The Day After Tomorrow – L’alba
del giorno dopo (The Day After Tomorrow) è il film
del 2004 diretto da Roland Emmerich con
protagonisti Dennis
Quaid,
Jake Gyllenhaal, Emmy Rossum e Ian
Holm.
NEMO PROPHETA IN
PATRIA
Analisi di The Day After
Tomorrow
- IN PRINCIPIO, FU UNA CATASTROFE
La frase che dà il titolo a questa
disquisizione affonda le sue radici nei Vangeli (i tre sinottici
più Giovanni) ed è parte di una locuzione, più estesa, latina:
“Nemo propheta acceptus est in patria sua”, tradotto come
“nessun profeta è gradito in patria”, frase pronunciata
dal Messia Gesù in persona, che si riferisce a tutti coloro che
vengono disprezzati- o comunque sottovalutati- nella loro terra
natia, tra la loro gente[1]. Un po’ come accadeva all’omerica Cassandra,
sacerdotessa condannata dal Dio Apollo al dono della profezia, ma
destinata a restare inascoltata proprio dalla sua stessa gente.
Anche il libro
dell’Apocalisse, uno dei testi più immaginifici del nostro
mondo occidentale giudaico- cristiano, è ispirato (oltre che
dall’Esodo anche dal Libro dei Salmi) soprattutto
dai libri dei Profeti contenuti nell’Antico Testamento: Daniele,
Ezechiele, Isaia e Zaccaria[2].
Qual è, a questo punto, il legame
tra “profezia” e “catastrofe”?
Spesso le grandi calamità che si
sono realmente abbattute sull’umanità potevano essere in qualche
modo scongiurate: le tracce delle incombenti sciagure catastrofiche
erano ben visibili, solo che nessuno è riuscito a decifrarle in
tempo o, semplicemente, tutti si sono finti sordi per resistere al
loro lugubre richiamo.
Nel film The Day After
Tomorrow la lunga ombra del rischio della profezia mancata
e del profeta ripudiato dalla propria gente si estende fin dai
primi minuti del film, per poi sciogliersi nel classico happy-
ending finale. Un profeta, una profezia, ma soprattutto
un’apocalisse che veglia sull’umanità dalla notte dei tempi, perché
tutto ha avuto inizio… proprio da una catastrofe.
Secondo i testi sacri
alle grandi religioni monoteiste e secondo la mitologia degli
antichi popoli vissuti prima dell’avvento di Cristo sulla terra,
tutto ha avuto origine dalla distruzione primordiale.
In realtà, perfino nel Bereshit
– Rabbà[3] L’altissimo, prima di
creare questo mondo, ne aveva già creati altri per poi distruggerli
subito dopo perché imperfetti: il nostro sarebbe il risultato del
ventottesimo tentativo;[4]
nella Bibbia stessa, la storia
delle peregrinazioni umane ha inizio con la catastrofica cacciata
di Adamo ed Eva dall’Eden, per poi proseguire con il Diluvio
Universale, Sodoma e Gomorra, fino al trionfo macabro e visionario
descritto nella già citata Apocalisse di Giovanni; come ha
ben espresso Alberto Asor Rosa, “La catastrofe non solo vive da
sempre nell’immaginario collettivo umano ma ne rappresenta la
genesi”[5].
Analizzando The Day
After Tomorrow, possiamo notare come esso usufruisca
di una solida morale giudaico- cristiana, caposaldo della civiltà
occidentale, per mettere in scena questi topoi mitici
calandoli nella realtà cinematografica dell’industria
mainstream hollywoodiana.
Il personaggio del dottor Jack Hall
(Dennis
Quaid), come un novello profeta biblico o una
Cassandra vessata dall’antica maledizione, esprime il suo greve
monito sulle condizioni climatiche del nostro pianeta pochi minuti
dopo l’inizio del film: ovviamente nessuno lo prende davvero sul
serio- riconfermando la tesi dei Vangeli che Nemo
Propheta…- nessuno lo appoggia, a parte gli storici membri
della sua squadra, che a costo di andare incontro al drammatico
sacrificio supremo, si immolano in nome della causa per seguire il
loro “capo” (un retaggio degli Apostoli biblici? Plausibile, visto
il gioco dei riferimenti).
Jack cerca di avvertire i potenti
della terra, riunitisi in India per trovare una soluzione alle
emissioni di gas nocivi nell’atmosfera[6], ma le sue parole vengono accolte
tra lo stupore e lo scetticismo, soprattutto da parte del vice
presidente degli Stati Uniti il quale, solo in un secondo momento,
sarà costretto davanti alla catastrofe ad ammettere i propri errori
e quelli di un’intera classe dirigente, mostratasi cieca e ottusa
nei confronti dei segnali provenienti dall’esterno che avrebbero
potuto sventare una distruzione di massa.
The Day After Tomorrow, il tema
della colpa
Il tema della colpa, così pregnante
nel finale del film e nel discorso tenuto dal nuovo presidente- reo
colpevole- è legato a doppio filo alla natura della tragedia di
massa: “La Catastrofe si presenta come la punizione di un
peccato, di un’infrazione commessi. L’uomo paga per una colpa
talmente grande da non poter essere cancellata con una normale
espiazione”.[7]
Nel film un leitmotiv
citazionista è quello del topos del Diluvio Universale,
dell’inondazione pantagruelica che sommerge la vita umana fino ad
estinguerla; se pensiamo alla data d’uscita del film- il 2004- e ci
fermiamo a fare un bilancio, possiamo notare come molte delle
profezie climatiche compiute da Roland Emmerich[8] in questa pellicola si siano
poi avverate, e a solo undici anni di distanza: siamo quasi
abituati, oggi, a sentir parlare di bombe d’acqua
improvvise[9] e
rovinose, frane causate dal terreno che cede indebolito dalla
deforestazione e dalla longa manus dell’uomo, chicchi di
grandine grossi come sassi, nevicate abbondanti e improvvise,
uragani e tornado, tsunami, terremoti e incendi non sempre
dolosi.
Basti pensare, per esempio,
all’uragano Irene, che si è abbattuto proprio sulla costa Atlantica
degli Stati Uniti nel 2011: fino a quel momento nessun uragano si
era più abbattuto sulla Grande Mela da molto tempo, ma a partire da
quell’anno, quando le correnti fredde dell’Atlantico provenienti
dal Canada e quelle calde che soffiavano dal Messico si sono
incontrate, anche New York si è ritrovata nell’occhio del ciclone
come più della metà degli stati nordamericani; e dopo Irene ne sono
susseguiti altri ben peggiori, come Sandy o Arthur, e chissà quanti
altri colpiranno la città nei prossimi anni.
Anche gli Tsunami sono
prepotentemente entrati nel nostro immaginario collettivo, col loro
nome esotico che, a dispetto della morbidezza corallina del suono,
non promette niente di buono[10] e rappresenta la vera e propria
materializzazione de “L’incubo di Noè”: si tratta di un’onda
spaventosa, con un’altezza in media compresa tra i 6 e i 12 metri
che si abbatte rovinosamente su tutto quello che incontra,
cancellando ogni traccia di vita durante la sua folle corsa.
Immediatamente i nostri ricordi vanno alle immagini dello Tsunami
che ha colpito il sud- est asiatico nel 2006, oppure quello che si
è abbattuto sul Giappone nel 2011, a Fukushima, riaccendendo
inoltre il sinistro barlume della minaccia nucleare.
Noè, la sua figura mitica, sembra
essere lo psicopompo ideale di questo macabro viaggio tra le
macerie delle catastrofi, visto che ogni cultura- occidentale e
non- ne ha avuta, fin dalla notte dei tempi, la sua personale
versione, atta a spiegare razionalmente una forza naturale altresì
impossibile da gestire, controllare e fermare.

I primi a parlarne furono i
Babilonesi intorno al Cinquecento a.C, anche se sono state
rinvenute delle tavolette più antiche risalenti addirittura al
Duemila a.C che contenevano sempre la narrazione dello stesso mito:
Gilgamesh ne è l’eroe protagonista, che si mette alla ricerca della
fonte dell’immortalità dopo la morte del suo amico Enkidu.
Tra i tanti episodi narrati, quello
con protagonista Utnapistim (la versione sumera di Noè) ricalca da
vicino la trama della vicenda biblica, così come noi la
conosciamo[11]: lo stesso si può rintracciare nel patrimonio
mitologico greco, col mito di Deucalione e Pirra, o in quello della
tradizione Indù Puranica con la storia di Manu, passando attraverso
l’Europa, risalendo l’Asia intera, l’Oceania e perfino le Americhe:
insomma, tutte le culture sembrano aver sviluppato, alla base della
loro tradizione culturale orale- e poi scritta- il racconto
drammatizzato di una catastrofe primigenia, forse telecronaca e
reportage di fatti realmente accaduti, o antico monito di
una punizione estrema inflitta da una divinità superiore per la
stoltezza degli uomini?
ROLAND EMMERICH: IL PROFETA DELLA
CATASTROFE
Roland Emmerich[12], regista tedesco, è- a
tutti gli effetti- nel panorama hollywoodiano il “profeta della
catastrofe”, l’uomo che con la sua ricca filmografia ha dato corpo
agli incubi immaginifici della cultura pop americana, da sempre in
bilico tra cupio dissolvi, desiderio di
spettacolarizzazione, cinico disincanto e voyeurismo mediatico.
Già dal suo primo film
“studentesco”, 1997- Il principio dell’Arca di Noè[13], il regista
mostra la sua predisposizione per il genere catastrofico e le
rappresentazioni apocalittiche destinate a distruggere l’umanità in
genere e, in particolare, la sua roccaforte nell’avamposto
dell’Impero Occidentale: gli Stati Uniti, con la svettante fortezza
della solitudine newyorkese.
Il suddetto film, in realtà,
mantiene un legame con Noè solo a livello semantico- catastrofico,
perché la diegesi si snoda nello spazio profondo, ricreato
abilmente negli studi cinematografici della Germania Ovest- ancora
ben lontana dall’unificazione del 1989; ma Emmerich pone i
capisaldi della sua filmografia futura, che ben si espliciteranno
in veri masterpiece del genere come
Independence Day, Godzilla e il “nostro”
The Day After Tomorrow.
Questi tre titolo costituiscono
quasi una ideale “trilogia della consapevolezza della catastrofe”,
se così possiamo ribattezzarla, dove lo sguardo del regista è
cresciuto gradualmente, velandosi sempre più di un alone profetico
riguardo alle sorti della nostra società e del nostro pianeta.
Roland Emmerich
realizza il primo di questi film nel 1996: gli Stati Uniti sono
ancora la prima super potenza al mondo, gli spettri della crisi
economica sono lontani come pure i pozzi di petrolio bruciati nel
Kuwait e in Iraq nei primi anni ’90, durante la prima guerra del
golfo, una delle prime guerre prettamente mediatica, dove l’azione-
e l’apporto- dei media nella comunicazione di massa di informazioni
è stato fondamentale; i tempi della guerra fredda erano ormai
lontani, la Russia non incarnava più il volto storico del nemico
“rosso”, la distensione era palpabile e l’unica guerra
potenzialmente pericolosa si stava combattendo su un terreno
distante ed esotico, come il set di un film hollywoodiano.
Così, con questo senso di
onnipotenza incrementato dalla politica reaganiana degli anni ’80,
le speculazioni economiche crescevano in modo sconsiderato, gli
yuppies colonizzavano la società americana culturalmente,
socialmente, politicamente e sul piano dei consumi e agli americani
non restava che far valere la loro potenza… con il nemico alieno.
Sì, perché la nuova minaccia alla florida potenza a stelle e
strisce non viene più dall’interno o dai vicini più prossimi, bensì
dallo spazio remoto e siderale. Gli alieni sono tra noi, e non
hanno buone intenzioni: spetta al solito manipolo di sparuti eroi,
i classici scienziati nemo propheta in patria, personaggi
borderline difficilmente incasellabili, come il marine interpretato
da Will Smith, salvare la terra dalla catastrofe. E, come in ogni
film degli anni ’90 che si rispetti, la vittoria è già scritta dai
titoli di testa.
In
Godzilla, remake di un originale
giapponese diretto da Ishirō Honda nel 1954, il trionfo del più
classico American Way of Life è funestato dalle
ombre della minaccia nucleare: il “mostro” del titolo, un
lucertolone preistorico tornato dalle profondità degli abissi, è
stato risvegliato dagli sperimenti atomici condotti dagli americani
al largo delle coste del Pacifico; è come se Emmerich volesse
ricordare agli statunitensi- e in particolare alla loro casta
politica- che un uso sconsiderato di un’energia potenzialmente
innovativa ma difficile da gestire, se non attraverso una costante-
e costosa!- manutenzione poteva avere delle conseguenze
incalcolabili e catastrofiche, e il lucertolone squamoso faceva
comunque sempre meno paura delle vittime di Chernobyl o di tutti
coloro contaminati dalle radiazioni.
La visione profetica del tedesco
Emmerich –un profeta involontario della catastrofe non americano,
non a caso- trova il suo acme proprio nella realizzazione
di The Day After Tomorrow: il film esce tre anni
dopo i tragici fatti dell’11 Settembre, fatti che hanno sconvolto
il mondo ma che hanno sancito, contemporaneamente, il crollo e la
morte del grande Sogno Americano.
Il riferimento al
dramma del World Trade Center si presenta qui in
duplice veste: da una parte la consapevolezza che il “nemico” può
colpire in ogni momento, dall’interno, nel momento più inaspettato
e mietendo vittime tra gli innocenti; dall’altra, la lettura
religiosa del classico happy- ending comune a tutti i film
a base di catastrofi e calamità naturali, soprattutto in una
società americana sempre più vicina ai dettami della fede cattolica
evangelica (in grande rilancio a partire dagli anni ’90, conta oggi
quasi 70 milioni di fedeli sparsi in tutti gli States):
“[…] In un approccio
catastrofico intrecciato con quello religioso il lieto fine è
necessario. Certi esiti politici e geopolitici, in primis quelli
elaborati durante l’amministrazione Bush, si spiegano anche così:
il popolo di Dio sottoposto all’attacco delle forze del Male, il
percorso nel deserto e la battaglia finale (riferendosi al
dramma dell’11/09/2001, NdA) […] La città di Dio, la “casa
sulla collina”, ha bisogno dell’azzeramento della situazione
precedente per concretizzarsi”[14].
Il lungo discorso finale della
pellicola, tenuto dal vicepresidente chiamato dalle necessità a
sostituire il suo capo in pectore morto durante la
catastrofe climatica, è una tirata d’orecchi vigorosa alla politica
statunitense, sorda ai richiami internazionali riguardo al consumo
eccessivo e spregiudicato delle risorse naturali e ai mancati
accordi del protocollo di Kyoto (2004) a proposito dell’emissione
dei gas serra: tutto questo potrebbe portare a un tracollo rovinoso
delle condizioni climatiche mondiali, le stesse simulate dal
regista nella pellicola, con un’unica soluzione plausibile- dopo la
necessaria espiazione delle gravi colpe: ricominciare tutto da
zero, con una nuova consapevolezza, in quei paesi che sono da
sempre stati bollati come “terzo mondo”, l’ultimo avamposto
sopravvissuto del mito della frontiera.
- L’AMERICA TRA IL MITO DELLA FRONTIERA E LO SPETTACOLO DELLA
CATASTROFE[15]
La frontiera; gli spazi desolati,
sconfinati, dove è la natura a farla da padrone, là dove l’impronta
dell’uomo ancora non si è estesa; spazi da conquistare,
addomesticare, plasmare, per seguire fino in fondo quel messaggio
affidato da Dio all’uomo: l’americano medio ha radicato nel sangue
questo spirito, lo stesso che ha spinto i primi padri pellegrini ad
abbandonare la vecchia Inghilterra a bordo della Mayflower per
colonizzare una terra oltreoceano, ignota ed immensa; lo stesso
spirito che li ha supportati durante l’espansione verso ovest, alla
conquista del famoso vecchio “west” mitico, futuro caposaldo
dell’industria hollywoodiana, anche quella spostatasi nei primi
anni del ‘900 dal polo propulsivo di New York in un sobborgo
collinare di Los Angeles, la fabbrica dei sogni e degli incubi di
un intero mondo.
Il mito della frontiera affascina
da sempre gli statunitensi, ma anch’esso ha dei limiti: nei loro
sconfinati spazi hanno sempre provato a proiettare- per poi
realizzarle- le loro utopie, i loro sogni individuali; però un po’
d’oceano può essere contenuto in un bicchiere, e proprio la distesa
d’acqua del Pacifico ha posto fine all’avanzata selvaggia del
progresso, del capitalismo, del consumismo, della società di massa
“made in USA”.
Dopo essersi resi conto di questo
brusco ostacolo insormontabile, e che nemmeno quegli spazi potevano
rendere realizzabili tutti i sogni individuali che venivano
coltivati, gli americani hanno cominciato ad andare in cerca di
sempre nuove frontiere da occupare: l’esterno, altre terre, lo
spazio siderale. L’impresa ha rivelato solo la caducità delle
utopie, e ha accresciuto nella società statunitense l’ammirazione
nei confronti del concetto di catastrofe, intesa come l’unica
possibilità rimasta per demolire e ricostruire, a partire da uno
spazio vergine.
The Day After Tomorrow,
pur essendo la creatura di un regista tedesco- ergo dotato di una
sensibilità europea- ma dotato di un gusto americano per l’opulenza
visiva e l’immaginario catastrofico, immortala proprio questo
pensiero: l’improvvisa e letale glaciazione che si abbatte
sull’emisfero nord cancella, nell’arco di nemmeno una settimana,
tutte le tracce della vita occidentale così come si era
stratificata nel corso dei secoli. Ai pochi superstiti lungimiranti
non resta che affrontare un viaggio di ri- colonizzazione di alcune
terre da sempre bollate come “terzo mondo” e che adesso, per una
sorta di ironia tragica, si apprestano a dare rifugio a loro,
profughi e fossili di un impero che hanno distrutto con le proprie
mani, masticando l’amara polvere del fallimento. Come scrive
Ilardi, “[…] nella cultura americana, la catastrofe non avrebbe
tanto la funzione di mettere in guardia sui pericoli del progresso
e delle tecnologie o di esorcizzare le grandi paure collettive,
quanto piuttosto di obbligare gli americani a immaginare nuove
dimensioni spaziali, nuove forme di vita e di associazione. Ricorda
loro che la vera identità dell’America sta nella frontiera, non
negli spazi affollati e promiscui della metropoli, che l’americano
è prima di tutto un pioniere e poi, disgraziatamente, un
cittadino”[16].
Il cittadino è un pioniere, un
esploratore dell’ignoto, pronto a compiere questo viaggio in
solitaria attraverso il nulla degli spazi sterminati: come nel
vecchio west dove ci si spostava riuniti in piccoli gruppi che
nascevano da esigenze religiose, culturali, sociali, e poi da
queste carovane nomadi nascevano i primi nuclei cittadini, nei film
catastrofici a salvarsi non è mai la moltitudine, l’intera umanità,
ma sempre un manipolo di sparuti sopravvissuti; ricollegandoci al
mito del Diluvio Universale biblico (dove- animali a parte- a
salvarsi erano Noè, sua moglie, i loro tre figli Sem, Cam e Iafet
con le rispettive consorti) a salvarsi nei vari disaster
films sono sempre i migliori, i più forti, i più intelligenti,
i più buoni- come ha fatto notare Fabio Tarzia- coloro che
corrispondono all’archetipo americano dell’equipe specializzata
pronta a salvare l’umanità dall’estinzione, persone normali, con le
loro debolezze, che si trasformano però in eroi (o super- eroi,
visto che parliamo di cultura “pop” americana):
“[…] c’è lo scienziato isolato
osteggiato dalle autorità, il poliziotto animato da un sovrumano
senso di giustizia, il militare che in nome del bene è disposto a
disobbedire agli ordini e poi persone normali i cui hobby,
interessi, inclinazioni diventano improvvisamente utili per far
fronte all’emergenza”[17].
In effetti, l’immaginario della
catastrofe si stratifica nella cultura pop americana
proprio a cavallo tra ‘800- ‘900, quando gli spazi si esauriscono e
il mito della frontiera rivela pian piano le sue insidie, perdendo
il proprio fascino.
È in quel periodo che nasce anche
la spettacolarizzazione di questo desiderio recondito, di questo
cupio dissolvi latente nell’animo dell’americano medio,
questa consapevolezza che solo distruggendo radicalmente e
ricominciando tutto da zero, si può iniziare una nuova corsa
all’oro volta a consolidare- ancora una volta- la forza e la
potenza del più grande impero occidentale. Fino alla tragedia
dell’11 Settembre gli statunitensi hanno sempre vissuto tutti i
conflitti più sanguinosi di riflesso, mai in prima persona,
osservandoli dall’alto di una remota collina, proprio come accadeva
a Jack London durante il terremoto- e il successivo incendio- che
distrussero la città di San Francisco nel 1906[18]; si sono sempre posti nei
confronti degli eventi apocalittici come degli spettatori
privilegiati e intoccabili, supportati da nuovi media via via
sempre più rapidi ed efficienti nel trasmettere informazioni utili
a soddisfare la curiosità morbosa e voyeuristica di un pubblico di
guardoni affamati di nuove emozioni adrenaliniche, pronti ad
immergersi in quegli eventi- proprio come in una realtà virtuale-
per simularli, provando a viverli in prima persona.
L’attentato che ha segnato il XXI
secolo ha ceduto il posto ad un nuovo tipo di consapevolezza,
perché i media hanno immortalato in diretta quello che accadeva in
“casa propria”, negli USA, superando di gran lunga l’immaginazione
iperattiva e dirompente di qualunque regista esperto di
disaster films. Solo che l’orrore lucido che veniva
esibito sugli schermi di miliardi di televisioni, rimbalzando ad
una velocità impressionante da continente in continente, non era
simulato da moderni effetti speciali o dalla computer grafica: era
tutto disastrosamente vero, e l’americano medio non si sentiva più
così al sicuro sulla sua collina remota.
- LOTTA DI CLASSE TRA NUOVI E VECCHI MEDIA
Dare corpo all’immaginario
catastrofico connaturato al DNA dei pionieri americani è stato
possibile solo grazie all’avvento del cinema. Non è un caso,
infatti, se questa percezione si è radicata a partire dalla fine
dell’ottocento, data simbolica che ha sancito la fine della corsa
alla frontiera ma anche la nascita del cinematografo ad opera dei
fratelli Lumière nel 1895[19]; Donatella Capaldi in un suo saggio illustra
bene l’atteggiamento dei media novecenteschi nei confronti
dell’argomento:
“Spettacolari ma senza
atarassia, i media del secondo Novecento tendono invece a
rappresentare, patire e controllare al tempo stesso la paura
dell’estinzione inscenando il gioco del sopravvissuto. Vale a dire:
la sciagura viene presentata come ineluttabile e incontrollabile,
la paura viene oggettivata e tradotta in azione […]; il piccolo
eroe che si presume sia in noi dovrà rappresentare la capacità
individuale di governarla e gestirla […] l’io si proietta in player
di se stesso e si guarda muovere in una mappa mediale allargata
dove tutti divengono partecipi”[20].
Insomma, il superstite della
tragedia si sente come un giocatore di un videogioco, proiettato in
una realtà virtuale credibile, realistica ma totalmente astratta e
distante; la realtà parallela lo avvolge e lo include, sviluppando
una mimesi talmente impressionante con la quotidianità da spingere
lo spettatore/ “attore” ad una sorta di pigra indolenza
voyeuristica, attraverso la quale assiste impotente al tracollo
della civiltà, senza poter- o voler- fare niente.
Sicuramente il cinema, classificato
da McLuhan come un medium caldo[21], “inonda” letteralmente lo spettatore,
sommergendolo di informazioni, in una vera e propria “doccia
emotiva” di dati e sensazioni. Nell’era del digitale e degli
effetti speciali il cinema si è visto costretto a reinventarsi per
sopravvivere, per distinguersi rispetto ad altri media ma,
soprattutto, per difendersi dall’avvento di un medium dalle
potenzialità infinite come internet: l’unica soluzione è stata
rintracciata nel potenziamento degli effetti legati allo “shock
visivo” al quale viene sottoposto lo spettatore, grazie ad effetti
speciali sempre più realistici che assottigliano il labile confine
tra reale e immaginario; e sempre per questo motivo il 3D è tornato
così di moda nelle sale odierne, per restituire- almeno, in teoria-
allo spettatore un’esperienza completa che lo immerga sempre più
nella realtà.
Per McLuhan il cinema è un sistema
“mediante il quale arrotoliamo il mondo reale su una bobina per
poi srotolarlo come un tappeto magico della fantasia, è un
sensazionale connubio tra la vecchia tecnologia meccanica e il
nuovo mondo elettrico”[22] e forse è il medium che
per eccellenza ha incarnato il passaggio dell’uomo dal tempo della
macchina a vapore- feticcio dell’era meccanica- all’avvento
dell’era elettrica, epoca post- moderna sancita dall’avvento dei
nuovi media interconnessi tra loro e dalla base del concetto di
“villaggio globale”, enorme agglomerato tribale del quale facciamo
tutti, volente o nolente, parte.
Lo spettatore di un film è come
sotto l’influsso di un incantesimo, scagliato dall’immensa macchina
dei sogni- e degli incubi- chiamata Hollywood che riesce a rendere
possibile… anche l’impossibile, trasportando così il pubblico in un
mondo “altro”, fuori da sé, un simulacro simile- sotto ogni
aspetto- a quello che ci circonda ogni giorno, ma che vive entro i
limiti dell’inquadratura; e lo spettatore si è subito adattato a
questo passaggio, molto simile in fondo alla logica del libro,
colto nella sua ritualità solitaria.
Sempre citando McLuhan:
“In quanto fonde il meccanico e
l’organico in un mondo di forme ondulanti, il cinema si collega
anche alla tecnologia della stampa. Il lettore, proiettando- per
così dire- le parole, deve seguire quelle sequenze di
<<fotogrammi>> bianchi e neri che costituiscono la
tipografia e aggiungervi una sua colonna sonora personale. […]
sarebbe difficile sopravvalutare il legame tra stampa e cinema per
quanto concerne la loro capacità di suscitare fantasie nello
spettatore o nel lettore”[23] il massmediologo
canadese, quindi, marca molto stretto il legame tra cinema e carta
stampata, ergo parola scritta: un film, in fondo, non parte da un
testo per essere poi sviluppato e codificato in una sequenza di
immagini?
Nella pellicola the Day After
Tomorrow uno sparuto manipolo di sopravvissuti si muove in una
New York post apocalittica lambita dalle acque bibliche; tra questi
c’è anche Sam (Jake Gyllenhaal)- “Sam” ha una curiosa assonanza con
il nome del figlio di Noè, Sem: un’altra semplice coincidenza?- il
figlio dello scienziato Jack Hall che suggerisce di barricarsi
nella Biblioteca Centrale, l’unico posto dove potranno essere al
sicuro. Forse non è una coincidenza se Emmerich ha scelto proprio
questo luogo come ultimo rifugio di una porzione d’umanità
sopravvissuta ad una catastrofe: uno spazio che contiene libri,
libri stampati, frutto del progresso e della meccanizzazione della
società che ha spinto l’uomo ad abbandonare una struttura tribale,
abbracciare la modernità e sancire il passaggio alla città,
divenuta in seguito metropoli con l’avvento della famosa era
elettrica. La parola scritta, la possibilità di fissare- tramite la
stampa a caratteri mobili- sulla carta i discorsi tramandati fino a
quel momento solo oralmente o copiati a mano dai monaci, ha
permesso alla civiltà di virare verso una diffusione democratica e
massificata della cultura[24], resa disponibile e reperibile per tutti,
preparando il terreno all’avvento di tutti gli –ismi che hanno
segnato il Novecento: nazionalismo, capitalismo, consumismo,
industrialismo, alfabetismo etc… capisaldi- nel bene e nel male-
dell’impero occidentale, costruito proprio sulle lettere meccaniche
create da Gutenberg: il più grande passaggio nella storia dell’uomo
che ha permesso la nascita della società moderna così come la
concepiamo noi oggi; è per questo che Emmerich salva come unico
medium la stampa, il libro, la parola scritta perché- come fa dire
ad uno dei personaggi- bruciare una Bibbia di Gutenberg sarebbe
come distruggere, definitivamente, l’unica traccia rimasta della
civiltà occidentale.
L’avvento dell’era elettrica ha
portato ad un’incertezza vacillante nei confronti del cambiamento,
ma “un nuovo medium non è mai un’aggiunta al vecchio e non
lascia il vecchio in pace. Non cessa mai di opprimere i media
precedenti fin quando non trova per loro forme e posizioni
nuove”[25] per cui cinema e stampa
possono convivere entrambi pacificamente, continuando ad
influenzarsi a vicenda in quanto capisaldi nella costruzione della
società moderna occidentale.
- VERSO OCCIDENTE L’IMPERO DIRIGE IL SUO CORSO
Rubando il titolo ad un racconto di
David Foster Wallace, ci avviamo verso l’inesorabile parabola
discendente di questo viaggio. The Day After Tomorrow
rappresenta il monito di un regista nei confronti di un impero-
quello occidentale- che rischia di avviarsi da solo lungo la strada
del fallimento catastrofico, vittima delle sue stesse voglie e dei
suoi desideri inarrestabili: non è un caso se in questo film- come
in altri del genere disaster movies-vengano distrutti
sistematicamente proprio i simboli stessi del potere: in primis la
città di New York, The Big Apple, il cuore pulsante della
modernità, abbattuto o sommerso; ma soprattutto i suoi feticci,
come la Statua della Libertà[26] emblema della modernità incontrastata di
inizio Novecento, oppure l’Empire State Building, il grande gigante
in acciaio, vetro e cemento preso di mira fin dal mostruoso King
Kong per poi passare agli alieni invasori fino alla natura
debordante, che distrugge l’opera ideale simbolo dell’ingegno
umano, “un semplice surrogato della frontiera; con la sua
verticalità che riproduce le gerarchie della politica,
dell’economia, dei rapporti sociali è una falsa frontiera […] la
vera frontiera non può che essere orizzontale”[27] ,
simbolo che tradisce quindi un desiderio atavico- e tutto
occidentale- di vedersi sparire lentamente, annaspando tra i flutti
del nulla catastrofico:
“[…] la società occidentale è
solo spettatrice e incapace di intervenire davanti alla progressiva
aggressione dell’ambiente, il potere (la politica e i media) non si
orienta verso la sostenibilità, ma il pianeta vivente può fare
comunque a meno della presenza umana. Così, rinverdendo i miti del
Diluvio, la Terra sommerge gli uomini con le acque e i ghiacci, e
li inghiotte con inarrestabili maremoti nei film ecocatastrofici di
Roland Emmerich. Giganteschi e spettacolari esorcismi in
videogame”[28] .
[1] Significato e spiegazione tratti da
http://www.treccani.it/vocabolario/nemo-propheta-in-patria/
[2]Informazioni tratte da
http://it.wikipedia.org/wiki/Apocalisse_di_Giovanni
[3] Bereshit- Rabbà: trattato del
Talmud- “libro” sacro degli ebrei che contiene la spiegazione orale
della Torah- che riguarda la Genesi
[4] Moni Ovadia, L’ebreo che ride Einaudi, Torino,
1998 p. 17
[5] Alberto Asor Rosa, Catastrofe e Apocalissi:
Riflessioni intorno ad alcuni concetti fondativi
dell’Occidente da Giovanni Ragone, Lo spettacolo della
fine- le catastrofi ambientali nell’immaginario e nei media,
Guerini e Associati, 2012, p. 60
[6] Proprio come accadde a Kyoto nello stesso anno
dell’uscita del film- il 2004- quando gli americani presero
posizione, insieme ad altri paesi dall’economia emergente, per non
sottoscrivere nessun accordo e non ridurre l’emissione dei gas
nocivi.
[7] Ivi, p. 60
[8] Classe 1955, è il regista di questo film e di
altri come Independence Day, Stargate, Il Patriota, Godzilla,
Anonymous e 2012. Di alcuni parleremo dopo.
[9] Bombe d’Acqua, ovvero “un violento
nubifragio in cui la quantità di pioggia caduta supera i 30
millimetri all’ora, o – secondo altri climatologi – quando le
precipitazioni superano i 50 millimetri nell’arco di due ore”
Fonte:
http://www.focus.it/scienza/scienze/che-cos-e-una-bomba-d-acqua
[10] Tsunami in Giapponese vuol dire “Onda del
Porto”, Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Tsunami
[11] Fabio di Pietro, I Soggetti della
catastrofe tra immaginario e società globale del rischio: da
Gilgamesh ai supereroi dei fumetti, da Giovanni Ragone, Lo
Spettacolo della fine- Le catastrofi ambientali nell’immaginario e
nei media, p.68- 71
[12] Per tutte le informazioni sulla sua
filmografia completa, vedere
http://www.imdb.com/name/nm0000386/
[13] Datato 1984
[14] Fabio Tarzia, Tra apocalissi e catastrofi:
la messa in scena del “tragico” e il crepuscolo della civiltà dello
spettacolo in Giovanni Ragone, Lo spettacolo della fine-
Le catastrofi ambientali nell’immaginario e nei media p.
83
[15] Un contributo fondamentale mi è stato fornito
dal saggio di Emiliano Ilardi Una modernità senza catastrofe:
il grande sogno dell’immaginario americano contenuto nel già
citato testo di Ragone.
[16] Ivi, p. 120
[17] Fabio Tarzia, Mondi Minacciati. La
letteratura contro gli altri media, citato da Emiliano Ilardi
nel suo saggio contenuto in Ragone, Lo spettacolo della
fine p. 121
[18] Ivi, p. 114
[19] Informazioni ricavate da
http://www.france.fr/it/arti-e-cultura/i-fratelli-lumiere-e-la-nascita-del-cinema.html
[20] Donatella Capaldi, “Poi venne il tutto,
vacuo e imprevedibile”. Immaginari della catastrofe da Ragone,
Lo spettacolo della fine p. 105
[21] La distinzione tra media caldi e freddi è
contenuta nel testo di McLuhan Gli strumenti del
comunicare; è una classificazione soggetta a delle variazioni,
perché lo stesso medium può variare in base alle situazioni o ai
contesti, ma in generale si definiscono caldi tutti quei media che
riversano un numero ingente di informazioni sul soggetto (cinema e
radio); freddi, invece, quelli a bassa definizione che necessitano
dell’apporto del soggetto per la loro comprensione (televisione e
telefono).
[22] Marshall McLuhan, Gli
strumenti del comunicare, Il Saggiatore 2008; p. 257
[23] Ivi, p. 257
[24] Riferimento a Walter Benjamin, L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica da Davide
Borrelli, Dalla riproducibilità tecnica al remixing
digitale in M. Pireddu, M. Serra Mediologia- una
disciplina attraverso i suoi classici, Liguori Editore, 2012
p. 61
[25] McLuhan, p. 166
[26] Era già stata protagonista dell’angoscioso
finale regalatoci da Franklin Schaffner nella sua prima versione de
Il Pianeta delle scimmie (1968)
[27] Emiliano Ilardi, Una modernità senza
catastrofe: Il grande sogno dell’immaginario americano in
Ragone, p. 121
[28] Donatella Capaldi, “Poi venne il tutto,
vacuo e imprevedibile”. Immaginari della catastrofe. Da
Ragone, Lo spettacolo della fine, p. 107