Ieri vi abbiamo dato una primissima e approssimativa stima dei nomi di attori e attrici che potrebbero concorrere alla nomination per migliori non protagonisti.
Kate Winslet è una Dama di Gran Croce
La bella e bravissima Kate Winslet, che tutti abbiamo conosciuto e un po’ odiato per aver fatto morire congelato il povero Jack Dawson (DiCaprio) in Titanic,
Di nuovo in Gioco: recensione del film di Robert Lorenz
Arriva al cinema Di nuovo in Gioco, il film diretto da Robert Lorenz con protagonisti nel cast Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake.
In Di nuovo in Gioco Gus Lobel (Clint Eastwood) è uno scout degli Atlanta Braves, squadra professionistica di baseball della Major League Baseball, nonché uno dei migliori scout di sempre. L’avanzare dell’età e dei problemi alla vista lo costringono però a farsi aiutare dalla figlia Mickey (Amy Adams), con la quale non è mai stato in buoni rapporti, per andare in Nord Carolina ad esaminare una nuova promessa. A complicare la situazione ci sarà Johnny Flanagan (Justin Timberlake), scout di una squadra avversaria che si innamora di Mickey. Il viaggio insieme permetterà a padre e figlia, nonostante le differenze, di comprendere reciproche verità rimaste nascoste per troppo tempo.
Fedelissimo collaboratore del grande Clint, Robert Lorenz ha finalmente portato sullo schermo il suo primo film da regista, dopo anni di seconda unità per l’autore di Million Dollar Baby e Mystic River. Per Lorenz, Clint ha addirittura infranto la sua promessa che lo voleva “finito” come attore dopo Gran Torino, ed è tornato a recitare per un amico che lo ha trasformato in un insopportabile vecchio bisbetico patito di baseball e incapace di accettare la vecchiaia che avanza.
Accanto a Eastwood, Lorenz ha raccolto due dei giovani attori più talentuosi della loro generazione: la rossa Amy Adams, già balzata agli occhi dell’Academy e in continuo miglioramento anche in ruolo non troppo impegnati; e Justin Timberlake, l’ex cantante che sta collezionando sempre più ruoli di vario genere, con costante bravura. E’ certo che Eastwood sia rientrato, letteralmente, in campo solo per far felice ed aiutare il fedele assistente, ma è pur vero che come interpreta il vecchio burbero lui, non ci riesce nessuno, soprattutto se affiancato da un giocondo John Goodman sempre in vena di sorrisi e pacche sulle spalle.
La storia, che mescola film sportivo a dramma familiare con tanto di appendice romantica, è ben raccontata, con personaggi adeguati e attori in parte. Di nuovo in Gioco, come al solito assurdo titolo italiano di Trouble with the Courve, è un film che procede senza grosse emozioni, un po’ sonnolento nella parte iniziale, che ricorda per tema e ambientazione il recente, e di tutt’altro livello, L’arte di Vincere – Moneyball con Brad Pitt, e che porta di nuovo sullo schermo uno sport amatissimo oltreoceano ma che da noi fatica ad affermarsi contro le tarature calcistiche dell’italiano medio.
Il plot principale relativo al baseball e al rapporto padre/figlia, viene messo da parte per poco tempo a favore di quello romantico, gestito dalla coppia Timberlake/Adams,. Ma quello che si evidenzia, soprattutto nel finale, è che la storia, costruita sul personaggio di Gus, e sul suo rapporto con il baseball e con Mickey, poteva rimanere in piedi anche senza il belloccio di turno. Di nuovo in gioco è una commedia a sfondo sportivo/sentimentale che intrattiene senza emozionare. Non il miglior film dell’Eastwood attore, ma nemmeno il peggiore.
Dune recensione del film di David Lynch
Dune è un film del 1984 diretto da David Lynch e con protagonisti un cast composto da Kyle MacLachlan, Freddie Jones, Max von Sydow, Josè Ferrer, Sean Young, Francesca Annis, Patrick Stewart, Virginia Madsen, Sting e Silvana Mangano.
Trama: In un futuro
remoto (siamo oltre l’anno 10.000), l’umanità si è diffusa in lungo
e in largo per il cosmo: a contendersi il potere, con dinamiche che
ricordano quelle dell’età degli imperi, a cavallo tra il Medioevo e
l’età moderna, sono una serie di ‘casate’ ognuna delle quali
insediata su un proprio pianeta.
Gli equilibri di potere si giocano sul controllo di una sostanza particolare, la Spezia, in grado di conferire poteri straordinari a chi la assume, come l’ampliamento della propria coscienza o la capacità di trasferire intere flotte da una parte all’altra dell’universo. La Spezia, può essere estratta solo nel pianeta Dune, un luogo arido e inospitale, abitato dai misteriosi Fremen, capaci di cavalcare i giganteschi vermi della sabbia che popolano il luogo, che sono in attesa di una sorta di ‘messia’ che dovrebbe guidarli alla conquista del pianeta. Sullo sfondo della lotta per il controllo della spezia, si dipanano in varie sottotrame che finiscono per incrociarci tra di loro, intrighi di palazzo, tradimenti, antiche profezie…
Analisi: Nel 1984 i De Laurentiis, Dino e Raffaella, si imbarcano in una delle imprese più titaniche della storia del cinema: portare sul grande schermo il mondo creato da Fran Herbert nella saga di Dune, uno dei cicli più duraturi e celebrati della storia della letteratura di fantascienza: un romanzo che dai più era considerato del tutto adattabile nelle sale cinematografiche, non solo per la complessità della messa in scena, che avrebbe richiesto effetti speciali all’avanguardia, ma anche per il gran numero di personaggi, la complessità delle trame, fino al tipo di narrazione, spesso affidata a monologhi interiori.
Una sfida che qualche anno prima era stata lanciata da Alejandro Jodorowsky, coinvolgendo personalità del calibro di Moebius ed HR Giger, con l’idea di coinvolgere nel cast perfino Salvador Dalì; tuttavia la spugna venne gettata ben presto di fronte alle dimensioni dell’impresa.
Il guanto di sfida
venne allora raccolto dai De Laurentiis che affidarono la regia ad
un giovane David Lynch, reduce dal successo di
The Elephant Man, anche se apparentemente
diffidente nei confronti del cinema fantascientifico (aveva infatti
precedentemente rifiutato di dirigere
Il ritorno dello Jedi, a causa
dell’impossibilità di dare al film una propria personale
impronta).
David Lynch accetta tuttavia l’incarico, e il risultato è un film che si ricorda soprattutto per la ricchezza visiva.
Il lato più arduo dell’impresa stava infatti nel dover costruire ambienti, scenografie, costumi diversificati per ognuno dei pianeti su cui è ambientato il film e delle casate che ne animano la trama, dando il senso per ognuna di esse di un radicato background storico-sociologico e culturale.
La sfida, su questo piano, è ampiamente vinta, anche grazie alla collaborazione con una serie di esperti di prim’ordine, tra cui anche il nostro Carlo Rambaldi, creatore dei vermi meccanici che popolano il pianeta Dune. Completa il cast tecnico anche Brian Eno, autore delle musiche originali, cui collaborarono anche i Toto in quello che probabilmente è l’episodio più inusuale della loro carriera.
La colonna sonora di Dune è completata da una selezione di brani di musica classica, con autori che vanno da Beethoven a Shostakovich.
Trattandosi di un colossal, si puntò ovviamente su un cast di prim’ordine, dando ampia discrezionalità allo stesso Lynch, che vi inserì Freddie Jones (col quale già lavorato in The Elephant Man) e l’esordiente Kyle MacLachlan, poi destinato a diventare suo attore – feticcio. Tra gli altri fanno parte della partita Sean Young, un giovane Patrick Stewart che con la fantascienza sarebbe tornato a fare i conti a lungo nel ruolo del capitano Piccard in Star Trek: The Next Generation, fino a Sting. Assieme a loro, nomi ‘pesanti’ come Mx von Sydow, Jose Ferrer e Silvana Mangano, qui al suo penultimo ruolo cinematografico.
L’esito del film è tuttavia contrastato: in effetti l’impresa di portare sullo schermo in un solo film il complesso mondo creato da Herbert non appare del tutto riuscita: fossimo stati ai giorni nostri, il tutto sarebbe stato articolato in una trilogia, che avrebbe dato al pubblico di entrare maggiormente in confidenza con le ‘casate’ e le loro dinamiche. Concentrare tutto in un solo film, Dune finì almeno in parte per creare delle lacune e delle incomprensioni che, dai conoscitori della fonte letteraria, lasciarono interdetto il pubblico più ampio. In effetti il film, non riesce a offrire molto allo spettatore, oltre alla sua affascinante visionarietà: la trama e le motivazioni dei personaggi non sembrano mai del tutto comprensibili, la storia procede all’insegna di una lentezza a tratti esasperante, la scelta di affidare a una voce fuori campo i frequenti soliloqui dei protagonisti finisce per essere un ulteriore appesantimento. A questo si aggiungono i proverbiali ‘tagli apportati in fase di montaggio’ che avrebbero ridotto il film ai minimi termini (si favoleggia in proposito di una versione integrale di circa sei ore, ma si tratta di una ‘leggenda’ che non ha mai trovato conferme), che hanno forse reso ancora più criptica una trama già di per sé intricata.
Dune il film culto di David Lynch
La critica stroncò il film
quasi unanimemente: il film venne addirittura accusato di omofobia,
per il modo in cui era stato reso un personaggio che nel romanzo
era esplicitamente gay; negli anni è stata addirittura lanciata
l’accusa di aver contribuito a diffondere tra gli spettatori la
falsa convinzione che l’AIDS (che proprio in quegli anni
stava assumendo i connotati di una malattia di vasta diffusione)
riguardasse solo gli omosessuali.
Al botteghino le cose non andarono meglio: Dune fu sostanzialmente un flop negli Stati Uniti; migliore l’accoglienza in Europa: l’opera ha avuto però maggiore successo col passare degli anni, ottenendo buoni riscontri nel mercato dell’home video e assurgendo allo stato di film – culto: il suo essere stato comunque un coraggioso tentativo di affrontare un’impresa improba col tempo sembra aver superato la sua scarsa riuscita. Frank Herbert, che collaborò attivamente al progetto, pur riconoscendone i limiti tuttavia ha sempre difeso il lavoro di Lynch.
Nei primi anni 2000 a Dune venne dedicata una miniserie televisiva, apparsa come un sostanziale remake del film, del quale riprendeva molte scene e situazioni.
Il Trailer Italiano di Grandi Speranze di Mike Newell
Goltzius and The Pelican Company di Peter Greenaway
Peter Greenaway
non è considerabile un regista, nel senso più restrittivo del
termine, poiché le sue sperimentazioni visive spaziano a tutto
tondo nelle arti espressive per poi confluire magicamente nel
linguaggio cinematografico. Greenaway sostiene che il cinema è
“morto”, perché in poco più di un secolo di vita non ha avuto
evoluzioni sostanziali, a differenza di quanto invece è avvenuto e
continua ad avvenire con la pittura, attribuendo la colpa ad un uso
sfrenato e commerciale della struttura narrativa, che a poco a poco
ha finito con il soffocare l’atto creativo e la ricerca
formale.
Fin dai suoi primi film la ricerca espressiva balza immediatamente alla ribalta creando uno stile inconfondibile ed unico, forse difficile da penetrare da parte di un pubblico “normale”, ma deliziosamente invitante per chi decide di farsi trascinare dai giochi enciclopedici e metaforici del filmmaker gallese. La sua nuova fatica cinematografica “Goltzius and The Pelican Company” è il degno coronamento di decenni di sperimentazioni e sicuramente il punto di partenza per nuove strade da percorrere.
La narrazione, anche se
apparentemente fondamentale, è come al solito una delle tante
impalcature che per Greenaway sostengono il materiale filmico. Ben
più importanti sono le sottostrutture, come le sei rappresentazioni
teatrali che cadenzano l’andamento del film, o i vari peccati di
natura sessuale, come l’incesto, la necrofilia, il voyeurismo, o
ancora le incisioni di Goltzius mescolate con gli schizzi dello
stesso Greenaway.
Il film racconta un episodio della vita di Hendrik Goltzius, incisore, stampatore ed editore, contemporaneo di Rembrandt, che è in viaggio verso l’Italia assieme alla compagnia teatrale del Pellicano. Sulla strada decide di fermarsi in Alsazia, ospite del margravio locale, un laido individuo che oltre a governare e a defecare in pubblico, sbucciando mele per le sue scimmie, si diletta di mecenatismo.
Goltzius vorrebbe convincerlo a finanziere la realizzazione dei suoi libri con le storie dell’antico testamento viste in maniera erotica e ambiguamente metaforica, in particolare la storia di Lot e delle sue figlie, di Davide e di Betsabea e di Sansone e Dalila. Il margravio però esita a farsi convincere, così l’incisore gli propone di mettere in scena per lui sei rappresentazioni, una per sera, insieme agli attori della compagnia del Pellicano. Allettato dalla prospettiva di partecipare attivamente in messinscene erotiche il Margravio accetta. Ma la finzione si fonde con la realtà e così prende il via un perfido gioco di sesso, sangue e potere.
Dopo il film su
Rembrandt, “Nightwatching” del 2007, Greenaway realizza il secondo
capitolo della sua personale trilogia dedicata all’arte fiamminga,
che si concluderà con un lungometraggio dedicato al visionaro
pittore Hieronymus Bosch. “Goltzius and Pelican Company” segue
inoltre un’altra importante trilogia “The Tulse Luper Suitcases”
del 2003, dove la sperimentazione visiva prendeva il sopravvento
sulla narrazione, soprattutto negli ultimi due capitoli, facendo
avvicinare l’opera più ad una complessa performance di video-arte
piuttosto che ad un film. E questo non è mio avviso un difetto,
anzi dovrebbe essere inteso come un pregio, perché le sei ore della
rocambolesca vita di Tulse Luper, racchiusa in novantadue valige
disseminate per il mondo, è un divertente viaggio enciclopedico,
visionario, surreale, a volte sconfinante nel non-sense. Peccato
che in un ambiente ormai corroso dalla mercificazione tale
colossale opera sia stata intesa come non adatta al pubblico e
quindi relegata nel limbo della non-distribuzione, eccezione fatta
per il primo capitolo della trilogia.
Il risultato visivo di “Goltzius and Pelican Company” è a dir poco superbo. La bellezza folgorante delle immagini si fonde con un testo profondo, ma ironico, sovversivo, ma incredibilmente logico, dove con l’innocenza di un fanciullo si dichiara che in fondo la parola God (Dio) atro non è che la parola cane (Dog) letta a contrario, oppure che il detto “una mela al giorno toglie il medico di torno” sia una conseguenza di quanto avvenuto con Adamo ed Eva. Il tutto giocato in una ammiccante ambiguità tra teatrale e reale, tra messinscena e gioco di ruolo, che permette di fare quello che altrimenti non sarebbe lecito, o meglio dignitoso. I personaggi si mascherano, pur rimanendo perfettamente riconoscibili, e sotto questo effimera anonimato, si abbandonano ai desideri più morbosi e agli atti più efferati. Ma il gioco sembra sfuggire loro di mano. E quando il labile copione viene sconvolto con l’inserimento forzato di una storia dal nuovo testamento, quella di Salomè e Giovanni Battista, gli stessi protagonisti sembrano subire una tragica crisi di identità, non distinguendo più i confini della rappresentazione.
La tecnologia digitale è di valido supporto alla pittura su schermo di Peter Greenaway che riesce a sviluppare le ricerche visive iniziate con il suo ormai lontano “Prospero’s Books” (L’ultima Tempesta) del 1991, che accostato a questa nuova opera appare oggi quasi un taccuino di schizzi.
Ma le sue sperimentazioni partono da molto prima, anche in tempi non sospetti, quando l’uso di tecnologie di manipolazione dell’immagine era ancora da considerarsi fantascienza. Come non pensare ad una delle scene chiave di “The Belly of an Architect” (Il ventre dell’architetto) del 1987, dove il protagonista scopre di essere stato seguito e fotografato dalla sua amante per mesi durante la sua permanenza a Roma. In tale scena la storia del film è condensata in pochi secondi attraverso una serie di collage fotografici reali, montati in una successione di piccoli carrelli laterali sottolineati dalla splendida musica di Wim Mertens; sembra quasi una dichiarazione d’intenti, in attesa di una tecnologia adeguata che permetta di manipolare il materiale filmico.
C’è da dire inoltre che le sperimentazioni di Greenaway iniziano molto prima, con le sue prime opere come “The Falls” del 1980 o “Vertical Feature Remake” del 1978, dove i suoi disegni, la sua pittura, le sue fotografie si integrano con materiale filmico assumendo una nuova identità espressiva.
In “Goltzius and Pelican Company” il compositing si fa complesso, multistratificato, con intarsi estremamente complessi e green-screen al servizio dell’arte espressiva e non degli effetti spettacolari. Come in “Prospero’ books” , in “Pillow’s Books” e in “Tulse Luper Suitecases”, l’immagine nell’immagine rompe il concetto di montaggio tradizionale a stacco e sovverte le regole legate alla continuità temporale, proponendo simultaneamente diverse viste della stessa rappresentazione. Lo spazio esplode, si disintegra e si ricompone digitalmente in un collage visivamente esaustivo, che sembra seguire contemporaneamente gli enunciati delle principali avanguardie artistiche storiche del novecento.
In alcuni momenti
entrano addirittura in gioco modellazioni in 3D volutamente
dichiarate come tali e lasciate in uno stadio intermedio, per voler
dare un senso straniante di progettazione architettonica che
irrompe nelle realtà. E’ bello vedere dichiarato tale artificio,
che nei film destinati alla normale distribuzione si cerca invece
affannosamente di farlo sembrare il più reale possibile. Per
Greenaway i personaggi sono liberi di muoversi nell’artificio, tra
obelischi disegnati e gabbie digitali, in una sorta di “graphic
novel” che sembra uscita dalle mani di Piranesi.
Goltzius, Rembrandt e tutta una folta schiera di artisti citati esplicitamente o negli stupefacenti giochi di collages digitali esprimono la loro arte avendo a disposizione una tavolozza tecnologica che ai loro tempi non sarebbe stata minimamente pensabile. E infatti Greenaway apre il suo film con una breve disquisizione proprio sull’evoluzione delle tecniche e delle tecnologie espressive.
Anche la scelta delle ottiche subisce un evoluzione sostanziale. Fino a questo momento Greenaway prediligeva ottiche medie che restituissero una esatta percezione di quanto inquadrato e senza forzature prospettiche. Ma in “Goltzius and Pelican Company” la visione si allarga, le ottiche divengono sempre più corte, fino ad esibire delle splendide riprese in fish-eye, quasi a voler sottolineare con tale scelta l’aspetto voyeristico delle rappresentazioni.
La storia si svolge
all’interno della corte del margravio, genialmente ricostruita, o
meglio adattata in una vecchia fabbrica dimessa, con caldaie a
vapore, vasche d’acqua stagnante e tutto un fantasmagorico
patrimonio di archeologia industriale che magicamente si sposa con
l’epoca barocca grazie al lavoro dello scenografo Ben Zuydwijk e
dei costumisti Marrit Van Der Burgt e Blanda Budak. Il concetto di
rigore storico è dimenticato, le epoche si sovrappongono e si
mescolano, ma tutto rimane credibile, perché in fondo è giusto
raccontare il passato tenendo ben presente tutto quello che è
intercorso tra la nostra epoca e i fatti narrati, anzi sarebbe
disonesto il contrario.
Le splendide musiche dell’italiano Marco Robino, insieme al suo gruppo “Gli Architorti”, accompagnano egregiamente questa messinscena di sapore elisabettiano ibridata con le atmosfere di Brecht e Weill.
Oscar 2013: primi nomi sui non protagonisti
Pacific Rim: un primo sguardo a Jaegers in azione?
La Mirada, compagnia di effetti visivi di Guillermo Del Toro, impegnata a lavorare su Pacific Rim, ha pubblicato un video promozionale in cui espone le tecniche di animazione e la tecnologia che usa per realizzare i propri prodotti.
In questo video, oltre all’intervento di Del Toro in persona, possiamo vedere anche un robot gigante che lancia missili dalle braccia. Che sia la prima volta che diamo un’occhiata a Jaegers, robot gigante di protagonista del prossimo film di Guillermo?
Ecco il video:
Fonte: Collider
Il Cavaliere Oscuro Il Ritorno: ecco la nascita da Bane
Così come era successo per l’uscita del film, anche l’arrivo della versione Home Video de Il cavaliere oscuro – Il ritorno sta generando una valanga di notizie e di aspettative.
Oggi vi mostriamo, tramite The Sun, un video tratto dai contenuti speciali del DVD in cui si mostra la trasformazione che Tom Hardy ha subito per dare vita al suo tremendo Bane.
Ecco il video: Il Cavaliere Oscuro Il Ritorno uscirà in Home Video il prossimo 4 dicembre.
Metropolis: recensione del film di Fritz Lang
Metropolis è un film del 1927 diretto da Fritz Lang e con protagonisti Alfred Abel (Johann Fredersen), Gustav Frohlich (Freder Fredersen), Brigitte Helm (Maria) e Rudolf Klein-Rogge (Rotwang).
Trama: 2026. La
città di Metropolis è divisa in due: ai piani
alti, negli imponenti grattacieli, vivono i ricchi ei dirigenti; in
basso, negl’inferi della città industriale, intere masse di
individui ridotti quasi ad automi e costretti a lavorare senza
requie né speranza. Al vertice di Metropolis c’è
Johann Fredersen, magnate e austero padrone della città. Suo figlio
Freder vive una spensierata giovinezza tra le morbide anse di
lussuosi giardini, ignaro della logica rigidamente e violentemente
classista che governa la società in cui vive; una realtà che il
giovane comincia a scoprire dopo l’incontro con Maria, una
splendida ragazza proveniente dalle profondità operaie convinta che
le condizioni delle masse sfruttate possano essere risollevate
soltanto grazie all’intervento di un salvifico mediatore. Un ruolo
nel quale, passando per una violenta rivolta – ad accendere la
miccia, un automa identico a Maria, veicolo delle vendicative mire
del suo inventore Rotwang – sarà possibile riconoscere Freder,
giunto a una decisiva maturazione.
Analisi: Pellicola costosissima e tanto amata da Hitler, Metropolis ci traghetta in futuro che Lang dipinge guardando cent’anni avanti. Un 2026 per noi dietro l’angolo e nel quale sarà difficile – come e più di oggi – guardare un’opera come Metropolis senza la minaccia costante dello sbadiglio. Non ce ne vogliano Fritz e la sua signora, Thea von Harbou, le pregevoli menti che stanno dietro al film: la colpa non è loro, ma i tempi cambiano, e il mondo a portata di click non ha abbastanza pazienza per sopportare intertitoli e muto (poco cambia scegliendo una delle tante sonorizzazioni).
Metropolis – il film capolavoro di Fritz Lang
Detto
questo, Metropolis è un indiscusso gioiello
espressionista e un’opera d’arte che respira a pieni polmoni aria
di Novecento. Trionfo di geometrie imprendibili, creatura stillante
vapori industriali, sinfonia cittadina che si concede una trama e
che non smette per un attimo – come darle torto – di amare il
nuovo, pericoloso e affascinante mondo della tecnica e
dell’automazione.
Metropolis non è così manicheo e retorico come a volte è stato detto, e come si potrebbe pensare dalle prime battute; anzi, soprattutto per quanto concerne la rappresentazione delle masse, del “popolo”, la coppia Lang/von Harbou evita bagni di candore e, pur portando sullo schermo una situazione di sfruttamento ben riscontrabile nel mondo d’allora (magari anche nel nostro, purché ci si allontani un po’ da casa), non ci consegna una creatura costruttrice del suo bene e di quello della società, ma un soggetto tumultuoso, pigro, capace di ciechi spasmi. E, soprattutto, bisognoso di un mediatore, una figura che ne indirizzi e controlli l’azione e i sentimenti.
Memorabile e testimone dell’arte di Lang la breve sequenza dello spogliarello del robot-Maria in un bordello d’elìte; con notevole perizia tecnica, in questo frangente s’intrecciano l’ardito strip dell’automa, le sofferenze del povero Freder costretto a letto e preda di allucinazioni e gli occhi bramosi dei ricchi avventori, le cui pupille invadono e tappezzano lo schermo grazie a un certosino lavoro in stop-motion.
Metropolis: un film da vedere. Una volta, una sola, prima che sia fisiologicamente troppo tardi.
Metropolis al cinema fu proiettato per la prima volta il 10 gennaio 1927 all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino.
Note. film muto del 1927 diretto da Fritz Lang, considerato il capolavoro del regista austriaco. È tra le opere simbolo del cinema espressionista ed è universalmente riconosciuto come modello di gran parte del cinema di fantascienza moderno, avendo ispirato pellicole quali Blade Runner e Guerre stellari.
10 Curiosità sul film Metropolis
- La produzione impegnò la troupe per diciannove mesi: trecentodieci giorni di riprese.
- Sessanta notti furono necessarie per produrre 600.000 metri di pellicola.
- Erich Pommer e la casa di produzione UFA non badarono a spese per la lavorazione, assoldando 36.000 comparse.
- La lavorazione si protrasse dal 22 maggio 1925 al 30 ottobre 1926.
- I Numeri: Vennero girati 620.000 metri di negativo, e impiegati (secondo la pubblicità) 8 attori di primo piano, 25.000 uomini, 11.000 donne, 1.100 calvi, 750 bambini, 100 uomini di colore, 3.500 paia di scarpe speciali, 50 automobili.
- L’investimento superò i 5 milioni di marchi tedeschi di allora.
- Queste spese non vennero coperte dagli introiti della distribuzione, tanto che la UFA andò in bancarotta
- Alfred Hugenberg, editore e membro del Partito Nazista, comprò la casa di produzione trasformandola in parte nella macchina propagandistica del nazismo.
Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore: recensione del film di Wes Anderson
Moonrise Kingdom – una fuga d’amore è l’ultimo lavoro del regista texano Wes Anderson il quale riesce a coinvolgere per questa commedia un cast assolutamente eccezionale e di prim’ordine.
In Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore in una piccola isoletta al largo delle coste del New England, la tranquillità che solitamente regna sovrana viene turbata e stravolta da un fatto tanto insolito quanto imprevisto: il giovane Sam (Jared Gilman) uno scout del campo 55, capitanato dal Capo Scout Ward (Edward Norton), è misteriosamente scomparso.
Vengono immediatamente avvisate le autorità, che nella fattispecie sono impersonate e rappresentate dal triste e spaesato comandante Sharp (Bruce Willis) il quale non fa in tempo ad iniziare le ricerche che gli si presenta un’altra gatta da pelare: anche Suzy (Kara Hayward) ,la figlia dodicenne dei coniugi Bishop (Bill Murray e Frances Mc Dormand), è inspiegabilmente sparita di casa. Non sarà difficile capire che i due ragazzi hanno organizzato insieme una fuga nella foresta. Tutta la comunità, giovani scout compresi, sarà coinvolta nelle operazioni di ritrovamento e sarà solo l’inizio di una serie di incredibili eventi.
Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore: il film
Il film narra la storia di un amore giovanile, di una magica estate americana in cui due ragazzi di dodici anni capiscono per la prima volta cosa voglia dire amare qualcuno; un amore romantico, elegante e semplice. È la storia della loro fuga, una fuga da vite solo apparentemente normali ma che in realtà nascondono solitudine, tristezza e incomprensione. Il giovane Sam è un orfano affidato ad una coppia che non si cura di lui mentre Suzy è un’introversa adolescente senza amici e che odia la sua famiglia.
I due protagonisti, al debutto sul grande schermo, non sembra abbiano pagato lo scotto dell’emozione dell’esordio e sopratutto di trovarsi circondati da tanti mostri sacri del cinema più o meno recente. Intorno ai due giovani innamorati possiamo ammirare le divertenti quanto mirabili interpretazioni di un Bruce Willis, insolitamente dimesso e arrendevole, così come di un Edward Norton in divisa di scout, molto diverso e lontano dal muscoloso e accigliato protagonista di American History X. Quindi la solita eccellente Frances McDormand moglie disillusa di un eccentrico quanto depresso Bill Murray.
Il giovane Jared Gilman e la già intrigante Kara Hayward mostrano personalità e talento interpretando con originalità ed efficacia personaggi non propriamente comuni. E qui il merito va essenzialmente ad Anderson regista eccentrico e versatile che disegna, con la sua solita maestria, una schiera di personaggi assolutamente non convenzionali e fuori dagli schemi o, in alcuni casi, anche troppo normali. Uno dei punti di forza del film risiede proprio nella nitidezza e nella particolarità con cui sono presentati i vari personaggi, una peculiarità che non può non riportare alla mente a I Tenenbaum altra bellissima commedia firmata da Wes Anderson.
La sceneggiatura, scritta a quattro mani tra il regista e Roman Coppola ( con cui Anderson aveva già collaborato in Un treno per Darjeeling) spinge il film in un continuo susseguirsi e alternarsi di dramma e commedia, situazioni farsesche e di grande riflessione. Questo eclettismo fa del film una storia completa, che soddisfa i gusti più vari anche se nel finale forse si allontana troppo dalla logica a favore dell’assurdo. Assolutamente da sottolineare il meraviglioso lavoro scenografico necessario per ricostruire la tipica provincia americana di metà anni ’60 riproposta fedelmente in ogni minino e più microscopico dettaglio. Un’ambientazione riuscitissima e determinante per conferire al film, in particolar modo alla fotografia, una patina realmente datata e verosimile.
Moonrise Kingdom – una fuga d’amore è una commedia divertente e al contempo profonda che merita indubbiamente di essere vista e che potrete vedere nei cinema italiani a partire dal prossimo 5 dicembre grazie alla Lucky Red distribuzione.
Una scena inedita per Thor
Nonostante sia passato più di un anno dall’uscita di Thor, continuano a venire fuori materiali inditi del film, anche adesso che il secondo film è in fase avanzata di
Jack the Giant Slayer: ecco il trailer del film di Bryan Singer
Come annunciato appena ieri, ecco arrivato il trailer originale di Jack the Giant Slayer, film diretto da Bryan Singer e basato sulla famosa fiaba di Jack e il
TFF 2012: Ken Loach rifiuta il Premio per i lavoratori!
Il trailer di Ghost Movie, dai creatori di Scary Movie!
Akira: recensione del film di Katsuhiro Otomo
Akira è il film culto d’animazione del 1988 diretto da Katsuhiro Otomoe con le voci di Mitsuo Iwata, Nozomu Sasaki, Mami Koyama.
Anno: 1988
Regia: Katsuhiro Otomo
Cast: Mitsuo Iwata/Angelo Maggi: Kaneda; Nozomu Sasaki/Alessandro Quarta: Tetsuo; Mami Koyama/Antonella Baldini: Kay; Tessho Genda/Fabrizio Pucci: Ryu; Tarô Ishida/Paolo Buglioni: colonnello Shikishima
Trama: Nel 2019,
in una Tokyo che ancora risente della Terza Guerra Mondiale, in una
società sull’orlo dell’anarchia, in cui l’esercito è diventato
l’unico potere veramente stabile, si muovono bande di motociclisti
imberbi in perenne lotta tra di loro:
una di queste è cappeggiata da Kaneda e vede trai suoi componenti Tetsuo, che nei confronti del capobanda nutre un misto di ammirazione e di invidia, per non riuscire ad essere bravo quanto lui. A seguito ad uno strano incidente, Tetsuo sembra scomparire, portato via dall’esercito; mentre Kaneda, accompagnato da Kai, una ragazza conosciuta nel frattempo, si mette alla ricerca dell’amico, quest’ultimo, sottoposto a vari esperimenti, si scopre in possesso di poteri straordinari, perdendone rapidamente il controllo e mettendosi alla sua volta alla ricerca di Akira, un individuo del quale ha sentito parlare durante gli esperimenti, e che ritiene in grado di fornirgli risposte sulle sue capacità: lo stesso Akira che, secondo alcune voci ha scatenato la guerra e che altri da viene considerato una sorta di messia, destinato a tornare per purificare il mondo dall’ingiustizia…
Akira, l’analisi
Analisi: Nel 1998, Katsuhiro Otomo porta sugli schermi il suo opus magnum, precedentemente uscito come manga, dopo il successo senza precedenti ottenuto non solo in Giappone, ma anche in Europa e negli Stati Uniti, dove venne distribuito dalla Marvel. Akira, è per innumerevoli motivi, una pietra miliare del cinema di animazione, riuscendo a sfondare, come nessun film aveva fatto fino ad allora l’ideale ‘muro’ che (con le eccezioni delle serie a episodi) aveva diviso i mondi dell’animazione giapponese e americana.
Traendo linfa dal successo della versione cartacea, Otomo schiude davanti allo sguardo degli spettatori occidentali un tipo di animazione nuova per gran parte del pubblico delle sale cinematografiche, non solo per la prodigiosa veste grafica ed il realismo dei personaggi ma anche per i temi trattati: in una storia con protagonisti degli adolescenti, vengono affrontati i temi dei limiti della scienza, dell’abuso di potere da parte dei militari, tra ansie millenariste (siamo nell’88, alle soglie del nuovo millennio) e fanatismo religioso, assieme a interrogativi filosofici sull’origine della vita, e al consueto tema dell’orrore della guerra saldato a quello dell’incubo nucleare, vissuto dai giapponesi sulla propria pelle, e vero filo conduttore di tutta la fantascienza – animata e non – del Sol Levante.
Akira
sancisce dunque lo sdoganamento dell’animazione come cinema non più
per ‘adulti che accompagnano i figli’, ma che proprio al pubblico
adulto, per temi e situazioni finisce per essere destinato, oltre a
riportar, per certi aspetti, delle atmosfere cyberpunk nelle
sale, qualche anno dopo Blade Runner. Un film la cui fantasmagoria
visiva riempe gli occhi, e che è puntualmente inserito nelle
classifiche all-time, oltre ad essere considerato un capolavoro,
oltre che del cinema di animazione, anche di quello di fantascienza
ampiamente inteso. Da ricordare anche l’efficacissima ed evocativa
colonna sonora, scritta da Shoji Yamashiro ed eseguita dal
collettivo Geinoh Yamashirogumi.
Rappresenta inoltre una sorta di ‘salto evolutivo’, per le soluzioni tecniche adottate, per l’epoca all’avanguardia: in esso e stata sperimentata per la prima volta su larga scala la CGI, cui si aggiunge la cura maniacale per le scenografie, le ambientazioni, la resa incredibilmente ‘naturalistica’ dei personaggi; riguardo a questi ultimi, altra importante innovazione, poi adottata in seguito anche dalla Disney, è quella di registrare il doppiaggio prima della realizzazione delle animazioni, in modo da poter sincronizzare il movimento labiale dei personaggi alle loro voci. Un film ‘storico’ anche per le risorse economiche impiegate: frutto della collaborazione di alcune più importanti case cinematografiche giapponesi, costò all’incirca un miliardo di yen contro una media che a quei tempi si aggirava attorno ai due-trecento milioni.
Da qualche anno si torna periodicamente a parlare di un eventuale remake in live-action del film; tuttavia il progetto non è mai decollato: l’idea si è infatti più volte arenata nel momento in cui, volendone fare un colossal con il proverbiale cast stellare, sono state puntualmente sollevate perplessità che ciò includerebbe di dare ai personaggi un’età molto superiore a quella dei protagonisti originali, finendo per snaturare la stessa essenza della storia.
Viaggio nella Luna di Georges Méliès
Viaggio nella Luna è il film culto del 1902 di Georges Méliès con Georges Méliès, Henri Delannoy, Victor André e Bleuette Bernon
- Anno: 1902
- Regia: Georges Méliès
- Cast: Georges Méliès, Henri Delannoy, Victor André, Bleuette Bernon
Trama: Un
gruppo di scienziati si riunisce per discutere del progetto di
mandare un’astronave sulla Luna; dopo aver dato il via libera
(quasi) all’unanimità, l’impresa prende il via. Una volta costruita
la navicella, e dopo averla letteralmente sparata in orbita con un
cannone, l’equipaggio atterra sul satellite e si addentra nelle sue
profondità, solo per scontrarsi coi suoi abitanti, i Seleniti,
venendone catturato, ma riuscendo prontamente a fuggire, dopo
averne eliminato il re. L’equipaggio riesce a tornare sano e salvo
sulla Terra, assieme a un selenita che si era aggrappato alla
navicella, venendo portato in trionfo, e l’impresa celebrata con la
realizzazione di una statua a futura memoria.
Viaggio nella Luna
Analisi: Quindici minuti circa (dipende dalle versione, alcune delle quali prive delle scene finali) per fondare un genere e lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema: nel 1902 agli albori o quasi della storia della settima arte, Georges Méliès è il primo a imprimere sulla pellicola il sogno che per millenni è stato solo narrato a voce o sulla carta, da La storia vera di Luciano di Samosata a Dalla Terra alla Luna di Verne, cui il Viaggio è liberamente ispirato. Un quarto d’ora, muto e in bianco e nero (anche se ne esiste una copia a colori – ovviamente colorata a mano – oggetto di un minuzioso durato oltre un decennio e portato a termine solo nel 2011), nel corso del quale vengono ‘fissati’, a livello embrionale, tanti ‘luoghi comuni’ del cinema di fantascienza: dal gruppo di scienziati che si riunisce per un’impresa apparentemente impossibile, all’incontro con le razze aliene, fino al trionfale ritorno a casa.
Come il suo predecessore Verne, anche Méliès riesce in una qualche misura a precorrere i tempi: la navicella spaziale assomiglia in effetti alla capsula di salvataggio con la quale i Armstrong e soci ammararono al ritorno della prima, vera missione lunare, mentre la sfilata trionfale lunare lascia presagire quella realmente avvenuta sessantasette anni dopo.
Articolato in
diciassette ‘quadri’, ossia in scene a sè stante,
autoconclusive, girate con inquadratura ‘fissa’ usando una
cinepresa Lumière priva di mirino, e quindi cercando di ‘centrare’
la ripresa grazie usando solo l’esperienza e un pò affidandosi al
caso, Viaggio nella Luna è anche il primo esempio
di uso massiccio di effetti speciali, per l’epoca
all’avanguardia.
Visto oggi, certo l’impatto iniziale è di assistere quasi con tenerezza alla artigianalità degli effetti speciali e alla ingenuità di certe situazioni (una Luna sulla quale ad esempio si cammina e si respira come se fossimo sulla Terra), frutto anche della ancora scarsa conoscenza dello spazio, ma prima della fine del film non si può non farvisi affascinare, consapevoli di trovarsi davanti a un pezzo di storia, specie davanti ad alcune sequenze che in oltre un secolo di arte cinematografica sono ormai assurte a uno status quasi mitologico, a cominciare da quella, ultracelebre, del ‘faccione’ della Luna sfigurato dall’arrivo della navicella spaziale.
Viaggio nella Luna è d’altra parte entrato nel nostro immaginario, al punto da essere ciclicamente citato non solo nel cinema (buon ultimo Martin Scorsese nel suo Hugo Cabret ha raccontato proprio la genesi di quel film e dalle nostre parti, seppur in una situazione volta in farsa, non si può non pensare che nel suo Fascisti su Marte, Corrado Guzzanti non abbia pensato almeno una volta all’illustre capostipite), ma anche nella musica: da ricordare come gli Smashing Pumpkins abbiano omaggiato il film nel video della loro Tonight Tonight e la colonna sonora che i francesi Air hanno composto ex novo in occasione della presentazione della versione restaurata al Festival di Cannes del 2011.
Per finire, Viaggio nella Luna rappresenta uno dei primi, se non il primo, caso di ‘violazione del copyright’ nel mondo del cinema: fu infatti Thomas Edison a trarne una copia illegale, distribuendolo poi negli Stati Uniti: insomma, dai tempi di Méliès a quelli del filesharing le cose sono in fondo cambiate meno di quanto si pensi…
Dredd – La Legge sono io: recensione del film con Sylvester Stallone
Dredd – La Legge sono
io è un film di fantascienza del 1995 diretto da
Danny Cannon e nel cast
protagonisti Sylvester
Stallone, Armand Assante, Rob Schneider, Diane Lane, Max Von
Sydow, Joanna Myles
Trama: Nel classico futuro lontano-ma-non-troppo, la Terra è ridotta a un deserto nucleare nel quale sopravvivono poche megalopoli, in cui i superstiti vivono ammassati e sottoposti al dominio della casta dei Giudici, che assommano in sè le prerogative di poliziotto, giuria e boia, eseguendo le pene – spesso capitali – sul posto, in genere in modo sommario e sbrigativo.
In questo scenario si muove
il Giudice Joseph Dredd, vittima di una serie di macchinazioni, che
lo porteranno prima a essere accusato di un crimine non commesso e
successivamente a scoprire una sconvolgente verità sulla sua stessa
esistenza, per poi tornare alla riscossa, riabilitarsi e mettere in
luce le crepe di un sistema che, nato per impedire a quel poco di
società ‘civile’ rimasto di cadere nell’anarchia, si è rapidamente
trasformato in un regime dittatoriale.
Analisi – Dredd – La Legge sono io uscito in Italia col solito, discutibile sottotitolo (La legge sono io appare citare il titolo del quasi omonimo western con protagonista Burt Lancaster) appartiene alla categoria dei film ispirati a fumetti usciti prima dell’esplosione del genere tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del decennio successivo.
Poco conosciuto qui da noi, Judge Dredd è in effetti un personaggio dall’importanza capitale nella storia del fumetto pseudo-supereroistico. Nato alla fine degli anni ’70 sulle pagine della rivista britannica 2000 AD (che nel corso degli anni ha tenuto a battesimo autori del calibro di Alan Moore, Neil Gaiman, Garth Ennis e Grant Morrison), Judge Dredd è un personaggio che viola molti dei principi del supereroe ‘senza macchia e senza paura’: un uomo violento adatto a tempi violenti, al servizio di un regime autoritario e dittatoriale, ma non per questo privo di propri principi morali che lo portano talvolta a scontrarsi col sistema di cui fa parte.
Dredd – La Legge sono io
I creatori del
personaggio, lo scrittore John Wagner e il disegnatore Carlos
Ezquerra, prendono spunto dal futuro distopico in cui sono
ambientate le gesta del loro ‘antieroe’ per riflettere sulle
storture e sui rischi di deriva autoritaria delle democrazie
occidentali: una visione che si sarebbe ulteriormente accentuata
con l’avvento al potere della Thatcher e che per certi versi rende
Judge Dredd un antesignano di capolavori come
Watchmen e V for Vendetta di
Alan Moore, o Il Ritorno del Cavaliere
Oscuro di Frank Miller.
Un personaggio con una storia di tutto rispetto, e soprattutto con un posto ben preciso nella storia dei ‘comics’ : alla luce di tutto ciò, il trattamento riservatogli nel film appare abbastanza misero, riducendosi a poco più dell’ennesima occasione offerta a Sylvester Stallone per gonfiare i muscoli e recitare la parte dell’eroe senza paura,che vive il classico percorso di caduta e rinascita.
La regia di Dredd – La Legge sono io è affidata a Danny Cannon, per il quale Dredd, assieme A Young Americans, resta il titolo più significativo di un curriculum piuttosto scarno.
Il cast assembla volti più o meno noti: Armand Assante nel ruolo del cattivo di turno, in quello degli alleati del protagonista Rob Schneider e Diane Lane (quest’ultima coi tipici risvolti sentimentali)
senza negarsi il ‘pezzo da 90’ tipico di queste occasioni, stavolta nelle fattezze di Max Von Sydow. Il tutto all’insegna di caratteri stereotipati e di uno svolgimento consunto e prevedibile, nel quale poco o nulla è rimasto dello spirito dell’originale cartaceo.
Non a caso, del resto, il Judge Dredd presentato nel film è stato totalmente disconosciuto dal creatore del personaggio John Wagner, e naturalmente anche dei lettori, rendendo il film uno dei peggiori adattamenti da fumetto che si ricordino. Non migliore è stata l’accoglienza al botteghino (113,5 milioni di dollari l’incasso complessivo a livello mondiale), anche nei confronti di Stallone, che per l’interpretazione ha ricevuto una nomination al Golden Rabsperry Awards per la peggiore interpretazione.
Dredd, nel 2012 arriva il remake
Nel settembre 2012 , puntando sull’attuale successo del genere, è uscita nelle sale americane una nuova versione cinematografica del personaggio, per la regia di Pete Travis e l’interpretazione di Keith Urban. L’accoglienza è stata decisamente migliore rispetto al suo predecessore, sebbene l’essere vietato ai minori di 18 anni negli USA ne ha limitato le potenzialità commerciali; tuttavia ciò ha permesso di rendere il personaggio molto più vicino all’originale rispetto al predecessore, conquistandogli giudizi molto più positiva sia dalla critica che degli appassionati.
Lawrence Kasdan scriverà Star Wars 8?
Per il momento, ovviamente, si tratta solo di indiscrezioni, per quanto allettanti: il secondo e terzo capitolo della nuova trilogia di Guerre Stellari potrebbero contare su due firme d’eccezione: da un lato, il veterano Lawrence Kasdan potrebbe lavorare alla sceneggiatura del numero otto; dall’altro Simon Kinberg, recente autore di Sherlock Holmes, potrebbe occuparsi del nono film della serie.
La Disney naturalmente non ha commentato la notizia che, se fosse vera, sarebbe indubbiamente positiva, specialmente per quanto riguarda Kasdan, che ha già lavorato all’Impero colpisce ancora e Il Ritorno dello Jedi.
Il nome Kinberg suscita commenti altrettanto positivi: trai suoi ultimi lavori c’è tra l’altro il sequel di X-Men: First Class.
Fonte: Empire
Nuovi arrivi per White Bird In A Bizzard di Greg Araki
Comincia a muovere passi in avanti il nuovo film di Gregg Araki: dapprima conosciuto semplicemente come White Bird, il lavoro si intitolerà White Bird In A Blizzard; nel cast, oltre a Shailene Woodley, nome già fatto in passato, arrivano ora Christopher Meloni, Eva Green, Shiloh Fernandez e Gabourey Sidibe.
Poco si sa sulla trama, se non che Woodley sarà una giovane donna la cui vita viene sconvolta dalla sparizione della madre. Il film, la cui sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Araki, si trova ora nella fase di pre-produzione. Le riprese dovrebbero comunque cominciare a breve e in tutti i casi prima dell’impegno di Shailene Woodley sul set del sequel di Amazing Spider-Man
Christopher Meloni, volto noto della tv grazie al suo ruolo in Law And Order – Unità Vittime Speciali, ha al momento in agenda parecchi lavori per il grande schermo tra cui il drammatico 42, la commedia They Came Together e soprattutto The Man of Steel.
Fonte: Empire
Cloud Atlas: tantissime nuove foto
Ecco a seguire una valanga di foto del film Cloud Atlas, attesissima opera cinematografica tratta da L’atlante delle nuvole di David Mitchell e diretto da Andy
Il Trailer Italiano di Die Hard – Un buon giorno per morire!
Ecco il primo trailer in italiano di Die Hard – Un buon giorno per morire, con protagonista Bruce Willis e Mary Elizabeth Winstead.
Uno sci-fi per Almodovar?
Pedro Almodovar alle prese con la fantascienza: a prima vista improbabile, ma poi neanche tanto, visto che il regista nel corso della sua carriera ha mostrato poter giostrare agevolmente trai generi, arrivando recentemente a percorrere territori horro in La pelle che abito.
A rivelare la possibilità è stato lo stesso Almodovar, in occasione del ritiro – in ritardo – del premio BAFTA ricevuto proprio per La pelle che abito, come miglior film non in lingua inglese; nel corso della stessa parentesi londinese, Almodovar ha anche tenuto una lezione presso il David Lean Institute, parlando delle proprie influenze cinematografiche.
Riguardo la possibilità di un film di fantascienza, Almodovar ha affermato di voler presentare qualcosa di impossibile in un modo estremamente realistico, ‘domestico’. Una sceneggiatura è già sulla scrivania, e spera di poter dare seguito al progetto. Almodovar del resto, ha citato L’Invasione degli Ultracorpi tra le pietre miliardi della storia del cinema. Il suo prossimo film, la commedia I’m So Excited, Penelope Cruz, Paz Vega e Antonio Banderas e attesa nelle sale per la prossima estate.
Fonte: Empire
James Wan confermato per il seguito di Insidious
Nonostante sia stato recentemente legato al possibile film dedicato a MacGyver, James Wan sembra avere al momento tutt’altri progetti in cantiere: sarà infatti impegnato nel seguito, confermato, di Insidious, film che l’ha portato alla notorietà internazionale.
Con lui, confermato gran parte del cast del primo episodio: Patrick Wilson, Rose Byrne, Lin Shaye e Ty Simpkins. Leigh Whannell scrive la sceneggiatura, produce Jason Blume.
Che Insidious avrebbe avuto un seguito appariva abbastanza scontato, dopo i 97 milioni di dollari raccolti a livello mondiale a fronte di un costo di solo 1,5 milioni. La trama del primo film vedeva Wilson e Byrne nel ruolo di due genitori che dapprima credevano di essersi trasferiti nella classica casa stregata, per poi scoprire che ad essere vittima della persecuzione di un’entità oscura era il loro stesso figlio.
Al momento non vi sono chiarimenti su quale sarà la trama del
secondo capitolo, sebbene la conferma del cast lasci prevedere che
per la famiglia Lambert i problemi non siano affatto finiti.
L’inizio delle riprese è fissato per il prossimo 15 gennaio, in
vista di un’uscita prevista per il 30 agosto.
Fonte: Empire
Bruce Springsteen: ecco il documentario collettivo
Un documentario collettivo dedicato a Bruce Springsteen, costruito grazie ai filmati inviati dagli appassionati: è il progetto Springsteen and I, commissionato dalla Black Dog Films di Ridley Scott; l’uscita è prevista per il prossimo anno.
A selezionare la mole (che, si suppone, sarà enorme) del materiale raccolto sarà il regista Baillie Walsh (Flashbacks Of A Fool), che userà come spirazione Day In A Life di Kevin Macdonald, altro documentario creato grazie alla raccolta di filmati in rete. La filosofia di Springsteen and I sarà simile: gli appassionati sono invitati a registrare brevi video nel quale narrino il rapporto che li lega al Boss, in un progetto globale, da cui emergeranno i motivi che hanno portato Springsteen ad essere amato non solo suolo americano, ma anche nel resto del globo, dal Regno Unito alla Corea.
I filmati dovranno avere una lunghezza massima di cinuqe minuti ed essere caricati direttamente presso il sito www.springsteenandi.com, in una vasta gamma di formati, da quelli girati con gli smartphones a quelli prodotti utilizzando le più moderne telecamere ad alta definizione; sarà inoltre possibile inviare semplici foto. C’è tempo fino al 29 novembre.
Walsh ha affermato che Springsteen è una grande narratore, che provoca sempre un qualche tipo di reazione nei propri fan: lo scopo del progetto è mostrare in che modo la musica del Boss incida sulla vita delle persone.
Fonte: Empire
Poster animato per The Hunger Games: Catching Fire!
La Lionsgate ha pubblicato uno splendito poster animato di The Hunger Games: Catching Fire, il sequel della saga con protagonista Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson.
Hunger Games: la ragazza di fuoco, ecco il teaser poster
Ecco il teaser poster di Hunger Games: la ragazza di fuoco, secondo adattamento cinematografico dei romanzi di Suzanne Collins che vede di nuovo protagonista la bravissima Jennifer Lawrence accanto a Josh Hutcherson e Liam Hemsworth, questa volta diretti da Francis Lawrence.
Qui sotto il poster:
Hunger Games – La ragazza di Fuoco, il film
Hunger Games – La ragazza di Fuoco è diretto da Francis Lawrence e oltre a Jennifer Lawrence il cast comprende anche Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Philip Seymour Hoffman, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Lenny Kravitz, Jeffrey Wright, Stanley Tucci, Donald Sutherland, Amanda Plummer e Lynn Cohen. Tutte le news sulla saga nel nostro speciale Hunger Games. Per tutte le info sul film vi segnaliamo la nostra scheda Hunger Games – La ragazza di Fuoco.
La trama del film: Katniss Everdeen torna a casa incolume dopo aver vinto la 74ª edizione degli Hunger Games, insieme al suo amico, il “tributo” Peeta Mellark. La vittoria però vuol dire cambiare vita e abbandonare familiari e amici, per intraprendere il giro dei distretti, il cosiddetto “Tour di Victor”. Lungo la strada Katniss percepisce che la ribellione sta montando, ma che il Capitol cerca ancora a tutti i costi di mantenere il controllo proprio mentre il Presidente Snow sta preparando la 75ª edizione dei giochi (The Quarter Quell), una gara che potrebbe cambiare per sempre le sorti della nazione di Panem.
Twitt sul cinema: Lincoln di Spielberg gran lezione di storia!
Arriva dal nostro buon
amico Adriano Ercolani la prima, sincera, impressione su Lincoln, l’atteso nuovo film di Steven Spielberg. Come molti di voi sapranno
la pellicola
Poster per La Casa, remake del film La Casa di Sam Raimi!
Ecco il primo poster di Evil Dead remake del film horror La Casa di Sam Raimi. La pellicola uscirà il 12 Aprile 2013 e vede protagonisti Jane Levy, Shiloh Fernandez, Lou Taylor Pucci, Jessica Lucas e Elizabeth Blackmore.
Chris Hemsworth parla di Thor 2 e Robopocalypse!
Chris Hemsworth è stato
intervistato da MTV. L’attore ha parlato dei suoi prossimi film,
Thor 2 – The Dark World e il nuovo film di
Steven Spielberg, Robopocalypse.