Questo sembra proprio essere,
almeno per il cinema italiano, l’anno della riflessione sul ruolo e
i metodi delle forze dell’ordine nella gestione dell’ordine
pubblico, e più in generale del dissenso, nel nostro paese.
Impossibile infatti non vedere un filo che lega questo crudo e
intensissimo Diaz di Daniele
Vicari ad A.C.A.B. di Stefano
Sollima (dove pure c’erano riferimenti espliciti ai fatti
della Diaz). Un ruolo, quello delle forze dell’ordine, di prima
barriera e in molti casi unica risposta di fronte a contestazioni,
dissenso e disagio sociale. E dei metodi non condivisi certo da
tutta la categoria, ma che nei loro episodi più brutali e violenti,
come quelli della Diaz e di Bolzaneto a Genova nel 2001, hanno dato
luogo al peggiore incubo nel quale un cittadino possa incappare e
uno stato di diritto impantanarsi.
È a questo incubo che
Vicari ha voluto dare corpo e voce, trasponendo in
un film ciò che avvenne al G8 di Genova, e in particolare in quelle
pagine orribili (le uniche non documentate finora da immagini) che
sono state l’assalto alla scuola Diaz e i maltrattamenti
all’interno della caserma di Bolzaneto, da cui sono scaturiti due
processi, ancora in corso. Nella ricostruzione dei fatti presentata
nel film (fatta proprio alla luce degli atti processuali e delle
sentenze d’appello dei due procedimenti) Vicari non teme e, assieme
a Laura Paolucci con cui ha curato la
sceneggiatura, dice tutto ciò che c’è da dire: che dopo la fine dei
cortei, dopo la morte di Giuliani, in un clima ormai esasperato, il
21 luglio la polizia si lascia andare a provocazioni, cui
seguono reazioni, seppur lievi, da parte di alcuni esponenti del
movimento no global, e poi la pianificazione dell’assalto alla
Diaz, la notte del 21 luglio.
Non teme di mostrarci i
terribili pestaggi scatenati contro un centinaio di persone che si
preparavano a dormire nella scuola, quella notte. Mostra anche
chiaramente come quella furia cieca, senza alcun controllo, la si
sia giustificata a posteriori, costruendo prove ad arte a carico
delle persone nella scuola (come le due molotov) e infine come
l’incubo sia proseguito per gli arrestati nella caserma di
Bolzaneto, dove odio e furia da parte di settori delle forze
dell’ordine hanno continuato a manifestarsi senza freni, sfociando
in qualcosa che è difficile non chiamare tortura. Dunque non
teme di assumersi responsabilità Vicari con questa pellicola,
responsabilità che invece per quegli avvenimenti nessuno si è
ancora assunto (siamo al secondo grado di giudizio e molti dei
reati per cui ci sono state fin qui condanne sono già
prescritti).
Nel catapultarci di nuovo in quel
mondo, in quei giorni, il registro scelto è crudo ed essenziale,
per nulla retorico (e che necessità ce ne sarebbe stata,
d’altronde, vista la forza e l’eloquenza dei meri fatti?). Il film
riesce a ricostruire perfettamente la tensione crescente e
palpabile e la sensazione, comune alle vittime di quella violenza,
di trovarsi in un tunnel senza uscita. Tutto ciò è reso dal
regista con degli efficaci espedienti narrativi: i fatti
della Diaz e di Bolzaneto ci vengono proposti più volte, visti e
vissuti dai diversi protagonisti, in un continuo andirivieni
temporale che va verso il climax di quelle violenze per poi tornare
indietro. L’effetto di quegli eventi e la loro portata risulta così
amplificata, come anche l’angoscia che si prova nel vederli
accadere di nuovo sullo schermo, e come risultarono amplificati e
temporalmente dilatati nella memoria di chi li ha vissuti sulla
propria pelle.
Le splendide musiche di
Teho Teardo (ma anche Massive Attack, Tricky ed
altri) scandiscono i tempi del film e danno il loro apporto a
questa sensazione di spaesamento e sospensione che permea il
lavoro. Poche le immagini di repertorio, di cui colpisce la
perfetta integrazione nel tessuto narrativo, al punto che lo
spettatore potrà confondere finzione e realtà.
E senza dubbio uno dei temi del
film è proprio quanto la realtà in certi casi superi la finzione e
quanto quest’ultima possa a sua volta amplificare e far “risuonare”
maggiormente la realtà nelle coscienze di chi guarda. Tutto
perfettamente in parte il cast, in cui ciascuno, anche con piccoli
ruoli, offre interpretazioni intense e sentite: da
Claudio Santamaria/Max Flamini, che guidò il
blitz alla Diaz, a Jennifer Ulrich, che interpreta
una cittadina tedesca percossa alla Diaz e poi portata a Bolzaneto,
dove continua il suo calvario; da
Elio Germano/Luca, cronista della Gazzetta di
Bologna che è a Genova da privato cittadino, al pensionato Anselmo,
anche lui vittima del blitz, interpretato da Renato Scarpa, solo
per citarne alcuni.
DIAZ appare perciò
anche come un atto di giustizia nei confronti delle vittime
di quelle violenze. Inoltre, ci ripropone nella sua limpida
efficacia, oggi, interrogativi pesanti sulla natura della
democrazia nel nostro paese, su cosa essa sia stata finora e su
cosa vogliamo essa sia in futuro; sul ruolo affidato e da affidare
in essa alle forze dell’ordine. Pone interrogativi, o li ripropone
a chi già undici anni fa se li pose, e non dà risposte, ma fa
quello che c’è da fare: guardare in faccia ciò che è stato e
chiamare ogni singolo cittadino alle proprie riflessioni e
responsabilità.
La domanda che sale alle coscienze
dopo la visione del film è senza dubbio se e come sia possibile che
i fatti raccontati accadano in un paese democratico, al giorno
d’oggi e cosa si può e si deve fare affinché ciò che è successo
allora non accada più. Operazione necessaria, dunque, questo lavoro
di Vicari, della Fandango di Domenico Procacci che produce la
pellicola, in sala dal prossimo 13 aprile, e di quanti hanno
condiviso il progetto.