Con le voci di:
Albert Brooks (Marlin); Ellen DeGeneres (Dory); Alexander Gould
(Nemo); Willelm DaFoe (Branchia); Geoffrey Rush (Amilcare).
Sinossi:
Marlin, un pesce pagliaccio, ha perso la moglie Coral e tutte le
sue uova, ad eccezione di Nemo, unico superstite dopo l’attacco di
un predatore. Come figlio unico e con una pinna atrofica, Nemo è
soffocato dalle attenzioni paterne, il che lo porterà a
disobbedirgli e a nuotare in mare aperto. Qui il piccolo pesciolino
verrà pescato da un sub che lo porrà nel suo acquario.
Quest’ulteriore perdita spingerà Marlin ad addentrarsi nell’oceano
per ritrovare il suo piccolo Nemo. Con una simpaticissima compagna
di viaggio,
Dory, Marlin scoprirà l’oceano, conoscerà squali
vegetariani e tartarughe velocissime, fino a ritrovare suo figlio
ed a raccontargli un’avventura che mai avrebbe creduto di poter
affrontare.
Analisi:
L’ennesimo prodotto Disney Pixar si distingue
innanzi tutto per l’incredibile perfezione con la quale è
rappresentato il mondo marino, dai riflessi del sole nel blu
dell’oceano, alle squame lucenti sul dorso dei pesci. Ma il film di
Stanton non è solo una grande grafica, è soprattutto la storia di
una persona, nel dettaglio un pesciolino, che dopo una grande
sofferenza si chiude al mondo.
La storia di Marlin è sicuramente
più importante di quella di Nemo: se il piccolo viene rapito ed
allontanato dall’affetto del padre, Marlin dovrà affrontare non
solo i pericoli che l’oceano riserva ad un pesce da barriera
corallina, ma dovrà anche fare i conti con il passato, con
l’incolmabile perdita dell’amore e della famiglia, e soprattutto
con la paura di rimanere di nuovo e irrimediabilmente solo. E
proprio questa paura, più grande di quella per l’oceano, sarà la
molla che lo spingerà alla ricerca del figlio.
Alla ricerca di Nemo è un
film che emoziona tutti, grandi e piccini.
Inoltre, a parte la chiara
rappresentazione dei rapporti conflittuali tra genitori e figli,
Alla ricerca di Nemo è soprattutto basato su una
salda sceneggiatura, divertente e commovente, che raggiunge degli
accenti di delicato lirismo che è difficile da trovare anche nelle
commedie romantiche più brillanti. “Quando sono con te io mi sento
a casa”, frase che la smemorata Dory dice a Marlin nel momento in
cui la sta abbandonando, è probabilmente una delle dichiarazioni
d’amore più delicate e totali che il cinema abbia mai mostrato.
Difficile, ancora una volta, dire
che Alla ricerca di Nemo è un film per
bambini, potrebbe apparire riduttivo, oppure, al contrario,
potrebbe invece mostrare che la semplicità, l’immediatezza e la
sincerità di alcuni sentimenti possono essere raccontati solo
attraverso il linguaggio dell’infanzia.
Il film ha ricevuto l’Oscar come
miglior film d’animazione.
Assieme a
Steven Spielberg e allo sceneggiatore Ehren
Kruger entro la fine della settimana, si uniranno in un incontro
volto a fissare le prime idee sul terzo episodio della saga e,
soprattutto, le tempistiche. Questo ha comunicato Bay al curatore
del suo sito ufficiale:
Sinossi: Alla
Monster, ink si raccolgono grida di bambini per fornire energia
pulita a tutti gli abitanti di Mostropoli. I bambini non si
spaventano più come un tempo e l’industria minaccia di chiudere,
fino a che una bambina entrerà attraverso il suo armadio nella
città dei Mostri, scatenando il panico e insospettate
conseguenze.
Monsters & Co è divertente e
commovente
Analisi: Film
della ditta Disney e Pixar del 2001, Monsters &
Co è divertente e commovente anche per i più duri.
Nucleo della storia è il rapporto tra la piccola fuggiasca Boo e il
mostro spaventa-bambini Sulley che dalla paura passa all’affetto
attraverso una serie di gag da slapstyc che prendono il posto di
una narrazione più classica e convenzionale. Il film parte subito,
e prosegue in questo fiume di situazioni comiche fino alla fine,
con apice nella scena dell’inseguimento tra le ‘porte
scorrevoli’.
Il tema energetico, vagamente (ma
non troppo) ambientalista risulta un buon pretesto narrativo che
permette lo sviluppo di personaggi e situazioni interessanti, su
tutti il cattivissimo Randall, grosso lucertolone disgustoso e
camaleontico che esprime nelle sue doti corporee la sua ambiguità,
o la bisbetica Roz dalle sembianze di lumaca e l’aspetto da
segretaria arcigna.
Una divertentissima e
scanzonata storia di amicizia un po’ particolare
Monsters &
Coscorre veloce, il ritmo è incalzante e la
storia, come ogni Disney che si rispetti, è a lieto fine, senza
grossi scossoni. Divertentissima la scena ambientata in Nepal con
l’Abominevole Uomo delle Nevi in cerca di compagnia.
Monsters & Co candidato a tre premi
Oscar, si è aggiudicato la statuetta per la Migliore Canzone “If I
Didn’t Have You”. Curiosità: la Pixar non manca di auto citarsi,
con la presenza di Jesse (Toy
Story 2) e di Nemo (Alla
Ricerca di Nemo) tra i giocattoli della piccola
Boo.
La recensione
di Shrek la trilogia diretta da
Andrew Adamson & Vicky Jenso, Conrad Vernon, Raman Hui e
Chris Miller.
Sinossi: La quiete
di un orco di nome Shrek viene sconvolta dall’invasione della sua
palude di numerosi personaggi delle fiabe sfrattati dal perfido
Lord Farquaad. In cambio della sua palude, Shrek promette a Lord
Farquaad di salvare la sua promessa sposa, la principessa Fiona,
prigioniera in un castello, tana di un terribile drago. A dargli
manforte nella missione è Ciuchino, un asino parlante, loquace
tanto da farsi odiare da tutti, ma tanto da far innamorare di sé la
draghessa carceraria.
Quando i nostri eroi riescono
finalmente a salvare la ragazza e portarla al loro Signore, l’amore
fa breccia nel cuore del mostro e anche la bella di lui s’innamora.
Il finale non risulta per niente in linea con le classiche fiabe,
poiché la bella in brutta si trasforma, “e vissero per sempre
mostri e contenti”. Dal primo capitolo si passa ai successivi
nei quali Shrek deve fare i conti prima con i suoceri e con
un’ostinata Fata Madrina, poi, nel terzo capitolo, imparare
addirittura a diventare papà e ad accettare la sua vita
casalinga.
Shrek: La
Trilogia
Analisi:Shrek è una saga cinematografica d’animazione
prodotta dalla Dreamworks Animation basata
sul libro Shrek! di William Steig.
Shrek, prodotto e distribuito da
DreamWorks si pone come alternativa ai classici
Disney, riprendendoli e dissacrandone i principi di kalòs kaì
agatòs ai quali i bambini di tutti i tempi sono stati abituati.
Questa volta infatti i buoni non sono né belli né gradevoli,
essendo capitanati appunto da Shrek, un orco verde e scontroso
senza alcun ritegno e senza buone maniere. All’orco (questa volta
non cattivo) si affiancano dal primo film Ciuchino, petulante ed
irritante quanto divertentissimo asinello, e Fiona, principessa
maledetta da un sortilegio che si sciogli nel meno favoloso dei
modi: destinata ad avere ‘la forma dell’amore’, scoprirà, alla fine
del primo capitolo, che la sua ‘forma’ è quella di orchessa grossa
e sgraziata, e non quella di snella principessa delle favole.
Shrek 2 invece
vede i due orchi alle prese con la famiglia di lei, immaginate un
po’ che sorpresa per due sovrani perfetti vedere la propria figlia
sposata ad un orco! E se di morale si può parlare, nel secondo film
questa è sicuramente quella di essere fedeli a se stessi, qualunque
sia la propria apparenza, purché si stia dalla parte del bene.
Infondo, oltre a dissacrare la tradizione, Shrek non si spinge più
tanto oltre dopo il finale a sorpresa del primo film, facendo
trionfare ugualmente l’amore tra i due protagonisti.
Come è quasi ‘classico’ i cattivi
sono sicuramente i personaggi più interessanti, a partire dal
‘normale’ Lord Farquaard, al bel Azzurro (Principe) e a sua madre,
infida e spietata Fata Madrina.
New Entry notevole nel secondo
capitolo è Gatto con gli Stivali, divertentissima versione animata
del famoso personaggi delle favole che intenerisce e diverte allo
stesso tempo. A lui sarà dedicato uno spin-off che racconterà
probabilmente le sue avventure prima di conoscere Shrek. Ma non
soo, numerosissimi i personaggi delle favole, sia trai buoni che
trai cattivi: i tre porcellini, il lupo di Cappuccetto rosso,
Pinocchio Robin Hood, Peter Pan e tanti altri che hanno anche solo
una piccola particina o sono una comparsa…
Come tutte le saghe di successo
però si tende, qualche volta, a strafare, così anche per il nostro
amico verde il terzo capitolo, pur non rappresentando una delusione
economica, è sicuramente un fiasco dal punto di vista della
qualità. Sparati tutti i colpi brillanti, la storia si affolla di
personaggi in esubero, dagli alberi parlanti, alle Principesse
scatenate, fino ai piccoli e chiassosi pargoletti verdi e al
piccolo Re Artù che va nientemeno che al college. Troppe idee per
un solo film e troppi personaggi per una storia che, come ha
dimostrato il primo capitolo, si fa molto meglio con meno, data la
qualità dell’idea iniziale. Da un punto di vista tecnico, il
valore del film aumenta con il procedere degli episodi, e
l’animazione diventa sempre migliore, soprattutto nei dettagli,
come il pelo di Ciuchino e le espressioni dei personaggi.
Shrek è
stato il primo film d’animazione a vincere l’Oscar in questa
categoria per il 2002, anno in cui è stato istituito il premio.
Curiosità: Il film si basa sulla parodia di numerosi classici
Disney, mentre il volto del cattivo Lord Farquaad assomiglia a
quella dell’amministratore delegato della Walt Disney Company
Michael Eisner, che licenziò Jeffrey Katzenberg,
uno dei tre fondatori e amministratore delegato della
DreamWorks, dall’azienda di Topolino nel 1994.
Il grande successo ottenuto nel
2001 dal film ha lanciato la DreamWorks come la prima rivale della
Disney (in particolare della Pixar, ad essa legata) nel campo
dell’animazione, in particolare in quello dell’animazione al
computer.
La colonna sonora del film include
pezzi degli Smash Mouth, Eels, The Proclaimers, Jason Wade e Rufus
Wainwright. All’inizio del film, nella scena in cui si
celebrano le nozze tra Shrek e Fiona, si vede un fabbro che forgia
la Fede Nuziale, questa scena è un chiaro riferimento alla Trilogia
Il Signore degli Anelli. La scritta “Far far
away” (cioè “Molto molto lontano”) sulla collina antistante al
palazzo richiama Hollywood.
La Fata Madrina, durante il primo
dialogo con il re, fa fermare la carrozza per prendere del cibo ad
un fast-food simile al McDrive
Nella scena in cui la fata madrina canta insieme a Fiona nel
castello reale si nota chiaramente in uno specchio, l’immagine di
Carlo di Inghilterra.
All’inizio del film, durante la
rappresentazione del Principe Azzurro, il rumore dello zoccolio del
cavallo al galoppo viene simulato dallo sbattere tra loro di due
metà di noce di cocco, chiara citazione del film dei Monty Python:
Monty Python e il Sacro Graal.
La scena in cui
Shrek e Fiona vengono “tirati a lucido” ricorda il
film dei fratelli Farrelly Scemo e più scemo (il
taglio delle unghie di Shrek). Mago Merlino appare a Shrek
sotto forma di ologramma esattamente come il “profeta” che risponde
alle domande del piccolo bambino-robot nel film A.I. –
Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg, interpretato da
Jude Law e Haley Joel Osment.
Nel 2009 è entrato in cantiere la
produzione di un capitolo numero 4, anche se la
DreamWorks non ne ha ancora annunciato
l’uscita.
Saranno assegnati
durante la cerimonia che inizierà intorno alle 19:00 dalla Giuria
presieduta da Ang Lee il Leone d’Oro del miglior Film e gli altri
Premi della 66ma Mostra di Arte Cinematografica. Questo l’elenco
dei premi che sarà aggiornato con i nomi dei vincitori dai nostri
inviati al Festival.
Amore e morte in
una storia gay nell’esordio alla regia dello stilista Tom Ford,
oggi in concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Alla prima
proiezione stampa di questa mattina ‘A single man’ e’ stato accolto
con applausi, ma anche qualche dissenso. Il film, tratto dal
romanzo di Christopher Isherwood e ambientato negli anni ’60,
racconta l’elaborazione del lutto di un professore universitario
(interpretato da Colin Firth) che perde in un incidente d’auto il
compagno di vita.
Dopo il presidente venezuelano Hugo
Chavez, anche l’attore americano George Clooney e’ arrivato al Lido
di Venezia in elicottero. Con lui c’era la fidanzata Elisabetta
Canalis. I due sono scesi mano nella mano. Certa a questo punto la
presenza anche della showgirl italiana alla festa di domani sera ai
giardini del Casino’ di Venezia, per festeggiare la prima del film
Medusa fuori concorso ‘The men who stare at goats’, di Grant
Heslov, con Clooney ed Ewan McGregor protagonisti.
La recensione del film
d’animazioneAladdin
diretto da Ron Clements & John Musker e
targato Walt Disney Pictures.
Sinossi: La sorte
di un giovane vagabondo, Aladdin, si trasforma quando entra in
possesso di una lampada magica, nella quale è racchiuso un genio
onnipotente che può esaudire tre desideri. L’amore condurrà il
giovane poveraccio a recitare la parte del principe per far
innamorare la principessa Jasmine, ma dovrà fare i conti con il
perfido gran visir Jafar e con la sua brama di impossessarsi della
lampada magica.
Analisi:
Liberamente ispirato alla favola de Le Mille e Una
Notte, Alì Babà e i 40 ladroni,
Aladdin è una storia di amore e
avventura, ma anche amicizia e lealtà, che mostra nella maniera più
banale ma allo stesso tempo nella più efficace quanto sia
importante nella vita essere se stessi e quanto allo fine questo
paghi.
Aladdin: recensione del
film
All’inizio la struttura
si mostra come un racconto di racconto e presenta da subito le
parti: il perfido Jafar, che cerca disperatamente la lampada, e
subito dopo in una assolata Agrabah il giovane straccione che si
arrabatta per un tozzo di pane, e dopo tanta fatica lo divide con
due bambini altrettanto poveri. Il bene e il male nettamente
separati che non impediscono al film di mantenere il suo fascino,
immerso com’è in atmosfere orientali e comicità spiazzante
soprattutto da parte del Genio, splendidamente doppiato da
Gigi Proietti (Robin Williams in originale), che
non rinuncia anche all’aspetto più serio e problematico della sua
condizione di schiavo, sintetizzato nel memorabile “fenomenali
poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale”.
Coloratissima trasposizione di
un’antica leggenda, Aladdin è uno dei
primissimi film d’animazione in cui la Disney usa
la computer grafica, ancora rozza all’epoca specialmente nella
sequenza della caverna. Ma vero punto forte del film è la colonna
sonora, che racchiude i toni e le mille voci del film,
straordinaria, premiata con due premi oscar: Miglior colonna sonora
e Miglior Canzone Originale A Whole New World, in italiano
Il Mondo è Mio, sottofondo della bellissima sequenza del
giro del mondo sul tappeto volante.
Accanto al già menzionato genio,
vanno portati all’attenzione alcuni dei personaggi meglio riusciti
dell’intera filmografia disneyana: la scimmietta Abu e il tappeto
volante (scendiletto per Genio) che, come personaggi non parlanti,
esprimono di più di molti altri attori in carne e ossa, e
soprattutto Jago, perfido pappagallo aiutante di Jafar, davvero
esilarante.
Precursore delle trilogie oggi
tanto di moda, il primo Aladdin è stato seguito da due film, Il
ritorno di Jafar e
Aladdin e il principe dei ladri, entrambi
minori rispetto all’originale.
La recensione del film
d’animazione La Bella Addormentata nel
Bosco diretto da Clyde Geronimi
e con le voci di Mary Costa (Princess Aurora); Bill Shirley
(Prince Phillip); Eleanor Audley (Maleficent); Verna Felton
(Flora); Barbara Luddy (Merryweather); Barbara Jo Allen
(Fauna).
Ne La Bella
Addormentata nel Bosco Il Re Umberto e la sua Regina
danno alla luce una bambina, Aurora. Per festeggiare il lieto
evento, tutti i nobili del regno sono invitati ad omaggiare la
bimba, solo Malefica, oscura regina del male, non viene invitata.
La mancanza desta le ira della perfida regina che maledice la
fanciulla e la costringe a vivere isolata e lontana dai suoi
affetti più cari, sorvegliata e protetta dalle tre buone fate, fino
a quando Aurora non incontra uno sconosciuto nel bosco…
La Bella Addormentata nel Bosco, Uno
dei più grandi successi Disney di tutti i tempi
Uno dei più grandi successi Disney
di tutti i tempi, La Bella Addormentata nel Bosco
racchiude in sé tutti gli elementi della fiaba classica, disposti
in bell’ordine e perfetta successione, sino al lieto fine
immancabile. Per quanto lo stile dei disegni sia piuttosto
schematizzato, quasi geometrico, se si considerano le fattezze
delle tre fate buone, il film mantiene sempre il suo fascino di
sempreverde catturando i più piccoli, specialmente le bambine, con
l’etereo e per la verità piatto personaggio di Aurora, principessa
in difficoltà soccorsa da un bellissimo, e mai come in questo caso,
definito principe Filippo, raro caso di principe
Disney che gode di un nome.
Ma il vero pregio del film risiede
nel reparto magico: le tre fatine, Flora Fauna e Serenella, e la
splendida quanto perfida Malefica sono alcune delle figure più
riuscite di tutta la produzione disneyana, che oltre a conservare
la netta e classica divisione tra bene e male, regalano anche pochi
ma piacevoli momenti di ilarità, specialmente nella figura di
Serenella da un lato e in quella del ‘diletto’ corvo di Malefica
dall’altro.
Menzione d’onore alla colonna
sonora, in special modo alle voci dei due interpreti principali,
voci classiche e splendide come una volta il vecchio Walt era
solito far doppiare i suoi personaggi.
”Le emozioni prima di tutto” a
questo risponde la legge della Pixar, oggi Disney Pixar, secondo
John Lasseter. Il papa’ della Pixar ricevera’ oggi, con i colleghi
Peter Docter, Andrew Stenton, Lee Unkrich e Brad Bird, i Leoni
d’oro alla carriera. ‘Importa chi sei, non come usi la tecnica, ed
e’ questo che fa la differenza’, ha detto Lasseter sostenendo di
‘amare ogni tecnica d’animazione’, ma ‘la tecnologia e’ uno
strumento al servizio della storia, non viceversa’.
La recensione del film
d’animazioneLe Follie
dell’Imperatore di Mark Dindal con
le voci di David Spade (Kuzco); John Goodman (Pacha); Eartha
Kitt (Yzma); Patrick Warburton (Kronk).
Sinossi: Kuzco,
giovane e viziato imperatore di una civiltà ignota e fantastica,
viene trasformato per sbaglio in lama da Yzma, la sua perfida
consigliera che intendeva invece ucciderlo. Con l’aiuto
dell’allevatore Pacha, l’imperatore Kuzco farà di tutto per
ritornare alla sua regia e riacquistare le sue sembianze umane.
Le Follie dell’Imperatore:
recensione del film
Le Follie
dell’Imperatore, 40° lungometraggio di casa Disney,
si differenzia dai prodotti standard della famosa casa di
produzione ”per ragazzi” per l’atipicità della struttura e
soprattutto dei contenuti che si rivelano principalmente divisi su
due fronti: il lato comico, accentuato soprattutto dai personaggi
“cattivi” Yzma e Kronk, e il lato avventuroso, che si risolve in
inseguimenti e cacce al tesoro tipiche più dei personaggi animati
della Warner Bros che degli eroi Disney.
Il punto forte
de Le Follie dell’Imperatore è senza
dubbio il lato comico che nella persona di Kuzco raggiunge picchi
addirittura sarcastici, più adatti sicuramente ad un pubblico
adulto che a bambini. La cura del dettaglio e dei caratteri fa di
Le Follie dell’Imperatore uno dei film più interessanti del
panorama Disney, proprio per l‘atipicità che lo contraddistingue,
l’irriverenza che fa le boccacce a tutte le romantiche ed eroiche
storie fino ad ora proposte, ma che non rinuncia nel finale al
buonismo del viaggio di iniziazione durante il quale il giovane e
viziato imperatore impara ad apprezzare il valore dell’amicizia e
della semplicità, l’umiltà di essere una persona normale pur
essendo imperatore, la capacità di prendersi le proprie
responsabilità senza demandare ad altri i propri doveri.
A metà strada tra
La Bella e La Bestia e
Il Re Leone, strizzando l’occhio al pubblico, al
quale spesso si ci rivolge direttamente, Le Follie
dell’Imperatore, è un piccolo gioiello nella
sterminata e preziosa produzione Disney, che
diverte senza pretendere. Notevole nella traduzione italiana il
doppiaggio della Marchesini per il bellissimo personaggio di
Yzma.
Dopo l’annuncio del presidente di
giuria della prossima edizione, oggi si è svolta a Roma la
conferenza di presentazione del programma della Fondazione Cinema
per Roma del 2010, che culminerà con la V edizione del grande
evento internazionale.
Susan Sarandon e
Wes Anderson, Isabella Ragonese e
Alba Rohrwacher, anteprime cinematografiche per il
pubblico e per le scuole. La Fondazione Cinema per Roma inaugura
nel 2010 un programma di attività che si svolgeranno durante tutto
il corso dell’anno e che anticiperanno la quinta edizione del
Festival Internazionale del Film di Roma (28 ottobre – 5
novembre).
Dopo la la
recente esclusione dalla corsa all’Oscar per il miglior film
straniero, Giuseppe
Tornatore, per il regista arriva ora una
notizia che avrà sicuramente un effetto balsamico sul suo ego.
Il regista siciliano è stato infatti scelto per presiedere la
Giuria Internazionale del Festival del Film di Roma
2010, che si svolgerà dal 28 ottobre al 5 novembre.
Si è
tenuta stamattina la conferenza stampa di bilancio per la IV
edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Erano
presenti Gian Luigi Rondi (presidente), Piera Detassis (direttore
artistico), Roberto Cicutto (Direttore del Mercato Internazionale
del Film di Roma) e Francesca Via (Direttore generale).
Con le
proiezioni dei film vincitori, che si stanno tenendo oggi, si
può considerare davvero finita la IV edizione del Festival
Internazionale del Film di Roma. E’ tempo di bilanci dunque, non
solo quelli dei numeri, che la Fondazione ha reso pubblici già ieri
in serata, ma anche quelli di gradimento verso un evento che tanto
coinvolge la città e il pubblico.
Cominciamo quindi dai numeri. A partire dal budget complessivo
di quest’anno 12.5 mln rispetto ai 15.5 della scorsa edizione e dal
numero degli accreditati (7.720 quest’anno, 7.558 nel 2008) si
possono tirare già le prime somme ‘economiche’ di un evento che,
stando ai dati resi noti, è andato abbastanza bene.
Si è conclusa stasera la quarta
edizione del Festival del Film di Roma. Alla cerimonia di
premiazione super affollata, hanno potuto partecipare tutti i
possessori di biglietto e pochi fortunati accreditati messisi in
coda circa due ore prima dell’inizio dell’evento.
Premiato un gran bel film danese,
Brotherskab. Per gli attori la Mirren e il nostro Castellitto hanno
ricevuto il riconoscimento come migliori attori nella categoria dei
film in concorso della selezione ufficiale.
D: Partiamo della genesi di questo
tuo sequel di “Scusa ma ti chiamo amore”. Qual è stato il tuo
obiettivo?
FEDERICO: “Scusa ma ti voglio sposare” è un film che cerca di far
convivere al meglio dinamiche di coppie che rappresentano gli
elementi più diversi dell’amore: la passione, la voglia di buttarsi
in una nuova storia,
Scusa ma ti voglio
sposare è il seguito della storia d’amore tra Alex
(Raoul Bova),
pubblicitario trentanovenne di successo, e Niki (Michela
Quattrociocche), ora ventenne, conosciuta in un incidente
stradale. AI faro si sono promessi amore eterno, e adesso, dopo 3
anni, Alex capisce che nonostante la differenza di età, lei è la
donna che vuole sposare. Ritroviamo i loro amici di sempre, ognuno
con le proprie storie, ognuno con le proprie attività, ognuno a
confronto con la propria crescita, i propri sogni e progetti per il
futuro. Alex chiede a Niki di sposarlo, e lei, all’inizio felice,
con l’avvicinarsi della data, sente una paura crescente che le fa
fare un passo sbagliato: manda a monte il matrimonio.
E’ sicuramente difficile recensire
un film di Federico Moccia senza passare per
superficiale, anche perchè volente o nolente il buon Moccia si è
inserito velocemente nella sacra triade italiana dei registi più
criticati assieme a Vanzina ed a Muccino. Ed è proprio a
quest’ultimo che questo Scusa ma ti
voglio sposare sembra fare il verso ora che Alex
e Niki vogliono convolare a nozze.
Indubbiamente il regista scrittore
ha il merito di aver riportato in massa gli adolescenti al cinema e
sui libri e di aver messo in discussione il loro universo in
relazione anche ai genitori che si sono sentiti in un certo qual
modo messi sotto osservazione. Ciò non toglie che fare cinema
è un arte e presuppone la crescita di un artista di pellicola in
pellicola e non una serie di storie in antitesi con la parola
evoluzione e crescita artistica. Fondamentalmente la coppia
protagonista non è più così al centro dell’attenzione come nel
prequel, attorno a loro vive un sottobosco di personaggi (amici di
lei e di lui) in piena crisi di coppia o di identità.
Così come sottolineato dallo stesso
regista scrittore in sede di intervista, si è voluto dare spazio a
tutti i personaggi del libro cercando di mantenere il film snello e
breve per non appesantire lo spettatore, purtroppo il tutto è visto
con poca profondità, senza svelare cambiamenti, percezioni, paure
che nella vita di una persona sono basilari e meriterebbero ben
altra analisi, ecco quindi che il tutto assume le sembianze di un
frullato mal congegnato e pieno di stereotipi tra l’altro (le
divergenze tra le famiglia ricca di Niki e quella popolana di Alex
ad esempio). Non sembrerà quindi strano veder tornare
all’unisono i quattro amici quarantenni dalle loro amate, spinti,
si direbbe dal film, esclusivamente dalla pochezza della loro vita
insieme in un appartamento di uno di loro.
Moccia si avvicina
a Muccino quindi? Sicuramente il romanticismo esasperato della
prima pellicola qui viene messo in secondo piano dando spazio
principalmente ai dubbi ed alle perplessità di chi sta per compiere
un passo fondamentale nella sua vita, sia essa una gravidanza, un
matrimonio o un divorzio, una pellicola quindi che punta ad
un target più eterogeneo rispetto a Scusa ma ti chiamo
amore.
Ogni tanto la luce si accende con la
gag ben congegnate di Pino Quartullo, qui nei panni di Roberto il
padre di Niki, che qualche risata riesce a strapparla senza
problemi, ma è troppo poco in un film che vuole far riflettere
sulla vita di coppia ma non dà gli elementi per farlo.
I numeri degli incassi precedenti
parlano da soli e sicuramente spianeranno la strada per ulteriori
pellicole sulla stessa falsariga, gli integralisti del cinema
“mocciano” apprezzeranno appieno anche questa nuova creatura del
Federico nazionale, chi invece non ha mai gradito l’immobilismo
artistico e la povertà di contenuti del regista romano ne stia
tranquillamente alla larga.
E’ una Jessica Hausner allegra e loquace quella che si presenta
alla Casa del Cinema in Roma forte anche delle critiche molto
positive che sta ricevendo il suo “Lourdes” in giro per il
mondo.
Ad accompagnarla, il Presidente nazionale dell’Unitalsi Antonio
Diella e il distributore e amministratore delegato di Cinecittà
Luce Luciano Sovena.
Prima di ogni cosa,
Paranormal Activity è senza alcun dubbio l’esempio
più eclatante di come una sana e costruttiva campagna virale possa
essere remunerativa sul piano degli incassi e eccezionale sul piano
dell’attenzione proiettata verso il titolo. Detto ciò, fermo
restando che non è un cattivo film per chi fosse alla ricerca di
facili emozioni , va anche detto che non vale la nomea di
nuovo Blair Witch Project e senz’altro in
nessun caso, né nell’uno né nell’altro si è stati e si è di
fronte al miracolo. Per molti motivi.
Uno. Se nel primo
caso si era di fronte ad un nuovo e sensazionale modo di vedere il
cinema e la visione, in questo caso siamo già ad un quinto/sesto
tentativo in pochi anni. Due. Anche se il film
presenta alcune sequenze molto efficaci e sorprendenti non è per
nulla dotato di una struttura narrativa ,perlomeno sostenibile per
86 minuti. Tre. Visivamente parlando dice tutto di
già visto e nulla di veramente nuovo. Nessuna qualsivoglia
caratterizzazione dei personaggi.
Traendo le conclusioni verrebbe da
chiedersi se questo non è solo il frutto di un sorprendente e
divino piano commerciale messo in atto, e che in sostanza, levando
il fumo non vi sia nient’altro da mettere sotto i denti ma soltanto
misere briciole da sgranocchiare.
Paranormal Activity, il film
Di un film come questo, a low
Budget, ci si aspetta almeno nella parte narrativa e registica il
moto pulsante del racconto, ma è proprio in questo il limite
maggiore per il film. Totalmente privo di una vera e propria
struttura (si ha la sensazione di vagare fra atteggiamenti, attimi
ed emozioni totalmente slegate le une dalle altre), sicuramente
avrebbe aiutato o quanto meno non sarebbe stato male
aggiungere qualche altro personaggio, a parte la figura dello
studioso che forse non è sfruttata al meglio. Invece, si ha
solo la geniale intuizione di soffermarsi (mentre si è nel pieno
della notte in una camera) sul quel bel espediente che è il
fuoricampo e che gente come Shyamalan, Hitchcock, lo
stesso Spielberg, Polanski, hanno
reso terrificantemente sublime. Qui diventa a tratti interessante,
ma poi senza sostegno narrativo si perde su se stesso e diventa
frutto di un protrarsi dell’attesa che rivelerà solo gli ultimi
buoni dieci minuti di paura.
La più grande delusione di
Paranormal Activity, è proprio nell’aspettativa
che tenta di creare e che si concretizza solo come suddetto in
un’unica bella sequenza. Pochissimo per un film che attraverso il
fuoricampo dovrebbe creare un crescendo di tensione insostenibile e
che dovrebbe culminare con il momento rivelatore per l’intera trama
e il film. In sostanza l’unica nota positiva che si ha è il finale
che non risulta per niente scontato e che forse diventa l’unico
momento in cui il fuori campo diventa insostenibile.
Dopo una sfilza di premi ricevuti
in giro per l’Europa tra i quali, ahimè, è mancato quello a
Venezia, sbarca l’11 febbraio 2010 (stesso giorno della prima
visione di Bernadette a Lourdes) nei cinema nostrani l’ultima
creatura di Jessica Hausner, talentuosa regista austriaca arrivata
al suo terzo lungometraggio. Lourdes è la
storia di Christine che trascorre la sua vita su una sedia a
rotelle a causa di sclerosi multipla. Recatasi a Lourdes per un
pellegrinaggio religioso, si scopre dopo pochi giorni miracolata ed
in grado di camminare.
Christine dovrà quindi affrontare
la gelosia e l’ammirazione degli altri pellegrini ma anche l’amore
di un affascinante membro dell’Ordine di Malta, che incomincerà a
interessarsi a lei dopo la miracolosa guarigione. Allo stesso
tempo il comitato medico preposto all’esame dei presunti miracoli,
resta incerto in quanto la malattia alla quale è soggetta la
ragazza è imprevedibile e legata anche a rapidi quanto brevi
miglioramenti. Già dal precedente film “Hotel”, la Hausner
sembra prediligere ambienti chiusi e situazioni soffocanti, non a
caso entrambe le protagoniste sotto una parvenza distaccata
nascondono un animo sensibile ma anche forte.
Lourdes
pone interessanti questioni senza però conferirne un aspetto
preciso ma preferendo stimolare nello spettatore una riflessione
sui contenuti filosofici – religiosi del lungometraggio. La
protagonista Christine non esce mai di casa, le uniche possibilità
di “svago” sono i viaggi di pellegrinaggio.
Con uno spirito disincantato e non
profondamente devoto affronta il viaggio a Lourdes con le
insicurezze tipiche di chi vive in uno stato di disabilità e non
riesce a trovare le risposte nella chiesa. “Perché è successo
proprio a me?” – “Perché alcuni guariscono e altri no?” , il
lungometraggio ci mostra crudelmente come un prete che accompagna
il gruppo della ragazza non riesca a trovare risposte esaurienti a
questi quesiti, risultando spesso evasivo e involontariamente
ironico.
“Se il Signore è buono e
contemporaneamente onnipotente perché non guarisce tutti? Forse non
è buono ma cattivo” questo si chiede uno dei tanti credenti accorsi
nelle piscine miracolose di Lourdes, la Hausner ci trasmette quindi
tutte le perplessità di chi, magari anche più volte all’anno,
compie viaggi della speranza e col tempo vede scemare quest’ultime,
ma ci mostra anche l’ipocrisia di tanti che a dispetto di dettami
cattolici ben precisi non si fanno problemi a sbeffeggiare il
prossimo se “miracolato”, il tutto è girato con tanta naturalezza e
originalità con uno stile che ricorda molto Dreyer e Bresson ma
anche Bunuel citato dalla stessa regista.
Lourdes
Maria, una giovane e bella
volontaria che accudisce Christine durante tutte le giornate a
Lourdes è l’archetipo della sua vita ideale, socievole e allegra,
preferisce frequentare i suoi coetanei, è attratta
dall’affascinante guardia dell’Ordine di Malta ed è sfuggevole nei
confronti della malattia della protagonista, durante il film
l’invidia farà un tragitto andata e ritorno nel rapporto tra i due
personaggi e Christine si appoggerà alla signora Hartl, burbera e
solitaria vecchietta senza alcun malanno fisico che tenta a Lourdes
di ritrovare un senso alla sua vita o quella che nel film viene
sbandierata più volte come “cura dell’anima” dal sacerdote di
turno.
Alla fine Christine, nonostante un
repentino peggioramento delle sue condizioni fisiche, sentirà la
necessità di non abbandonare i suoi sogni e di credere nel
“miracolo”, mantenendo intatto la positività che l’aveva
contraddistinta.
Bangkok Dangerous – Il
codice dell’assassino rappresenta l’ennesima operazione
(fallita) di remake di film asiatici made in USA. Il film infatti
ricalca l’omonimo film del 1999, anch’esso diretto dai fratelli
Pang (Oxyde e Danny).
Certo, tra il film di dieci anni fa
e questo, le differenze di budget sono evidenti. Basti ricordare
che il ruolo del protagonista – Joe – è interpretato dal
pagatissimo Nicolas
Cage. Non è difficile immaginare – leggendo il
titolo – che lo scenario del film sia proprio Bangkok. In questo
paradiso arriva il killer professionista Joe, ingaggiato dal boss
Surat per fare fuori quattro suoi antagonisti.
Bangkok Dangerous
Per portare a termine la sua
missione, Joe decide di assoldare il ladruncolo Kong. La svolta
sarà l’incontro con la farmacista sordomuta Fon, della quale Joe si
innamora. E tanto basta per fargli mettere in discussione il suo
modo di vivere schivo e solitario. Le vicende si complicano quando
il boss Surat decide di liberarsi di lui.
Bangkok Dangerous – Il
codice dell’assassino è un film brutale, crudo, che non si
fa mancare momenti di puro splatter. La produzione hollywoodiana e
la sceneggiatura rivisitata da Jason Richman, non
arricchiscono la pellicola del 1999. Ritmo e tensione infatti
appaiono pressoché identici, anche se per quanto alcune scene siano
inverosimili, la spettacolarità non manca.
La trama è già vista: uno spietato
killer in piena crisi esistenziale si redime e trova anche l’amore.
Banale, troppo. Neanche
Nicolas Cage appare in gran spolvero. In evidente
imbarazzo, Cage risulta pesante e poco credibile. Un remake
evitabile, che consiglio di evitare.
Dagli anni ’60 con i primi dischi,
agli anni ’80 con la serie aniata fino al 2007 con il primo
lungometraggio a loro dedicato Alvin, Simon e Theodore sono dei
Chipmunks di successo, vuoi per la loro età che abbraccia più di
una generazione, vuoi per il loro innato talento a cacciarsi nei
guai. Ed ora eccoli in un nuovo Squeakquel in Alvin
Superstar 2, non un sequel o un prequel, ma qualcosa
di personalizzato nel quale, dopo una prima esperienza in
solitaria, ritornano sul grande schermo con le Chippettes, il loro
corrispetivo al femminile, grintose colorate e…neanche a dirlo,
canterine.
E fondamentalmente questo secondo
film dedicato alle stelline del rock si riduce a questo, l’incontro
tra i due schieramenti e il conseguente, sebbene breve, scontro che
porterà poi all’inevitabile amicizia tra ‘maschietti e femminucce’.
Non c’è niente che non ci sia già stato, nè altre cose in più: solo
i piccoli scoiattolini che si affacciano alla vita degli umani,
vanno a scuola e affrontano le loro paure, sempre cercando di
tenere unita quella loro famiglia atipica ma affiatata.
Alvin Superstar
2
Di più e più lunghi i numeri
musicali, perchè se nel primo film erano in tre, adesso sono in sei
a far ballare ugole e piedini sulla scena. E se è vero che
Alvin Superstar 2 presenta una
sceneggiatura quasi abbozzata che lascia correre gli eventi senza
una vera e propria sostanza, è pur vero che i personaggi hanno il
loro fascino, sono pur sempre dolci e piccoli batuffoli di pelo e
si potrebbe essere nel giusto se si afferma che nonostante i
citrici più snob possano storcere il naso, il film porterà al
cinema un bel po’ di gente.
Prendendo in considerazione l’idea
che mai come adesso siamo di fronte ad una contaminazione fra due
tipologia di film ben differenti (Fiction e Doc), e fermo restando
che nella storia questa pseudo contaminazione era già avvenuta a
vari livelli sia da una parte che dall’altra, ecco ora siamo
davvero arrivati ad un inedita estensione di questa contaminazione
dove la realtà e la finzione si mischiano in maniera totalmente
angosciosa ed inquietante. Avevamo ampiamente avuto modo di vedere
esempi quali District
9 e Cloverfield, ma
Il quarto tipo è qualcosa che va oltre la
rappresentazione stessa della storia in modalità documentaristica,
qui siamo di fronte all’utilizzo vero e proprio di materiale
registrato dalla protagonista della storia che anch’essa appare nel
film intervistata dal regista stesso della pellicola e che nella
finzione è interpretata da Milla Jovovich.
Il quarto tipo, tra doc e
fiction
La storia è quella di una psicologa
americana – Abbey Tyler- che durante una ricerca su una serie di
disturbi del sonno che affliggevano alcuni abitanti della città di
Nome, in Alaska, si trovò di fronte a una serie di coincidenze
inspiegabili e fu vittima in prima persona di eventi
particolarmente traumatici.
Durante il suo studio la dottoressa
Tyler registrò molte delle sedute di ipnosi con supporti audio e
video che il regista abilmente e in maniera del tutto inedita,
monta ed accosta in modo diretto (tramite lo split screen) con la
ricostruzione cinematografica, quasi a voler creare una sorta di
parallelo fra il mondo reale e quello di finzione, in cui il labile
confine che divide i due mondi diventa pressoché inesistente. In
questo caso siamo di fronte ad un film che è visibilmente tratto da
una storia vera, senza nessun affabulazione di sorta. E la
sensazione è quella di non potersi dissociare dal film e dalla sua
rappresentazione, perché non è finzione.
Il risultato è un’opera che, a
prescindere dalle opinioni in merito al tema dei rapimenti alieni,
è profondamente inquietante e riesce ad aprire la porta a dubbi e
interrogativi che l’uomo e la nostra società bigotta cercano di
accantonare e di rimuovere o ancor peggio di nascondere. Sotto
l’aspetto linguistico, il film segue un buon ritmo sin dall’inizio,
veicolando abilmente (va detto)la tensione dello spettatore,
fortemente incuriosito (paurosamente) dal materiale della
psicologa, soprattutto dall’intervista con la vera Tyler che come
una voce narrante racconta gli accadimenti così come sono avvenuti.
Ma ancor più interessante è il fatto che di fronte a tutto ciò, il
film non cerca mai di giudicare o di prendere una posizione netta e
chiara. Per spiegare ciò la frase di chiusura è emblematica:
“Alla fine siete voi padroni di credere o non credere”.
Con quest’ultimo accenno, con astuzia e caparbietà,
Osunsanmi lascia a noi la facoltà di esprimerci,
rendendo il gioco ancora più indecifrabile e rendendo l’Audiance
tremendamente attivo.
In chiusura, il riferimento alla
pazzia o comunque al malessere interiore dei protagonisti e le
continue panoramiche sulle montagne innevate e l’ambientazione in
genere, rimandano a quelle “….montagne della follia” ed al genio
del suo autore, H.P. Lovecraft, padre
incontrastato di certa letteratura fantastica.
C’era una volta Sigmund Freud che
nella sua opera “Totem e tabù” dichiarava: «l’uomo civile ha
barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di
sicurezza» – sicurezza che in Surrogates gli uomini sembrano aver
trovato in macchine che rispecchiano i loro canoni estetici e se ne
vanno in giro in loro vece a vivere la vita, mentre l’operatore,
comodamente rilassato nell’imperturbabilità della propria casa,
controlla ogni sua movenza. Il mondo dei
replicanti prende le mosse dall’uccisione del figlio
del dottor Lionel Canter (James Crownell), uno dei principali
artefici del progetto Surrogates. Sulle tracce del suo assassino,
si mettono i detective dell’FBI
Greer (Bruce
Willis) e Peters (Radha Mitchell) che
indagheranno sui segreti della VSI, azienda produttrice dei
robot-surrogati.
In un mondo ormai privo di crimine,
una serie inaspettata di morti di operatori, collegati al proprio
surrogato, desta non poche perplessità, generando psicosi. Si è
diffuso un virus che mette a rischio la vita degli operatori e dei
surrogati a loro connessi. Le vicende del detective Greer si
intrecciano con la sua vita personale, in particolare è in
primo piano il rapporto conflittuale con la moglie Maggie (Rosamund
Pike), ormai intrinsecamente legata a proprio
surrogato.
La donna entra in crisi proprio
quando un malvivente distrugge il suo “replicante”, costringendola
a ritornare alla vita fuori dalla sicurezza di casa sua. Maggie è
così costretta a tornare sulla strada e a mettersi alla ricerca
della verità. In questo mondo di automi, la minaccia non viene da
un altro pianeta. Il nemico non è l’alieno malvagio che vuole
impadronirsi del nostro pianeta (come in “La guerra dei mondi”), il
nemico – in questo caso – è dentro di noi ed è, quindi, più
pericoloso: siamo noi stessi che abbiamo deciso di non vivere la
nostra vita e delegato macchine “perfette”, ma senz’anima, a farsi
carico dei rischi della quotidianità.
Il mondo dei
replicanti diretto da Jonathan
Mostow, è uscito nelle sale italiane l’8 gennaio di
quest’anno ed è subito entrato nella classifica dei primi dieci
film del mese più visti al cinema. Mostow vince al botteghino,
confezionando un buon action-movie adrenalinico, che – tuttavia –
vede nella povertà di spunti introspettivi e nella superficialità
dell’analisi di tematiche antropologiche il suo più grande
limite.
Il vincitore della seconda edizione
del Festival di Roma,
Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico
capitolino con una commedia (Tra le
nuvole) dal gusto vagamente cinico e decisamente
disincantato insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del
Festival per The Departed.
In Tra le
nuvole Clooney è un uomo che si occupa di licenziare
impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese
e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello
squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua
vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia
piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il
suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto
di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro
con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di
scapolo impenitente.
Tra le nuvole – recensione del film
di Jason Reitman
Scrivendo magistralmente e
dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro
film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con
leggerezza. Come già ci ha abituati in passato con
Juno e Thank You for
Smoking, Reitman constuisce la
storia su solide premesse (in genere la presentazine del
personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi
comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa
presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale
a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per
questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con
l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento è il film cult del 1973 diretto da
Renato Polselli e vede protagonisti nel cast gli
attori Rita Calderoli, Mickey Hargiay, Consolata
Maschera.
Riti magie nere e segrete orge nel
trecento, la trama
A dispetto del titolo, il film non
si svolge nel trecento ma nel contesto contemporaneo; nei
sotterranei di un castello si compiono numerosi omicidi sacrificali
e riti segreti atti a risvegliare la strega Isabella, morta sul
rogo secoli prima.
Riti magie nere e segrete orge nel
trecento, l’analisi
Polselli, regista prolifero dedito
al genere erotico, si prodiga questa volta verso il l’horror, non
esente ovviamente da contaminazioni del genere a lui caro;
l’elemento “osé” è ora marginale e ora protagonista, in sequenze
sminuite da una vena comica-probabilmente attuata per aggirare la
censura-e di debole impatto visivo.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento, girato nella duecentesca cittadina de
L’Aquila, vive delle suggestioni suggerite dalle ambientazioni
medievali, che si confanno al classico intreccio che muove il film:
streghe e magie tornano dunque a vivere-e morire- all’interno delle
mura del castello abruzzese.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento oscilla tra horror ed erotismo: la
chiave del tutto risiede nel “piacere pazzo che uccide”, frase
emblematica(anche se pronunciata in un contesto recitativo
piuttosto scandente), che giustifica la presenza dei due generi di
cui sopra, i quali vanno a compenetrarsi in maniera piuttosto
equilibrata e talvolta seducente.
Nella trama classica, la mancanza del regista, sta nel momento in
cui egli ricade nei cliché del genere: uomini con ridicoli mantelli
e fulmini a ciel sereno imperano all’interno del film, creando
talvolta momenti che sfiorano il ridicolo; a proposito di ciò non
bisogna dimenticare che la tradizionale trama del La maschera del
demonio, non aveva impedito a Mario Bava di costruire un film
assolutamente innovativo, sia nell’eleganza formale sia nelle
tematiche.
Nonostante tutto all’interno del
film non mancano sequenze seducenti, come il rogo delle donne da
parte degli abitanti del paese, che contribuisce a creare un
continuum tra passato e presente; bisogna inoltre riconoscere
il fascino del montaggio(merito dello stesso regista), che alterna
immagini sacre e profane attuando contrasti visivi
suggestivi, sminuiti però dalla ridondanza con cui viene ripetuto
ed ostentato e dai colori pop che spesso stonano inesorabilmente
con l’ambientazione. Un prodotto tuttavia personale,
sicuramente apprezzato dai fautori del genere.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento, curiosità
Curiosità: il film è stato
realizzato nel 1971, inizialmente con il titolo La reincarnazione;
distribuito nelle sale soltanto due anni dopo, pensato per
inserirsi nel genere decamerotico che in quegli anni imperava;
Polselli si firma con lo pseudonimo Ralph Brown; Riti
magie nere e segrete orge nel trecento è conosciuto
anche come The Ghastly Orgies of Count Dracul; La reincarnazion;
Black Magic Rite:Reincarnations; The Reincarnation of Isabel.
Ritrovatasi a vivere in uno
squallido condomino abitato da strani soggetti, Nell comincia
subito ad avvertire qualcosa di strano all’interno del palazzo. Le
persone cominciano a sparire, e sarà proprio lei a rendersi conto
degli omicidi che stanno avvenendo, e ad indagare sulle
sparizioni.
La casa dei massacri –
Analisi
I modelli precedenti sono
chiaramente l’omonimo The toolbox murder (tradotto
in italiano come Lo squartatore di Los Angeles), Non aprite quella
porta, e suggestioni polanskiane derivate da
L’inquilino del terzo piano.
Con il primo condivide
la scelta delle armi dei delitti che danno nome al film; con il
secondo il volto sfigurato dell’assassino e alcune situazioni (mal
riproposte) concernenti i delitti e la vena – vagamente –
splatter; con il terzo alcuni condizionamenti enigmatici e
circostanze misteriose. Peccato che il film risulti essere un
impasto di elementi e di intuizioni sconclusionate fine a se
stesse.
Se da una parte Hopper verte sulla
costruzione di un film a carattere investigativo, seminando indizi
– talvolta – con probabili significati esoterici, richiamando
appunto l’ambiguità del regista di Rosemary’s
baby, dall’altra pare voler tornare sui suoi passi, verso
quel genere slasher e quelle esperienze sanguinolenti che lo
avevano reso noto. Ciò porta evidentemente ad un incoerenza di
fondo: il film non vive né delle – poche -sequenze splatter, né
della suspence che il regista vorrebbe creare tramite le indagini
della protagonista(un’ottima Bettis che purtroppo da sola non
basta).
Il finale de La casa dei
massacri infatti sfiora il ridicolo, laddove non ci
viene effettivamente spiegata la valenza dei simboli che
incontriamo durante il percorso, e insoddisfacente dal punto di
vista prettamente horror. La fotografia quasi televisiva aumenta lo
sgomento che si prova di fronte a tale prodotto: non ci è chiaro a
cosa stiamo assistendo, visto che in ogni caso il film non sembra
procedere lungo una linea coerente e sensata.
Ma le riflessioni del regista si
fanno interessanti per quanto riguarda la scelta
dell’ambientazione: se il Lusman Building era in origine dedicato
ad accogliere star di Hollywood, ora si ritrova ad ospitare falliti
di ogni specie ed enigmatici vecchietti attaccati ai loro piccoli
momenti di gloria (in tal caso Rance Howard, padre del Ron regista
e attore) Hooper sembra meditare sul fascino
della decadenza e del degrado, purtroppo accennando soltanto allo
spunto senza approfondirlo in nessun senso. Lo stesso assassino si
rivelerà un essere in cerca di sangue che lo liberi dal degrado
fisico, metafora forse di molto atteggiamento divistico con cui
vengono solitamente dipinte le stelle morenti del grande schermo.
Ma anche questa riflessione rimane un mero suggerimento per nulla
sviscerato e approfondito ribadendo la natura vaga ed effimera del
film.