaggio parallelo ci mostra il percorso di Kristian e
ciò che avviene nella sala del festeggiamento, dove sua nonna sta
cantando una canzone di fronte ai commensali. Il momento in cui
Kristian rientra nell’Hotel è ripreso con una macchina a mano
particolarmente vivace: la macchina inquadra dall’alto il pomello
della porta ruotato da Kristian. Quando questi entra, la mdp lo
riprende dapprima frontalmente, poi lo segue lasciandocene
intravedere la quinta. Nel momento in cui la porta viene aperta c’è
un sensibile aumento di illuminazione, così forte (e brutalmente
inelegante, sporco) da non lasciarci percepire in maniera netta i
contorni dell’ambiente. Stacco. Si torna alla sala da pranzo, dove
la nonna di Kristian, inquadrata in MF in piedi di spalle sta
cantando davanti ai commensali. A uno stacco segue un primo piano
della donna ripresa di profilo. Dopo un altro stacco vediamo
Kristian, inquadrato prima –wellesianamente- dal basso e poi di
spalle a MF percorrere i corridoi dell’albergo e aprire le porte
che conducono alla sala dove si tiene il ricevimento.
Segue un’altra inquadratura in PP
del profilo della nonna di Kristian, poi un’altra inquadratura di
Kristian di spalle mentre apre una seconda porta, ripresa con una
lente a focale corta che distorce le linee dell’inquadratura,
quindi di nuovo un’inquadratura di Kristian ripreso dal basso, e un
PP della nonna nella sala da pranzo pressoché identico al
precedente. A questo punto la mdp propone un ulteriore primo piano
della nonna ma da una diversa angolazione, inquadrando il volto
della donna frontalmente. Dopo un breve zoom all’indietro, la mdp,
seguendo, quasi, il rumore della porta della sala da pranzo mentre
viene aperta, panoramica brutalmente a schiaffo verso sinistra, per
farci scoprire la sorgente del rumore: è Kristian, che appena
rientrato, si dirige nuovamente verso il suo posto a tavola e
facendo tentennare il bicchiere per richiamare l’attenzione degli
ospiti, si accinge a riprendere il suo j’accuse nei confronti della
madre. Uno stacco in jump-cut (che viola per altro la regola dei
30°) ci mostra Kristian in MF mentre riprende la parola, ma a
questo punto una nuova panoramica a schiaffo verso destra scopre il
fratello di lui Mikhael che prontamente si accinge a scacciare
nuovamente Kristian dalla sala, aiutato da altri due invitati.
Stacco sul nero dell’abito di uno degli invitati.
La macchina riprende ora
lateralmente Kristian che si dimena mentre viene portato con forza
verso l’uscita della sala. Segue un PP che include Kristian e
Mikhael, poi un PPP del padre dei due mentre chiede che il figlio
sia allontanato. Dopo un altro stacco ecco un CM della tavolata,
che include sul fondo il gruppo di invitati che trascinano a viva
forza Kristian fuori dalla porta. Stacco. Altro primo piano di
Kristian fuori dalla porta. Stacco. Un invitato, ripreso dal basso,
che si oppone a Kristian e chiude la porta della sala. La mdp
inquadra per qualche istante la porta chiusa. Panoramica a schiaffo
verso destra. Stacco. Segue un primo piano del padre di Kristian,
che esprime la sua costernazione per l’episodio e invita la madre
perché riprenda a cantare.
Anche da questa descrizione si può
evincere come il modo di girare di Vinterberg costituisca qualcosa
di profondamente diverso rispetto alla cinematografia mainstream, e
come egli si accosti invece a certe soluzioni del video amatoriale,
con il loro carico di disattenzioni, sporcature e quanto la
grammatica cinematografica considera “errori”. Ne sono
testimonianza, ad esempio, i succitati movimenti di panoramica a
schiaffo, sporchi, ineleganti, così come alcuni stacchi di
montaggio (la jump cut su Kristian che riprende posto a tavola, e
lo stacco conclusivo sul volto del padre), nonché le sensibilissime
variazioni nei toni della luce: una per tutte, le sovraesposizioni
che si verificano quando i personaggi aprono delle porte.
Tutto ciò arriva a configurare,
come sostiene Sanfilippo nel saggio più sopra citato, come una
strategia mimetica alternativa e un regime di enunciazione altro
rispetto a quello convenzionalmente stabilitosi nella narrazione
cinematografica. Sanfilippo parla infatti di “sguardo soggetto”,
indicando con ciò la figura produttrice dell’enunciazione che
imprime una forte soggettività alla visione (a differenza di un
enunciatore “oggettivo”, ma che non è ancorabile a una coscienza
soggettiva vera e propria, che fa anche trasparire l’attività del
processo di produzione del racconto. Con le dovute cautele, credo
che tale discorso sia paragonabile a quello fatto a suo tempo da
Pasolini a proposito della soggettiva libera indiretta.
Si tratta sostanzialmente della
presa di possesso da parte di un narratore-autore (letterario,
cinematografico, etc.) del discorso di un personaggio della sua
opera, facendo sì che questo influenzi linguisticamente la stessa
modalità di esposizione del narratore. Pasolini sosteneva che
cinematograficamente si può giungere ciò quando lo stile del
film è influenzato dallo stato d’animo dominante di uno dei
personaggi e che ciò consenta al regista una certa libertà
linguistica e tecnica provocatoria, anche a prezzo di rompere il
tabù del cinema classico che vuole che non si avverta la presenza
della macchina da presa.
La macchina di Vinterberg, invece,
“si sente”, e in maniera forte, quasi avesse fatto propria la
soggettività ribelle di Kristian, e si sente fino a far coincidere
il poverismo ascetico-asettico del Dogma con una forte matrice
metalinguistica e materica. Nel film di Vinterberg infatti le
inquadrature sono sporche, sgranate o sovraesposte, e si vedono,
per un attimo, operatori in campo. I contorni delle inquadrature si
sfaldano per effetto delle sfocature e delle sovraesposizioni fino
a non poter più discernere in maniera netta campo e fuori campo.
Come per Kristian tutto deve essere rivelato sfidando il padre,
così per Vinterberg (e il suo operatore Dod Mantle) tutto diventa
inquadrabile, da tutto la telecamera può essere attirata, proprio
come l’occhio del cineamatore più sprovveduto ma sensibilissimo
alle tentazioni di una realtà in fieri.
Benedetto Alessandro Sanfilippo, La
mimesi come produzione, in Passages. Drammaturgie di confine, a
cura di Antonella Ottai, Bulzoni Editore, Roma. In realtà non si
può parlare di macchina da presa in senso stretto, essendo il film
girato con una telecamera digitale. Per ragioni di comodità qui
viene comunque usata la sigla “mdp”. Pier Paolo Pasolini, Empirismo
eretico, Garzanti, Milano.
La sequenza presa in questione è
tratta dal film Flags of Our Father, e l’analisi proposta si
sviluppa tramite un lavoro comparativo tra la sequenza del
film e alcune sequenze tratte dal videogame di guerra Call
of Duty; scopo di tale lavoro è quello di individuare
assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in
questione avvalorando la tesi di una reciproca influenze tra i due
mezzi analizzati mediata dallo sviluppo della computer grafica, e
il conseguente cambiamento dell’estetica, del film e del videogame,
proprio in virtù dell’influenza sopracitata.
La lunga sequenza dello sbarco
Prendiamo in esame la lunga
sequenza dello sbarco delle truppe americane sull’isola giapponese
di Iwo Jima, teatro di violenti scenari di
guerra, spesso accostata da molta critica alla sequenza dello
sbarco in Normandia girata da Spielberg (che
figura come produttore del film di Eastwood ) per Salvate il soldato Ryan. Tale affermazione
risulta approssimativa nel momento in cui non tiene conto della
spettacolarizzazione operata da Eastwood, il quale, diversamente dall’autore
di Lo squalo, ricostruisce interi scenari in computer grafica,
svincolando spesso la mdp dal suo referente indicale e puntando
invece su una ricostruzione di intere scene in post-produzione; in
tal senso, l’operazione compiuta accosta il film alle modalità di
creazione operata dai videogame; ovviamente non ci sarebbe
nulla di particolare se tale intervento si limitasse ad una mera
ricostruzione ex-novo operata dalla computer grafica: in realtà il
film di Eastwood merita un approfondimento nel momento
in cui egli sembra ricalcare alcune modalità di riprese
tipiche dei giochi di guerra FPS (first person shooter).
Ad avvalorare ciò, l’uso frequente
di soggettive, o semi-soggettive dei militari intenti a far fuoco,
o le numerose scene -caratteristiche proprio di questo genere di
gioco- in cui il regista posiziona l’arma in diagonale nella parte
bassa dell’inquadratura. Un espediente quest’ultimo tipico dei
giochi FSP, ove lo scopo è ovviamente quello di creare
un’interazione visiva tra lo schermo e il giocatore. Partendo da
tali presupposti, è facile intuire il perché Clint Eastwood abbia usufruito di tali
artifici compositivi: l’intento del regista è, in una prima
analisi, quello di rendere lo spettatore partecipe alla guerra,
liberandolo dalla sua condizione di spettatore passivo e
immettendolo direttamente nello scenario di guerra, in una
posizione che lo interpella e lo chiama in causa rendendolo attivo
al limite delle possibilità offerta dallo schermo. Il passo
successivo di un’operazione del genere è senz’altro il cinema 3d e
le nuove forme ludiche di tipo interattivo(quelle offerte dal
videogame appunto).
A livello puramente formale quindi, il
lavoro del regista si configura come una ripresa dei codici del
linguaggio dei FPS game, rivolgendosi allo spettatore -nei momenti
che rappresentano la guerra- instaurando un rapporto di
interazione: tal interazione è spronata esclusivamente
dall’impianto visivo ed esclude il coinvolgimento fisico, il quale
è invece una prerogativa del videogame (gamepad). Per esemplificare
tutto ciò basti mettere a confronto le immagini qui riportate
per capire quanto le modalità di ripresa del film di Eastwood siano debitrici al videogame FPS: le
riprese in first person del videogame si configurano nel film come
delle soggettive, le quali però, non appartenendo a nessuno(non
vediamo quasi mai chi regge l’arma), elevano il ruolo dello
spettatore a protagonista in prima persona (figure 2A e 2B); si
tratta di “soggettive intercambiabili che rendono lo spazio una
risultante dell’incrocio fra i diversi punti di vista dei
personaggi in gioco” e trovano le proprie origini nel
videogame; anche i numerosi sguardi in macchina (figure 4A e 4B) da
parte di terzi, che nel videogioco si rivolgono al character
guidato dal player, nel film si rivolgono direttamente allo
spettatore; laddove quindi, le modalità di ripresa del videogame
vanno ad interpellare il giocatore, il film mettendo in scena i
medesimi schemi compositivi attiva direttamente lo
spettatore/giocatore rendendolo player del film e della guerra
inscenata. Come precedentemente affermato, il rapporto di
influenza tra cinema e videogame non è unilaterale; laddove
il cinema va alla ricerca di espedienti visivi coinvolgenti propri
dei videogiochi, è anche vero che sempre più spesso i videogame
vanno verso una teatralizzazione propria del film, soffermandosi
sempre di più sulla storia e costruendo sequenze sempre più
realistiche che, svincolate dal gioco, si configurano come delle
vere e proprie sequenze filmiche.
Di conseguenza il videogame esplora
nuove possibilità, caratterizzando maggiormente i personaggi e gli
scenari, proprio forte della fascinazione subita dal cinema. In tal
senso basti confrontare un trailer di un film con i nuovi trailer
dei videogame per capire quanto queste due arti visuali guardino
l’una all’altra. Detto ciò, possiamo dedurre che, se il videogame
tende verso il cinema cercando in esso la possibilità di rendere il
gioco più realistico, il cinema da parte sua sembra che aspiri alle
possibilità ludiche offerte dal videogame, come se volesse
–paradossalmente- svincolarsi dagli intenti realistici per favorire
una forma che miri invece ad un rapporto più interattivo con lo
spettatore(vedi in tal senso il grande successo dei nuovi film in
3d).
Rapporto dialettico il film di
Eastwood instauri con il videogame
Proprio partendo da tale
considerazione cerchiamo di capire che tipo di rapporto dialettico
il film di Eastwood instauri con il videogame. A
prescindere dagli elementi prettamente formali, la scelta di
Eastwood di far riferimento all’estetica del
videogame va inquadrata all’interno del contesto e del tessuto
narrativo del film stesso: il film infatti non è altro che il
racconto di un falso storico, e va a distruggere uno dei simboli
americani (la fotografia dei Marines che piantano la bandiera sulla
collina di Iwo Jima). In tal caso, potremmo azzardare dicendo che
la guerra rappresentata da Clint Eastwood non poteva essere del tutto
realistica (come lo era invece la sequenza d’apertura di Salvate il soldato Ryan), in quanto lo stesso
film si snoda attorno all’immagine falsa della fotografia. Un film
dunque che si presenta come un gioco sull’immagine (quello della
fotografia che in realtà un falso), e come l’immagine di un
gioco(la rappresentazione dei soldati americani che piantano la
seconda bandiera). Ovvero: Clint Eastwood si diverte a smontare la
fotografia e con essa il mezzo fotografico e le sue capacità
documentaristiche e mette in scena la “recita” dei militari che
inscenano la seconda volta la conquista di Iwo Jima piantando una seconda bandiera.
Di conseguenza a tale
considerazione viene messa in gioco la dicotomia finzione-realtà,
sia in rapporto alle immagini sia a livello. La trama stessa si
impernia sul rapporto tra finzione e realtà, e tale rapporto
ovviamente trova riscontro nella nostra sequenza, dal momento in
cui questa, forte della computer grafica che impera in maniera
evidente, invece di adottare un approccio documentaristico(vedi
Redacted), fa affidamento appunto all’iperrealismo
ricreato dal computer, con un virtuosismo tale che va a discostarsi
dalla realtà stessa, stravolgendola e rendendo invece la sequenza
più vicina ad uno dei tanti momenti che si vivono giocando a Call
of Duty e giochi affini. È come se il regista, partendo da una
considerazione che va ad abbattere e contestare la veridicità del
mezzo (sempre riferimento alla fotografia), avesse scelto anche
formalmente un tipo di immagine che, scevra dal suo indice di
riferimento, manifestasse la perdita del luogo reale e palesasse la
sua inadeguatezza ad elevarsi a mezzo testimoniale.
In un’epoca cinematografica dove i
film sono dominati da uno stile videoclip, a sua volta influenzato
dalla moda di MTV, stupisce come un talento di nuova generazione
come Night, scelga uno stile completamente differente, addirittura
controcorrente. Siamo nell’era del montaggio veloce, che abusa del
mezzo, dei continui remake, prequel, sequel, tratti da, dal romanzo
di, etc. che talvolta o il più delle volte distruggono piuttosto
che creare, trasformano un mito, un film unico in un espediente
“commerciale” frutto di un’industria che produce se stessa e perde
completamente il senso del narrare. O ancora nel periodo in cui
mostrare le interiora di un individuo o semplicemente il massacro
di un essere può generare successo o piacere per il pubblico, Night
sceglie l’esatto opposto.
Sceglie di non filmare la tragedia,
ma solo di anticiparla o farla intuire. Proprio in questo scenario
impervio si insinua M. Night Shyamalan; è con il suo stile
rigido, con le sue fantastiche storie, la sua poetica ben formata e
pronta a essere sviluppata che impone il suo cinema. Egli sceglie
un senso registico “Classico”; sorprende ancor di più l’enorme
successo di pubblico che ha avuto, nonostante remi contro
l’industria cinematografica di oggi. Questo sta a testimoniare che
non tutto è frutto del volere “commerciale” e che davanti ad
un’ampia scelta, lo spettatore sceglie ancora il gusto e lo stile
per vedere il cinema. Quello che maggiormente colpisce di Night è
la propensione ad un equilibrio tanto precario quanto meticoloso,
fra forma e contenuto, regia e sceneggiatura, aspetto e
significato, visione e messaggio. Tutto ciò è dimostrato dalle
numerose sequenze dense di significato, in cui movimenti
della macchina da presa assumono un’importanza concettuale in
riferimento ai contenuti della storia, senza tralasciare la
spettacolarità e la bellezza delle scene.
Da questa riflessione si può
iniziare un percorso di individuazione degli espedienti stilistici
che sono accomunabili alla dialettica stile/significato, che fanno
di Shyamalan un regista meticoloso e attentissimo.
Prendiamo in esame The Sixth
Sense, e in particolare la sequenza in cui Malcom rimane
ferito dallo sparo. Colpito si sdraia a letto, mentre la macchina
da presa si allontana da lui in plongeé[1]. La scelta del
movimento è una sorta di soggettiva dell’anima di Malcom che
abbandona il corpo fisico, facendoci intuire inevitabilmente la sua
fine, la stessa anima che si ritroverà a vagare per il mondo in
cerca di Cole.
Un’altra sequenza in cui si può
individuare meglio la scelta stilistica che esalta ancor di più il
significato concettuale e l’uso funzionale della macchina da presa
è quella del funerale della bambina. Qui la m.d.p. compie un
magnifico piano sequenza della scena.
Per non rischiare di spezzare la
tensione accumulata nel film, Shyamalan crea una sequenza molto
interessante. L’occhio della telecamera segue Malcom e Cole che
attraversano la casa, passando fra i presenti. Attraverso l’audio
riusciamo a sentire i commenti delle persone, ed è grazie a questi
commenti che arriviamo a capire a pieno la storia della
povera ragazza morta. In una semplice inquadratura il regista, da
un lato riesce ad approfondire e a farci comprendere la
storia parallela della vittima, dall’altro riesce a far proseguire
la storia di Cole che è venuto per superare le sue paure ed aiutare
l’anima della ragazza. Per la prima volta, Shyamalan introduce
l’uso del piano sequenza che diventerà importante per dare vita
alle sue visioni registiche (si pensi alla costruzione
narratologica di Unbreakable). A questo proposito va sottolineato
come Shyamalam creda fermamente alla teoria di Walter Murch che nel
suo In un batter d’occhio[2] dimostra l’importanza di usare pochi
stacchi in un film, paragonando questa esperienza alla vista umana.
Il nostro vedere è come un lungo piano sequenza o un insieme di
piani sequenza, e in questa visione gli stacchi corrispondono allo
sbattere delle palpebre. Questo concetto è completamente
controcorrente con il montaggio frenetico contemporaneo che
predilige una continua frammentazione, quasi una scissione della visione in piccolissime parti.
Merita di essere sottolineato anche
l’uso del fuori campo. Il cinema per Shyamalan deve riuscire a
coprire tutto, andare oltre i limiti visivi imposti dai margini
dell’inquadratura. Ed è in questa concezione che l’uso del fuori
campo va oltre quello che potrebbe essere soltanto un mero
espediente stilistico, in questa dimensione assume un valore
poetico fortemente delineato. Inoltre, l’uso del fuoricampo
si accomuna perfettamente ad uno dei temi che ossessionano la
filmografia del regista e che prende il titolo di questa tesi:
Vedere e non vedere. Attraverso il fuoricampo noi non vediamo le
cose che accadano ma ne percepiamo l’avvenimento. Pensiamo, a
proposito di The Sixth Sense, al ragazzo che si è introdotto
furtivamente in casa del protagonista Bruce Willis. Si uccide,
sparandosi in fuori campo. Shyamalan ce lo nasconde magistralmente
con una carrellata che si chiude sul muro, celandoci il
premere del grilletto, ma facendoci sentire il suono dello
sparo. Un’altra splendida sequenza è quando per la prima
volta percepiamo qualcosa di strano in Cole e in quello che
gli accade intorno. E’ mattina, Cole arriva in cucina a fare
colazione, mentre beve il latte la madre si accorge che ha la
cravatta sporca. Gliela prende e si dirige nel ripostiglio dove ne
prende una pulita. Al ritorno trova Cole tremante e tutti i
cassetti della cucina aperti. Non sappiamo cosa sia successo in
quella stanza, perché la m.d.p. in un piano sequenza di grande
fattura ha seguito il personaggio che interpreta la madre di Cole,
anziché rimanere in cucina e mostrare cosa sia successo. Una
sequenza terribilmente angosciante, che spinge lo spettatore
a immaginarsi cosa sia successo ed a intuire gli avvenimenti
che l’occhio non ha visto. Con questa sequenza Shyamalan
introduce lo spettatore nell’universo delle paure di Cole,
senza però farlo immergere completamente nella realtà visiva che
Cole è costretto ad affrontare.
Tuttavia, è in The Village che il
fuori campo assume un connotato poetico. Il film è denso di cose
che accadono in fuori campo, messe in stretta relazione con il
significato concettuale della storia. Attraverso questo espediente
Shyamalan dimostra un grande talento nel narrare attraverso le
immagini e attraverso l’assenza di esse, cosa che accade raramente
nella Hollywood contemporanea. Come il personaggio principale Ivy
che è non vedente, lo spettatore comprende tutto ciò che serve
attraverso il non vedere, attraverso la percezione degli altri
sensi, attraverso la visione distorta delle cose. Come accade nella
sequenza in cui ci vengono mostrate le creature innominabili. Una
pozzanghera riflette immagini distorte di bosco, alberi e rami.
Improvvisamente passa una figura rossa, che non vediamo
direttamente, ma della quale intravediamo il riflesso rosso
sull’acqua. In un certo senso ne percepiamo il passare attraverso
l’immagine distorta nell’acqua. Sequenza importante perché è la
prima volta che ci troviamo di fronte alle creature che rendono
difficile la sopravvivenza del villaggio. E’ una prima visione
distorta che ci viene mostrata con l’uso parziale del fuori
campo. Fuori campo è anche il bacio dei due protagonisti Ivy
e Lucius, che ne sancisce l’unione. Ivy si sveglia in piena notte,
come avesse avuto un incubo e si accorge della presenza di Lucius
sul portico di casa sua. Gli si avvicina e comincia a parlare
ininterrottamente, chiedendo fra l’altro perché Lucius non
esprimesse ciò che pensa. Il tutto illuminato magistralmente
dalla fotografia accurata e straordinaria di Roger Deakins. E’ qui
che Lucius dichiara il suo amore per Ivy. I due si baciano in fuori
campo, quando si avvicinano per toccarsi con le labbra, la m.d.p.
si muove lateralmente ad inquadrare una sedia vuota, sullo sfondo
una nebbia che circonda tutto e tutti, una nebbia fortemente
significante che esprime lo stato di completa cecità degli
abitanti, individui che non riescono a comprendere la verità che
bussa alle loro porte.
Il fuori campo oltre ad essere un
espediente stilistico/concettuale, viene impiegato dal regista
indiano anche come puro intrattenimento che genera spaventose
sensazioni. Come accade nella sequenza in cui Lucius percorre il
confine vestito con il mantello e cappuccio giallo. In un impeto di
coraggio, spinto dalla voglia di varcarne il limite, si porta oltre
il confine. Qui si avvicina ad una pianta di bacche rosse (il
colore proibito) e ne raccoglie un ramoscello. Improvvisamente
sentiamo lo spezzarsi di un ramo e un gemito indistinto. La m.d.p.
si sposta dal viso di Lucius verso la sua destra, qualcosa si muove
e con la coda dell’obbiettivo vediamo una figura che si allontana.
Un urlo indefinito si leva in lontananza e Lucius in preda al
panico si allontana, ritornando entro il confine del
villaggio. L’inquadratura si chiude su di lui che rientra.
Sul suo viso è disegnato il terrore appena provato. Attraverso il
fuori campo ci accorgiamo di qualcosa, di una presenza estranea. Il
colore giallo(bene) si scontro con il rosso(male). Ancora una volta
Shyamalan da dimostrazione delle sue qualità fuori
dall’ordinario. Il non vedere diventa principalmente il mezzo con
cui spaventare, con cui catapultare lo spettatore all’interno delle
paure che affliggono il villaggio. In questa sequenza si può
notare facilmente anche un altro espediente stilistico/narrativo al
quale Shyamalan ci ha abituati: le sfumature cromatiche[3]. E’ di
rilevata importanza per la comprensione del significato concettuale
dei film di Shyamalan individuare la simbologia dietro ai colori.
In questo caso si fa riferimento principalmente al Giallo e
al Rosso, che rappresentano il dualismo (bene vs. male) all’interno
della narrazione e che inevitabilmente finiranno per scontrarsi.
Ritornando al fuori campo un altro grande esempio che mostra
stilisticamente il senso vero del suo cinema è la sequenza
dell’assedio in cantina di Signs. In particolare, nel momento
in cui il piccolo Morgan è aggredito da un alieno, che lo afferra
con la mano. In questo momento di forte tensione Shyamalan compie
qualcosa che è fuori dal comune e dagli schemi odierni; ovvero
spezza il tutto facendo cadere per terra la torcia, unica fonte di
luce. Sull’immagine cala il buio più nero, sentiamo urla, rumori,
la m.d.p. continua a fissare la torcia, che ad un certo punto viene
spostata inavvertitamente da un calcio. Ora la torcia riaccesa
illumina Bo impaurito che si avvicina, la prende in mano e illumina
ciò che avremmo voluto vedere per tutto il tempo. Qui Shyamalan da
dimostrazione di tutta la sua bravura nel voler spaventare
semplicemente non mostrando, celando tutto. E’ qui che è
individuabile il senso stilistico del cinema del regista, in questo
fuori campo assoluto. Il buio è significante, corrisponde al buio
conoscitivo dello spettatore, che fa appello all’unica cosa che gli
rimane: l’immaginazione, sicuramente più pericolosa di
qualsiasi altra visione.
L’uso del piano sequenza è
palesemente individuabile nel modo di girare di Night come
tratto stilistico fondamentale. Anzi può essere ritenuto il mezzo
espressivo per eccellenza. Lo si può trovare in ognuno dei suoi
film e si potrebbe anche azzardare il paragone con un’altra figura
del grande cinema che ha fatto del piano sequenza una ragione
d’espressione: Michelangelo Antonioni. Anche se è fuori luogo
paragonare lo stile e le intenzioni di Shyamalan al lavoro
svolto da Antonioni, si può ugualmente tentare di trovare dei punti
in comune che rendono il parallelismo almeno in parte
sostenibile. Si pensi agli elaborati e virtuosistici movimenti di
macchina che precedono, accompagnano e seguono gli attori,
ponendoli sempre in relazione al paesaggio circostante (vedi The
Village/Cronaca di un amore) e che diventano specchio della loro
interiorità. Quegli stessi movimenti di macchina che assumono
importanza in relazione alla struttura concettuale del film, o
ancora al cinema dell’incomunicabilità elaborato dall’autore
italiano e che guarda caso diventa tema fondamentale in film quali:
The Sixth Sense, The Village e molti altri. O ancora, appunto l’uso
del piano sequenza/fuori campo che vuole essere il mezzo con cui
non dover frammentare l’esperienza in una serie di inquadrature, ma
tentare di restituire , in una tranche de vie[4], la continuità
ininterrotta dell’azione. Si fa particolare riferimento al finale
di Professione Reporter, in cui un formidabile piano sequenza si
lascia dietro l’omicidio del protagonista Jack Nicholson, che viene
ucciso in fuori campo per poi mostrarci il suo cadavere sul letto
dopo circa 3 minuti e mezzo.
Judy Garland
– Il suo destino era scritto ancor prima che
nascesse. I suoi genitori avevano in comune l’aspirazione di
entrare nello show business. Frank Avent Gumm era un tenore che
lavorava al teatro di Superior, nel Wisconsin. Nello stesso teatro,
il pianista era una donna, Ethel Marian Minle, irlandese come lui.
Formarono un duo artistico, Jack e Virginia Lee lavoravano nel
vaudeville. In seguito divennero Mr. e Mrs. Frank Gumm e dalla loro
unione nacquero due bambine: Sue e Virginia. Questa nuova
condizione familiare costrinse Jack e Virginia, gli artisti, a
fermarsi, lasciando spazio ai genitori. Si stabilirono a Grand
Rapids, nel Michigan, dove Frank divenne direttore del teatro
locale.
Ethel addestrava le
piccole Gumm al canto e alla danza e le avviò presto ai primi
spettacoli. In questo breve periodo di stabilità emotiva e
geografica nacque il 10 giugno del 1922 una terza figlia. Frank
avrebbe preferito un maschio, e tutti pensavano che dopo due
bambine, sarebbe arrivato un erede maschio per i Gumm. Tutti erano
pronti a festeggiare la nascita di Francis, invece venne alla luce
un’altra bambina, Frances Ethel, l’unica della famiglia che sarebbe
riuscita a realizzare i sogni di fama e ricchezza dei genitori. La
futura Judy Garland.
Il debutto della piccola Frances
avvenne a soli due anni e mezzo, la sera di Natale del 1924. Questo
particolare aneddoto è diventato quasi leggenda, e come ogni
leggenda che si rispetti, l’occasione è stata più volte rivisitata
e romanzata, ma l’essenza del racconto è rimasta tale. Durante uno
spettacolo delle due sorelle maggiori, la futura Judy
Garland, saltò sul palco e cominciò a cantare l’unica
canzone che conosceva: Jingle Bells. In questa occasione, tutti i
presenti si resero conto che l’unica delle sorelle Gumm a possedere
del talento era proprio lei, la nuova arrivata Frances.
Judy Garland
biografia
Questa scoperta illuminò Ethel che
convinse il marito a trasferirsi a Los Angeles per tentare la
scalata ad Hollywood. I Gumm vendettero la loro casa e partirono da
Grand Rapids nell’estate del 1924. Tra la città del Minnesota e Los
Angeles, Le Sorelle Gumm parteciparono ad ogni spettacolo di
vaudeville che trovavano lungo la strada, e proprio in una di
queste occasioni la piccola Baby incontrò per la prima volta Joe
Jr. Yule, anche lui avviato da piccolo agli spettacoli di
vaudeville.
Judy Garland: film
Dal 1921, quando al cinema uscì
Il Monello (The Kid) di
Chaplin, ad Hollywood si era diffusa la moda degli
attori bambini, ed Ethel, il “capo”del clan Gumm, fu
particolarmente attenta a questa tendenza.
Molti anni dopo, un’affermata Judy Garland
ricorderà con un po’ di tristezza quei tre mesi trascorsi con tutta
la famiglia stipati nel loro furgone per raggiungere “la città
degli angeli”.
I Gumm vissero a Los
Angeles per sei mesi, e Frank divenne direttore di un teatro a
Lancaster, a circa ottanta miglia dal centro della città, Frances
ebbe così la possibilità di crescere guardando film nel
teatro diretto dal padre che veniva adibito anche a sala
cinematografica. Prima della partenza per Lancaster però, la
previdente Ethel iscrisse le sue tre figlie alla Meglin Kiddies,
un’agenzia per bambini attori. Ethel costringeva la piccola Frances
a fare spettacoli d’intrattenimento ovunque, in teatri ed in
ristoranti e nel 1932 decise che doveva provare l’assalto decisivo
ad Hollywood usando come ariete la figlia minore. Convinse il
marito a trasferirsi di nuovo, questa volta nel cuore di Los
Angeles ed iscrisse Frances alla Miss Lawlor’s School of
Professional Children. In questa scuola, uno dei compagni di classe
di Frances fu Mickey McGuire. A questo periodo risale il distacco
dal padre. La madre in persona fu la principale responsabile di
questa prematura separazione, poiché portando le figlie in tour,
lasciava il marito a casa. Le Gumm Sisters si esibirono per una
settimana a Denver e poi passarono a Chicago.
Proprio qui, all’Oriental Theater,
George Jessel, che aveva il compito di compilare i cartelloni degli
spettacoli, ed occupandosi di quello delle sorelle Gumm, sbagliò lo
spelling del nome e scrisse Glumm. L’errore venne subito notato, ma
lo stesso Jessel sostenendo che il nome Gumm fosse poco adatto per
un numero di vaudeville, e poiché in quel momento era in compagnia
del suo amico critico teatrale Roberto Garland, decise, in accordo
con Ethel, di cambiare il nome al trio. Fu così che per la piccola
Frances si profilò l‘inizio del suo nome d’arte. Judy
Garland venne in seguito, in omaggio ad una canzone di
Hoagy Carmichael, molto amata da sua madre.
Nel 1934, quasi per
caso, Judy Garland sostiene involontariamente
il suo primo provino importante. Durante l’estate di quell’anno, la
famiglia Gumm si trasferì al Cal-Nega Lodge a Lake Tahoe per
quattro settimane. Il proprietario del locale le chiese di cantare
per alcuni amici; questi “amici” erano: Lew Brown casting director
per la Columbia Pictures; Harry Akst, famoso compositore; e Al
Rosen, un agente di Hollywood. Alla fine della performance di Judy,
Rosen fece scivolare nella mano della bambina un foglietto con il
suo numero riferendo alla madre di contattarlo a Los Angeles.
Proprio Rosen divenne il suo primo agente, e le procurò un provino
alla M.G.M.
Quel giorno cominciò la grande
avventura di Judy Garland alla Metro:
cantò per Rosen; Rosen chiamò Ida Koverman, segretaria di Louis B.
Mayer; lei chiamò lo stesso Mayer che contattò gli avvocati e le
fece firmare sul posto, lo stesso giorno, un contratto. Si hanno
diverse testimonianze di quell’episodio tutte sommariamente
concordi sui punti importanti; tuttavia, se nei ricordi
di Judy Garland è il padre ad accompagnarla
al piano, nella versione di Roger Edens sarebbe stata invece Ethel,
la madre, ad accompagnare la performance della figlia. È probabile
che il desiderio della presenza paterna in un momento così
importante della sua nuova vita avesse spinto Judy
Garland a sostituirlo madre. Sappiamo infatti che Frank
morì di meningite spinale in pochi mesi, proprio nel momento in cui
la carriera della sua Baby stava assumendo una forma più
concreta.
Poco dopo Judy
Garland cominciò a prendere lezioni private giornaliere da
Edens. Alla Metro Judy ritrovò Mickey Rooney, insieme ad altre
future co-star: Deanna Durbin, Jackie Cooper, Freddie Bartholomew.
Tuttavia per circa un anno cantò solo alla radio oppure a feste e
cene organizzate negli Studios. Finalmente, nel 1936 le diedero una
parte in un film insieme a Deanna Durbin, si trattava di Every
Sunday. Le canzoni vennero affidate a Con Conrad e Herb Magidson.
In questo film, Judy Garland mostrò non solo
la sua grande capacità canora, che già era conosciuta, ma
soprattutto le sue doti di attrice. Vitale e frizzante la
Judy Garland quattordicenne mostra tutto il suo
brio in contrasto con una Durbin allo stesso modo brava ma molto
più composta e pacata.
Dopo Every
Sunday, Judy Garland viene “prestata” alla
20th Century-Fox per la realizzazione del non eccezionale Pigskin
Parade(1936). Nell’elenco del cast Judy
Garland appare nona, ma questa classificazione non è
giustificata dal film dove la maggior parte dei numeri musicali
ruotano intorno a lei. Questa fu la prima ed ultima volta che la
Metro permise a Judy Garland di partecipare a
produzioni esterne.
Il film successivo
di Judy Garland fu Follie di Broadway 1938
(Broadway Melody of 1938 di Roy Del Ruth, 1937). Ad un party per
celebrare il 36esimo compleanno di Clarke Gable, Judy
Garland cantò “You Made Me Love You” all’attore, e nel bel
mezzo della canzone improvvisò un’ardente dichiarazione d’amore nei
suoi confronti. Questa improvvisazione venne inserita nel film del
1937. In quel numero Judy fu capace di ricreare dal nulla, senza
nessuna previa preparazione, il carattere del fan malato d’amore
per il suo idolo. Quella dedica fu registrata per la Decca con il
titolo di “Dear Mr. Gable” ed ebbe un enorme riscontro sul pubblico
dando a Judy Garland il suo primo vero
successo personale e avvicinandola al regno delle star.
Il film successivo, Thoroughbreds
Don’t Cry (1937), è da notare solo perché segna la prima
collaborazione con Mickey Rooney. Invece Viva l’Allegria (Everybody
Sing di Edwin L. Marin) primo dei tre film che girerà nel 1938, la
vede protagonista. È un’occasione importante per Judy
Garland che però comincia a scoprire il prezzo della
celebrità. Il rapporto con la madre, che Judy ritiene responsabile
della sua prematura separazione dal padre, peggiora poiché è
convinta dell’esistenza di un accordo tra Ethel e Mr. Mayer, che la
costringe a lavorare a tutti i costi. Passa tutto il suo tempo
davanti alla macchina da presa, e quando non lavora, è in giro per
il Paese a promuovere i suoi film.
Listen, Darling, il suo secondo
film del ’38, si ricorda perché nella sua colonna sonora c’è il
primo grande successo di Judy Garland “Zing
Went the Strings of My Heart”. Ancora nel 1938 collabora per la
seconda volta con Mickey Rooney. Andy Hardy (Love Finds Andy Hardy
di George B. Seitz) fa parte di una serie di film incentrati sulla
figura di un giovane, Andy Hardy appunto, interpretato da Rooney.
Louis B. Mayer si interessò a questo personaggio poiché, a suo
parere, rispecchiava il sogno americano essendo le sue avventure
incentrate su una visione sentimentale della vita domestica. Il
personaggio di Judy era Betsy Booth, e lei si ritroverà ad
impersonarlo altre due volte sempre al fianco di Rooney.
Judy Garland Il Mago di OZ
Love Finds Andy Hardy fu
l’ultimo film che Judy Garland interpretò da
semplice attrice bambina; il 1939 fu l’anno de Il Mago di Oz, e
dopo quel film Judy Garland divenne una star.
Il 1938 fu un anno decisivo per Judy. Il Mago di Oz era una favola
ad episodi per bambini, che come filo conduttore aveva il
personaggio di Dorothy, una bambina sperduta nel fantastico Regno
di Oz, che cercava di ritornare a casa, in Kansas. La fama di
questo romanzo era paragonabile a quella di Peter Pan, altra storia
ambientata in un mondo parallelo, L’Isola che Non C’è, con
protagonista un’altra bambina (in questo caso Wendy). Entrambe le
storie portano lo stesso messaggio riguardo ai legami che si hanno
con la propria casa e i propri affetti, e forse proprio questo
messaggio piaceva a Louis B. Mayer, che, essendo un emigrato
dall’Europa dell’Est, non aveva mai avuto una casa. Ma questo
messaggio si avvicinava anche al desiderio di sicurezza che si
stava diffondendo in America e nel mondo all’alba di una nuova
Guerra. La produzione de Il Mago di Oz (The Wizard of Oz) voleva
Shirley Temple per la parte di Dorothy, ma Arthur Freed propose la
Garland. Fortunatamente per lei, esigenze di contratto che legavano
la Temple alla 20th Century Fox le impedirono di andare avanti col
progetto e così Judy Garland divenne (e per
certi versi rimase per tutta la vita) Dorothy. La sua
interpretazione di “Over the Rainbow” è diventata quasi leggenda e
la canzone accompagna la sua memoria come un leit-motiv. Molto
delle sue dichiarazioni successive facevano riferimento a
quell’arcobaleno che voleva rappresentare una felicità perfetta che
in vita non raggiunse mai, e quando nel 1969 morì, la canzone
divenne il suo epitaffio.
Per prepararla anche fisicamente al
suo personaggio, Jack Dawn, direttore del dipartimento trucco, la
acconciò con denti finti ed una parrucca bionda, look che venne
fortunatamente abbandonato dopo tre settimane di riprese, perché la
produzione si decise a mantenere l’aspetto di Judy
Garland il più naturale possibile. Oltre al make-up, un
altro problema riguardante il personaggio di Dorothy era l’età.
L’autore del romanzo, L. Frank Baum, non aveva specificato l’età di
Dorothy, ma era più plausibile che fosse una bambina di dieci anni
(l’età della Temple nel 1938) che una ragazza di sedici (l’età
della Garland), inoltre lo sviluppo fisico di Judy
Garland fu piuttosto precoce. Si usò quindi un corsetto
che le schiacciava leggermente il petto al di sotto del vestito
azzurro.
Il problema riguardante il trucco
dei tre compagni di viaggio di Dorothy risultò molto più complesso.
Ray Bolger, Jack Haley e Bert Lahr, che interpretavano
rispettivamente lo Spaventapasseri, l’Omino di Latta e il Leone
Codardo, dovevano trasformarsi in creature di fantasia, ma dovevano
tuttavia essere credibili nei loro travestimenti. Nel 1933 la
Paramount realizzò Alice nel Paese delle Meraviglie, e il film fu
un disastro sia finanziario che di critica. I personaggi di
fantasia indossavano maschere che li rendevano inespressivi e poco
credibili. Così la produzione de Il Mago di Oz
optò per un trucco applicato al volto dei personaggi insieme a
protesi sintetiche che potessero ricostruire le fattezze degli
esseri magici interpretati dagli attori, che dal canto loro
soffrirono ore ed ore di trucco prima di portare sul set un viso
sofferente per sotto i caldissimi riflettori di scena. Il make-up
ideale venne trovato anche per Margaret Hamilton, la Strega Cattiva
dell’Ovest; una particolare sfumatura di verde brillante con la
quale le dipinsero faccia e mani che le conferiva un aspetto tanto
surreale quanto crudele.
Legato al colore è uno degli
aspetti più interessanti del film; la decisione di usare una
fotografia seppia per le sequenze in Kansas, e di usare invece il
colore vivido del Tecnicolor per le sequenze nel mondo magico di Oz
fu funzionale, ma soprattutto efficace e di grande effetto sul
pubblico ed in particolare sui bambini. Come compagni di viaggio
Bolger, Haley e Lahr sono eccezionali, e anche loro, proprio grazie
all’enorme successo del film rimasero per lungo tempo legati al
loro personaggio.
È probabile che uno dei motivi
principali che determinarono il planetario successo del film sia
riconducibile proprio alla scelta di Judy
Garland per la parte di Dorothy. La sua sincerità di
interpretazione e la sua capacità di emozionare il pubblico non
servirono mai meglio un film come nel caso de Il Mago di Oz. Il suo
fronteggiare la strega con tale ardente coraggio, il suo accorato
saluto agli amici fantastici di Oz, tutto contribuisce ad una
interpretazione davvero eccellente per una ragazza così giovane ma
così dotata.
Si tratta quindi di un film molto
riuscito sia per i risultati al botteghino che per i commenti della
critica che però non si lasciò sfuggire la nota stonata costituita
dalle scimmie volanti della Strega Cattiva dell’Ovest,
eccessivamente grottesche. La 20th Century Fox,
sperando di eguagliare il successo della pellicola targata M.G.M.,
produsse un film fantasy a colori, tratto da una commedia di
Maurice Maeterlinck, The Blue Bird. Il film fu un disastro, e per
la sua protagonista femminile, Shirley Temple, si trattò del primo
grosso insuccesso dall’inizio della sua carriera nel 1933.
Per Judy Garland
invece si aprirono le porte della Mecca del Cinema. La sua
performance di Dorothy le valse una statuetta speciale agli Academy
Awards, un mini-Oscar, e le garantì un posto di prestigio tra le
star del musical della M.G.M. Judy non era mai stata così famosa, e
per lei incominciò un periodo di duro lavora, ma di grandissimo
successo.
Insieme alla statuetta speciale,
Judy Garland ebbe anche il privilegio di lasciare
le sue impronte nel cemento del marciapiede di fronte al
Grauman’s Chinese Theater. La cerimonia avvenne
nella notte della première del suo secondo film del 1939, Ragazzi
Attori (Babies in Arms di Busby Berkeley), e sancì per la
diciassettenne Judy il suo nuovo status di star, inaugurando il
periodo più proficuo e impegnato di tutta la sua vita. Tra il 1940
e il 1950, Judy Garland divenne la vera
e propria regina del musical al cinema, recitò in circa 20 film e
prese parte a show televisivi e trasmissioni radiofoniche.
Judy Garland è
alla Metro quando lo star system è al suo apice e gli attori,
firmando un contratto con la casa di produzione, si consegnano
totalmente nelle mani dei produttori, in questo caso di Louis B.
Mayer e Arthur Freed. Questo tipo di contratti costringevano
infatti gli attori ad accettare qualunque ruolo venisse loro
assegnato; inoltre potevano essere “prestati” ad altre case di
produzione per una o più produzioni, ma senza ricevere alcun
compenso personale; tuttavia ricevevano lo stesso compenso se
lavoravano sei giorni a settimana oppure se rimanevano a casa
aspettando che venisse assegnato loro un ruolo. Judy
Garland visse il suo decennio più produttivo a queste
condizioni, come molte delle star degli anni ’30 e ’40.
Poiché Judy tendeva ad ingrassare, sin dai tredici anni fu
sottoposta a diete forzate per tenerne sotto controllo il peso, e
fu così che arrivarono le primissime prescrizioni di pillole che
potessero aiutarla a mantenere dimensioni costanti e “adatte” al
mondo dello spettacolo. A questi medicinali si aggiunsero gli
integratori per far si che i piccoli attori-bambini fossero in
grado di lavorare fino a sessantadue ore di continuo, ed i
sonniferi per permettere loro di dormire solo in determinate ore
durante i tour. Fu così, proprio all’inizio della sua sfavillante
carriera che cominciò il lento declino della salute di Miss Show
Business.
I problemi fisici e psicologici di
questa crescita viziata dall’assunzione ad alto dosaggio di
medicinali, si rispecchiarono nella sua caotica vita privata, che
Judy faticò sempre a tenere insieme. Ovviamente gli Studios
cercarono sempre di arginare questa sua instabilità; Judy cominciò
a seguire sedute psichiatriche già all’inizio degli anni ’40.
Tuttavia il controllo che la Metro esercitava sulla vita della sua
giovane miniera d’oro era così invadente che, quando Judy si sposò
per la prima volta nel 1941 con David Rose, l’unione fu vista da
Louis B. Mayer come una limitazione al suo potere su di lei. Si è
detto addirittura che, proprio durante il primo matrimonio, Judy
fosse rimasta incinta, e le pressioni dei produttori (Mayer
in primis) la costrinsero ad abortire, per non rovinare la sua
immagine di “ragazza della porta accanto” sulla quale era stato
costruito il personaggio “Judy Garland”. Questo
evento la lasciò traumatizzata per il resto della vita. Molto
diverso fu invece il comportamento di Mayer nel 1945, quando
Judy sposò in seconde nozze Vincente Minnelli. Il
regista, essendo anche lui “di proprietà” della Metro, ed essendo
uno dei più quotati dell’epoca, riuscì ad ottenere la benedizione
di Mr. Mayer.
Nonostante l’insorgere di queste
prime difficoltà nella vita di Judy Garland,
nel corso della decade d’oro durante la quale lavorò alla M.G.M., nessun segno di
questi problemi è riscontrabile nel risultato finale di un film.
Davanti all’obbiettivo niente riusciva a superare la sua
incredibile naturalezza e sensibilità di recitazione. Rimase sempre
e in qualunque condizione fisica, un’interprete intelligente e
versatile per quanto il suo volto potesse portare i segni della sua
sofferenza. Numerose sono le testimonianze della sua
professionalità dopo il ciak; per uno dei suoi numeri più famosi e
anche complessi, “Be a Clown”, lei e Gene Kelly diedero il meglio
in una sola ripresa, con una previa preparazione di sole quattro
ore. Chiunque abbia mai visto lo splendido numero che chiude The
Pirate di Minnelli, può capire quanto il palcoscenico fosse la vera
casa di Judy Garland.
Arthur Freed, che
ai tempi di The Wizard of Oz era produttore
associato e compositore, e che dall’inizio aveva appoggiato l’idea
che dovesse essere Judy ad interpretare Dorothy, divenne produttore
a tutti gli effetti. Era persuaso che la coppia Garland-Rooney
potesse essere un binomio vincente, e propose di realizzare un
musical con protagonisti i due attori. A questa idea si associò
l’incredibile successo dei film sulla famiglia Hardy, che portarono
Mickey Rooney al successo e al conferimento del soprannome di
money-maker. Dopo la prima collaborazione, i due attori, le cui
vite si erano intrecciate molto prima che i due diventassero delle
star, ritornarono così a lavorare insieme ad un film: Ragazzi
Attori (Babies in Arms di Busby Berkeley; 1939). Arthur Freed si
occupò della colonna sonora: scrisse con il suo vecchio partner,
Nacio Herb Brown, “Good Morning” appositamente per il film, e
aggiunse “I Cried For You” scritta invece con Gus Arnheim; Harold
Arlen e E. Y. Harburg, che avevano già lavorato a The Wizard of Oz,
composero “God’s Country”. La sceneggiatura venne assegnata a Jack
McGowan e ad uno degli scrittori degli show di Andy, Kay Van
Riper.
Questo è i primo di quattro musical
che Judy e Mickey faranno insieme nei successivi cinque anni, prima
del passaggio di lei a ruoli più maturi e dell’arruolamento di lui
nell’esercito. Baby in Arms si ricorda anche perché fu il primo
film alla Metro di Busky Berkeley, che fino a quel momento aveva
lavorato per la Warner. Nel film, Judy e Mickey sono dei talentuosi
ragazzi che vogliono raggiungere il successo nel teatro di
vaudeville andando contro le autorità del loro piccolo paese
impersonate da Miss Steele (ancora una Margaret Hamilton nelle
vesti di cattiva), che invece vuole che i ragazzi stiano lontani
dal mondo corrotto dello show-business. Ovviamente i ragazzi devono
riuscire a mettere in scena uno show non solo per realizzare il
loro sogno ma anche per salvare le loro famiglie
dall’indigenza.
In questo musical i due attori sono
esuberanti e grintosi. Gli occhi di Judy non perdono mai la loro
luce d’innocenza. Riusciva sempre a immedesimarsi nel suo ruolo e,
a mano a mano che matura come donna e come attrice, diventa più
rilassata e composta anche nell’interpretazione. In questo caso è
iperattiva, irresistibile. La sua naturale espressività e il suo
tono drammatico danno a “I Cried for You” una dolcezza di intensità
incredibile considerando la giovane età dell’interprete. Allo
stesso tempo, senza sminuire il mal d’amore del suo personaggio,
riesce a far ridere il pubblico mettendo in evidenza i cliché che
drammaturgicamente vengono utilizzati per inscenare proprio il
medesimo male.
Il numero finale è costituito da
una canzone “God’s Country” che solo una persona eccessivamente
patriottica può apprezzare, considerando che il messaggio finale è
un inno all’America come solo paese dove “ognuno è dittatore solo
di se stesso”.
Il film, costato appena 600.000 $,
guadagnò solo negli Stati Uniti 2.000.000 $. Mickey Rooney fu
candidato all’Oscar per la sua interpretazione, e anche se non
vinse ebbe comunque il piacere di premiare Judy nello stesso anno,
quando ricevette la sua statuetta in miniatura per Il Mago
di Oz.
La coppia Mickey-Judy, dopo lo
sfolgorante successo di Babes in Arms, era ormai diventata una
risorsa nazionale.
Dopo un’altra incursione nel mondo
di Andy Hardy, Musica indiavolata (Strike
up the Band di Busby Berkeley), del 1940, è il secondo musical
della coppia, e anche se i due attori dividono il cartellone, il
film è in realtà lo show di Mickey. Tuttavia Freed e Roger Edens
scrissero appositamente per Judy per questo film “Our Love Affair”
e “I Ain’t Got Nobody” che Judy canta in una silenziosa biblioteca
dopo l’orario di chiusura. Quando Judy, con la sua voce profonda ed
emozionante, comincia a cantare sembra meno bambina di quanto non
sia ancora. C’è un suo numero, in questo film, “La Conga”, in cui
Judy eccelle particolarmente. Consiste in una ripresa continua che
dura cinque minuti, e che viene interrotta solo quando irrompono in
scena gli altri ballerini. Allora l’inquadratura si spezza in
molteplici angolazioni ed anche il ritmo cambia rompendo la magia
creata dalla sua voce. Il finale del film, ancora una volta con
forti accenti patriottici, è una climax con un’ultima inquadratura
che vede Judy e Mickey sovraimpressi alle quarantotto stelle della
bandiera americana.
Arrivò però il momento di cambiare,
e così Freed diede a Judy una pausa dal suo ciclo di film con
Mickey e preparò il suo passaggio da ruoli giovanili a personaggi
più maturi. Andando contro il parere di George M. Cohan, Freed fece
pressione affinché a Judy venisse affidato il ruolo principale in
Little Nellie Kelly, e una volta ottenuti i diritti dell’opera
teatrale, eliminò alcune canzoni originali per scriverne delle
altre. L’aggiunta più vistosa fu quella della famosissima “Singin’
in the Rain” di Freed-Brown. Judy interpreta un doppio ruolo: una
madre che muore dando alla luce una bambina, e la bambina stessa,
una volta cresciuta. Questa è anche l’unica volta in cui la Garland
muore in un film, e quindi il suo doppio personaggio ha quasi il
valore di un rientro in scena.
Anche se Judy non domina
perfettamente il suo film successivo, Le fanciulle delle follie
(Ziegfield Girl di Robert Z. Leonard) del 1941, il suo nome, nel
cartellone del film, viene messo prima di quello delle due sue
co-star più famose: Hedy Lamarr e Lana Turner. Il film prende
il titolo da una serie di spettacoli teatrali dei primi decenni del
secolo. Basandosi su spettacoli teatrali molto elaborati difficili
da trasporre al cinema, la trama del film si concentra sul ”dietro
le quinte” degli spettacoli stessi dove un trio di show-girls delle
follie cerca di risolvere i problemi legati alle loro performance.
Il personaggio di Judy, una ragazza che vuole entrare a far parte
delle follie, ha il suo accento drammatico nel rapporto con il
padre, anche lui artista di vaudeville, e i suoi momenti migliori
nelle sequenze cantate.
Nel 1941 Judy ritorna ancora al
fortunato personaggio di Betsy Booth, nella serie della famiglia
Hardy. Il film è La Vita Comincia per Andy Hardy (Life Begins for
Andy Hardy di George Brackett Seitz) e lei avrà solo un piccolo
ruolo nel film. Registrerà anche quattro canzoni, nessuna delle
quali verrà inserita nel montaggio finale. Questa è la sua ultima
volta per Andy Hardy.
Il terzo musical di Mickey e Judy
fu realizzato sempre nel 1941. I ragazzi di Broadway (Babes on
Broadway di Busby Berkeley) trasse beneficio dal collaudato
rapporto tra i due attori, ma soprattutto dall’affiatata squadra di
curatori delle musiche: Busky Berkeley, Arthur Freed e Roger Edens.
Anche la struttura del film è scandita da momenti chiave molto
simili, se non identici, rispetto a quelli di Babes in Arms, con il
risolutivo trionfo finale dei due interpreti.
Il film risulta gradevole, un show
giullaresco messo in scena da Berkeley con un discreto spirito di
immaginazione, ma ai fini delle nostre intenzioni, è importante
esclusivamente perché segna l’inizio della relazione professionale
tra Judy Garland e Vincente Minnelli. Freed
infatti, lo aveva prelevato dai palcoscenici di Hollywood, sperando
di coltivare a favore della Metro il talento del giovane regista.
Uno dei primi compiti che venne affidato a Vincente fu quello di
supervisionare alcuni dei numeri musicali della Garland.
La politica delle Major durante la
Seconda Guerra Mondiale era quella di promuovere le ragioni di
Stato in merito alla situazione bellica. La M.G.M. non si sottrasse
a questa regola, e così anche Judy, essendo l’attrice di punta
della casa produttrice, divenne un simbolo patriottico, che
sbandierava i valori delle patria e portava con sé il messaggio che
there’s no place like home (non c’è nessun posto come casa),
messaggio che si portava dietro dai tempi di The Wizard of
Oz.
For Me and My Gal del 1942 si
adatta al periodo bellico, tanto che si parla persino di un vincolo
di guerra per Judy, e per tutte le star sotto contratto con la
M.G.M.. Il sacrificio di Judy alla causa della guerra, da parte
della Metro, la costrinse a pianificare con cura ogni sua singola
ripresa, tant’è che quell’anno le sue apparizioni furono limitate
ad un cortometraggio a carattere documentaristico intitolato We
Must Have Music. Il film spiega il modo di lavorare del
dipartimento musical ed è costituito da un parsimonioso uso di
sequenze tagliate da Ziegfeld Girl. Probabilmente per una
confusione di intenti, For Me and My Gal appare come un film
piuttosto discontinuo; rappresenta il debutto al cinema di Gene
Kelly dopo i fasti di Broadway. Kelly era diventato famoso
oltre che per le sue eccezionali doti di ballerino, anche per il
suo personaggio di Pal Joey, che rielaborò rendendolo più
complesso: non più l’avventuriero senza scrupoli con tutte le
caratteristiche del vaudevillian, ma anche un uomo che cerca di
redimersi agli occhi del pubblico attraverso un autentico e
sofferto rimorso.
Il tempo della diegesi è da
ricondursi all’inizio della Prima Guerra Mondiale; ce ne accorgiamo
quando Judy, attraversando un treno da un vagone all’altro,
incrocia Kelly che legge un quotidiano con in prima pagina la
notizia dell’affondamento del Lusitania. Judy interpreta una
cantante e ballerina che lavora in coppia con George Murphy,
mentre Kelly è un egocentrico artista che compare sullo stesso
cartellone del duo artistico Hayden-Metcalf (appunto
Garland-Murphy). L’ostilità iniziale dei personaggi di Judy e Gene
si trasformerà ovviamente in un profondo feeling artistico che
spingerà il precedente partner di Judy a farsi da parte. Le vite
dei tre personaggi finiranno per riunirsi a Parigi, dove Judy
canterà canzoni della Prima Guerra Mondiale per allietare i soldati
mentre Kelly e Murphy, entrambi arruolati dall’esercito americano,
si scontreranno in un corridoio.
Il film diretto da Berkeley,
risulta terribilmente limitato. Oltre ad essere la vetrina
cinematografica di Kelly, For Me and My Gal è anche un tributo ad
un ‘american love’: lo spettacolo di Vaudeville. Il duetto “Ballin’
Jack” e l’assolo “After You’re Gone” furono incisi per la Decca e
diventarono hits .
Il 1943 comincia per Judy con
Presenting Lily Mars. Il progetto era stato pensato all’inizio dal
produttore Joe Pasternak come un ruolo drammatico per Lana Turner,
che venne poi modificato in un musical per Judy
Garland. Il personaggio di Judy è una giovane donna di
provincia che vuole avere successo nello show business.
Nello stesso anno, la produzione
mise in cantiere un nuovo film, Girl Crazy, dove veniva riproposta
ad un pubblico accondiscendente la coppia Rooney-Garland. In questo
caso, però, per divergenze produttive, a Berkeley venne affidata
solo la direzione dei numeri musicali, mentre la regia del film fu
curata da Norman Taurog. Questa sarà l’ultimo volta insieme per
Judy e Mickey. Il film nasce da uno spettacolo di Broadway del
1930, nel quale Ethel Merman interpreta la sensazionale canzone “I
Got Rhythm”. Il terzo film di Judy nel 1943 è Thousands Cheer, un
altro musical patriottico degli anni della guerra, ancora con Kelly
che interpreta un ex circense che non lavora per lo Zio Sam.
Il suo film successivo,
Incontriamoci a San Louis (Meet Me in Saint Louis; 1944),
costituisce una fase importantissima per la sua carriera,
segnando il suo passaggio definitivo a ruoli più maturi. Non solo a
livello artistico, ma anche a livello economico, il film segna un
importante tappa nella storia della Metro, e Judy, essendo la
principale fautrice di questa successo, ne trarrà giovamento non
solo per la sua carriera di attrice, ma anche per un miglioramento
ulteriore del suo status di star. A questo film ho dedicato il
primo approfondimento nella seconda parte.
Dopo lo zuccheroso lieto fine di
Meet Me in Saint Louis, Judy si cimenta, ancora diretta da
Minnelli, nel suo unico film drammatico interpretato per la Metro,
Ora di New York (The Clock; 1945). Questo fu anche per Minnelli il
primo confronto con il dramma, e questa volta fu proprio Judy a
volerlo come regista, chiedendo che venisse chiamato per
rimpiazzare Fred Zinnemann. I protagonisti sono Judy e Robert
Walker.
Una segreteria e un soldato in
licenza per 48 ore si scontrano alla Pennsylvania Station, si
piacciono e si innamorano, passano una notte e un giorno insieme e
si lasciano. Minnelli cerca di fare di New York un terzo
personaggio dando una caratterizzazione all’ambiente. I due attori
protagonisti offrono delle belle performance e si nota con piacere
che le caratteristiche di grande attrice bambina di Judy, sono
cresciute con lei. Il suo controllo perfetto di tutto il suo corpo
le permette di essere straordinaria non solo sul palcoscenico,
cantando e ballando in modo divino, ma anche in questa isolata
parte drammatica. Nello specifico del film, la scena della sua
colazione silenziosa è di grande tenerezza. Grande è la sua abilità
di sostenere la scena con il silenzio.
La sensibilità di Judy ne ha fatto
una attrice davvero particolare e proprio questo aspetto della sua
recitazione le ha permesso di ottenere, nel suo film successivo, Le
ragazze di Harvey (The Harvey Girls; 1946), un risultato davvero
affascinante. Si tratta di un western ambientato nel XIX secolo,
nel quale una serie di sub plot si intrecciano al filo conduttore
del film che è la storia d’amore tra Judy e John Hodiak. Proprio
questo sembra essere il difetto del film, che appare troppo
“occupato”, affollato di temi e personaggi da sembrare quasi un
film ad episodi. Il film vinse un Oscar per la miglior canzone: “On
the Atchinson, Topoeka and the Santa Fe”.
Il film successivo la vede ancora
collaborare con Minnelli, che aveva sposato nel 1945. Si tratta di
Ziegfeld Follies (1946), un film ed episodi in cui Judy interpreta
il segmento intitolato A Great Lady Has ‘An Interview. Il film è
composto da una dozzina di sequenze, tra comiche e musicali,
interpretate da un artista diverso. La maggior parte delle sequenze
musicali è diretta da Minnelli, mentre le altre vedono la
collaborazione di altri registi come George Sidney, Roy Le Ruth e
Robert Lewis. Lo stesso Minnelli ha scritto riguardo alla
difficoltà di portare avanti progetti di questo genere; si trattava
infatti di seguire i vari attori che avrebbero dovuto prendere
parte al film, e chiedere loro un po’ di tempo libero per
realizzare la sequenza che a loro spettava. Un lavoro poco
organico, quindi, difficile da organizzare e da realizzare più per
problemi legati alla disponibilità del cast artistico che alle
effettive difficoltà di resa del film.
La pellicola ebbe un enorme
successo, ostentava una ricchezza quasi eccessiva nelle sequenze
musicali, fortemente in contrasto con quelle comiche, che invece
apparivano come scarne e prive di scenografia, quasi si trattasse
di cattiva televisione. Per quel che riguarda Judy, questo piccolo
segmento, che potrebbe sembrare solo una stravagante
interpretazione di una grande artista, è in realtà molto di più.
Kay Thompson e Roger Edens scrissero del materiale appositamente
per lei, e mai come in questo caso, Judy si trovò ad interpretare
una parte che così palesemente poco le si addiceva. La sua Great
Lady parla ad una folla di giornalisti e fotografi dei suoi futuri
progetti, dice che deve essere sempre drammatica e mai apprezzata
per il suo corpo. Dietro la sua entrata fluttuante e il suo boa di
piume si nasconde un’aspra satira.
Ancora Minnelli la dirige in Nuvole
passeggere (Till the Clouds Roll By; 1946). La loro relazione
professionale fu davvero rara, una vera e propria collaborazione
che ha dato alla luce film davvero notevoli. In questo caso,
Minnelli si occupò esclusivamente dei due numeri musicali di Judy,
mentre il resto del film venne diretto da Richard Whorf. Il film è,
infatti, disomogeneo se si confrontano le sequenze dei numeri
curate da Minnelli rispetto al resto del film diretto da Whorf.
Essendo una biografia del compositore Kern, il film si basa
fondamentalmente su un medley di sue canzoni tenuto insieme da una
trama piuttosto esile. Jerome Kern morì poco prima che il film
entrasse in produzione, per questo si è pensato che fosse un
tributo alla sua memoria, ma non è questo il caso. Garland
interpreta Marilyn Miller, un’attrice di commedie musicali degli
anni ’20 e ’30.
Il pirata (The Pirate del 1948),
colorata e sfarzosa avventura esotica, sarà l’ultima collaborazione
di Judy e Vincente. Anche questo film è stato oggetto della mia
analisi, come conclusione del periodo durante il quale Judy ha
lavorato con Vincente Minnelli.
Ti amavo senza saperlo (Easter
Parade di Charles Walters 1948) ebbe un successo eccezionale.
Questo è l’unico film in cui due icone del cinema musicale come
Judy Garland e Fred Astaire recitano insieme. La
loro collaborazione fu il frutto di un caso; infatti i protagonisti
del film dovevano essere Gene Kelly e Cyd Charisse. Purtroppo
entrambi subirono degli infortuni durante la lavorazione e furono
sostituiti appunto da Judy e Fred. Il loro successo al box office
fu così folgorante che spinse Betty Comden e Adolph Green a
scrivere appositamente per loro The Barkley of Broadway.
I problemi di salute impedirono a
Judy di partecipare al film e al suo posto fu chiamata Ginger
Rogers. Il film si basa su una scommessa che il personaggio di
Astaire, Don Hewes, fa con Peter Lawford, poiché abbandonato dalla
sua partner Nadine, giura di riuscire a far diventare una semplice
corista di un nightclub una star. Ovviamente sceglierà a caso la
prima ragazza che vede esibirsi su un palcoscenico di questi
piccoli locali e ovviamente la prescelta è proprio Hannah Brown
(Garland). Nel suo tentativo di istruire Judy, Fred fa di tutto per
farle assomigliare alla sua precedente partner, e Judy, che invece
è molto diversa da Nadine, fa fatica ad adattarsi a vestiti ampi e
sfarzosi ed a movimenti pomposi caratteristici del personaggio di
Nadine (Ann Miller).
In una delle loro prime
partecipazioni ad uno spettacolo, lei vestita elegantemente in un
abito lungo e azzurro, risulta impacciata e va avanti a ballare con
una ridicola espressione attonita, portata avanti solo da un
eroico, quanto stoico Don. Molto divertente è anche la scena in cui
Don vuole testare il sex appeal di Hannah, quando le chiede di
camminare da sola e di fare in modo che gli uomini si voltino a
guardarla. La mdp posizionata dietro ad Astaire mostra i passanti
che si voltano a guardare Hannah/Judy. Quando poi l’inquadratura
mostra l’attrice in viso, si capisce che gli uomini si voltano, non
perché lei sia particolarmente affascinante, come succedeva con
Nadine all’inizio del film, ma perché Hannah fa delle smorfie
davvero ridicole che incuriosiscono (più che affascinare) i
passanti.
La scena per cui il film è rimasto
famoso è il numero “Couple of Swells”. La canzone e i costumi
furono poi introdotti da Judy in molti dei suoi spettacoli a
teatro.
Merita una nota anche
l’interpretazione di Ann Miller nel ruolo di Nadine, che proprio
grazie a Easter Parade ha collezionato il suo numero più richiesto
e famoso: “Shakin a Blues Away”.
Probabilmente come un cattivo
presagio, questo è il primo film nel quale si cominciano a vedere
improvvisi cambiamenti nel peso di Judy. Infatti mentre in tutto il
film appare in forma, nel numero “Alabam’” è visibilmente più in
carne.
Questo è il più piccolo di molti
altri problemi sui quali ormai Judy non riesce più ad esercitare il
suo controllo.
The Barkley of Broadway, che doveva
rappresentare la seconda collaborazione di Judy con Fred Astaire,
diviene invece l’ultimo film della coppia Astaire-Rogers, e il
primo di una lunga serie di film ai quali Judy deve rinunciare, o
per i suoi problemi di salute, o perché, pur avendo cominciato le
riprese, è incapace di portarle a termine.
Nel 1948 Judy prende parte a Words
and Music, per il quale gira una piccola scena da special guest,
dove interpreta se stessa. Tuttavia è comunque per lei una
soddisfazione, considerando il suo fallimento nella realizzazione
della precedente pellicola. Ma questo film è anche l’inizio della
fine per lei alla Metro, e una delle sue ultime interpretazioni per
la casa produttrice. Anche se il suo partner in Words and Music è
Rooney, il loro feeling non funziona più come ai tempi di Babies in
Arms. Judy è cresciuta, e la recitazione scanzonata di Rooney, che
tanto si addiceva alla sua fisicità minuta e che tanto piaceva alla
generazione di adolescenti americani, non è più credibile in un
attore di ventisei anni. I numeri di Judy sono due: un duetto con
Mickey e un assolo. Appare molto stanca in viso, ma i suoi modi
sono rilassati e la sua voce sempre splendida. Questo è l’ultimo
film in cui Mickey e Judy appaiono insieme.
Dopo una breve pausa, ritorna ad un
lavoro vero e proprio, Fidanzati sconosciuti (In the Good Old
Summertime di Robert Z. Leonard; 1949), un remake di un altro film
della Metro del ’40 The Shop Around the Corner. Dopo l’immenso
successo di Meet Me in Saint Louis, Judy torna in un film in
costume, ed anche la melodia iniziale del film ricorda vagamente le
note di Saint Louis. I cambiamenti sostanziali rispetto
all’originale del 1940 sono pochi; l’azione viene spostata da
Budapest alla Chicago di inizio secolo e il negozio del titolo
viene trasformato in un negozio di musica. Inoltre la trama viene
complicata introducendo personaggi secondari. Il film ha un
discreto successo, dovuto più alla presenza di Judy nel cast che a
particolari qualità specifiche. Lei interpreta una commessa di un
negozio di musica, insieme a Van Johnson. Le parti cantate stentano
ad avere un vero e proprio posto nel film, tanto che per quattro
volte all’interno della pellicola, Judy sembra cominciare a cantare
senza soluzione di continuità con il resto della storia. Questa sua
interpretazione testimonia il fatto che, nonostante la sua grande
sensibilità da attrice, Judy fosse fondamentalmente una grandissima
cantante.
Il film è certamente gradevole, ma
c’è poco del marchio distintivo dei precedenti musical
di Judy Garland. Da sottolineare nel film la
presenza di Buster Keaton in un ruolo minore.
Questo film fu realizzato mentre si
aspettava il via alla produzione di Annie Get Your Gun. Per questa
pellicola, Judy Garland aveva già registrato
le canzoni, e quando nell’aprile del 1949 cominciarono le riprese,
lei doveva solo registrare le scena recitate. Tuttavia, da
dichiarazioni solo di recente rese pubbliche, Judy
Garland sul set appariva affaticata, in alcune riprese
addirittura totalmente disorientata. È comprensibile quindi il
fatto che un giorno, dopo una pausa pranzo, Judy non fu in grado di
ritornare sul set, ottenendo un periodo di riposo dalla M.G.M..
Judy si ricoverò al Peter Bent Brigham Hospital presso il quale
rimase per undici settimane. Il film fu completato da Betty Hutton,
un’attrice della Paramount. Fortunatamente per la Metro, il film
divenne un incredibile successo, anche senza Judy.
Ancora a riposo, quando arrivò la
possibilità di recitare in L’allegra fattoria (Summer Stock di
Charles Walters 1950) per Joe Pasternak, Judy lasciò prematuramente
l’ospedale per prendere parte alla realizzazione della pellicola.
Durante la sua pausa, Judy era ingrassata visibilmente.
In Summer Stock, Judy
Garland torna ai tempi di Babies in Arms mettendo su uno
spettacolo in una fattoria. Il suo ultimo film alla Metro non è
eccezionale, ma è godibile. Malgrado i suoi collassi nervosi, Judy
è di nuovo lei, ancora eccezionale regina della scena.
Le riprese di Summer Stock andarono
avanti per sei mesi, Judy si presentava tardi sul set, o non si
presentava affatto. Alla fine delle riprese, Pasternak decise che
per la scena della festa nell’aia della fattoria era necessaria un
altro numero. Judy registrò più magra di quasi sette chili il
numero “Get Happy”, e il drastico cambiamento di peso in così poco
tempo diede adito a delle voci riguardo al fatto che quel numero
fosse già stato registrato per un precedente film e poi usato
successivamente. Era infatti shockante per gli spettatori vedere
per tutta la durata del film una Judy ingrassata e diversa da
quella che erano abituati a conoscere, e poi alla fine del film,
rivederla come all’inizio della sua carriera.
Ebbe un’altra opportunità di
lavorare ancora con Fred Astaire. Fu chiamata per sostituire June
Allyson in Royal Wedding, ma le sue assenze sul set spinsero la
M.G.M. a rimpiazzarla con Jane Powell.
Senza dubbio la sua salute, mentale
e fisica, si stava deteriorando e il suo matrimonio con Minnelli
era allo stadio finale. Judy tentò il suicidio cercando di
tagliarsi le vene dei polsi. Non riuscì a togliersi la vita a causa
delle ferite poco profonde, ma fu chiaro ormai a tutti che il
‘caso’ Judy Garland era diventato davvero grave. A
seguito del suo tentato suicidio, la Metro la svincolò dal
contratto, ufficialmente per il suo bene, e per la prima volta in
tutta la sua giovane vita, Judy si ritrovò senza un lavoro. Lasciò
la sua casa, nella quale viveva con Vincente, e si trasferì al
Beverly Hills Hotel con la figlia Liza. Madre e figlia partirono
per New York.
Nella Grande Mela scoprì che non
c’era lavoro per lei, la notizia del suo tentato suicidio e il suo
comportamento poco professionale sul set contribuirono a non farle
avere ingaggi. A lei vennero attribuiti i costi elevatissimi di
produzione dagli Studios che la ritraevano come una diva
capricciosa e poco affidabile.
Judy, per la prima volta, si trovò
a dipendere solo da se stessa e non aveva più nessuno che la
supervisionava dall’alto. Aveva recitato in ventinove film ed aveva
apposto la sua firma su dozzine di canzoni. Ora la sua carriera
cinematografica sembrava virtualmente finita. Il 10 giugno del
1950, esattamente una settimana prima della sua definitiva rottura
con la Metro Goldwyn Meyer, celebrò il suo ventottesimo
compleanno.
Durante il suo periodo di riposo,
Judy conosce Sid Luft, ex pilota, ex produttore e agente teatrale
ed ex marito di Lynn Bari. Diventò l’agente personale di Judy e,
nel 1952 il suo terzo marito. Fu proprio da questa unione, ancora
una volta per Judy professionale e sentimentale, che nacque l’idea
di un tour europeo che si protrasse per tre mesi e che cominciò al
London Palladium. Per il numero finale di questo primo spettacolo,
Judy indossò lo stesso costume che aveva indossato in Easter Parade
quando con Fred Astaire si esibì in “A Couple of Swells”, e seduta
al bordo del palcoscenico cantò “Over the Rainbow”, tra il delirio
degli spettatori.
Gli echi dei suoi successi europei
spinsero Sol Schwartz, presidente della RKO, a chiederle di
replicare i concerti al leggendario Palace Theatre di New York, che
aveva smesso di essere palcoscenico da vaudeville dal 1932. Per il
ritorno di Judy, l’edificio venne ristrutturato e riportato allo
splendore originario da Edward F. Albee.
Judy era rimasta a lungo in un
angolo, e il momento per il suo ritorno era psicologicamente quello
giusto.
Sid Luft curò nei minimi dettagli
tutta la produzione dello show. Tutto il personale della M.G.M. che
aveva lavorato in passato con lei venne richiamato per allestire lo
spettacolo al meglio. Charles Walter, regista di Summer Stock e
Easter Parade, la diresse sulla scena; Irene Sharaff disegnò i suoi
costumi, e Hugh Martin, compositore di “The Trolley Song”,
l’accompagnò al pianoforte. Molte delle canzoni in programma erano
parti delle colonne sonore dei molti film che aveva realizzato per
la Metro, inoltre, il pubblico, a conoscenza della sua tormentata
vita privata, le fu particolarmente d’aiuto.
La notte del 16 ottobre del 1951,
per la prima di Judy al Palace venne srotolato il tappeto rosso. Un
grande cartellone vecchio stile riportava il programma della
serata: la seconda metà era tutta per Judy. Il suo arrivo sul palco
venne accolto da un’ovazione, e la sua performance fu intensa così
come se l’aspettavano i numerosi spettatori. Precedentemente
pensato per delle repliche di quattro settimane, lo spettacolo
venne messo in cartellone per il doppio del tempo.
Durante la domenica mattina della
quarta settimana di repliche, Judy non si presentò sul palco, e
Vivian Blaine e Jan Murray mandano avanti lo spettacolo. La
temporanea assenza dal palcoscenico del Palace causò una nuova
ovazione quando Judy ritornò in scena. A fine spettacolo, dopo il
bis, il pubblico si rifiutò di andar via poiché non era ancora
stanco di lei, della sua voce, delle sue interpretazioni
magnetiche. Judy lasciò il palco in lacrime di gioia.
Jack L. Warner dichiarò che fu lui
a proprorre il remake di E’ nata una stella (A star is born di
George Cukor; 1954) alla Garland. In realtà, molti produttori erano
interessati al progetto, già prima che Luft avesse contattato la
Warner per proporre una coproduzione. A Star is Born del 1937 era
un film già molto prestigioso che collezionò sei nomination
all’Oscar e che fruttò molti riconoscimenti al regista, William
Wellman, e agli attori protagonisti, Janet Gaynor e Fredric March.
Anche questa sceneggiatura era stata tratta da un piccolo film
precedente, What Price Hollywood? del 1932, diretto sempre da
George Cukor. Proprio per Judy venne riscritta la parte della
protagonista Esther Blodgett, che diviene una star del cinema sotto
il nome di Vicki Lester, solo per perdere suo marito, la vecchia
gloria del cinema Norman Maine che cade nel baratro
dell’alcoolismo, interpretato da James Mason. Il film
necessitò di un periodo di riprese pari a circa dieci mesi, e
questa volta i ritardi non furono attribuibili a Judy. Infatti la
produzione decise di girare in CinemaScope, e questo rese più
complessa la realizzazione del film.
Judy Garland fece il suo
ritorno al cinema in grande stile.
In questa riscrittura
dall’originale, la protagonista è una cantante con una piccola
band. Norman Maine invece è un attore di Hollywood alle prese con
problemi di alcolismo. Una giorno sente cantare Esther in un club e
riconosce in lei “quel qualcosa in più” che secondo la divina Ellen
Terry caratterizzava un vero artista. La porta all’attenzione di
Oliver Niles, interpretato da Charles Bickford, che la provina.
Così comincia la carriera di Vicki Lester, questo il nome d’arte
che lo studio decide per la stella nascente. La carriera di Vicki
assume un andamento inversamente proporzionale a quella di Norman
che cade nell’alcolismo e nella depressione e alla fine si toglie
la vita annegandosi.
Il ruolo di Vicki Lester non
aggiunge nulla che non si sapesse già delle doti interpretative di
Judy, tuttavia questa resta senza dubbio la sua migliore
interpretazione perché è la più completa e la più complessa.
Il film offre anche a Judy una
nuova splendida canzone: ”The Man That Got Away”. Ci troviamo in un
momento cruciale del film, è qui che Norman si accorge delle
qualità di Esther. Se il numero non avesse funzionato, tutto il
film sarebbe stato in un certo senso mutilato. Il numero è
perfetto. È probabilmente il numero musicale di maggior successo
dell’intera carriera di Judy. La canzone è particolare, così come
la sua interprete, e Judy la canta in maniera sublime,
sottolineando ogni nota emozionale, senza mai forzare nessuna
battuta. E quando la canzone finisce, il suo sospiro di
soddisfazione per una canzone ben eseguita aggiunge il giusto tocco
di realtà alla scena.
Il film risulta migliore nella
seconda parte, quando scopriamo le grandi qualità di Esther e la
seguiamo nella sua scalata ad Hollywood.
Come Esther e Norman, Judy e James
sono superbi, la vera forza del film sta nella loro interpretazione
di coppia. Dimostrano uno straordinario feeling, Judy non aveva mai
avuto un partner maschile così adatto a recitare al suo fianco.
Quando A Star is Born esce al
cinema, nel settembre del 1954, i critici si soffermano, incantati,
sulla performance di Judy, dandole il bentornato nel regno delle
stelle del cinema. Fu nominata all’Oscar come migliore attrice
protagonista (unica volta nella sua vita), ma il premio andò a
Grace Kelly per The Country Girl.
Purtroppo ci è impossibile vedere
la versione originale di questo film. Infatti dopo il montaggio
finale il film durava 182 minuti, troppi per la proiezione al
cinema. Così la casa di distribuzione, la Warner Bros, si curò di
far tagliare 26 minuti dalla versione originale, che andò
persa irrimediabilmente. Probabilmente furono tagliate alcune scene
della parte iniziale che mostrano l’evoluzione del rapporto tra
Esther e Norman.
La casa di produzione di Luft, che
aveva fondato insieme a Judy, non produsse più alcun film insieme
alla Warner dopo A Star is Born. Infatti la Garland sparì di nuovo
dal grande schermo, per poi ritornarci nel 1961, quando ebbe un
nuovo breve periodo di visibilità. Gli anni ’50 furono un periodo
di relativa quiete, debuttò in televisione nel 1955 con lo show
“The Ford Star Jubilee”. L’anno successivo debutta al Las Vegas’
New Frontier Hotel.
Nel 1956 Judy ritornò al Palace per
uno spettacolo con cinque settimane di repliche, ma una laringite
la costrinse a saltare parecchie date.
In questo stesso periodo però ebbe
anche problemi finanziari e coniugali, c’erano infatti frequenti
liti in casa Luft che sfoceranno nella separazione agli inizi degli
anni ’60.
Nel 1959 si esibì per una settimana
al Metropolitan Opera House di New York. In quel periodo il suo
aspetto era molto peggiorato, era sovrappeso e molto affaticata.
Non fu una sorpresa quando di li a poco, si sarebbe dovuta
ricoverare a causa di un’epatite per una degenza di cinque mesi.
Poi trascorse quattro mesi di riposo nella sua casa a Beverly
Hills, e successivamente, con i tre figli e Sid, partì per Londra,
dove visse l’anno più tranquillo della sua vita.
Alla fine del 1960 Judy si sentì
pronta per ritornare. Il 28 agosto di quell’anno si esibì ancora al
Palladium e cantò 30 canzoni ad una folla di più di duemila
persone. Questo concerto fu seguito da un tour per le provincie
inglesi e da due date a Parigi, al Palais de Chaillot Theatre.
Al suo ritorno a Londra, un altro
uomo si affacciò nella sua vita, Freddie Fields, che aveva fatto
parte della Music Corporation of America, ed ora lavorava in
proprio come agente musicale, circondandosi di una stretta e
selezionata cerchia di clienti. Judy Garland
divenne una di questi. Con Fields, la sua carriera ebbe una breve
rinascita. Fu lui infatti a procurarle un piccolo ruolo in un film
di Stanley Kramer, Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg; 1961),
il suo primo film dal 1954. Ma con ancora maggior successo Fields
le organizzò un tour per sedici città compresa New York, dove si
esibì alla Carnegie Hall. Proprio questo concerto newyorkese del 23
aprile 1961 divenne storico. Judy cantò ventisei canzoni ad una
platea entusiasta, e i due dischi registrati quella sera conservano
non solo l’intero concerto, ma anche l’incredibile atmosfera che
quella sera si respirava nell’aria. Judy era capace di instaurare
un rapporto speciale con gli spettatori, e quella sera si creò
un’alchimia tra pubblico ed interprete tale da innalzare la stessa
Judy allo stadio non più di Star, ma di leggenda. I dischi
registrati schizzarono in cima alle classifiche degli album più
venduti, e in qualunque città si recasse con la sua voce, replicava
quel successo.
Nel film di Kramer, che sigla il
suo ritorno al cinema, interpreta una tedesca testimone al famoso
processo di Norimberga. L’idea parte da una produzione televisiva
che Abby Mann adattò per il grande schermo, ed il film vanta un
cast straordinario: Spencer Tracy, Burt Lancaster, Richard Widmark,
Marlene Dietrich e Maximilian Schell. Oltre ovviamente a
Judy Garland e Montgomery Clift, ai quali vennero
affidati piccoli ma importanti ruoli. Come si evince anche dal
titolo originale, il film è incentrato sul processo del 1948 che
subirono i generali tedeschi a causa del loro supporto ad Hitler.
Judy è una tedesca imprigionata per aver avuto una relazione con un
uomo di origini ebraiche. Per la sua interpretazione l’Academy
decise di nominarla all’Oscar come migliore attrice non
protagonista.
Il suo lavoro successivo la vide
protagonista di un cartoon come doppiatrice di una gattina in Gay
Purr-re(1962). Judy si occupò sia delle canzoni che del doppiaggio
del personaggio.
Nel 1963 invece venne diretta da
John Cassavetes in Gli esclusi (A Child is Waiting). Il film,
prodotto da Stanley Kramer, era tratto ancora da un lavoro
televisivo di Abby Mann che si occupò ancora della sceneggiatura.
Partner di Judy fu di nuovo Burt Lancaster. Il suo personaggio è
una donna, Jean Hansen, che entra a far parte dello staff di una
scuola per bambini con ritardo mentale. Jean Hansen è convinta che
una sorta di rivincita, di successo, è possibile anche per quei
bambini. Judy interpreta bene un ruolo a dire il vero non molto
complesso. La sua Jean Hansen si prodigherà per uno dei suoi
allievi in particolare, un bambino più problematico degli altri che
non riceve mai alcuna visita dai genitori. Queste sue attenzioni
particolari verso il bambino le procureranno dei problemi con Dr.
Clark (Lancaster). Per tutto il film, il suo ruolo è quello di
osservatrice che non riesce a fare nulla di concreto per aiutare i
bambini. Anche il suo aspetto risulta peggiorato, appare sovrappeso
e il make-up non riesce a nascondere un volto rovinato dalla sua
cattiva salute.
Ombre sul palcoscenico (I Could Go
On Singing di Ronald Neame;1963) è il suo ultimo film. Ci sono
elementi autobiografici, poiché si tratta della tormentata storia
di una cantante di fama mondiale impegnata con un tour che
interessa sei nazioni europee, ed in più ha dei problemi con un
marito e con il suo unico figlio. La sua ultima canzone del film è
quella che da il titolo alla pellicola “I Could Go On Singing” ed
in sé racchiude quasi l’essenza di Judy, di una donna che solo
cantando riusciva ad amarsi e ad essere amata.
L’anno successivo, Judy
Garland viene ingaggiata dalla CBS per
una serie televisiva. Vennero registrati sequenze per
ventisei ore, materiale sufficiente per diverse puntate, e proprio
Judy insistette affinché nel primo episodio fosse presente anche
Mickey Rooney. Tuttavia lo show non ebbe successo,
anche a causa di un altro programma molto amato dagli spettatori,
una serie western intitolata Bonanza, che andava in onda negli
stessi orari.
Dopo il fallimento di quest’ultimo
progetto, Judy partì per un tour in Australia dove però non venne
apprezzata, e dopo 45 minuti di spettacolo fu costretta ad
abbandonare il palcoscenico. Nel 1965 invece, al Palladium di
Londra, sostenne un concerto con la figlia Liza, che segnò il tutto
esaurito, spingendo i fan a chiedere una replica che ugualmente
registrò la fine dei biglietti in vendita in pochissimo tempo.
Judy Garland: la morte
Negli ultimi anni della sua
vita, Judy Garland si sposò due volte con due
uomini molto più giovani di lei. Il primo fu Mark Herron, un
giovane attore. Poi fu la volta di Mickey Deans, che era con lei
quando morì. Quando Judy Garland invitò Liza
al suo quinto matrimonio, la ragazza rispose che non ci sarebbe
potuta essere, ma che sicuramente ci sarebbe stata per il
matrimonio successivo.
Judy Garland
trascorse gli ultimi mesi della sua vita a Londra con Deans,
tenendo qualche sporadico concerto nel Continente. La sua ultima
apparizione in concerto fu a Copenhagen. Ma il suo aspetto era
davvero dei peggiori in quel periodo, troppo magra e molto fragile.
Il 22 giugno del 1969, Mickey Deans la trovò morta in bagno.
L’autopsia dichiarò che la causa della morte era stata una overdose
accidentale di sonniferi. Aveva 46 anni.
Nella notissima intervista fatta da
Truffaut a Hitchcock, il regista francese sostiene che nei film del
maestro britannico sia fortemente presente il tema della colpa
dell’uomo, che ha quasi il sapore di un peccato originale. Se
l’uomo è innocente, è tale solo in rapporto alle accuse che gli
vengono fatte, mentre è colpevole nelle intenzioni: James Stewart è
colpevole di essere voyeur ne La finestra sul cortile, ad
esempio.
Per essere più specifici, nei film
di Hitchcock ricorre spesso il tema dell’individuo ingiustamente
accusato o dichiarato colpevole che cerca di provare la sua
innocenza. Questo sin dal muto The lodger, del ’26, passando per
Downhill (1927), fino ai più noti Io confesso (1953), Delitto
perfetto (1954), Caccia al ladro (1955), Il ladro (1956), Intrigo
Internazionale (1959), Frenzy (1972)…
Più raramente si ha a che fare con
colpevoli che cercano di “diventare” innocenti: Blackmail (1929),
Marnie (1964)…
È interessante notare come tale
tema della colpevolezza agisca in rapporto alla sessualità, in
alcuni film in particolare.
Nei film di Hitchcock raramente si mostra un amore “sereno” e
quando ciò accade, esso non è che uno soltanto tra altri, più
rilevanti, elementi della storia (La finestra sul cortile, Intrigo
Internazionale, Il sipario strappato).
Viceversa, quando l’amore è un tema più rilevante della trama, esso
non è affatto “sereno”, ma appunto tormentato, perverso, mortuario.
È cosi, ad esempio ne La donna che visse due volte (che in
originale ha il più evocativo titolo Vertigo).
Ne riassumo brevemente la
trama.
Scottie (James Stewart) è un ex
poliziotto che soffre di vertigini che viene incaricato dall’amico
Gavin di sorvegliare sua moglie Madeleine (Kim Novak), che soffre
di problemi psichici, nel timore che possa commettere il
suicidio.
Scottie pedina la donna, la salva
da un tentativo di annegamento, se ne innamora, ma a causa delle
vertigini non riesce a fermarla quando si butta da un
campanile.
L’uomo attraversa un periodo di
depressione, finché incontra in strada una donna incredibilmente
somigliante a Madeleine.
La ragazza sostiene di chiamarsi
Judy e cerca di respingere l’uomo. Apprendiamo da un flashback che
Judy è in realtà la Madeleine conosciuta da Scottie. La donna era
l’amante di Gavin, e ad essere precipitata dal campanile fu la vera
moglie di costui. Questo progetto era stato ordito dagli amanti per
liberarsi della moglie di Gavin facendo leva sulle vertigini di
Scottie, che gli avrebbero impedito di raggiungere la donna fino al
campanile. Gavin aveva però poi abbandonato Judy.
Scottie porta Judy a comprare degli
abiti, a tingere i capelli, a modificarne l’aspetto fino a
riprodurre Madeleine. I due si baciano: anche Judy è innamorata di
Scottie. L’uomo, avendo intuito come andarono le cose, costringe la
donna a tornare con lui sul luogo del delitto. Salgono insieme sul
campanile, Scottie vince le sue vertigini. I due si abbracciano, si
baciano: è l’amore. Dal buio, compare la sagoma di una suora. Judy
ne ha paura, perde l’equilibrio e precipita.
A Scottie non importa sapere che la
Madeleine da lui conosciuta non è mai esistita. Madeleine è poco
più di un’ombra, l’immagine di una donna creata a regola d’arte,
donna resa (fintamente) fragile da problemi psichici,
fintamente (auto)distruttiva, fintamente inconsapevole della sua
animalesca e indolente carica erotica.
Quel che a Scottie importa è
poterla riavere.
Riavere quella inesistente creatura
(meglio: creazione), che ha un qualcosa di misterioso, di negativo,
e come tutto ciò che è negativo e misterioso, come ogni tabù,
attrae. Pur avendo il compito di proteggerla da se stessa, egli se
ne lascia incantare.
Scottie si ricrea da sé e per sé la
sua Madeleine a partire da Judy. Vorrebbe fare l’amore con una
morta (e infatti Hitchcock parla, forse un po’ scherzosamente, di
necrofilia a questo proposito), o per essere più precisi con una
donna mai vissuta. Con la donna che non visse neppure una volta, se
non come immagine mentale di Scottie.
Di questa donna egli si era
innamorato. Per amare di nuovo, Scottie ha bisogno, perversamente e
forse masochisticamente, che la volgare e comune Judy sia di nuovo
la “fatale” e sofisticata Madeleine: in questa intenzione è la sua
“colpa”, che fatalmente conduce di nuovo alla morte (vera, questa
volta) della donna.
C’è un altro amore, più
evidentemente “perverso” di qualche anno successivo, nella
filmografia Hitchcockiana e si tratta di Marnie.
Marnie (Tippi Hedren) è una ragazza
affascinante che si fa assumere da varie imprese per svaligiarne la
cassa cambiando di volta in volta identità e fornendo false
referenze. La assume un uomo d’affari di Filadelfia, Mark Rutland
(Sean Connery), che si innamora di lei. Marnie svaligia ancora la
cassaforte, Mark l’insegue e le propone di essere denunciata o di
sposarlo. Marnie non ha scelta. In viaggio di nozze Mark scopre che
la ragazza è frigida e quando lui cerca di possederla con la forza
lei tenta il suicidio. La cleptomania della donna, che rivela anche
altre nevrosi e la paura del colore rosso, è una compensazione
della sua frigidità. Mark rintraccia la madre di Marnie, una ex
prostituta e vi si reca con la moglie. Si scopre il segreto delle
nevrosi della donna: a cinque anni Marnie aveva ucciso con un
attizzatoio un marinaio che infieriva sulla madre: di qui i suoi
problemi col sesso e il suo terrore per il rosso. Marito e moglie
escono, con la speranza che grazie a questa rivelazione la ragazza
guarisca.
Anche qui un uomo attratto da una
donna misteriosa con un che di negativo.
Mark è interessato a Marnie in
quanto è una ladra e al contempo cerca di liberarla dai suoi
conflitti, come Scottie è interessato a Madeleine in quanto
(auto)distruttiva.
Entrambi i film hanno al proprio
centro il tema di un amore feticistico.
Sono il profondo, il recondito, ciò
che viene celato e proibito a innescare la seduzione in maniera più
potente, e spesso, dunque, distruttiva. Non è così solo per
l’esperienza erotica, ma anche per il delitto: ai personaggi
hitchcockiani a volte non interessa compiere il delitto per un
qualche scopo preciso, ma solo perché esso costituisce l’infrazione
di una regola, la rottura di una proibizione, di un tabù. Così è
per gli studenti strangolatori di Nodo alla gola. Spesso si prova
piacere non per una azione in se stessa, ma nella misura in cui
essa costituisce, appunto, la violazione di una proibizione
autoritaria. Tutto ciò doveva saperlo bene Hitchcock, che aveva
avuta educazione cattolica dai gesuiti, e che confessava di avere
il terrore, da bambino, delle punizioni corporali per mezzo del
frustino di gomma.
Ecco perché forse nei suoi film si
ritrova così tanto spesso l’innocente perseguitato che tenta di
discolparsi, ecco perché il concetto di colpa è così presente, al
di là del fatto che quasi mai i soggetti dei film del regista siano
originali.
Il senso di colpa (e la punizione,
anche) doveva apparirgli come strettamente connesso alla fisicità.
Del resto, notava lo stesso regista una sorta di feticismo da parte
dei giornali nel voler mostrare i delinquenti ammanettati. Le
stesse manette sono uno strumento usato dalla giustizia come in
certe aberrazioni sessuali.
Egli, uomo timido e pauroso,
educato rigidamente, solitario fino a guardare con sdegno e
disprezzo i suoi coetanei in gioventù, sposatosi vergine a
venticinque anni, doveva voler raccontare, dissimulandole, le sue
proprie ossessioni, verso la società pronta ad accusare e
colpevolizzare e verso la sessualità torbida, quasi trattando il
tutto in chiave di lotta di principi morali o quasi metafisici in
cui comunque l’innocente e il colpevole, a dispetto di tutte le
complicazioni, vengano riconosciuti come tali anche da chi, come la
società e la giustizia, li avevano accusati.
La risoluzione di alcuni film di
Hitchcock, costruiti su situazioni assurde, quasi kafkiane di
ingiustamente (o incomprensibilmente) accusati avviene quasi in
maniera casuale, anche essa quasi per assurdo: come al commissario
di Frenzy accade di cogliere casualmente l’assassino in
flagrante.
E questo perché, forse, il
non-torbido, la serenità, non possono che essere remoti nella
società. Forse il non-torbido è un po’ simile ai love birds
inseparabili de Gli uccelli (1963): mansueti, chiusi nella
loro gabbietta sono gli unici “lovely” birds del film, e ciò
finisce per innescare spesso delle situazioni ironiche, derivanti
dal contrasto con gli altri uccelli del film che “lovely” non sono
affatto.
Gli “attacchi” degli uccelli
cominciano e finiscono (ma nel film non appare la parola “fine”, e
ciò è inquietante perché gli uccelli non sono andati via, ma anzi
coprono l’intera superficie di terra delle ultime, cupe
inquadrature, dovunque e per sempre presenti), non a caso, su
Melanie, la donna sensuale amata da Mitch e respinta dalla madre
possessiva di lui, che è invece, curiosamente, il personaggio meno
“attaccato”. Qualcuno ha visto infatti gli attacchi dei volatili
come un riflesso dell’astio della madre di Mitch per la “ipotetica
nuora”, la “nuova” donna del figlio che scalzerebbe la madre, prima
donna. Qui non c’è la perversione di una coppia o di uno dei suoi
membri, ma piuttosto di un singolo personaggio, che è poi quello
che agisce come “proibizione” nei confronti della coppia. Un po’
come la “finta” madre di Norman (circondato, curiosamente da
uccelli impagliati) in Psyco (1960) “interveniva” a proibire
l’interesse del figlio per Marion Crane, uccidendola.
Anche in questi finali, come
altrove, la vicenda si risolve (anche se non è detto che ne Gli
uccelli vi sia risoluzione definitiva) indipendentemente dagli
sforzi della legge e termina con il ritorno dell’assurdo: la
vittoria della madre di Norman sulla personalità del figlio,
l’invasione degli uccelli.
Di fronte a tutte queste
ossessioni, un po’ come certi pensatori medioevali della scolastica
che spendevano tante parole contro le creature e le situazioni
oscene nelle pagine di autori pagani o raffigurati nelle facciate
delle cattedrali, subendone però in realtà la fascinazione, così
Hitchcock è interessato al torbido pur demonizzandolo. Si direbbe
quasi che egli abbia cercato di esorcizzare le sue proprie
ossessioni attraverso quei film che solo a uno sguardo superficiale
sembrerebbero prodotto di fabbrica scaturito da soggetti non
originali.
Benché le definizioni possano
spesso stare strette agli autori, mi piace pensare Werner
Herzog come il cineasta delle sfide impossibili.
Herzog (con Fassbinder, Syberberg,
Wenders, uno degli alfieri della Neue Welle, sorta di Nouvelle
Vague tedesca) ha spesso raccontato la più impossibile tra le
sfide: quella tra uomo e Natura. È così, ad esempio, nel film che
nel ’75 fece conoscere questo autore al grande pubblico: Aguirre,
furore di Dio, storia del “folle volo” di un conquistador alla
ricerca del mitico El Dorado. O nello splendido: Fitzcarraldo
(1982), storia di un amante della lirica che intende costruire un
teatro nella foresta Amazzonica. Sono storie di “uomini al limite”,
ebbri di “lucidissima follia”, come il Woyzek del film omonimo
tratto dalla piece teatrale di Georg Buchner, o sognatori e pazzi
come Aguirre. Sognatori, si: perché “Chi sogna può scalare le
montagne”, come viene detto in Fitzcarraldo.
Werner Herzog però
non si limita soltanto a raccontare sfide impossibili nei suoi
film, ma è anzi l’autore che più di ogni altro ha vissuto come
sfida tout-court la realizzazione di ogni suo lavoro
cinematografico. Valga come esempio di ciò ancora
Fitzcarraldo, per il quale Herzog fece realmente trasportare
una nave su un monte della foresta Amazzonica, nel bel mezzo della
guerra tra Ecuador e Perù. O anche Herz aus Glass-Cuore di vetro,
in cui tutti gli attori recitano sotto ipnosi. In questo senso il
regista somiglia ai suoi protagonisti: è egli stesso un sognatore
disposto a scalare le montagne.
E sfide sono stati a loro modo
anche i cinque film di Herzog interpretati dall’attore Klaus
Kinski, che ebbe col regista un rapporto burrascoso a livello umano
(i due arrivarono anche a minacciarsi di morte), ma che diede
ottimi risultati a livello artistico. In definitiva, i film di
Werner Herzog raccontano di due sfide, dunque:
quella del plot (virtuale) vissuta dai personaggi e quella (reale)
vissuta dall’autore con la sua troupe che scorre sotterranea alla
prima.
Le sfide dei personaggi
herzoghiani, sin dal primo lungometraggio Lebensceichen-Segni di
vita (1967) storia di tre soldati tedeschi in Grecia durante la
seconda guerra mondiale, sono spesso destinate a fallire sotto i
colpi di una Natura inquietante, impenetrabile, non-soggiogabile.
Una Natura ostile e perciò sublime, che, parafrasando le parole
dello stesso regista “dà più l’idea della fornicazione che non
quella dell’amore”. I paesaggi herzoghiani sono quelli della Grecia
(Segni di vita), dell’Africa (Cobra Verde), dell’America Latina
(Aguirre). Werner Herzog ha realizzato oltre alle
opere di fiction anche numerosi documentari che allo sguardo
onirico e allucinato proprio delle opere a carattere fiction,
rivelano un grande interesse antropologico e etnografico, come Fata
Morgana e I medici volanti dell’Africa Orientale. I film di
Werner Herzog funzionano quasi come l’astronave
Discovery del kubrickiano
2001:Odissea nello spazio, diretta verso Giove, ma destinata ad
arrestarsi di fronte all’impenetrabile monolito che tutto azzera
nel suo buoio: una progettualità estrema, un sogno folle
destinato il più bello delle volte a fallire. Come nel
finale di Aguirre, che, ormai solo sull’imbarcazione il cui
equipaggio è stato decimato dalle febbri e dalle frecce degli
indios, lancia nel sole accecante i suoi progetti di conquista.
Nel 1967, Robert
Aldrich, noto regista di film di vario genere, accomunati
da un crudezza formale e di contenuto, gira Quella sporca
dozzina; dieci anni dopo, Enzo G. Castellari,
con non poche difficoltà di produzione, porta a termine Quel maledetto treno blindato. La prima pellicola,
vuoi per la carica violenta, vuoi per il cinismo di fondo che
caratterizza gli eroi protagonisti, cattura l’attenzione del
cinefilo Quentin Tarantino; lo stesso regista, noto per
l’enciclopedica cultura cinematografica specializzata in B-movie,
riscopre la pellicola di Castellani, ed è subito amore: il creatore
di
Pulp fiction, intende omaggiare la pellicola di
Castellani, proponendo una versione di
Inglorious Bastards (questo il titolo di produzione di
Quel maledetto treno blindato), che risenta del fascino subito
dal film di Aldrich.
In ogni caso, e quale fosse il
ritmo, la sorte ci premiava,
perché a voler trovare connessioni se ne trovano sempre,
dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete,
in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega
tutto…
(Umberto Eco)
Queste le premesse per l’ultima
impresa di Quentin Tarantino, che già prima dell’uscita
nelle sale si propone, coerentemente alla poetica d’autore
del regista, come creazione a partire da. Il presupposto di base è
sempre l’amore di Tarantino per il cinema, che sfocia nella suo
desiderio di omaggiare e ri-creare a partire da soggetti
preesistenti, all’insegna di un citazionismo folle e maniacale. Ma
se il pastiche cinematografico riesce spesso a proporre forme e
situazioni decisamente originali, c’è da dire che alle volte il
tutto si limita ad una sorta di esperimento ricreativo intento a
riesumare quelle pellicole sottaciute e misconosciute che fanno
breccia nell’animo del regista.
Ora, prima di abbandonarci a
critiche e giudizi gratuiti privi di analisi, avviamoci a
contestualizzare la figura del regista all’interno del panorama
cinematografico e non solo. I prodotti tarantiniani sono
ovviamente riconducibili alla logica postmoderna del collage e
della combinazione di elementi preesistenti: la memoria agisce come
elemento predominante all’interno di tale situazione
culturale, ove nulla è nuovo e tutto è stato precedentemente
enunciato. In virtù di ciò, i registi coerenti(volenti o nolenti)
alla corrente postmoderna, affondano le loro mani nel flusso
incoerente delle immagini della memoria.
Figlio del proprio tempo, Quentin Tarantino riesce a rielaborare tali
presupposti in una chiave del tutto personale, andando a riscoprire
immagini perdute setacciando prodotti ignorati e facendo rivivere,
sia dal punto di vista puramente estetico che nel contenuto,
situazioni e soggetti parossistici, i quali -vuoi per le
limitazioni di tipo produttivo, vuoi per le intenzioni dell’autore
– si caricavano spesso di caratteristiche kitsch o trash. Tutto
ciò, rielaborato all’interno di un prodotto fortemente autoriale,
ma soprattutto magistralmente confezionato, crea all’interno del
film un effetto tendente allo straniamento, che avviene quando
vediamo rivivere all’interno dell’opera pellicole sgranate,
improbabili colonne sonore anni ’70, e montaggi che invidiano le
produzioni di serie Z.
Questo, proiettato ad uno
spettatore abituato alla spettacolarizzazione e ad un’immagine
sempre più nitida e lustrata, distoglie il pubblico dall’immagine
pulita cui è abituato, e lo ricolloca all’interno di un prodotto,
ove quelle situazioni volutamente fuori luogo e fuori tempo,
risultati di sperimentazione ludica e/o di atti di riverenza nei
confronti di quella parte di cinema da lui amata, suscitano uno
spiazzamento che porta lo spettatore all’accettazione del gioco del
regista. Per quanto riguarda la citazione, se spesso si è finiti
con l’accusare il regista di plagio e mancanza di originalità, è
pur vero che altrettanto spesso tali giudizi non hanno tenuto conto
della creatività e delle modo in cui tale recupero avviene.
L’invidiabile cultura
cinematografica permette a Quentin Tarantino di
spaziare dai b-movie italiani a misconosciute pellicole orientali,
riciclando materiale filmico all’interno di un prodotto finale,
risultato appunto da generi e tradizioni cinematografiche
disparate: la memoria del regista, filtrata attraverso la
coscienza postmoderna, si configura come un magma di materiale
globalizzato, mescolato e rielaborato all’insegna di una visione
del cinema scevra da settorializzazione nazionali. Ed è
proprio questa coscienza dell’imminente globalizzazione che motiva
Tarantino a guardare al di fuori della propria cultura, spingendolo
a collaborare più volte con registi come
Miike Takashi (anch’egli sempre aperto a nuovi
orizzonti), e riuscendo a far coesistere all’interno della
produzione americana generi quali il chanbara, gongfu e action.
Tale logica di de-costruzione del
film matura nel corso degli anni, delineando una linea formale che
da Le iene a Kill Bill, palesa ed estremizza la tendenza alla
frammentazione del prodotto, e parallelamente si avverte col
passare degli anni, l’inclinazione verso un cinema più spettacolare
e meno pregno.
All’interno di questo quadro, la
citazione contribuisce alla decostruzione del film: è tanto forte
da brillare di luce propria, e da riuscire-insieme con gli elementi
della cultura avantpop che pur contaminano il film- a frantumare il
film in tante piccole situazioni a sé stanti, figlie della società
dello zapping e celebrative della perdita dell’attenzione che
caratterizza lo spettatore con cui Tarantino si confronta; summa
della poetica tarantiniana, Le iene e Pulp fiction, hanno
dato vita a tutto questo, con i loro dialoghi totalmente avulsi dal
contesto che sfiorano il surreale e svelano l’inadeguatezza
dell’immagnie, con la negazione del racconto cronologicamente
inteso, con i sottili riferimenti ora al cinema americano ora alla
mafia giapponese, il pulp, l’exploitation e bizzarre situazioni
fagocitate e rigurgitate in una pellicola curata in ogni minimo
dettaglio che vive proprio del caos che vi regna.
La prima svolta si ha con
Jackie Brown: nella presentazione di un prodotto
aderente al noir, privo di quella frammentazione che opera su
tutti i livelli del film (piano formale e sceneggiatura), si in
riconosce in Tarantino la maestria di dirigere una
pellicola impeccabile, che rinnova il genere tramite personaggi e i
dialoghi brillanti, pur non ricorrendo a situazioni estreme ma
riproponendo contesti e circostanze caratteristiche del genere cui
appartiene. Tarantino dimostra di essere un ottimo regista e un
geniale sceneggiatore pur senza eccedere, muovendosi con mano ferma
all’interno di una narrazione classica contaminata di riferimenti
all’blaxploitation.
Ma le prime titubanze si hanno nel
quarto film del regista, Kill Bill, in cui Quentin
Tarantino non è all’altezza delle prime produzioni; il
film, nato all’insegna del puro divertissement, sembra fare il
verso al cinema del sol levante, il quale viene riproposto in
maniera smisurata. Se da una parte si riconosce il merito di
saper mischiare genere diversi e proporre personaggi che sfiorano
il parossismo, dall’altra pecca in profondità: dedito quasi ad un
tecnicismo senz’anima Tarantino si concede alla superficialità
dell’immagine, abbandonando i dialoghi che trionfavano nelle prime
produzioni e palesando una spettacolarizzazione del ritmo e degli
eventi. La fredda violenza che caratterizzava Le iene viene
sostituita dall’autocompiacimento a dal patetismo; nessuna
sperimentazione trova spazio ma c’è solo idolatria verso il cinema
di culto.
Dimentico dei primi capolavori,
Tarantino si abbandona ai ritmi degni dell’action movie più piatto,
riempiendo il film di un vuoto dinamismo. La velocità e l’action,
da interpolazioni che erano in un cinema fatto di dialoghi e
sequenze memorabili, finiscono col diventare il senso ultimo
di un opera che si svuota e si carica della portata spettacolosa
che caratterizza molto cinema commerciale. Se la parola era la
co-produttrice di senso all’interno del film, arrivando anche ad
anticipare l’immagine palesandone l’inefficienza, è pur vero che
con il quarto film dell’autore, la parola viene soppiantata a
favore dell’azione e del sentimentalismo, rinunciando alla
freddezza che caratterizzava le opere prime.
Ma dopo il divertito Kill Bill,
Quentin Tarantino sembra ritornare sui suoi passi
con A prova di morte, ove road movie e dialoghi brillanti tornano a
prender forma; ora, anche se all’interno del progetto
Grindhouse il film di Tarantino risulta fuori
luogo rispetto al più riuscito Planet terror di
Rodriguez, si intravede un ritorno ai toni più tarantiniani.
Forti di ciò, aspettando Bastardi
ingloriosi, speriamo nel ritorno ad un pensiero più critico e
complesso del film, auspicando un prodotto che sia ancora il frutto
di un profondo amore per la settima arte; che sia scevro da facili
soluzioni coinvolgenti e lontano dai paraventi che caratterizzano
molte produzioni comuni; che sia orientato in profondità, verso lo
sperimentalismo e le riflessioni che hanno fatto di questo autore
uno dei più grandi autori del nostro tempo.
C’erano una volta e ora ce ne sono di meno, dei
film che impressionavano per il loro contenuto violento e che
venivano spesso accusati di ispirare reali manifestazioni di
violenza all’interno della società.Ma la responsabilità dell’artista è più
nell’opera in sé e meno negli effetti che essa produce, per quanto
nefasti essi possano essere.
Dico che c’erano una volta perché ora poco o
nulla sembra poter produrre in noi sconcerto. Siamo spettatori
terribilmente svezzati, disincantati, smaliziati. Alla violenza che
vediamo sullo schermo ci siamo ormai abituati, tanta ne abbiamo
veduta, tanta ne vediamo e ne viviamo.La violenza è paradossalmente accettata e non
sappiamo più ricevere dalla sua rappresentazione uno shock, non
sappiamo più rimanerne sconcertati.
La vediamo dappertutto e dunque non è mai
estranea, tanto ne siamo imbevuti. È conosciuta una volta per
sempre, è classificata, incasellata in miliardi di servizi
televisivi da paesi che ci sembrano ancora più lontani visti sullo
schermo, è sterilizzata dal linguaggio giornalistico che funziona
come una litote.
È la società dello spettacolo, la nostra, diceva
Debord. L’immagine è al centro di tutte le possibili relazioni tra
tutti i soggetti. E così produciamo immagini a iosa e ne siamo
imbevuti.Ma è proprio questo
vedere di tutto sempre acritico e passivo ad averci reso meno
ricettivi, anche per quelle immagini che dovrebbero colpirci. Il
sentimento della meraviglia si attenua. L’abitudine a vedere deve
averci reso ciechi.
Del resto, fa notare Ghezzi nel suo castoro su
Kubrick prendendo le definizioni del dizionario Inglese-Italiano
Hazon, che “Overlook” significa tanto “guardare con attenzione” che
“trascurare”, “lasciarsi sfuggire”. E così anche Edipo pur vedendo
tutto era cieco, e solo quando dal troppo aver conosciuto si crepò
gli occhi, tornò a vedere.
“What have you done to his eyes?”, urlava una
(comprensibilmente) terrorizzata Rosemary guardando gli occhi di
quel suo figlio avuto da sua maestà infernale. Cosa è stato fatto
dei nostri occhi? Diversamente dal Gloucester di Re Lear, a noi non
sono stati strappati. Piuttosto è stata loro strappata la capacità
di farci assalire da questa o quell’altra visione: tutte si
equivalgono, tutte hanno lo stesso sapore. I prodotti
cinematografici sono sempre più prodotti seriali, pressoché simili.
Del resto, quella del cinema è un’industria, fordiana, ma più nel
senso di Henry che di John.
Avvertiamo dunque la falsità del dispositivo
cinematografico e di ciò che esso mostra: è più chiaro a noi che a
Welles che un film è sempre un fake, e come tale non ce ne facciamo
suggestionare, così per la violenza in esso mostrata. Erano
trent’anni fa o trenta secoli fa quando “Cane di paglia” e “Arancia
meccanica” ci facevano paura?
Eppure necessitiamo di verità perché tutto ci
sembra falso, tutto uguale, nulla ci impressiona realmente. Perché
torniamo a impressionarci, è necessario che le cose ci appaiano
veramente vere, e questo perchè forse siamo noi ad essere diventati
un po’ più finti: anche noi parte del gioco della società dello
spettacolo, con la nostra immagine da portare
avanti. Diceva Alex De Large che non era affatto meccanico che
“è buffo come i colori del mondo vero diventano veramente veri solo
quando uno li vede sullo schermo”.
Ecco allora i mockumentaries: da “The Blair Witch
project” fino a “Cloverfield”. Per potere essere impressionati di
nuovo da ciò che viene mostrato sullo schermo, abbiamo necessità
che esso sia dichiaratamente non-finto, che sia reale, presentato
come documentario.
Come il santo straccione di Pasolini arrivava
alla soluzione estrema di crepare davvero sulla croce perché non
aveva alcun altro modo per ricordare di essere vivo, così anche noi
ricorriamo all’estremamente finto (il mockumentary, documentario
finto che finge d’essere vero) per poter essere ancora emozionati,
perché ci appare estremamente vero.
Ecco anche i reality shows in ambientazioni
esotiche… Perché non ci basta più vedere un altro normale show
televisivo: ci siamo abituati.
Alex
De Large ci sta molto più simpatico del suo carceriere (il
secondino della prigione). Quest’ultimo è davvero “meccanico”, “a
orologeria”, mentre Alex è vitale. Perché è questo mondo a volerci
meccanicizzati, perché vorremmo sentirci vivi quando invece non lo
siamo e abbiamo un disperato bisogno di verità dai realities ai
mockumentaries perché solo così possiamo tornare a sconcertarci e a
impressionarci, per assicurarci di non essere meccanici…
Alexander ascolta musica
tradizionale giapponese. Ha indossato un kimono sul cui dorso sono
effigiati i simboli Yin e Yang, bene e male. Come aveva promesso in
una preghiera, per scongiurare la catastrofe nucleare annunciata,
offre in pegno tutto ciò che possiede, e appicca fuoco alla propria
abitazione, agendo come samurai silenzioso che ordisce un harakiri
salvifico, sacrificando tutto. Questo accadeva in “Sacrificio”,
ultimo lungometraggio di Andrej Tarkovskij.
Il regista sovietico ha più volte
dichiarato il proprio profondo interesse per alcuni aspetti della
cultura giapponese, nonché per alcuni cineasti nipponici: Kurosawa
in testa, ma anche Mizoguchi e Ozu.
Si tratta dunque di un aspetto
rilevante dell’opera del cineasta sovietico, ma ancora scarsamente
analizzato. Sarebbe dunque interessante esplorare, anche per linee
essenziali, i casi in cui questa influenza di certa cultura
giapponese -cinematografica e non- si fa scoperta, e in che modo si
cali nello stile e nella poetica tarkovskijana.
Si potrebbe prendere come esempio
quello che da molti è considerato il capolavoro del cineasta
sovietico: Andrej Rublev (1966), in cui appaiono delle somiglianze
piuttosto marcate con delle situazioni di Rashomon (1950), il film
che rivelò Kurosawa alle platee occidentali, ma anche con I sette
samurai (1954), in particolare nella sequenza dell’assedio tartaro
della città di Vladimir.
La trama di Rashomon prende avvio
da questa situazione: tre uomini si riparano dalla pioggia presso
il tempio del dio Rasho. Gli uomini narrano poi l’uno all’altro di
un fatto di sangue avvenuto recentemente, ma in varie versioni,
cambiando di volta in volta la persona responsabile del delitto,
secondo più punti di vista, fino a non poter dire quale dei
racconti risponda alla realtà dei fatti. L’incipit di Andrej
Rublev, invece, è costituito dalla memorabile sequenza in cui un
uomo tenta e riesce, anche se per poco, a levarsi in volo su un
rudimentale aerostato. Dopo questo prologo, sganciato dalla vita
del pittore di icone russo di cui il film racconta, è la volta del
primo EPISODIO che ha a che fare direttamente con la vita di
Rublev, intitolato “Il buffone”.
Vi sono tre monaci, Andrej Rublev,
Daniil il Nero e Kirill, che, usciti dal monastero della Trinità,
sono in cammino verso Mosca, dove intendono trovare lavoro come
pittori di icone. Un temporale improvviso li costringe a ripararsi
in una isbah dove un nutrito gruppo di contadini sta assistendo
all’irriverente esibizione di un giullare: una satira scatenata dei
nobili Boiardi e dei Pope, ovvero autorità politica e
religiosa.
Poco dopo, il giullare, che è stato
denunciato, verrà arrestato dalle guardie del Principe, sotto lo
sguardo turbato di Andrej.
Già da qui si delinea uno dei temi
fondamentali del film: il rapporto tra l’arte e il potere, ed è
proprio questo primo episodio che Andrej vive come turbamento della
propria coscienza di uomo e artista.
La situazione di base esaminata è
identica sia nel film del maestro nipponico che in quello di
Tarkovskij: in entrambi, tre uomini cercano riparo dalla pioggia,
ed è proprio da qui che si sviluppa l’azione drammatica e vengono
messi in luce i temi del film, è proprio da qui che si attiva il
racconto.
Come scriveva De Baecque, nei film
di Tarkovskij la pioggia attiva alcuni momenti dei film, è il mezzo
attraverso il quale si rilancia il racconto, o si entra in una
dimensione onirica.
Nei film di Tarkovskij è fortemente
presente l’acqua, che sia pioggia, pozzanghera o fiume. In
qualsiasi forma si trovi, essa si carica di significati profondi:
sempre in Andrej Rublev, l’acqua è simbolo di rigenerazione per il
giovane Boriska che trova sotto un temporale l’argilla necessaria a
fondere una campana. Ma nel film l’acqua è anche elemento che
“accoglie”, come accade con la donna pagana che sfugge alle
autorità religiose nuotando nel letto di un fiume, o col cadavere
del giovane pittore apprendista ucciso dai tartari durante
l’assedio della città di Vladimir.
Altrove, come nel film Lo specchio
(1974), l’acqua è spesso associata da Tarkovskij alla figura
materna, come elemento generatore di vita.
Circa la ricorrenza di questo
elemento nella sua opera, il regista ha affermato: “Ho usato
l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma
continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E
tramite essa ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo e
del movimento del tempo.”
È significativo che tra i corsi
d’acqua tanto numerosi nell’opus tarkovskijano manchi pressoché del
tutto il mare, fatte salve le inquadrature dell’oceano “pensante”
di Solaris e l’incipit di Sacrificio. È il regista stesso a
spiegarcene il motivo, rendendo scoperta un’altra eredità della
cultura giapponese: “L’acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi
piacciono molto, è un’acqua che mi racconta molte cose. Il mare,
invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno
spazio troppo vasto per me. […] A me, per il mio carattere, sono
più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il
macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate.
Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei
confronti della natura.”
L’affermazione di Tarkovskij può
essere ricondotta a un concetto fondamentale dell’estetica
giapponese, quella del wabi. Tale termine ha, in giapponese, i
significati “solitario”, “isolato”, “semplice”, “effimero”,
“sobrio”, ed è messo in relazione con tutte le espressioni
artistiche, dalla poesia all’architettura, che richiamino, appunto,
i concetti di piccolezza, finitudine, singolarità.
L’estetica wabi si richiama a
concetti di ascendenza buddhista che riguardano il trascendente e
che fanno appunto leva sulla limitatezza e la transitorietà
dell’esistente a fronte dell’infinito, ovvero il fueki-ryuko:
impermanenza ed eternità, che sono gli elementi centrali dell’opera
di Matsuo Basho, (che Tarkovskij lesse più o meno all’epoca in cui
stava per lavorare ad Andrej Rublev), il più noto e influente poeta
giapponese.
Per questi motivi, nell’arte
giapponese è frequente il ricorso a elementi semplici e
isolati.
Nella poesia giapponese, ad
esempio, è facile incontrare espressioni come “un tempio” o “un
ramo di ciliegio”, ma quasi mai si parla di più templi o di
ciliegi.
A questo proposito cito un passo
dell’Hagakure-Il codice dei samurai, di Yamamoto Tsunetomo:
“ ‘Sotto alla fitta neve
dell’ultimo villaggio,/ieri notte sono sbocciati numerosi rami.’ In
questa poesia sui pruni, c’era una ridondanza: ‘numerosi rami’;
questa fu la variante: ‘un ramo solo è sbocciato’. Tale variante
allude al gusto del wabi”.
Ritorna utile in tal senso anche
una citazione da Note del Guanciale, di Sei Shonagon: “In verità,
tutte le cose piccole sono belle”.
È proprio nella singolarità che si
può scorgere il mistero della vita, è proprio all’arte che spetta,
adornianamente, di far scorgere l’universale e l’assoluto nel
particolare, fosse anche il più piccolo, ed è proprio ciò cui
Tarkovskij, con l’attitudine contemplativa dei suoi piani sequenza,
e con tutta la componente fortemente spirituale del suo cinema,
sembra anelare.
Scrive il regista, nel suo libro
“Scolpire il tempo”: “L’immagine [cinematografica] non è questo o
quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si
riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua
soltanto”.
Forse è ciò che accade negli haiku
giapponesi: la possibilità di cogliere il mondo intero riflesso in
una goccia d’acqua, tutto il mistero della vita in un evento o una
sensazione singolari descritti in tre versi di 5-7-5 sillabe, allo
stesso modo che un solo ramo di ciliegio è unico, irripetibile, ma
reca in sé il mistero di tutti gli altri. Ma vediamo ancora le
parole del regista su questo argomento: “Amo molto l’atteggiamento
dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi
su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso
dell’infinito.”
La macchina da presa Tarkovskijana
cerca il miracolo dell’evento quotidiano, quello che avviene
tacitamente, di nascosto, come la figlia dello Stalker nel film
omonimo, che sposta gli oggetti tramite telecinesi. O cerca,
ancora, la meraviglia intrinseca degli elementi naturali, dai corsi
d’acqua, agli alberi, alla terra, così ricorrenti nella sua opera,
quasi volesse di essi carpire il mana nascosto, e lo fa con lente
panoramiche, con uno sguardo contemplativo che fa pensare, a
tratti, a certo Ozu o a Mizoguchi.
Tarkovskij sostiene che per
pervenire a questa visione “contemplativa” della realtà che sa
cogliere in un oggetto particolare la manifestazione di qualcosa di
universale, occorre “coltivare la purezza, finezza, la compattezza
dell’osservazione della vita per così dire allo stato puro degli
haiku giapponesi”, quasi come si trattasse di un primo sguardo
sulle cose del mondo, quando esse non hanno perso la loro aura, il
loro mana, e non sono ancora classificate, ma ancora da
scoprirsi.
Un cinema di così alta ispirazione
spirituale e di elevata attitudine contemplativa viene da un
regista che aveva sperimentato per tutto l’arco della sua parabola
esistenziale e artistica, uno degli aspetti più raccapriccianti
dell’orrore novecentesco (le pressioni e l’ostracismo della
burocrazia del totalitarismo sovietico), che negando la vita
afferma la distruzione e l’inquietudine, non concedendo alcuno
spazio alla contemplazione e alla dimensione spirituale, e forse
neppure alla stessa arte.
Il cinema di Tarkovskij, dunque,
viene ancora a costituire un absurdum, come assurdo era l’harakiri
di Alexander in Sacrificio, eppure è missione che va tentata.
Tarkovskij, che dichiarava di
rivedere I sette samurai ogni qual volta girava un nuovo film,
(così come Kurosawa si dichiarava grande estimatore di Solaris e
Andrej Rublev), si arricchì enormemente di questa matrice culturale
giapponese, poiché essa si conciliava con la cifra fortemente
spirituale del suo cinema. Un cinema spirituale, ma attaccato alla
terra e alla bellezza dell’immanenza, in cui non è dato vedere
frequentemente il cielo, se non per il suo riflesso in una pozza
d’acqua. Come a voler dare fueki-ryuko, impermanenza ed
eternità.
Oggi, ai più, Jodorowsky è noto
principalmente come autore di fumetti (disegnati da Moebius,
Jimenez, o dal nostro Manara) o di romanzi (Quando Teresa si
arrabbiò con Dio, La danza della realtà, Albina e il popolo dei
cani, editi in Italia da Feltrinelli). Non sono in molti, invece, a
ricordare oggi lo Jodorowsky cineasta, genio visionario e
dissacrante, autore di un cinema debordante, fatto di situazioni
surreali, grottesche o inquietanti, costanti riferimenti a
tradizioni esoteriche…
La sua filmografia, fino a ora,
sembra alquanto esigua: ha diretto i lungometraggi Fando y Lis-Il
paese incantato (1969), El topo (1971), La montagna sacra (1973),
Tusk (1979), Santa sangre (1988), Il ladro dell’arcobaleno (1991),
eppure è ricca di motivi interessanti, sempre molto personali,
benchè sicuramente vicini ad altri autori: Fellini, Bunuel,
Kurosawa, Leone… Jodorowsky ha anche al suo attivo un progetto
ambiziosissimo (era previsto, tra l’altro, il coinvolgimento di
Salvador Dalì tra gli interpreti, e dei Pink Floyd alla colonna
sonora) e irrealizzato: la trasposizione cinematografica di
Dune da
Frank Herbert, poi realizzato, con scarsa efficacia, dall’altro
grande visionario David Lynch.
I più noti lavori del regista
cileno (di genitori ebreo-ucraini) sono sicuramente El topo e La
montagna sacra. Entrambi caratterizzano al meglio, in maniera cioè,
più compiuta e matura, tutto il suo universo poetico, non solo
cinematografico. Jodorowsky si è infatti cimentato con la
letteratura, il fumetto, il teatro, e ha persino elaborato una
forma d’arte che ha come fine la guarigione delle nevrosi dei
pazienti: la “Psicomagia”. I due film più sopra citati hanno al
proprio centro la tematica del viaggio iniziatico. Vediamone
brevemente le trame:
El topo. El topo (che in spagnolo
significa “la talpa”) è un abilissimo pistolero, vestito di nero
(come Django/Franco Nero di Corbucci) che lascia il figlio in una
missione francescana e per conquistare l’amore di una donna, Marah,
accetta di misurarsi in duello con “4 maestri del revolver” che
vivono nel deserto. El topo riceve da ognuno dei maestri un
insegnamento, come fosse un iniziato. Il pistolero riesce a
vincerli tutti, ma Marah lo tradisce e gli spara ripetutamente
nelle mani, nei piedi e nel petto. Quando il pistolero si
risveglia, è all’interno di una montagna. È stato accudito da una
comunità di deformi, che lo credono una sorta di divinità. El topo
promette loro di riportarli alla luce del sole, guidandoli alla
città vicina attraverso un tunnel scavato nella montagna. Per
guadagnare il necessario all’impresa, l’uomo si improvvisa
saltimbanco nella città vicina, in compagnia di una nana innamorata
di lui.
La città, simile ai vari villaggi
western di cinematografica memoria, è abitata da una borghesia
ipocrita e razzista, fintamente perbenista, sessualmente deviata e
piena di fanatismo religioso che sconfina nella farsa. El topo
ritrova suo figlio, divenuto adulto, che si unisce all’impresa del
padre. Ultimato il tunnel, i deformi si precipitano verso la città,
ma la borghesia riesce a decimarli tutti, mentre la nana partorisce
un figlio, avuto col pistolero. El topo compie la sua vendetta
sugli abitanti della città, del tutto immune ai loro proiettili.
Mentre il pistolero si dà fuoco come un monaco tibetano, suo
figlio, la nana e il nuovo nato, lasciano la città devastata. La
montagna sacra. Prologo: un alchimista taglia completamente i
capelli a due donne, come in un qualche rito iniziatico.
Un ladro, il cui aspetto ricorda
quello dell’iconografia tradizionale di Cristo, dopo una serie di
avventure surreali, giunge in cima a una torre, dove si trova il
laboratorio di un alchimista, capace di tramutare le feci del ladro
in oro. L’alchimista comincia a impartire i propri insegnamenti al
ladro e gli propone di compiere una missione al termine della quale
avrà l’immortalità. Insieme al ladro viaggeranno altri sette ladri,
ma di un altro livello: sono i potenti della terra, industriali e
uomini politici. Ognuno di loro è associato a un pianeta del
sistema solare. Il gruppo dovrà giungere in cima alla montagna
sacra dove risiedono i nove saggi che posseggono il segreto
dell’immortalità e spodestarli. Il pellegrinaggio ha luogo tra
varie difficoltà, in cui i viaggiatori affrontano le proprie
ossessioni e partecipano a prove iniziatiche. Arrivati in cima alla
montagna sacra, scoprono che i nove saggi altro non sono che
fantocci. L’alchimista spiega allora che l’avventura sinora
condotta altro non è che un film, e invita i personaggi a rompere
l’illusione: “Se non trovammo l’immortalità almeno trovammo la
realtà…Non siamo che sogni, immagini…Non possiamo restare qui
prigionieri! Romperemo l’illusione! La vita reale ci attende:
diciamo addio alla montagna sacra!”
El topo fu il film che rivelò
Jodorowsky alle platee internazionali dei cultori del “cinema di
mezzanotte”: il tal senso, il film fu “compagno di strada” degli
altri cult che venivano proiettati esclusivamente in tarda serata:
The rocky horror picture show, Pink Flamingos Fortuna volle che del
film s’innamorò John Lennon, il quale fece in modo da finanziare il
successivo La montagna sacra. Ciò che maggiormente stupisce, a una
prima visione di queste opere, è sicuramente l’aspetto visivo, con
il continuo, rutilante, innestarsi di situazioni surreali, a volte
ridicole, altre inquietanti, spesso violente o dissacranti.
Ciò appare evidente, in
particolare, nella prima parte de La montagna sacra, incentrata
sulle peregrinazioni del ladro-Cristo prima che questi giunga alla
torre dell’alchimista. Ciò che vediamo in questa prima sezione del
film è una sorta di critica alle dittature militari tipiche di
certi paesi dell’america latina (il film uscì nel 1973, anno del
golpe in Cile, paese d’origine di Jodorowsky), ma condotta coi toni
del surrealismo, a volte con esiti violenti (la parata militare in
cui i soldati portano come vessilli degli agnelli impalati), a
volte con toni poetici (si veda, ad esempio, la scena in cui dai
corpi di giovani dissidenti fucilati escono dei passeri). E c’è
anche la critica a certe istituzioni religiose, nella fattispecie
cattoliche, ma la critica di Jodorowsky (che ha una spiritualità
molto forte, benché non strettamente veicolata da alcuna
confessione religiosa particolare) si avventa sulle istituzioni,
sulla cultualità più sterile, sul clero più sclerotizzato convinto
di possedere esso solo le verità assolute, come il vescovo che non
accoglie nella propria chiesa il crocifisso che il ladro-Cristo
porta con sé.
Quel che comunque costituisce senza
dubbio la cifra tematica più personale di Jodorowsky è la
componente esoterica-iniziatica dei suoi film. Già El topo, si
rivela essere, per il protagonista (interpretato dallo stesso
regista), un processo di iniziazione, di progressiva spogliazione
dell’io, di maturazione da pistolero giustiziere che muore con
ferite nelle mani, nei piedi, nel petto (come Cristo) e rinasce
come monaco zen insensibile alla forza delle pallottole e morire
poi definitivamente (?) arso da un lume a petrolio. È un processo
di sottrazione graduale, di cammino verso l’ascetismo, come asceti
sono i quattro maestri del revolver che il pistolero incontra nella
prima metà del film. Ognuno di essi impartisce delle lezioni a El
topo, attraverso delle massime (“La perfezione è perdersi”, dice il
secondo maestro) o dei comportamenti, come il primo dei quattro
maestri che rimane immune alle pallottole poiché il suo corpo non
oppone loro alcuna resistenza, ma al contrario riesce ad
accoglierle…
L’eroe jodorowskyano, se di eroe si
può parlare, non deve essere totalmente esaltato e portato
immediatamente in trionfo, ma al contrario deve essere martirizzato
o compiere un viaggio che sia esperienza mistica. Così, vanno
incontro a una sorta di spoliazione anche i potenti de La montagna
sacra: parafrasando le parole dell’alchimista (interpretato da
Jodorowsky stesso) nell’epilogo del film, i pellegrini partono per
essere immortali, per essere dei ed eccoli invece finalmente, forse
per la prima volta, più umani che mai. Ecco allora come può
concludersi la ricerca dell’oro e dell’immortalità tanto perseguita
dagli alchimisti e dallo stesso ladro-Cristo del film. È proprio
lui, che abbandona il gruppo prima che l’alchimista-Jodorowsky
riveli la finzione filmica, a divenire a propria volta “maestro”,
seguendo il consiglio dell’alchimista che gli dice di dimenticare
le vette e raggiungere l’immortalità attraverso l’amore.
Il processo di maturazione dei
pellegrini e di El topo passa per una montagna: i primi dovranno
scalarla, l’altro invece dovrà fare in modo che altri, i deformi,
possano attraversarla. In particolare, ogni tradizione religiosa ha
spesso a che fare con delle montagne (è lo stesso alchimista a
ricordarlo nel film). La montagna costituisce un sepolcro per il
pistolero e la comunità di deformi, da cui però si risorge andando
incontro alla morte per mano della corrotta borghesia della città.
Ad ogni modo essa rappresenterebbe comunque l’athanor, il forno che
gli alchimisti usano per la trasformazione della materia, e la
materia da trasformare, sembra dirci Jodorowsky, non siamo altro
che noi stessi. Un po’ è quello che la sua personale “terapia”
psicologica, la “psicomagia”, fondata sul potere della suggestione
intende fare: curare attraverso l’arte.
È chiaro, un cineasta del genere,
che spaventa con le sue visioni surreali, o cerca a suo modo ancora
delle pietre filosofali, oggigiorno, persi come siamo tra una
miriade di prodotti ad alto consumo, non troverebbe forse il
“grande” pubblico, e dunque Jodorowsky sarebbe autore per pochi, su
cui i produttori non investirebbero per non rischiare. Dice infatti
scherzosamente e intelligentemente Jodorowsky: “il regista più
bravo è sicuramente quello con più soldi. Se avessi 60 millioni di
dollari sarei certamente io…”, ben consapevole del fatto che le
restrittive leggi del (non così tanto) libero mercato, agendo sulle
possibilità economiche, vincolano le possibilità espressive del
singolo artista.