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The Warrior and The Wolf: recensione del film di Tian Zhuangzhuang

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In The Warrior and The Wolf una guerra antica nelle regioni sperdute e inaccessibili della Cina imperiale spinge un esercito a sostare, durante un rigido inverno, in un paesino fantasma, abitato solo da mistici e forse da un popolo maledetto.

Le premesse per un film epico e misterioso ci sono tutte, e per certi versi The Warrior and The Wolf di Tian Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata dell’uomo continuamente in lotta con se stesso, con il suo dovere e con la natura ostile, sia in forma per così dire metereologico, sia in forma mistico-magica, una caratteristica difficile da considerare realistica per l’occidente ma che nella mentalità e tradizione orientale appartiene agli interstizi della quotidianità.

La storia di The Warrior and The Wolf  si basa su pochi elementi: la fedeltà del lupo verso il compagno che si sceglie per la vita, la storia della Cina imperiale e delle sue guerre per sedare le rivolte, la tradizione e l’onore del guerriero che sono fondamentali per quelle culture.

Lang Zai Ji, questo in titolo originale della pellicola, è una storia affascinante che forse non viene raccontata con la giusta chiarezza, una trama non perfettamente lineare e non completamente strutturata lascia lo spettatore in uno stato di confusione. Ma quel che davvero inficia la buona riuscita del film è la cattiva delineazione delle dinamiche interne tra i personaggi, ad esempio non sono chiari i rapporti tra il protagonista e il generale Zang, prima di riluttanza poi di dedizione, e allo stesso modo la relazione di amore/odio con la bella Maggie Q. non viene chiarita, non si spiegano le dinamiche del cambiamento né se ne danno motivazioni sostanziali.

The Warrior and The Wolf di Tian Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata dell’uomo

Tuttavia The Warrior and The Wolf resta una bella esperienza visiva: le scene di battaglia, magnificamente costruite; i paesaggi sterminati dal fascino antico; anche le riproduzioni digitali dei lupi sono notevoli e il fascino che quest’animale esercita sulla cultura di ogni tempo è innegabile, eterno cattivo nelle favole al cinema è sempre dipinto come bestia nobile e schiva. Forse proprio per questa caratteristica di monogamia, l’uomo ne ha particolare considerazione sentendolo in qualche modo simile a sé.

The Warrior and The Wolf – in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, Lang Zai Ji, è un unicum nella storia del concorso, una storia dal sapore antico e maledetto che però non viene espressa secondo tutte le sue potenzialità.

Oggi Sposi: recensione del film di Luca Lucini

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Oggi Sposi: recensione del film di Luca Lucini

C’era un volta la commedia all’italiana, oggi non c’è più. Luca Lucini con Oggi Sposi tenta la titanica impresa di riportare alla luce quello che di più caratteristico c’era nel nostro cinema passato: l’amarezza del sorriso, la caricatura e la critica alla società ipocrita. Il risultano non è pienamente riuscito anche se qualche spunto interessante c’è e viene colto parzialmente soprattutto se coinvolti sono Michele Placido e Luca Argentero, il cui episodio dei quattro, è senza dubbio il più divertente.

La trama di Oggi Sposi

Un poliziotto pugliese sta per sposare una ragazza indù con grande disappunto dei genitori di entrambi, irremovibili circa il rispetto delle tradizioni. Il padre di lui, contadino dai metodi diretti e senza fronzoli, vorrebbe un matrimonio cattolico da celebrare nella piazza del paesino pugliese in cui vive, mentre il padre di lei, ambasciatore indiano in Italia, non vuole cedere alle richieste della controparte e immagina una festa nuziale di rito indù, elegante e piena di personalità. Alla fine i due si scopriranno molto più simili di quanto le appartenenze culturali possano far intendere.

Un uomo anziano e molto ricco sta per sposare Giada, una giovane e procace ragazza, ostacolato dalla sua famiglia e soprattutto dal timido e complessato figlio, di professione pubblico ministero, il quale mette in moto tutte le sue conoscenze per smascherare le reali intenzioni della giovane. Finirà per innamorarsi di lei e scrollarsi di dosso le sue fobie.

Una coppia squattrinata sta per sposarsi e, per assecondare le manie di grandezza della mamma di lui, organizza il banchetto nuziale all’interno di un altro molto più grande di una coppia famosa, finendo però per trovarsi nel bel mezzo di una faida mafiosa.

Un giovane e famoso uomo dell’alta finanza è in procinto di sposarsi con una procace aspirante attrice. Pochi minuti prima delle nozze, i due scoprono di non amarsi affatto, ma l’occasione di notorietà e ricchezza che il matrimonio porterebbe è troppo ghiotta per entrambi per rinunciarvi.

Tuttavia Oggi Sposi non brilla per acutezza, pur rappresentando una valida alternativa al cine-panettone che più ridanciano è senza dubbio più volgare e meno costruito. Oggi Sposi si avvale anche di buoni attori che si calano bene nei personaggi stereotipati e che danno verve a storie un po’ deboli, basti come esempio l’esasperata soubrette svampita di Gabriella Pession che lavorando per accumulo, condensa nel personaggio tutto il peggio del divismo spicciolo italiano. In definitiva film mediocre che punta sulla risata facile ma non riesce a tenere un ritmo che a tratti sembra sfuggire di mano alla stesso regista creando caos.

Il concerto: recensione del film di Radu Mihaileanu

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Il concerto: recensione del film di Radu Mihaileanu

Mihaileanu con Il concerto si conferma un capace narratore per immagini, sia dal punto di vista del linguaggio, sobrio e contenuto, sia per la storia, l’umanità e la freschezza con cui racconta questa storia di sofferenza e riscatto.

Ne Il concerto un direttore d’orchestra allontanato dal suo lavoro per aver difeso i suoi musicisti ebrei durante la seconda guerra mondiale, è ridotto a fare le pulizie nello stesso teatro che un tempo lo osannava ad artista indiscusso. Si presenterà a lui una sola occasione di realizzare il suo sogno, tornare a dirigere la sua orchestra e ritornare allo splendore della musica. Radu Mihaileanu acclamato regista di Train de vie, ritorna con una storia forte e commovente, che diverte ed emoziona, eccezionale.

I personaggi (tra cui spicca Mélanie Laurent), tratteggiati con poche linee guida che ne caratterizzano la provenienza e gli stereotipi, si mescolano in questo colorato spaccato di umanità: gli ebrei praticanti sono gentili, ma attenti al profitto e al commercio; i russi veraci allegri e dediti alla bottiglia; gli zingari confusionari ma con una grande dote innata per il ritmo e la musica; i comunisti più radicali ancora sognatori ed idealisti.  Una parodia sociale costruita magistralmente, un’armonia di realtà e creature diverse che nella musica, nel concerto di Tchaikovsky per violino ed orchestra, trovano il loro riscatto, la speranza di una ritrovata dignità e realizzazione personale.

Il concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore per immagini

Il regista si fa in mezzo ai personaggi, magistralmente interpretati, e ne scova paure e difetti, doti e ambizioni, aggiungendo addirittura una punta di mistero che alla fine si rivela un saldo legame umano, una ritrovata felicità, un’ottimismo senza retorica che pervade come un dolce velo la storia così come la musica dona espressività ed emozione ad un epilogo forse improbabile ma ben costruito e potente.

Come pochi film Il concerto riesce a far piangere e ridere allo stesso tempo regalando due ore di cinema così come dovrebbe essere: divertente, emozionante, impegnato ma soprattutto poetico nella sua semplicità, un difficile equilibrio che Mihaileanu riesce a raggiungere nella sua pienezza.

Presentato nella Selezione Ufficiale fuori concorso a Roma, Il concerto è senza dubbio una delle migliori pellicole viste all’Auditorium nell’anno 2009.

Tra le nuvole recensione del film con George Clooney

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Tra le nuvole recensione del film con George Clooney

Il vincitore della seconda edizione del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico capitolino con Tra le nuvole, una commedia dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato insieme alla super star George Clooney  e a Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del Festival per The Departed.

George Clooney è un uomo che si occupa di licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di scapolo impenitente.

Tra le nuvole – Reitman regala un altro film frizzante e divertente

Tra le nuvole cast

Scrivendo magistralmente e dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con leggerezza.

Come già ci ha abituati in passato con Juno e Thank You for Smoking, Reitman costruisce la storia su solide premesse (in genere la presentazione del personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.

Skellig: recensione del film con Tim Roth

Skellig: recensione del film con Tim Roth

È Skellig di David Almond ad aprire invece la sezione sempre molto propositiva di spunti narrativi che vanno oltre il mero intrattenimento per soli piccoli. Anche quest’anno non si smentisce, presentando come prima opera un curioso film, che fa del suo lato fantastico la sfumatura più interessante. Skellig ruota attorno al piccolo Michael, da poco approdato insieme alla propria famiglia in una decadente e pericolante casa.

La trama di Skellig

Motivo del trasloco, la gravidanza della madre, incinta e pronta a regalare a Michael una sorellina. Peccato che la bimba nasca con una rara e pericolosa malformazione al cuore. Michael, combattuto dagli eventi, finisce per scoprire in giardino, all’interno di un vecchio magazzino, uno ’strano uomo’. Sembra un barbone, non riesce ad alzarsi, è sporco, mangia insetti ed ha una ’strana’ schiena. Accudito con amore e passione da Michael, Skelling, questo il suo nome (come al solito un ottimo Tim Roth che col passare degli anni sembra diventare sempre più bravo ad offrire interpretazione degne di nota), finirà per ritrovare le forze, finendo per svelargli il suo incredibile segreto…

Un opera, come anticipato che ha nella sua chiave fantastica la sua migliore peculiarità e come pezzo forte senza dubbio l’interpretazione dei suoi protagonisti, che oltre al Tim Roth mangiatore di insetti, che grazie ad un buono make-up, diventa una presenza scenica a tratti inquietante, e il giovane protagonista Bill Milner che certamente non sfigura, riuscendo talvolta anche ad insidiare lo scettro di re della pellicola ma, per brevi istanti al “mostruoso” Roth.

Il regista dal canto suo forse non riesce  a mantenere in equilibrio stabile fra i due nodi centragli del film Skellig, e pecca anche un pò di inesperienza sul fantastico e il mistero, tirando troppo per le lunghe gli enigmi dietro alla figura di Roth, diventando quasi un estenuante attesa, che a tratti ridimensiona l’opera, forse anche per l’eccessiva durata. Tuttavia, il risultato totale è di un film godibile ad un largo pubblico, che sia disposto a credere al fantastico e che assieme ai protagonisti si faccia trascinare per le vie di una Londra in secondo piano, quasi anonima. Ottimi alcuni riferimenti significanti sulla figura di Tim Roth, degni di approfondimento, che dietro ad esse vi sia celato qualche messaggio subliminale.

Barbarossa: recensione del film con Rutger Hauer

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Barbarossa: recensione del film con Rutger Hauer

Film pretenzioso e costoso, Barbarossa si presenta come una storia forte, epica, soprattutto reale, che promettendo tanto, delude profondamente lo spettatore. Una storia lunga scritta male e raccontata peggio.

La trama di Barbarossa

Quando con un occhio si guarda alla Storia e con l’altro all’intrattenimento cinematografico si fa spesso grande cinema, lo dimostrano i tanti capolavori storici che sono arrivati nelle sale negli ultimi anni. Questa equazione tuttavia non si verifica sempre e purtroppo Martinelli è caduto in pieno nella trappola che si è preparato da solo.

Il film di Renzo Martinelli

L’intreccio è confuso, portato avanti seguendo i singhiozzi di un montaggio apparentemente casuale che non aiuta ad appassionarsi alla storia con tempi morti e momenti risolutivi trattati troppo in fretta, annoiando per i 139 minuti della sua durata. Martinelli si porta dietro l’eredità di regista di videoclip, proponendo un prodotto i cui blocchi narrativi non hanno consequenzialità né producono la giusta armonia che un racconto dovrebbe avere tra le sue parti.

Pur supportato da tecnologie all’avanguardia come la crowd replication (per la prima volta in una produzione italiana), il regista mostra la sua inesperienza a sfruttarne il potenziale espressivo, inficiando la credibilità dell’immagine, come esempio per tutti valga l’utilizzo del digitale per riprodurre il sangue nella battaglia di Legnano: asettici schizzi rossi che partono dalle ferite dei guerrieri per proiettarsi verso lo spettatore, a ricordare gli altrettanto finti schizzi di sangue dei titoli di coda dello snyderiano 300; sarebbe bastato il sangue finto che nella tradizione italiana dell’horror ha espresso sempre bene, seppure in maniera talvolta grottesca, il disgusto e lo scempio dei corpi.

Gli ingenti mezzi messi a disposizione di Martinelli impallidiscono di fronte ad una sceneggiatura cattiva e senz’anima. Il regista cerca di dare un ritmo, ma senza seguire uno spartito mette male l’accento con l’abuso di ralenti che non sono giustificati dalla narrazione.

Eppure buone sono le interpretazioni di Rutger Hauer e F. Murray Abraham a dispetto dei ‘nostri’ attori. La bella Kasia Smutniak, alle prese con un personaggio controverso e complesso, non fa che ripetere gli stessi gesti scarmigliati e confusi per tutto il film e Raz Degan, nella sua stentata interpretazione, sembra l’unico elemento che possediamo per orientarci nel tempo, in quanto pare che il trascorrere degli anni nella storia venga misurato tramite in progressivo grado di disordine dei capelli dell’attore protagonista.

Le musiche di accompagnamento sono anonime, approssimative e senza il respiro epico e poetico che la storia dei ribelli avrebbe meritato. E’ vero, il coraggio andrebbe premiato, poiché Martinelli si dimostra coraggioso scegliendo sempre temi che vanno oltre il contemporaneo panorama delle storie italiane da cinema, né drammi familiari né cine-panettoni quindi, ma purtroppo non mette a frutto l’originalità dell’idea con la realizzazione di un buon prodotto. Barbarossa si potrebbe definire un passo falso, un altro dopo il non entusiasmante Carnera, e se è vero che ‘errarehumanum est, perseverare autem diabolicum’.

Baarìa: recensione del film di Giuseppe Tornatore

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Baarìa: recensione del film di Giuseppe Tornatore

“Noi Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del regista del film Baarìa. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un fiume di vite, raccontate magnificamente.

Tornatore rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare, regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.

Convince la modella siciliana Margareth Madè, che in Baarìa vede il suo esordio, più di quanto faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri), Picone, Aldo Baglio, Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.

Il regista dice in molte interviste che Baarìa si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di ampio respiro.

Alcune note di demerito. Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film. Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling (dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di Tornatore in Baarìa sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero lasciar il posto alle immagini.

Grande attenzione ai particolari, Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione. Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento, vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.

Qualcuno ha avuto da ridire sul fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.

In definitiva Baarìa è un bellissimo film, assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del miglior cinema italiano.

Un’altra nota positiva è che la mafia in Baarìa di Tornatore viene accennata ma non le si dà mai troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede. Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni, come effettivamente desiderava fare?  (Forse ancor più bello….)

Di Ottavio Mussari

District 9: recensione del film con Sharlto Copley

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District 9: recensione del film con Sharlto Copley

Prendi un po’ de “La cosa” di John Carpenter, lo spunto visivi di “Cloverfield” e un po’ della visione Spielberghiana del mondo alieno ed ecco che per magia appare District 9. Ma veniamo a noi e appunto al film. Ambientato nel natio Sudafrica, a Johannesburg, lasciata da Blomkamp all’età di 18 anni per il Canada, District 9 parte come un reportage su un evento ormai cristallizzato: la presenza di una gigantesca nave aliena sospesa sul cielo della capitale sudafricana.

La trama di District 9

Trovate in fin di vita, disidratati e affamati a bordo, centinaia di migliaia di “clandestini” vengono curate e rinchiuse in un ghetto alla periferia della città. Un ghetto vero, sporco e malsano, in cui queste creature insettiformi sopravvivono mangiando cibo per gatti, vittime dei traffici dei boss nigeriani della zona (anche questo basato su una situazione reale a Johannesburg, senza connotazioni razziste). Quando la situazione diventa esplosiva, il governo affida a una corporazione privata, la MNU, il compito di evacuare e bonificare la zona, per spostare gli alieni altrove. Da lì prende le mosse, tra un’intervista e un reportage televisivo, che danno alla storia uno straordinario carattere di film verità nella prima parte (forse l’unico spunto interessante dell’opera), la trama che vede protagonista un ambizioso ma ingenuo dipendente della MNU e un alieno col figlio, determinato a far funzionare la tecnologia che li riporterà alla nave madre e quindi in patria.

Se qualcuno si aspettava più originalità e rivoluzione nel genere Sci-fi, rimarrà un po’ deluso. District 9 per l’appunto pecca di originalità, soprattutto riguardo all’evolversi della storia, troppo convenzionale e più delle volte prevedibile. Chi si aspettava un re-start per il genere Sci-fi che tanta soddisfazione ha dato con film come Alien e Predator deve fare ammenda di fronte ad un film lontano da quelle dimensioni.

Tuttavia, il film contiene degli ottimi spunti registici, che per buona parte del film mantengono alta l’attenzione. L’inizio in stile documentario incuriosisce e al tempo stesso da un tocco sottile ed intrigante alla vicenda, e sotto questo punto di vista il regista si dimostra bravo ad amalgamare i vari pezzi tra il doc e la fiction, riuscendo nell’impresa di tirare fuori un buon prodotto fruibile dal grande pubblico in quella che ha detta di molti, anzi a dette di tutti è la natura del cinema: l’intrattenimento.

In aggiunta c’è anche spazio alla riflessione degli avvenimenti sociali che caratterizzano gran parte della contemporaneità e la sua situazione a dir poco spiacevole su ciò che riguarda la clandestinità, razzismo a cui si vanno ad aggiungere problemi di natura di diversità religiose etc. In definitiva District 9 rappresenta un tentativo sufficiente a riproporre un genere che ha affascinato le menti di molti giovani e che proietta il debuttante Blomkamp verso un futuro assai migliore, sempre che James Cameron con il suo Avatar non si piazzi in mezzo e dica: “ehi sono io il maestro del genere.” Di fronte a ciò nemmeno lo stesso Blomkamp riuscirebbe a contraddirlo, visto che Alien è il suo film preferito.

Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

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Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

Un pretesto banale, la scadenza della Green Card, per una commedia romantica fresca e divertente, in pieno stile Made in Usa. Questo è Ricatto d’amore, in originale The Proposal, letteralmente La Proposta.

La trama del film Ricatto d’amore

Sandra Bullock è una donna in carriera severa e feroce, una strega per i suoi sottoposti nella casa editrice. Ryan Reynolds è un giovane assistente, sottomesso e servizievole, che asseconda ogni pretesa della strega Bullock, per realizzare il suo sogno di diventare capo-redattore.

Ricatto d'amore cast

Due persone che sono a stretto contatto i cui rigidi rapporti di lavoro impediscono di conoscersi meglio, fino a che la minaccia per lei di essere espulsa dagli Stati Uniti per la scadenza della sua Green Card, scatena l’imprevisto. Reynolds sarà il prescelto, colui che , con un matrimonio di convenienza, permetterà alla strega cattiva di rimanere in terra USA.

Ovviamente il finale è previsto dall’inizio, e i personaggi sono stereotipati, ma la storia corre via senza pretese e con tanti sorrisi, con una Sandra Bullock in perfetta sintonia con i suoi costumi austeri e in perfetta forma fisica. Elegante e raffinata porta sulle sue spalle gran parte della storia, a dispetto di un Reynolds mono espressivo nonostante le innumerevoli opportunità cinematografiche che gli si stanno offrendo negli ultimi mesi.

Ricatto d’amore è una commedia spiritosa che lascia lo spettatore di buon umore, senza chiedere troppo e restituendo il giusto.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra: recensione del film con Channing Tatum

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Stephen Sommers con G.I. Joe – La nascita dei Cobra ci presenta ancora una volta una pellicola d’azione che rispetta le aspettative del pubblico in cerca di intrattenimento senza troppe pretese. Ancora la Hasbro cerca di guadagnare sfruttando il cinema per i suoi leggendari giocattoli, dopo il travolgente successo di Transformers, che , almeno per il primo episodio, ha decisamente più consistenza e valore di questo film.

La storia di G.I. Joe – La nascita dei Cobra è quella dei Joe, una squadra speciale che deve salvare il mondo da un gruppo di cattivi. Niente di nuovo nella forma e nella sostanza, anche se qualche scena ben congegnata riesce ad interessare lo spettatore, vedi la scena dell’attacco a Parigi. I personaggi, quasi tutti volti emergenti del nuovo panorama cinematografico, riesco a convincere, chi più chi meno, nei ruoli loro assegnati, su tutti la bella Rachel Nichols, la rossa Joe. Bello il personaggio di Snake Eyes, interpretato da Ray Park, che ricorda un po’ della malinconia degli X-Men.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra, tra la Mummia e Transformers

Sommers si tira dietro un po’ di cast della Mummia, Brendan Fraser e Arnold Vosloo, e combina diversi elementi action e comedy, per creare un film che senza pretese intrattiene, ma non convince e si dimentica presto. Anche visivamente, numerose sono le immagini e le suggestioni che ricordano Transformers, segno che forse le ambizioni di Sommers erano superiori a quelle poi avveratesi.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra è un film d’azione che sfrutta la tecnologia spettacolare per realizzare scene ben ritmate ma non destinate a passare in fretta nella storia del cinema e nell’immaginario degli spettatori.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del film di

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Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del film di

I Mangiamorte attaccano Londra, piombano dal cielo in forma di scie di fumo nero mortifero, attaccando maghi e babbani indiscriminatamente. In disparte, in un piccolo bar della metropolitana londinese, Harry Potter legge la Gazzetta del Profeta e flirta con una bella cameriera, poi alla finestra appare Albus Silente…e Harry viene catapultato verso il suo sesto anno a Hogwarts, e noi con lui. Carico di attese, il sesto episodio di Harry Potter, Harry Potter e il Principe Mezzosangue, mantiene le promesse: più cupo e più divertente degli altri. Evidente il ritorno al timore della sceneggiatura di Steve Kloves che nonostante la complessità del sesto libro, fa un ottimo lavoro di riduzione, mantenendo il senso del film e aggiungendo qua e là qualche efficace modifica al corso degli eventi.

La trama del film

In Harry ha 16 anni, deve affrontare un nuovo anno durante il quale sarà capitano della squadra di Quidditch, dovrà tener testa alla sua nuova popolarità con le ragazze, farà i conti con un nuovo, profondo sentimento che sta crescendo nei confronti della bella Ginny, sorella di Ron, avrà una vera e propria ossessione per il suo nemico Draco Malfoy, si imbatterà in un libro di pozioni, che è appartenuto al ‘Principe Mezzosangue’, ma soprattutto seguirà lezioni private con Silente, che con lui si addentrerà nei ricordi del Signore Oscuro Voldemort, quando era ancora un ragazzino.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue, il film

Ma trasformati sono anche gli inseparabili amici di Harry, il rosso Ron, alle prese con la sua prima ragazza, un’ossessiva biondina tutta bacini e sorrisini frivoli, e Hermione, che si barcamena tra un insistente corteggiatore poco raffinato e la sua inaspettata, incontrollata, gelosia per Ron. Tanto mistero intorno a questa storia: chi è il Principe Mezzosangue? Cosa nasconde il nuovo professore di Pozioni sotto l’apparente cordialità? Cosa è successo alla mano destra di Silente, annerita e morta? Che cosa affligge Draco Malfoy? Interrogativi che troveranno una risposta nel corso del lunghissimo film, ben 150 minuti.

Alan Rickman, Maggie Smith, Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson in Harry Potter e il principe mezzosangue
Alan Rickman, Maggie Smith, Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson in Harry Potter e il principe mezzosangue. © 2009 – Warner Bros. All rights reserved.

I toni del racconto in Harry Potter e il Principe Mezzosangue  si dipanano in buon equilibrio tra il serio e il faceto, lasciando molto spazio ai menage tra i ragazzi con gli ormoni in tumulto. Un fotografia affascinante ed efficace, mutevole come i toni del film, accompagna i protagonisti per le aule e i corridoi del castello rendendo l’atmosfera lieve e greve, festosa e macabra. Alla regia, di nuovo David Yates che se aveva fatto storcere il naso per L’Ordine della Fenice, adesso ha preso confidenza con i ritmi potteriani e si dimostra più capace di portare avanti la storia, ma il merito va soprattutto a Kloves, che come detto, ha ottimizzato i contenuti aggiungendo qualcosa. Ottimo lavoro sui personaggi, più articolati, finalmente cresciuti anche a livello professionale. Peccato per il finale che si sgonfia su se stesso e lascia passare sotto silenzio una grandiosa scena finale di battaglia ad Hogwarts.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue è un film più adulto, che mette da parte gli incantesimi e si pone come pre-finale per l’ultimo atto atteso per il 2012. Menzione speciale a tutto il cast, ancora una volta la fucina inglese si mostra la migliore, per quanto riguarda si attori: oltre agli ovviamente bravi Michael Gambon e Alan Rickman, bene anche la new entry Jim Broadbent nei panni del Prof. Horace Lumacorno, ma soprattutto Helena Bonham Carter, mai così adatta e apparentemente a suo agio in un ruolo, la sua Bellatrix è superlativa.

 

Transformers – La vendetta del caduto: recensione del film con Megan Fox

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I presupposti ci sono tutti: i personaggi vincenti, i robot che già conosciamo e quelli nuovi, le relazioni e le situazioni nuove da esplorare, un intreccio che per quanto fantascientifico regge bene in Transformers – La vendetta del caduto. Tuttavia Michael Bay vuole strafare mettendo troppo di tutto e finendo con un risultato appunto affollato e un po’ confusionario, soprattutto alla fine.

La trama di Transformers – La vendetta del caduto

In Transformers – La vendetta del caduto sono passati due anni dall’epocale scontro tra Decepticon e Autobot, il governo degli Stati Uniti ha smantellato il settore 7 e ha istituito una unità speciale, il NEST, per combattere i focolai di Decepticon che faticano ad ammettere la sconfitta del loro leader Megatron, intanto Sam parte per il college, lasciandosi alle spalle dei genitori devastati dall’inevitabile crescita del loro unico figlio, e una fidanzata splendida e innamoratissima, ma inverosimilmente gelosa … Tutto sembra procedere bene a parte un nuovo ed invadente compagno di stanza, ma i guai cominciano quando Sam comincia a vedere strani simboli in cybertroniano e gli attacchi dei Decepticon si moltiplicano

Gli sceneggiatori, i pur bravi Roberto Orci e Alex Kurtzman insieme a Ehren Kruger, non hanno approfittato del fatto che il grosso lavoro di introdurre luoghi e personaggi era già stato fatto nel primo film e che quindi sarebbe stato più semplice per loro portare avanti un plot definito insieme ai tanti piccoli corollari che avrebbero seguito i diversi temi: la guerra vera e propria, i genitori di Sam, il rapporto tra Sam (Shia LaBeouf) e Michaela (Megan Fox) e così via. Il risultato dunque non è dei più esaltanti, soprattutto nella parte iniziale, dove una forzata ricerca della risata spinge i personaggi e soprattutto la madre di Sam, un’eccessiva July White, a scendere nell’imbarazzo generalizzato. Pesanti alcuni dialoghi, a volte prolissi altre volte superflui, a tratti anche un po’ volga rotti, anche per bocca dei robot, così compassati e dignitosi nel primo film.

In scena John Turturro

John Turturro Shia LaBeouf Transformers - La vendetta del caduto
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

La seconda parte Transformers – La vendetta del caduto si risolleva con l’entrata in scena di John Turturro, eccezionale nei panni dell’agente Simmons, relegato dal governo a vendere carne dopo lo smantellamento del Settore 7, la sua verve resta intatta nonostante cambi il registro tra una pellicola e l’altra. I moltissimi robot mantengono invece le promesse, sicuramente più umanizzati che antropomorfi, tengono la scena e perfezionano le trasformazioni, la mdp entra nelle loro viscere metalliche e rende lo spettatore partecipe del mutamento, merito soprattutto degli effettoni di cui il film fa uso e abuso e che sono sicuramente perfezionati e migliorati che in Transformers.

Si perdoni il continuo riferimento al primo film, ma è inevitabile, soprattutto quando si va a valutare l’evoluzione dei personaggi: un Sam più maturo e sicuro di sé si affaccia alla vita di college e cerca di mantenere invariati i rapporti con la splendida fidanzata, che dal canto suo non fa propriamente una bella figura, o meglio, è sicuramente un bel vedere, ma decisamente parla troppo e se le avessero fatto dir meno sarebbe stato sicuramente meglio per tutti.

Megan Fox in Transformers - La vendetta del caduto (2009)
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

Ancora, i genitori più presenti hanno il loro, seppur breve (meno dei 15 minuti di Warhol), momento di gloria in una piccola ma intensa scena che coinvolge e quasi emoziona alla maniera di Bay. Ma i personaggi più interessanti sono sicuramente i robot: si delinea meglio il rapporto di Sam con il guardiano Bumblebee, amico fedele e a suo modo affettuoso, i Gemelli, decisamente troppo umani; capiamo meglio la natura di Megatron, che lungi dall’essere un villain a tutto tondo sfiora la codardia, forse offuscato dal ben più cattivo Fallen e dagli altri numerosi e terribili, Decepticon, soprattutto il mostruoso Devastator. Ma ancora una volta, su tutti si erge Optimus Prime: oltre a scoprire qualcosa in più delle sue origini, lo vediamo in azione potente e crudele contro il male nella sua incommensurabile umanità, accompagnato ancora dalla poderosa e bellissima colonna sonora di Steve Jablonsky che costella tutto il film di tracce favolose.

In definitiva Transformers – La vendetta del caduto è un bel film fracassone, che a tratti stordisce lo spettatore e che sicuramente perde il confronto con il primo Transformers, e che, come differenza principale, lascia presagire un sicuro sequel per completare la trilogia.

Moonacre – I segreti dell’ultima luna: recensione del film

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Moonacre – I segreti dell’ultima luna: recensione del film

In Moonacre – I segreti dell’ultima luna, la 13enne Maria, cresciuta senza la madre, resta orfana anche del padre, che a dispetto delle apparenze, lascia dietro di sé una lunga serie di debiti che costringeranno la ragazzina a trasferirsi in campagna nella villa dello zio burbero a apparentemente misantropo. L’unica eredità che Maria riceve dal padre, è un grosso libro che racconta la storia dell’incantata valle di Moonacre.

Nel cercare di sciogliere la maledizione che grave sulla valle, Maria farà molti incontri, belli e brutti, e scoprirà il suo importante ruolo nella leggenda. Il film, non privo di spunti interessanti, è un pallido esempio di fantasy che dispiega ogni genere di banalità di genere per dar vita ad una storia un po’ scialba e telefonata. Molteplici i riferimenti a storie ben più famose: il giardino segreto, la bella e la bestia e tanti altri in cui la protagonista attraverso una sorta di viaggio iniziatico compie il suo destino.

Tuttavia Moonacre – I segreti dell’ultima luna resta un abbozzo di storia con personaggi poco approfonditi e intreccio che sta in piedi per mezzo di una storia nella storia. La performance di Dakota Blue Richards, nonostante la sue doti indiscusse, viene messa a dura prova nella versione italiana da un pessimo doppiaggio che ne appiattisce ogni inclinazione vocale, e il fascino di Natascha McElhone, per quanto notevole, non basta a creare un personaggio credibile.

Tristissimo anche il cattivissimo (nell’intenzione del regista) Tim Curry, che sebbene invecchiato e appesantito resta sempre una presenza inquietante, anche se talvolta fine a se stessa. Nota di merito invece ai costumi di Beatrix Aruna Pasztor, un mix di antico e moderno, che, soprattutto negli abiti femminili, trova la sua massima eccellenza.

L’ungherese Gabor Csupo, già regista di Un Ponte per Terabithia, non riesce questa volta a dare un ritmo avvincente alla storia, optando per un racconto classico poco scandito e tutto sommato banale. Belli gli effetti che ci mostrano leoni neri, unicorni e mandrie di cavalli tra le onde, ma dai quali lo spettatore ormai smaliziato non riesce a trarre meraviglia.

Una Notte da Leoni: recensione del film con Bradley Cooper

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Una Notte da Leoni: recensione del film con Bradley Cooper

Bradley Cooper, astro nascente della commedia made in USA, l’ha definito “Memento che incontra Salvate il soldato Ryan!”. E paradossalmente, The Hangover (Il doposbornia), in Italia, Una Notte da Leoni, riesce nell’intento di dare un’idea generale del film, pellicola scatenante ed irriverente che cadenza la comicità più demenziale con una struttura alla Memento appunto che ne consolida la base di racconto ben costruito e raccontato.

Ne Una Notte da Leoni Quattro amici partono per un week end al Las Vegas, per celebrare come si deve l’addio al celibato di uno di loro. Dopo un brindisi per iniziare la serata, ci troviamo direttamente in una suite d’albergo devastata, dove i nostri sono riversati sul pavimento in condizioni di doposbornia pietose, in compagnia di una gallina una tigre, che si scoprirà essere di proprietà di Mike Tyson, e di un neonato battezzato sul momento come Carlos. L’unico problema è che il futuro sposo non si trova e nessuno ricorda nula della notte appena trascorsa. Una Notte da Leoni seguirà i tre improbabili ed esilaranti amici alla ricerca dell’amico perduto con la speranza di ricostruire quello che è successo. Piccoli indizi li porteranno e scoprire luoghi e incontri notturni.

Leggero e irriverente

Una notte da leoni filmUna Notte da Leoni, raccontato con irriverente leggerezza da Todd Phillips, già regista di Starsky e Hutch, è un perfetto esempio di come la commedia riesca ad offrire un divertimento sano e addirittura intelligente quando la storia conduce per mano lo spettatore e presenta personaggi nei quali identificarsi ma dei quali ridere e scandalizzarsi nella più totale assenza di pretenziosità.

Una commedia all’American Way che detta regole di comicità che alcuni dei ‘nostri’ in Penisola dovrebbero imparare. Infatti per quanto alcune trovate possano risultare poco originali e già sentiti, sono inserite con una freschezza e una precisione cadenzata nella storia che aiutano a definirla senza mai abbassare l’attenzione divertita dello spettatore.

Una notte da leoni (2009)
© 2009 Warner Bros. Ent.

Anche l’eterogeneo assortimento dei personaggi contribuisce ad ottenere quel riverbero comico in ogni battuta, in ogni occhiata d’intesa dei tre eroi alla ricerca dello sposo sparito. Oltre al già citato Bradley Cooper ricordiamo Ed Helms e Zach Galifianakis, assolutamente splendidi.

Una volta tornati alle loro vite, i quattro rimarranno amici ma purtroppo per lo spettatore nessuno saprà mai cosa è successo durante quella notte da leoni…meno male che sotto il sedile posteriore della mercedes è rimasta la fotocamera con ricca documentazione!

I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

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I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

I love Radio Rock non si tratta di un film celebrativo del network romano più conosciuto negli ambienti underground della capitale, ma della radio più trasgressiva nell’Inghilterra degli anni 60, in cui il rock’n’roll spopolava per le strade, ma non sulle radio ufficiali, che potevano trasmetterlo solo per due ore alla settimana. E così nascevano radio pirata che trasmettevano da grosse barche ormeggiate nel Mare del Nord e i deejay erano più popolari delle stesse rockstar.

Sceneggiato e diretto da Richard Curtis, I love Radio Rock è una commedia brillante, ritmato da battute fulminanti e situazioni di puro divertimento, capace di ritrarre in modo essenziale ogni personaggio che anima la vita a bordo della radio pirata. La musica aziona ogni ingranaggio, dalle fulminee storie d’amore consumatesi sulla nave, alle amicizie nate tra un disco e l’altro, alle sfide lanciate tra le star della radio, fino agli sleali meccanismi dei quali il potere si serve per ostacolare la concorrenza dilagante e amorale del rock.

I love Radio Rock è una commedia brillante

Il potere è impersonato in modo incredibile da un Kenneth Branagh che rende il suo personaggio una macchietta di se stesso, uno stereotipo bigotto e puritano rianimato in questo film da scene memorabili (su tutte, l’emozionante cena di Natale in famiglia).

Dall’altra parte c’è la variegata comitiva di deejay che vivono per la musica e con la musica, 24 ore al giorno sulla nave – radio rock, allietati saltuariamente dalla visita di giovani fanciulle disinibite e affascinate dalla vita trasgressiva in mezzo al mare: dal proprietario della radio, un dandy votato alla causa della liberalizzazione dei costumi (Bill Nighy), al Conte, autentico esempio di vita spesa per la musica (un possente Philip Seymour Hoffman), a Gavin, la voce più sensuale del rock inglese (un esaltato Rhys Ifans) fino al giovane Carl (Tom Sturridge), che trova nella nave rockettara il percorso di formazione che ogni adolescente vorrebbe avere.

In I love Radio Rock un plauso al costumista: un tripudio di colori, fantasie optical e accessori assolutamente inutili vestono i corpi dei personaggi rendendoli completamente immersi in un’epoca ormai svanita, ma che ogni volta che torna lascia dietro di sé un senso di nostalgia.

Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

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Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

L’attesissimo sequel Terminator Salvation è arrivato nelle sale, promettendo adrenalina spettacolo, soprattutto un approccio più moderno rispetto all’originale, che resta l’indimenticabile primo film.

A volte le promesse non si mantengono, altre volte si, altre volte ancora si esagera e si finisce col portare nelle sale film che risultano fastidiosi. E’, purtroppo, il caso di Terminator Salvation, che lungi dall’essere un film totalmente negativo è troppo immerso nell’universo macchinista che fa di Christian Bale un soldato urlatore e spara-tutto, insulso ed egoista nel suo personaggio di John Connor, che avrebbe meritato un trattamento ben migliore. Ma non diamo la colpa al Christian che invece si impegna diligentemente, com’è suo solito, a portare a termine la missione pur con qualche capriccio di troppo sul set.

Terminator Salvation, il film con Christian Bale

Sam Worthington e Anton Yelchin in Terminator Salvation
Sam Worthington e Anton Yelchin in Terminator Salvation © 2009 Warner Home Video. All rights reserved.

Chi mai incolperemo per aver fatto di uno dei film più attesi della stagione un clamoroso fiasco (non al botteghino…)? Gran parte della colpa è senza dubbio di McG, il regista che dopo un inizio esaltante, vedi il piano sequenza dell’elicottero che precipita con Bale all’interno, si concentra tutto sullo spara spara contro le cattivissime ed attrezzatissimo macchine. Un abbozzo di storia decisamente interessante che crolla su se stesso, senza risparmiare nemmeno il ben costruito personaggio di Sam Worthington, umano meccanico che ruba la scena al povero Bale che già ne Il Cavaliere Oscuro si era fatto offuscare dal talento di Heath Ledger.

Si capisce bene, considerando la travagliata vicenda della sceneggiatura, la richiesta di soccorso inviata a Jonathan Nolan, per risollevare le sorti del film. Il buon Jonathan arriva sul set, consola l’amico Chris e mette mano alla sceneggiatura modificandone l’ultima parte. Il finale infatti si salva parzialmente anche se, come per tutto il film, resta quel qualcosa di inespresso che una storia comunque bella poteva dare. Bello il cameo di Shwarzy, ovviamente ricostruito in digitale, come è ‘espressivo’ lui nel ruolo di macchina mortifera nessuno! Risultato complessivo appena sufficiente, si salva infatti l’aspetto visivo del film…ma dopotutto non si tratta di un quadro, e una fotografia azzeccata non solleva un film mediocre.

Martyrs: recensione del film Horror

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Martyrs: recensione del film Horror

In Martyrs una bambina spaventata e ferita, corre urlando lungo una strada di periferia. Quella bambina, accolta in un centro per l’infanzia, continua ad essere sempre spaventata e ad avere spaventose visioni. Dopo qualche anno, una famiglia apparentemente tranquilla viene trucidata da due giovani donne.

È questo l’inizio di Martyrs, che si aggiunge al nutrito filone horror-splatter che imperversa nelle sale cinematografiche contemporanee. Un film che basato su una trama ai limiti del possibile, mette a nudo un maldestro tentativo da dare un fondo di misticismo ad un film che rimane tuttavia ancorato al genere senza offrire nulla più che intrattenimento, il quale in verità è molto relativo, considerando che a metà film, se non prima, la maggior parte delle persone in sala ha lasciato vuota la propria poltrona.

La trama di Martyrs

Francia, 16 ottobre 1971. Lucie Jurin, bambina scomparsa da un anno, viene ritrovata lungo una strada ferita e sconvolta a causa di pesanti torture fisiche e psicologiche. Così, per far luce su cosa le sia successo, viene interrogata Anna Assaoui, un’altra piccola ospite dell’istituto in cui è stata ricoverata Lucie, che però sostiene che l’amica, che intanto è tormentata dalle visioni di una donna morta che la ferisce, non racconti mai nulla.

Francia, 15 anni dopo. Lucie, convinta che i coniugi Belfond siano i suoi aguzzini, irrompe in casa loro e uccide a colpi di fucile l’intera famiglia (padre, madre e due figli) per poi chiamare l’amica di sempre, Anna, e, infine, venir aggredita dalla “morta” che la tormenta. Quella notte, mentre in un sogno di Lucie si vede lei bambina sfuggire alla sua aguzzina senza però liberare un’altra prigioniera molto simile alla “morta” che la perseguita, Anna, scoperto che Gabrielle Belfond non è morta così e credendo che Lucie si sbagli sui Belfond, cerca di salvarla; ciò però scatena l’ira di Lucie che, svegliatasi, uccide Gabrielle per poi venir nuovamente aggredita dalla morta e infine, capito che non potrà mai liberarsi di lei, che altri non è che la manifestazione del suo senso di colpa, procede con l’uccidersi tagliandosi la gola con un rasoio davanti ad Anna.

La mattina dopo però si scopre che Lucie non si sbagliava sui Belfond: infatti Anna trova in casa un passaggio segreto che conduce a un laboratorio sotterraneo con una botola che conduce a una prigione in cui è rinchiusa una giovane con segni di una feroce tortura. Anna libera la giovane e la porta al piano di sopra dove però, ridotta alla follia dalle sevizie e dalla prigionia, inizia a ferirsi con un coltello finché un gruppo di soldati irrompe in casa, uccide la giovane e, dopo aver ripulito la scena del crimine, trascina Anna nel seminterrato. Qui, Anna, riceve la visita di un’anziana signora, Mademoiselle, che, dopo averle mostrato foto di donne agonizzanti per le tortura ma ancora vive, le spiega che la sua organizzazione tortura persone al fine di creare martiri – persone trascese, cioè vive ma con la mente nell’aldilà – cosicché, presi dall’estasi, rivelino cosa c’è dopo la morte ma che, finora, è riuscita solo a creare delle vittime che si rifuggono nella follia e nelle allucinazioni (es.: la morta di Lucie). È così che Mademoiselle, convinta che i soggetti migliori per il martirio siano le giovani donne, fa incatenare e torturare Anna.

In effetti, col tempo Anna smette di avere paura e infine, dopo che è stata spellata viva (tranne il viso), si vede nei suoi occhi l’espressione tanto agognata da Mademoiselle: l’estasi del martirio. Avvisata dell’accaduto Mademoiselle si precipita da Anna che le rivela cosa vede così la donna, dopo aver convocato i membri dell’associazione per dir loro cosa ha visto Anna, che è ancora viva ma non parla più, si suicida sparandosi in bocca e portandosi il segreto con sé.

martire: nome, aggettivo; dal greco “marturos”: testimone

L’orrore in Martyrs

Presentato al Festival Internazionale del film di Roma nella sezione Extra curata da Mario Sesti, Martyrs presenta in questo la sua unica nota positiva: un film di genere horror splatter presentato ad un festival. Tuttavia si tratta del contesto e non del film, il quale invece a detta degli esperti del genere, non è assolutamente all’altezza dei primi due Saw o di The Ring. Deludente.

The Strangers: recensione del film con Liv Tyler

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The Strangers: recensione del film con Liv Tyler

Film d’esordio del regista/sceneggiatore Bertino, che già alla sua opera prima dimostra di conoscere i meccanismi di tensione del cinema horror. The Strangers raccontata è una delle tante storie di violenza accadute realmente, lontanamente ispirata ad una vicenda personale del regista e ai massacri compiuti per mano della Charles Manson Family.

The Strangers si apre con una nota circa le statistiche dei casi di aggressione che ogni anno avvengono in America: in tal modo il regista cerca di liberarsi dal dramma personale, cercando di inserire la vicenda in un contesto più ampio, facendo in modo cha la storia sia il riflesso della violenza in generale.

The Strangers

The-Strangers-film

A prova di ciò basti considerare il fatto che Bertino rifiuta di raccontare la storia della coppia, accennando soltanto alla loro crisi, e concentrandosi invece sugli atti brutali da loro subiti. Così facendo egli non cade nel patetico e riesce a concentrarsi sul ritmo del film , ben equilibrato tra momenti di attesa ed esplosioni di violenza.

Quando Kristen (Liv Tyler) chiede una spiegazione per quello che stanno subendo, la risposta è chiaramente assurda ed è la dichiarazione palese del rifiuto di qualsiasi forma di psicologismo e della mancanza di un reale movente che spinge gli aggressori alla violenza.

« Perché ci fate questo? Perché eravate in casa »

The Strangers diventa espressione quindi di una violenza totalmente gratuita, confermata anche dal fatto che il regista non mostra mai i volti degli assassini, presentandoli talvolta come fantasmi che vengono fuori dal nulla: sono solo l’espressione del male irrazionale; la violenza spesso non ha un volto e vien fuori dal nulla proprio come gli aggressori protagonisti di questa vicenda. Finale inusuale e spiazzante, che vede i protagonisti morire alla luce del giorno; se gran parte delle violenze raccontate nei film di questo genere si consumano durante la notte, Bertino lascia che il delitto finale venga compiuto proprio al sorgere del sole. Con un gesto simbolico, l’aggressore apre la tenda e lascia che la luce inondi la stanza e soltanto dopo provvedono all’esecuzione tanto attesa durante tutto il film.

di Bino Mariani

Una notte al museo 2 – La fuga: recensione del film con Ben Stiller

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Ben Stiller torna a vestire i panni dell’ex guardiano notturno Larry Dailey, ma questa volta in una veste tutta nuova. Una notte al museo 2 – La fuga ripropone le stesse tematiche del primo episodio, ma necessariamente sotto una diversa ottica, essendosi ormai esaurito l’effetto “novità” dell’idea originale. Dailey ha fatto fortuna vendendo le sue improbabili invenzioni, ma continua saltuariamente a frequentare il museo. La direzione, però, decide di sostituire molte attrazioni con degli ologrammi, condannando così Jedediah e amici all’immobilità eterna negli archivi dello Smithsonian di Washington. Inizia così per Dailey una nuova missione per salvare i suoi compagni di tante notti.

La trama di Una notte al museo 2 – La fuga, ideata dagli stessi sceneggiatori del primo episodio Ben Garant e Thomas Lennon, si è dovuta pesantemente confrontare con l’eredità del predecessore e, soprattutto, con il fatto che l’aria fresca dell’idea originale era ormai finita. La soluzione è stata quella di “pensionare” alcuni dei personaggi principali, come il Roosevelt di Robin Williams, ridotto ad una comparsa, e di aggiungerne di nuovi, che potessero avere qualcosa da dire. Braccio destro di Stiller diventa Amelia Earhart (Amy Adams), famosissima pilota americana, dipinta come un’inarrestabile scavezzacollo determinata ad affermare il suo ruolo di pioniere femminile dell’aria persino in faccia ai fratelli Wright.

Una notte al museo 2 – La fuga, il film

Antagonista è il malvagio faraone Kah Mun Rah, fratello di Akmen Rah, ironicamente interpretato da Hank Azaria (già visto in Friends) con un difetto di pronuncia che gli fa perdere gran parte della sua carica di “cattivo”. La cosa, ovviamente, si sposa bene con l’intero film, che gioca sull’ironia e, più che nel primo episodio, con le icone della cultura americana, contrapposte ad altre non a caso straniere (un pizzico di nazionalismo filo-americano non è mai mancato in questo genere di film e, in fondo, è accettabile quando ci si può ridere sopra).

Da una parte abbiamo il mai domo Jedediah, un goffissimo generale Custer e il romanesco Ottaviano, costretti ad affrontare un Al Capone in bianco e nero, un Ivan “non così Terribile” e uno spassoso Napoleone, il quale se ne esce con alcune battute di stampo politico che faranno ridere soprattutto noi italiani. La storia scorre liscia senza particolari problemi o patemi d’animo e, infatti, non vi è mistero o impresa che occupi più di una ventina di minuti per essere risolta. Scelta forse poco drammatica, ma che contribuisce comunque a rendere il film leggero e piacevole da vedere.

Vi sono alcuni grossi buchi, però, che non vengono spiegati. Se nel primo film, infatti, la baraonda creata dai reperti animati non viene notata dalle guardie in quanto esse stesse al corrente della magia, non è chiaro come in questo secondo episodio nessuno sembri accorgersi di nulla, nonostante disastri e danni che, nella realtà, avrebbero fatto scattare tutti gli allarmi della città. In definitiva i due autori e il regista Shawn Levy hanno deciso di giocare e divertirsi con tutti gli oggetti che hanno potuto trovare all’interno di un luogo come lo Smithsonian, non a caso uno dei musei più grandi del mondo.

Ne esce fuori una commedia divertente e che strapperà più di una risata, pur sforando a volte nell’esagerazione e in alcune situazioni tipiche da “vorrei girare questa scena, ma è chiaro che non posso in un film simile”. Ben Stiller interpreta il personaggio di Larry con la solita carica comica, ponendo però l’accento su come sia cambiato caratterialmente e come sia più deciso e sicuro di sé questo nuovo Dailey. Alla fine diventa un personaggio interessante, ma forse più ostico per il pubblico che volesse identificarsi in lui. I riflettori, infatti, finiscono per essere quasi tutti per Amelia Earhart, che eredita da Stiller il ruolo di eroina dolce e simpatica, seppur determinata. La regia di Levy è piuttosto frenetica in molti punti, ma ciò non è un male, in quanto conferisce un certo ritmo all’intera pellicola e riesce a comunicare la situazione fuori controllo che l’intero museo vive in questa particolare notte.

Il tutto è completato dalla colonna sonora di Alan Silvestri (Trilogia di Ritorno al Futuro) che si innesta bene nella narrazione facendo al tempo stesso il verso a produzioni più pompose e maestose. Interessante, infatti, è il contrasto in molte scene tra la goliardicità degli elementi in gioco e la conduzione della musica classica, più adatta ad un Jack Sparrow che a un Larry Dailey.

Musica pop e rock si fondono ogni tanto, com’è caratteristica comune di Silvestri, con in più una comparsata solo “vocale”dei celebri Jonas Brothers nei panni di tre amorini svolazzanti a cantanti. Menzione d’onore per i responsabili degli effetti speciali, che hanno restituito alla vita un  intero museo in maniera magistrale, probabilmente divertendosi anche parecchio nel farlo. In conclusione, Una notte al museo 2 – La fuga  è un film leggero e divertente, forse inferiore come carica al suo prequel, ma ugualmente godibile. Pollice alzato.

Angeli e Demoni: recensione del film con Tom Hanks

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Angeli e Demoni: recensione del film con Tom Hanks

Quello che Ron Howard e Dan Brown sanno fare bene insieme è creare suggestioni. Dalle prime immagini di Angeli e Demoni della rottura dell’anello piscatorio, all’intricato thriller che mescola arte, scienza e religione.

Niente da dire quindi, grande sceneggiatura (la firma di David Koepp si avverte), ottima regia con una bella visione della scena, funzionale alla narrazione, e ovviamente incredibile colonna sonora, a tratti forse troppo discreta, del maestro Hanz Zimmer. Tutto comincia nella solennità delle stanze papali, e tutto lì finisce, ma nel mezzo l’adrenalina e inseguimenti si susseguono senza sosta fino all’ultimo, forse per qualcuno prevedibile, colpo di scena. Tom Hanks ritorna negli atletici e sicuramente più giovani panni di Robert Langdon, a risolvere enigmi su commissione, profondendosi in dettagliate descrizioni dei rituali che seguono la morte del pontefice.

La realtà del film, così familiare per gli italiani e in particolare per i romani, non è scontata per il pubblico americano, che copioso ha inondato le sale di tutto lo Stato (così com’è successo in tutto il Mondo a quanto dice il box-office). Ovviamente grande prova d’attore, forse migliore che ne Il Codice da Vinci, per Hanks e ben supportato dal resto del cast su tutti in Ewan McGregor in grande forme, affascinante pure con l’abito talare. Ma anche uno degli ultimi orgogli nazionali esportati all’estero, Pierfrancesco Favino, nei panni dell’ispettore Olivetti tiene alto l’onore di fronte a cotanto protagonista fregiato a suo tempo da due premi Oscar. Apparentemente messo a caso, il personaggio femminile di Ayelet Zurer sembra servire più alla par condicio che alla storia.

Ma protagonista indiscussa in tutto il suo splendore (ricostruito) è senza dubbio Roma, città caotica ma bellissima e misteriosa, perfetto scenario di un discreto intrigo che però lascia tiepido chi si aspetta qualcosa di più. Grande intrattenimento quindi, ma non bastano riprese acrobatiche, belle battute e colonna sonora superba per fare un buon film, ci vuole l’anima, ma forse quella si può comprare, basta guardare i risultati ai botteghini.

San Valentino di sangue 3D: recensione del film Horror

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San Valentino di sangue 3D: recensione del film Horror

Prima di iniziare con l’analisi di San Valentino di sangue 3D, vorrei porre l’accento sul successo questo film sta avendo: le sale sono sempre piene, e in alcuni casi è doveroso prenotare i biglietti ed entrare quanto prima per godere di un buon posto; gli spettatori non sono soltanto i cultori del cinema horror,  bensì giovani d’ogni sorta curiosi di vedere la violenza in 3d. Considerato lo scarso successo di molte film horror, che al cinema vedono incassi soprattutto grazie ai cultori, viene da chiedersi cosa spinge lo spettatore a scegliere di subire la violenza in maniera così diretta.

È ovviamente tutto consequenziale all’avanzamento tecnologico che ci travolge e ci investe in maniera così distruttiva da  coinvolgere anche la dimensione emotiva: l’espressione affettiva è infatti sempre più mediata dal mezzo (che sia un PC o un telefonino cellulare); il contatto viene a mancare, ed internet impera all’insegna delle nuove relazioni virtuali. Considerando ciò, è chiaro come la terza dimensione al cinema si confaccia alle esigenza di una generazione aliena sempre di più al contatto fisico.

San Valentino di sangue 3D si inserisce direttamente nella linea dei nuovi videogames che mirano sempre più alla simulazione del reale, e all’interazione diretta tra uomo e macchina: mi riferisco in maniera specifica a tutti quei giochi che simulano attività sportive, allontanando sempre di più l’uomo dalla propria fisicità; la soddisfazione è grande le nuove generazioni impazziscono per i videogiochi di calcio al punto da preferire la finzione dallo sport reale. Tenendo conto di tutto ciò, è chiaro il motivo che spinge i giovani ad affollare le sale che proiettano San Valentino di sangue in 3d piuttosto che un “banale” horror movie che si limita a mostrare la violenza entro le due dimensioni: la terza dimensione colloca lo spettatore direttamente dentro la violenza, sempre però tenendolo al sicuro da qualsiasi contatto fisico. La violenza è quindi sempre più realistica ma non reale, e rispetta le esigenze di un pubblico portato alla ricerche di esperienze virtuali. Le due dimensioni non ci bastano più. Sempre più dentro lo schermo e sempre più fuori dal corpo.  Ora, dopo questa piccola digressione, passiamo all’analisi del film.

San valentino di sangue 3D, remake di un film culto

Dedito al genere horror, Patrick Lussier, già regista di Dracula’s legacy e White Noise the light, si prodiga in un remake di un film di culto degli anni ’80 molto amato da Tarantino. Assistiamo ad uno dei rari casi in cui il rifacimento supera l’originale, non solo dal punto di vista tecnico- visto l’uso del 3d – ma anche e soprattutto grazie ad una sceneggiatura più solida. Il prodotto non potrebbe essere più classico di questo, presentando quelli che sono i topoi  del genere slasher: scene di nudo esplicito; efferati omicidi ai danni di coppie indifese; corse ed inseguimenti per  il bosco; un killer che ritorna a sconvolgere un piccolo centro dopo molti anni; e naturalmente la final girl, al centro del dramma e superstite alla strage dell’assassino.

Un horror piuttosto standard, che non sovverte le regole, né sperimenta nuovi meccanismi di tensione, ma che però riesce in ogni caso a catturare in maniera prepotente l’attenzione dello spettatore, grazie ovviamente all’uso della tecnologia 3d: la violenza è tanta, e si protende fino a quasi toccare lo spettatore, divertendo ed entusiasmando i sadici fautori del cinema estremo, impressionando e soddisfacendo le pulsioni masochiste dei più timorosi, e le curiosità dei meno vicini al cinema di questo genere.

Disastro a Hollywood: recensione del film con Robert De Niro

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Disastro a Hollywood: recensione del film con Robert De Niro

Arriva al cinema distribuito da Medusa Film, Disastro a Hollywood, la commedia direttada Barry Levinson, e con protagonisti Robert De Niro, Stanley Tucci, Robin Wright, Stanley Tucci, Kristen Stewart, Catherine Keener, John Turturro.

In Disastro a Hollywood Un produttore cinematografico d’eccezione (Robert De Niro) ci accompagna per una settimana nel difficile mondo di Hollywood. Lo seguiamo nelle varie tappe delle sue giornate, tra figli, ex mogli amiche e ex mogli ancora amate che però non riescono ad avere la meglio sul proprio lavoro, tra star capricciose, festival imminenti e major tiranne.

Un affresco asciutto e a tratti eccessivo del mondo del cinema, quello dell’industria, che si nasconde agli occhi del pubblico, quello delle star capricciose (un inedito e divertente Bruce Willis nella parte di se stesso), dei registi divisi tra l’arte e il mercato, della produttrice rigida che ‘o fai come dico, o mi prendo il tuo film’, delle piccole grandi tragedie di quelli che lo star system proprio non lo reggono e decidono di uscirne definitivamente (vedi il produttore suicida) … e tra tutti il produttore, diventato quasi atarassico a tutte le sue incombenze, che si barcamena tra tutti cercando di non soccombere.

Disastro a Hollywood – Un affresco asciutto e a tratti eccessivo del mondo del cinema

Film ironico ma distaccato, il punto di vista è quello di un osservatore superiore, che guarda i personaggi alle prese con i loro meschini problemi, trattandoli con freddezza, senza scendere nel dettaglio psicologico, ma semplicemente raccontando quello che succede quasi in maniera documentaristica. E meno male. Il film scorre via, senza pretese, e senza una storia di fondo, solo problemi su difficoltà dai quali il nostro eroe alla fine verrà sopraffatto. Cast d’eccezione: oltre a De Niro, Sean Penn e Bruce Willis nei panni di se stessi, Robin Wright, Stanley Tucci, Kristen Stewart, Catherine Keener, John Turturro.

Star Trek: recensione del film di JJ Abrams

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Star Trek: recensione del film di JJ Abrams

Uno sfavillio di luce galattica avvolge lo spettatore che si lascia prendere da una storia di nascita e origini. Ancora una volta, come già accaduto per il Batman di Christopher Nolan, per il restyling del mito si torna alle origini dell’uomo (o nel caso, del vulcaniano), alla nascita e all’educazione, per capire i ruoli, i rapporti e i sentimenti che legano gli eroi che tante avventure hanno attraversato insieme sull’Enterprise tra TV e cinema in Star Trek.

L’irruento e immaturo James Kirk viene reclutato per viaggiare sull’astronave Enterprise, la cui missione è esplorare la galassia alla ricerca di nuove civiltà. A bordo si scontra con l’ufficiale Spock, razionale e insofferente ai suoi eccessi.
J.J. Abrams orchestra tutto con maestria ed equilibrio, misurando emozione e pathos, adrenalina e battaglie, prediligendo lo spostamento della camera al cut della pellicola, per farci seguire con lo sguardo, per accompagnarci nei meandri di una storia bella e ben raccontata, da un punto di vista visivo ma soprattutto da quello narrativo. Merito di due sceneggiatori di tutto rispetto, Roberto Orci e Alex Kurtzman, che insieme avevano già dato prova di sapere il fatto loro con Transformers, usando la commedia per entrare nell’action puro e per arrivare attraverso di esso ai sentimenti primordiali del bene e del male, dimensioni talvolta banalizzate ma sempre attuali.

Star Trek – Uno sfavillio di luce galattica avvolge lo spettatore

Merito anche di un cast convincente, Star Trek si dipana in tutta la sua notevole durata, senza pesare minimamente sullo spettatore, dosando con reminiscenze (oso dire) kubrickiane riferimenti ben più calzanti e vicini come Star Wars, e coinvolgendo lo spettatore che esce dalla sala soddisfatto, con gli occhi pieni di immagini poderose ed emozionanti.

Star Trek è distribuito da Paramount Pictures.

X-Men le origini – Wolverine: recensione del film con Hugh Jackman

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“Voglio il sangue…” adrenalinico e a tratti malinconico X-Men le origini – Wolverine di Gavin Hood, perfettamente interpretato da Hugh Jackman, è uno dei film più attesi della stagione, e finalmente dal 29 maggio abbiamo potuto vederlo in tutto il suo ruvido splendore.

Una storia triste quella di Jimmy Logan, alias Wolverine, costretto all’esilio e alla fuga, in continua ricerca di se stesso e di una sua nemesi che potrà forse un giorno liberarlo dal suo senso di colpa. Una Nemesi che ben presto scoprirà essere sempre stata al suo fianco, impersonata Victor Creed/Sabretooth, suo simile ma completamente abbandonato ai suoi istinti, che Logan tenta costantemente di domare.

X-Men le origini – Wolverine – “Voglio il sangue…” adrenalinico e a tratti malinconico il Wolverine di Gavin Hood

Liev Schreiber and Hugh Jackman in X-Men- le origini - Wolverine (2009)
Gentile concessione di © 20th Century Fox

Un lunga ricerca, interiore ed esteriore, che porterà Logan lontano dal Mondo, solo per rientrarvi bruscamente quando la sua tranquillità verrà compromessa dagli intrighi del villain di turno, il colonnello Striker, già visto in X2, principale fautore del mito che diventerà Wolverine, l’uomo bestia indistruttibile munito di scintillanti artigli di adamantio.

Difficile però parlare di controllo tra esplosioni colossali e scontri leggendari, doti sovrumane, brama di vendetta e di potere. E proprio così che X-Men le origini – Wolverine si presenta, un grande blockbuster di intrattenimento con un grande potenziale purtroppo inespresso per fare spazio al glamour di muscoli e frasi un po’ costruite.

Un Hugh Jackman in forma smagliante (anche troppo) da volto e voce ad un anti-eroe fondamentalmente buono, che ha sentimenti ed umanità ma che ha anche una forte dose di sensi ed istinto da animale, un anti-eroe indistruttibile in maniera indirettamente proporzionale alla sua anima lacerata dalle guerre, dalla sofferenza, dal rimorso, dalla voglia di fuggire ma quella ancora più grande di trovare un posto nel mondo. Un film che si pone a metà tra cine-fumettone e a film più ambizioso, una bella storia ma che non lascia traccia. Niente di serio insomma, ma allo stesso tempo niente di faceto, in piena corrispondenza con la dualità di un personaggio che Jackman interpreta con diligenza.

La regia di Gavin Hood in X-Men le origini – Wolverine si fa sentire e funziona per il genere, cerca di conciliare il momento drammatico con quello più spettacolare che grazie a lui è spettacolarizzato. Interessante la cerchia di comprimari che si stringono intorno all’eroe di adamantio, spicca su tutti Victor Creed/ Sabretooth, interpretato da un ottimo Liev Schreiber, che qualche volta mette ko il collega artigliato non solo letteralmente ma anche sulla scena, ma belli sono i personaggi di Silver Fox (Lynn Collins) e dello scarmigliato Gambit (Taylor Kitsch), sicuramente il più coreografico ma anche meno credibile. Lavoro di routine invece per Danny Huston, alias Colonnello Striker, l’algida disumanità dell’uomo fa contrasto con le emozioni del mutante introducendo un tema che è caro agli X-Men e che è stato ampiamente dispiegato nella trilogia dedicata agli uomini straordinari (specialmente nel primo e secondo capitolo).

 

State of Play – scopri la verità: recensione del film

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State of Play – scopri la verità: recensione del film

Arriva al cinema distribuito da Universal Pictures State of Play – scopri la verità, il film drammatico diretto da Kevin Macdonald, e con protagonisti un cast d’eccezione composto da Russell Crowe e Ben Affleck.

In State of Play – scopri la verità Crowe interpreta il reporter Cal McCaffrey che, grazie alla sua scaltrezza, si ritrova a risolvere un mistero di delitti e collusione nel quale sono coinvolti alcuni dei politici e degli uomini d’affari più promettenti del paese. Il membro del congresso degli Stati Uniti Stephen Collins (Ben Affleck), bello e imperturbabile, è il futuro del suo partito politico: onorevole eletto, è il presidente di un comitato che supervisiona la spesa della difesa. Tutti gli occhi sono puntati su questo astro nascente che dovrebbe rappresentare il suo partito nella prossima corsa alla Casa Bianca. Tutto questo finché la sua assistente/addetta alle ricerche ed amante viene brutalmente assassinata e segreti seppelliti da tempo cominciano a tornare alla luce.

La recensione di State of Play – scopri la verità

 “I bravi giornalisti non hanno amici, ma solo fonti”. In questa frase della direttrice di The Washington Globe (l’attrice Helen Mirren), lo spirito del thriller al veleno “State of Play”, per l’ottima regia di Kevin McDonald, con un Russell Crowe superlativo.

L’attore Premio Oscar è un veterano reporter di Washington alle prese con una serie di omicidi collegati con un astro nascente della politica interpretato da Ben Affleck. Crowe torna a fare scintille nel suo ruolo, vero e appassionato, di un uomo comune, fuori moda, interessato a far bene il proprio lavoro, che vuole trovare il cuore della notizia senza scorciatoie. Convince Affleck, come Robin Wright  nei panni di sua moglie. Brava Rachel McAdams che nel thriller è una blogger del W. Globe, un po’ ingenua ma agguerrita, mentre si conferma fuoriclasse di sempre Helen Mirren che dirige il giornale con piglio british.

di Orietta Cicchinelli

Duplicity: recensione del film di Julia Roberts

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Duplicity: recensione del film di Julia Roberts

Duplicity, cioè doppio gioco, malafede ma anche inganno spionaggio e tradimento. Questi gli ingredienti del film che, ahimè, vengono meno alle premesse. Un film scritto e diretto da Tony Girloy (Michael Clayton) promette assai più di quanto in questo caso non mantenga. Un uomo e una donna si incontrano e passano una notte insieme, senza pensare che quella sarà l’inizio di una pseudo- storia infinita che non si vede l’ora che finisca.

Dubai, 2003. Ray Koval, agente segreto del MI6, ad un party per la festa del 4 luglio, crede di aver sedotto la bella Claire Stenwick. Quando però dopo la notte d’amore con la presunta impiegata del consolato americano si risveglia drogato e senza alcuni segretissimi documenti, capisce che lei, in realtà, lavorava per la CIA. New York, 2008. Ray Koval è da poco assunto allo spionaggio della multinazionale Equikrom e deve incontrare l’informatore della storica concorrente Burkett & Randle, quando scorge proprio Claire. Annulla l’appuntamento e si precipita all’inseguimento della donna, finendo per scoprire che era proprio lei la spia della concorrenza che avrebbe dovuto incontrare. Il precedente di Dubai non aiuta il rapporto tra i due, ma lo scambio previsto viene comunque portato a termine.

Girato in moltissime locations, Duplicity assume colori e sapori diversi per ogni posto che le due spie, Clive Owen e Julia Roberts (già coppia super sexy in Closer), attraversano nel corso del loro “colpo” per vivere felici e contenti, combattendo contro la connaturata forma mentis della spia che li obbliga a non fidarsi nemmeno l’uno dell’altra. I loro viaggi, nel tempo e nello spazio, sono accompagnati da un esasperato affastellamento di gap temporali e un uso dello split screen fastidioso fino all’inutile che frammenta lo sguardo come a voler economizzare il tempo mostrando più cose insieme, senza una vera e propria funzione narrativa.

Una storia complicata che in maniera complicata viene raccontata. E’ vero, lo spettatore smaliziato riesce ad entrare nei cunicoli stretti e intricati delle narrazioni più complesse, ma in questo cosa un montaggio approssimativo confonde davvero lo spettatore calibrando male il ritmo e bruciando il colpo di scena finale che pure è ad effetto. Nonostante una regia poco organica il film è scritto benissimo ed interpretato ancora meglio dagli attori, su tutti i comprimari Tom Wilkinson e Paul Giamatti.

Augurandoci che Michael Clayton sia la regola e Duplicity l’eccezione, Tony Gilroy delude come regista ma mantiene alto l’onore dello scrittore di L’Avvocato del Diavolo, la trilogia di Bourne e altri.

RocknRolla: recensione del film di Guy Ritchie

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RocknRolla: recensione del film di Guy Ritchie

Gangester movie (RocknRolla) strampalato quello di Guy Ritchie dove improbabili cattivi si mescolano a traditori e a boss opportunisti. Un debito da saldare, una truffa subita, un gruppo di malviventi e una contabile molto sexy quanto determinata sono gli ingredienti di una scoppiettante commedia travestita da un action-gangster-movie, dove tutto sembra quello che alla fine non è. Abbandonate le 300 spade alle Termopili, Gerard Butler è decisamente convincente nel ruolo di One Two, seriosamente sarcastico. Nel cast anche la bella e sensuale Thandie Newton nei panni della contabile del boss doppiogiochista Tom Wilkinson/Lenny Cole.

RocknRolla: crimine e illegalità nei bassifondi londinesi

RocknRolla racconta il modo criminale e dei bassifondi della Londra contemporanea, dove il mercato immobiliare è diventato il business più importante, anche più di quello della droga e i criminali ne sono gli imprenditori più entusiasti. Ma chiunque voglia entrare in questo mercato – dal piccolo malvivente One Two (Gerard Butler), al misterioso miliardario russo Uri Obomavich (Karel Roden) – deve fare i conti con un solo uomo: Lenny Cole (Tom Wilkinson). Gangster della vecchia guardia, Lenny sa come arrivare ai suoi obiettivi e tiene per il collo tutti i burocrati, gli intermediari o i criminali che contano.

Basta solo una telefonata e Lenny può far scomparire ogni impedimento burocratico. Ma come gli dice sempre il suo braccio destro Archy (Mark Strong), Londra è a un punto di svolta nella malavita, con i grandi criminali che vengono dall’Est, i criminali affamanti e disperati della strada e tutti che vogliono cambiare le regole del commercio e del crimine. Con la quantità di soldi che circola, tutto il mondo criminale di Londra vuole prendere parte agli affari. Ma mentre i grandi nomi del mondo del crimine ed i piccoli criminali si battono per ottenere il dominio, l’affare multimilionario finisce nelle mani di una rockstar drogata (Toby Kebbell) – il figliastro di Lenny che era stato creduto morto ma che invece è assolutamente vivo.

RocknRolla cast

Come è ormai segno distintivo di Guy Ritchie, il film si basa su una buona regia scandita da un montaggio che in poche battute riesce a rendere completamente il complesso di una scena. Esempio ne è la scena di sesso tra Butler e la Newton, efficace e divertente insieme. Presentato nella sezione Proiezioni Speciali del Festival Internazionale del film di Roma, la pellicola ha riscosso successo presso coloro che hanno avuto la possibilità di vederla, purtroppo messo in programma per poche repliche. Uscirà al cinema questo fine settimana, dopo un’anteprima tenutasi lunedì 20 aprile all’UGC Cinemas.

Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

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Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

Un monumento vivente del cinema come Clint Eastwood non può sbagliare un colpo, nemmeno raccontando una storia semplice, e molto americana, come il suo ultimo Gran Torino. Clint questa volta si mette nei panni di Walt Kowalski, veterano della guerra in Corea, razzista, nazionalista, ultra-conservatore, con la bandiera americana che sventola sul suo portico, probabilmente elettore di Bush figlio per ben due volte, incompreso dai suoi figli (e nuore vipere e nipoti opportunisti), presta le sue uniche attenzioni alla sua Gran Torino del ‘72, frutto di una vita passata a lavorare per la Ford, portandolo ad un’avversione naturale verso chiunque si permetta il lusso di comprare auto che non siano americane (i figli in primis).

Ha messo su una corazza così dura che è (quasi) impossibile scalfirla, deve proteggersi in continuazione dai musi gialli che hanno messo piede nel suo quartiere e ora sono i suoi vicini di casa. Ma ecco che i due ragazzi Hmong che gli abitano accanto riescono a fare breccia nel suo animo: sebbene abbiano la stessa età dei suoi nipoti, Sue e Thao non si sono lasciati corrompere dalla civiltà consumistica occidentale, ma hanno saputo conservare e rispettare le loro tradizioni asiatiche, così come Walt avrebbe voluto facessero i suoi nipoti.

Gran Torino filmClint Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con quello che è adesso. Ma il regista, vera e propria leggenda del cinema, riesce con un’essenzialità incredibile a portare sullo schermo pregiudizi, conflitti, relazioni, conversioni. Prende tutta l’umanità che lo circonda, nella maniera più essenziale possibile, e la trasforma in una poesia ruvida ma vibrante, concisa ma pregna di emozione.

Reduce dal trionfo di Million Dollar Baby e dal suo straordinario dittico bellico, Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, Eastwood torna nella provincia americana, che sembra non stancarsi mai di raccontare con un occhio saggio ma spietato. Che sia poi un testamento di revisionismo personale non c’è da escluderlo, dal momento che nella vita vera, l’uomo Clint Eastwood è sempre stato un repubblicano convinto, non troppo diverso dal protagonista del film, tuttavia, forse proprio come Walt, nella sua maniera granitica e introversa, il regista sembra porsi domande anche sulla sua stessa vita, sul suo modo di affrontare le cose, sulle posizioni sempre molto nette nella sua carriera. Questo aspetto personale si è sempre scontrato con la grande sensibilità che ha dimostrato nel corso di una carriera in continuo crescendo. Un netto passo in avanti da quell’attore belloccio con “sole due espressioni”.

La narrazione di Gran Torino è seguita in maniera semplice e lineare, i dialoghi sono cuciti addosso al personaggio (gag strepitose sono quelle tra Walt e il barbiere di origini italiane) e gli eventi portano naturalmente a un climax di tensione che si scioglie in lacrime amare. Nessun effetto speciale, flashback, flashforward, nessuna inquadratura manieristica, eppure il grande cinema si riconosce in questo film: la semplicità è sempre la miglior scuola.

La verità è che non gli piaci abbastanza: recensione del film con Ben Affleck

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La verità è che non gli piaci abbastanza è il film del 2009 diretto da Ken Kwapis e con protagonisti un cast d’eccezione composto da Jennifer Connelly, Jennifer Aniston, Scarlett Johansson, Drew BarrymoreBen Affleck, Justin Long, Bradley Cooper e Kevin Connoll.

Che vuol dire quando lui non ci chiama, non ci dice mai Ti Amo, non ci vuole sposare…? La risposta che danno Greg Behrendt e Liz Tuccillo nel loro libro “He’s Just Not That Into You: The No-Excuses Truth to Understanding Guys” è che La verità è che non gli piaci abbastanza. Su questo binario iniziale muove il film di Ken Kwapis (Licenza di matrimonio), tratto dall’omonimo best-seller degli sceneggiatori di Sex and tha City(la serie).

La verità è che non gli piaci abbastanza, la trama

La verità è che non gli piaci abbastanza è la storia di Gigi che è una frana con gli uomini e non riesce a percepire e leggere bene i “segnali” di  Conor che lungi dall’essere interessato da Gigi, corre dietro ad Anna che invece comincia una relazione adulterina con Ben, marito di Janine che è amica di Gigi e di Beth, la quale è fidanzata da 7 anni con Neil che si rifiuta di sposarla e così via. Storie parallele che si intrecciano mostrando le relazioni d’amore nel loro nascere, costruirsi, nel loro disfarsi, nella loro sostanza di compromesso armonico tra le due parti. Un film intessuto sulla regola che tutte le persone sono uguali e si comportano, davanti alle medesime situazioni, allo stesso modo. Una regola che finisce con l’essere infranta poiché alla fine della storia, chi merita un premio lo riceve, chi si ama davvero resta insieme, chi invece ha distrutto resta solo e chi invece è stato lasciato trova la forza di ricominciare e di ricostruire la propria vita.

La verità è che non gli piaci abbastanza, in 129 minuti, dipana le sue storie con freschezza senza mai eccedere nel patetismo o nel romanticismo smielato, strizzando un occhio allo spettatore che ride dei personaggi ma ride anche di sé, rispecchiandosi in alcune delle situazioni rappresentate. Il film ha il suo punto di forza in un cast stellare, dove la frangia femminile fa la parte del leone comprendendo: Jennifer Connelly, Jennifer Aniston, Scarlett Johansson, Drew Barrymore (anche produttrice), Busy Philipps. A queste bellissime si contrappongono Ben Affleck, Justin Long, Bradley Cooper, Kevin Connolly. 

Forte soprattutto di una sceneggiature brillante di Abby Kohn e Marc Silverstein, il film tira dritto per tutta la sua durata, senza stancare, risultando divertente e alla fine non troppo retorico. Interessante è la struttura simile a documentario di costume sulle esperienze sentimentali delle persone comuni, interessante soprattutto perché alla fine mopstra che lo stereotipo sociale per cui è sempre e solo la donna a soffrire per amore, viene a cadere. Il film dunque non è parziale ma paritario e mostra molte situazioni reali rendendo così persone hollywoodiane, personaggi reali. La verità è che non gli piaci abbastanza si conclude con l’implicita riflessione che non è vero che La verità è che non gli piaci abbastanza, ma che ogni storia è a se stante, ed ogni reazione umana dipende da una coscienza diversa, da un percorso individuale, che qualche volte finisce con l’essere condiviso dall’altro.

Il mai nato: recensione del film di David S. Goyer

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Il mai nato: recensione del film di David S. Goyer

Scritto e diretto da David S. Goyer, acclamato sceneggiatore dei Batman di Nolan, Il Mai Nato si presenta come un horror riuscito che combina i classici temi del genere – fantasmi, la compresenza tra il mondo dei vivi e quello dei morti – con elementi innovativi. Tra questi spiccano volti nuovi come quello di Odette Yustman, simbolismi e credenze legate ai gemelli, oltre a tematiche caratterizzanti come il misticismo e la cabala ebraica. Il film affronta inoltre il tema dell’esorcismo, richiamando capisaldi del genere horror.

La trama de Il Mai Nato

La giovane Casey, perseguitata da incubi inquietanti e ossessionata da una presenza spettrale che la tormenta anche durante il giorno, cerca aiuto rivolgendosi all’amico e consigliere spirituale Sendak. Scopre così che la sua famiglia è vittima di una maledizione che affonda le radici nella Germania nazista e che l’entità responsabile è un essere in grado di possedere persone e oggetti a suo piacimento.

La narrazione si sviluppa in un’atmosfera fredda e invernale che conferisce al film un’insolita solidità, soprattutto considerando che il genere horror spesso tende a trascurare la coerenza narrativa. Goyer tenta di dare profondità alla storia, esplorando temi storici come la tragedia dell’Olocausto, arrivando persino a evocare la figura di un bambino morto ad Auschwitz. Tuttavia, Il Mai Nato rimane un film che non si discosta troppo dagli stereotipi tipici dell’horror, pur distinguendosi dai prodotti più superficiali come la saga Scary Movie.

Un horror riuscito con un cast di livello

Gary Oldman, straordinario come sempre, abbandona il ruolo dell’iconico commissario Gordon per vestire i panni di un coraggioso rabbino esorcista. Un elemento particolarmente interessante e mai scontato del film è l’idea del male che si nutre della paura delle proprie vittime, una metafora – seppur un po’ forzata – del clima di tensione del mondo contemporaneo.

In conclusione, Il Mai Nato è un horror che, pur senza rivoluzionare il genere, riesce a offrire momenti di tensione e una narrazione più solida rispetto a molte altre produzioni simili, grazie anche a un cast convincente e alla capacità del regista di bilanciare tradizione e innovazione.

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