“Tutte le famiglie felici si
somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo
suo”: così asseriva Lev Tolstoj in apertura
di una delle sue opere più famose,
Anna Karenina. Ma quello che lega la famiglia
Roy, protagonista di Succession, serie TV targata
HBO e disponibile in Italia su Sky, va oltre il concetto di
(in)felicità. Il capofamiglia Logan (Brian
Cox), i figli Kendall (Jeremy
Strong), Roman (Kieran Culkin), Connor
(Alan Ruck) Siobhan (Sarah
Snook), e il nipote Greg (Nicholas Braun)
è un covo di serpi vestiti di abiti eleganti.
La lotta al dominio del monopolio
di famiglia nel campo dei media è una corsa al massacro, dove non
sussistono ricordi, tenerezze, memorie di focolai domestici, o
giochi in famiglia, a indorare la pillola. La vendetta in
Succession è un piatto che viene servito freddo,
come freddo è il cibo a tavola, lanciato, rubato, mai toccato. I
ricchi banchetti perlopiù ignorati si fanno pertanto perfetti doppi
simbolici di affetti famigliari a cui avvicinarsi, assaporare, per
poi rinnegare, allontanare, con lo sguardo fiero, rivolto sempre
verso l’alto, verso una cima quanto mai irraggiungibile. Non è un
caso, dunque, se quel cognome, Roy così simile per assonanza e
scrittura al sostantivo francese “roi”, “re”, rimanda a un trono da
occupare e a cui ambire. Negli occhi di ogni singolo personaggio
brucia il fuoco dell’insana cupidigia; nella bocca, si masticano
parole ricolme di recriminazioni mescolate a caustico umorismo, e
poi vomitate sotto forma di tradimenti. Ogni puntata è un piccolo e
indipendente colpo di stato, pronto a ribaltare singolarmente e
sulla spinta di ambizioni personali, il dittatore Logan Roy.
Succession nel mito di Frankenstein
Ogni personaggio si fa dunque
mostro di Frankenstein, collage umano di pezzi presi in prestito
dai più terribili villain e regnanti shakespeariani. Sono uomini e
donne creati sulla falsariga di personaggi reali (le famiglie di
Rupert Murdoch, Sumner Redstone e Donald
Trump), che in un gioco dialettico tra finzione e realtà
assumono una verosimiglianza tale da lasciarsi prima odiare, e poi
amare. Lo spettatore si ritrova vittima inconsapevole del loro
fascino mefistofelico. Ama lasciarsi intrappolare nelle loro reti
intessute di inganni e sotterfugi, restando così a bocca aperta
dinnanzi ai tradimenti orditi da figli ai danni del proprio padre,
in una rilettura contemporanea del Re Lear, per poi ritrovarsi
incantato dall’insano desiderio di Kendall di ribaltare il
predominio paterno, voltando le spalle ai propri fratelli come un
Amleto che incontra Riccardo III.
Dietro ogni abbraccio si nasconde
una mano pronta a colpire alle spalle con fendenti profondi di lame
taglienti i propri cari. La famiglia perde il concetto di unione,
amore, sentimento, trasformandosi in un insieme confusionario di
pedine impazzite da spostare a proprio piacimento per assurgere al
più presto al trono. In questa giostra al massacro azionata da
regnanti senza corona, non sussiste alcun legame da conservare,
emozione da nutrire. L’intreccio si srotola pian piano davanti a
noi e con esso la corsa alla distruzione dei consanguinei, vittime
sacrificali dinnanzi al tempio del successo e alla successione (non
a caso “succession” pur rimandando al concetto di “successione”,
accoglie in sé il il termine “success”, “successo”). Se secondo la
cultura popolare, i media visuali con il loro appeal delle emozioni
posso eccitare l’immaginario collettivo della maggioranza
silenziosa, indirizzandola verso fini catastrofici, la serie ideata
da Jesse Armstrong scardina questa abilità silenziosa messa in atto
dal campo di cui Logan Roy è il capo supremo, puntando su emozioni
ridotte a simulacri e ideali, per dar corpo all’istinto
(auto)distruttivo intrinseco al genere umano, alimentato dal sacro
fuoco dell’ambizione e del potere.
Attori perfetti, Diavoli
in terra
Se Succession è da
annoverare tra le migliori serie televisive degli ultimi anni, non
è solo grazie a una scrittura alacre e impeccabile, quanto
soprattutto a una serie di interpreti capaci di sparire nella loro
veste umana, per dar forma e corpo all’istinto animalesco e
anafettivo dei propri personaggi. Culkin, Strong, Macfadyen, Snook,
Braun, Cox si svuotano dentro per lasciarsi investire e guidare
dalle ossessioni e idiosincrasie dei propri alter-ego finzionali.
Diavoli con abiti eleganti che si muovono in contesti urbani
mimetizzandosi facilmente tra la folla, i protagonisti di
Succession sono testimoni di cadute infernali da
cui risalire camminando sul cadavere dei propri cari.
Una manipolazione accurata,
studiata nei minimi particolari, lasciata libera di scatenarsi come
onde in un mare improvvisamente in tempesta, supportata da mimiche
facciali a volte esasperate (il Roman Roy di Kieran
Culkin) ma mai in over-acting, o giocate in sottrazione,
dove ogni sentimento è celato, in un gara alla dissimulazione (si
pensi alla straordinaria performance di Jeremy
Strong nei panni di Kendall Roy). Ciò che ne risulta è una
galleria umana di uomini e donne schiacciati sia dal peso delle
proprie responsabilità, che da una figura ingombrante come quella
di Logan Roy, impossibile da destituire o distruggere.
Cristallizzati in ruoli archetipici, di cui riescono a carpire e
svelare ogni singola sfumatura tra debolezze e punti di forza, ogni
attore rende vivo, umano, e per questo fatalmente fallibile, il
ruolo a lui affidato. Al resto ci pensa una sceneggiatura fondata
su uno humour squisitamente britannico grazie alla quale
Jesse Armstrong impreziosisce la propria
creatura di un’ironia tagliente e dai tratti
drammatici, con un approccio che strizza l’occhio al miglior
William Shakespeare. In questa famiglia disfunzionale nessun
difetto è lasciato indietro, ma affrontato, studiato, mostrato
nella sua perfetta verosimiglianza.
C’è Siobhan, l’unica figlia
femmina, mosca bianca in una famiglia dominata dal testosterone,
inizialmente poco attirata dai giochi aziendali di famiglia, per
poi cedere sotto la forza dei canti ammaliatori del padre,
uscendone vittima e vinta, tanto nelle questioni di affari, quanto
di cuore. C’è poi Roman, un Loki di famiglia, prigioniero di
un’eterna adolescenza, scaltro, furbo, capace di sciorinare gesta e
segreti altrui pur di garantirsi la salvezza. E se è Kendall la
vera pedina impazzita, l’ingranaggio a orologeria uscito fuori
dagli schermi, un plauso a parte merita Alan Ruck, capace di dar
vita a un primogenito come Connor, personificazione della vita
adagia riassumibile nella battuta “solo i poveri sono pazzi, i
ricchi sono tutt’al più eccentrici”.
Dare forma alle
emozioni
Personalità egocentriche, che
vivono del respiro delle proprie ambizioni, hanno un raggio di
distanza personale alquanto risicato. Difficile per loro, se non
impossibile, condividere un’inquadratura con un altro personaggio,
almeno che non sia per tornaconto personale. Una predisposizione
che i vari registi comprendono e traducono in scelte di ripresa
capaci di enfatizzare quelle insofferenze silenti, che annientano e
bruciano barlumi di umanità ed empatica solidarietà all’interno
dell’animo di questi personaggi. Allo stesso tempo, ogni attacco,
lanciato o subito, viene colto ed espresso da zoom improvvisi, che
colgono la sorpresa o ipocrita reazione, che raffredda il volto di
strateghi apparentemente impassibili. Schiera di inquadrature
ristrette, anche nel momento in cui il raggio di ripresa si
allarga, a cogliere lo sguardo attento della cinepresa sono lasciti
di rimpianti e rimorsi, mostrati attraverso distanze fisiche
insormontabili, che portano i vari personaggi a sostare ai poli
opposti di una stanza, o separati da confini tangibili, come porte,
vetrate e finestre.
Eppure, gli sguardi brulicanti di
vendetta superano ogni limite, indagano ogni superficie
sottocutanea, indugiando su sentimenti inespressi contro cui
predisporre il proprio attacco. Cercano debolezze umane, per
gettarsi a capofitto con il loro contrattacco fatto di carezze, o
baci di Giuda, i membri della famiglia Roy. Sono discendenti della
Maga Circe, capace di regredire l’essere umano allo stato primitivo
di animale, dove dietro ogni singola espressione si nasconde la sua
controparte emotiva. Una giostra di sentimenti e dei suoi
contrapposti, nemesi di se stessi e degli altri, ogni attore rende
(dis)umano il proprio personaggio, partecipando a questa folle
corsa modellando in maniera personale incarnazioni diverse, eppure
così uguali, dei sette peccati capitali.
La freddezza calcolatrice che
investe questi protagonisti, ritrova nelle tonalità accese e
cerulee di una fotografia glaciale, le proprie corrispondenze
cromatiche. Non c’è nulla nella costruzione visiva, registica,
scenografica lasciata al caso in Succession. Tutto
concorre all’esaltazione dei mutamenti di umore, all’esaltazione
narcisistica di uomini e donne egomaniaci, vittime e mai
trionfatori della propria sete di ambizione. Long live the king,
allora. Long live the Roy.