Julie Andrews ha
ritirato il Leone d’Oro alla Carriera a Venezia
76. L’attrice ha dichiarato: “Ancora mi meraviglio,
sono stata una ragazza fortunata che ha potuto recitare ruoli
bellissimi”.
Una standing ovation di 10 minuti ha
accompagnato l’attrice sul palco della sala Grande per ricevere il
premio dalle mani del presidente Paolo Baratta,
dopo un’appassionata lode rivoltale da Luca
Guadagnino.
Sempre elegante, l’attrice indossava
un tailleur pantalone celeste e ha rievocati alcuni ricordi
d’infanzia, tra cui la sua abitudine di cantare arie d’opera in
italiano, delle quali, però, non conosceva il significato.
Omaggiando lei stessa il Festival di Venezia come “il primo
Festival del mondo”, Julie Andrew ha dedicato
il premio ai giovani attori: “Chiedo loro di rimanere fedeli ai
loro sogni e alla loro visione”.
Un film di animazione si affaccia
timidamente nel concorso della 76° Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, rappresentando un evento veramente
raro. Si tratta di No.7 Cherry Lane (Ji yuan tai qi
hao) di Yofan, un’opera dal forte impatto
visivo, che narra una storia personale realmente vissuta, seppure
raccontata con visionarietà.
Siamo a Hong Kong negli anni
sessanta, dove il giovane e aitante Ziming è uno studente
universitario, colto, appassionato di letteratura e sportivo. In
quegli anni c’è un gran fermento sociale e culturale che influisce
sullo stile di vita e porterà alle rivolte politiche e agli
accadimenti turbolenti del 1967. Il ragazzo intraprende una
relazione con la signora Yu, una donna trasferitasi da Taiwan
durante i difficili anni del Terrore Bianco e che ora vive
a Hong Kong come esule. Ma Ziming è attratto anche dalla giovane e
bellissima Meiling, la figlia di Yu. Sarà l’inizio di un mènage à
trois, tra film, libri, sogni e focosi incontri.
Il regista di No.7 Cherry
Lane ha realizzato un film complesso ed elegante che
racconta sé stesso in maniera molto intima e lo fa in maniera
inconsueta, scegliendo come mezzo espressivo l’animazione. Dice:
“Si tratta della storia di un amore disperato, farcito di
ingredienti contraddittori: dentro e fuori, alti e bassi, vizio e
virtù, guerra e pace, la bella e la bestia, est e ovest,
eterodosso e classico, spirituale e fisico… il tutto mescolato a
migliaia di immagini realizzate a mano che costellano l’intera
pellicola.”
Yofan dichiara che
questo film sia il suo primo tentativo nell’ambito dell’animazione,
ma si fa fatica a credergli, visto il risultato finale di rara
bellezza, di un’eleganza visiva e narrativa difficilmente
raggiungibile senza una maturità poetica e tecnica. I colori sono
splendidi, le texture e i tratti di pastello restituiscono
moltiplicate le emozioni di trovarsi a Hong Kong in quegli anni,
con aerei mastodontici che passano a pochi metri sopra i palazzi
oscurando il sole, il cotone che fluttua sulla città come tiepida
neve, la folta vegetazione che sembra voler inghiottire le
architetture affastellate e avvinghiate con cavi e antenne. E poi
le scene sono disseminate di presenze, animaletti, bimbi, piccoli
elementi che contribuiscono a orchestrare una sinfonia vivace e
ipnotizzante. Yofan aggiunge, a proposito della
scelta dell’animazione “È solo attraverso questa forma d’arte
che posso trasmettere il mio sentimento di ‘desolazione nello
splendore’. È la mia lettera d’amore dedicata a Hong Kong e al
cinema. Una storia che parla di ieri, oggi e domani. E soprattutto,
è un film che parla di liberazione.”
No.7 Cherry Lane è
un delicato libro illustrato che si sfoglia davanti agli occhi
dello spettatore, cullandolo con musica e suoni che lo trasportano
in un sogno ad occhi spalancati. Il ritmo è lentissimo, quasi
esasperante, ma il punto di partenza è Alla ricerca del
tempo perduto di Proust. Questo lo
legittima e impone di abbandonarsi.
The King è una
libera rilettura di una delle tante opere di William
Shakespeare, l’Enrico V. È un film con un cast di
attori giovanissimi, tra i quali spicca per bravura e intensità
Timothée Chalamet.
In The King la
storia è quella inventata dal Bardo elisabettiano, che come un
arcaico Tarantino si dilettava nel comporre poesia
cruenta, fatta di girandole d’intrighi, lotte di potere, inganni,
violenza e sangue. Il protagonista è Hal, principe
d’Inghilterra ed Erede al trono, ma ribelle per sua natura e
contrario al modo di governare dell’ingiusto padre. I dissidi con
il genitore lo hanno portato lontano dalla corte, a vivere nel
borgo insieme alla povera gente. Quando il padre muore,
Hal viene incoronato Re d’Inghilterra, prendendo il posto
del fratello ucciso in battaglia. Il suo nome da sovrano è
Enrico V. Inizia per lui una dura lotta per difendersi da
tranelli e tradimenti che lo trascineranno a entrare in guerra con
la Francia. Unico fidato amico è un burbero cavaliere di nome
Falstaff.
The King, il film
Il cinema ci ha abituato ormai a
continue riletture dei drammi shakespeariani, con risultati
originali e magnificamente riusciti, come il
Macbeth di Roman Polanski,
The Tempest di Derek Jarman, o
Romeo+Giulietta di Baz Luhrmann,
o ancora Titus di Julie Taymor,
ma non mancano progetti discutibili, che certamente non meritano di
essere ricordati. The King si pone tra le
trasposizioni oneste e ben condotte, senza abbondare con
l’originalità o le invenzioni, rimanendo saldamente ancorato a una
messinscena storicamente credibile e ai limiti della ricostruzione
storica, se non per qualche modernizzazione di costume e taglio di
capelli. La trovata originale e vincente consiste nell’abbassare
l’età ai protagonisti della sanguinosa vicenda, rendendo
filologicamente giusta la durata della vita a quei tempi e
attualizzando il gioco di potere tra ragazzi poco più che
adolescenti.
Nonostante la grandezza dei mezzi
produttivi, molte sequenze di battaglia risultano contenute, così
come appaiono poco credibili alcune decisioni strategiche. Ma
probabilmente si tratta di soluzioni adatte al palcoscenico
teatrale, presenti nel canovaccio originale barocco, che una volta
trasportate in un contesto cinematografico stentano a mantenere una
giusta coerenza.
I personaggi sono ben dipinti, dai
protagonisti fino alle tante comparse. Timothée Chalamet è perfetto nel ruolo di un
giovanissimo Enrico V, con il suo piglio orgoglioso, il
suo sguardo sincero e la sua energica foga di combattere,
nonostante la sua stazza gracile e inadatta al pugnare. Non basta
una cotta di maglia e un’armatura a renderlo un feroce cavaliere
pronto a uccidere, ma è proprio questa la forza dirompente del suo
personaggio. Anche Joel Edgerton, tra l’altro sceneggiatore del
film, è a suo completo agio con spade e asce, facendo da robusto e
maturo contraltare al piccolo Re. Lily-Rose Depp ha un ruolo piccolo ma
determinante nello svolgimento finale della storia. Con poche
inquadrature e battute fondamentali riesce a imporre la sua bravura
e a rimanere impressa nella memoria.
Nel ripercorrere liberamente i
versi di Shakespeare, con The King,David Michôd costruisce The King,
un film che regala una riflessione profonda sulla brama di potere e
sulla guerra, magnificamente interpretato da un manipolo di attori
giovanissimi e godibile anche da chi non andrebbe mai a teatro per
assistere a un sanguigno dramma elisabettiano.
Il regista Pietro
Marcello e l’attore Luca Marinelli hanno
parlato d Martin
Eden, il film adattamento dall’omonimo romanzo di
Jack London, presentato in Concorso a
Venezia 76.
Gael Garcia Bernal e Mariana Di
Girolamo sono i protagonisti di Ema, il
nuovo film di Pablo Larrain in concorso a
Venezia 76. Ecco la nostra intervista agli
attori:
Torna al lido in concorso il Leone
d’oro Roy Andersson con il nuovo film OM
DET OÄNDLIGA che sarà presentato in sala grande alle
19:15.
Prodotto da Roy Andersson Film
Produktion (Pernilla Sandström, Johan Carlsson), Essential Films
(Philippe Bober), 4 1⁄2 Fiksjon (Håkon Øverås), nel cast
protagonisti Jan-Eje Ferling, Martin Serner, Bengt Bergius, Tatiana
Delaunay, Anders Hellström, Thore Flygel.
OM DET OÄNDLIGA SINOSSI
Una riflessione sulla vita umana in tutta la
sua bellezza e crudeltà, splendore e banalità. Trasportati in un
sogno, siamo guidati dalla gentile voce narrante di una Sherazad.
Momenti irrilevanti assumono lo stesso significato degli eventi
storici: una coppia fluttua su una Colonia devastata dalla guerra;
mentre accompagna la figlia a una festa di compleanno, un padre si
ferma per allacciarle le scarpe sotto una pioggia battente; ragazze
adolescenti ballano all’esterno di un caffè; un esercito sconfitto
marcia verso un campo di prigionia. Ode e lamento al tempo
stesso, Om det oändliga è un caleidoscopio di
tutto ciò che è eternamente umano, una storia infinita sulla
vulnerabilità dell’esistenza.
Commento del regista
La cornucopia è il mitico corno di
una capra, ed è ricolma di simboli di ricchezza e abbondanza. Di
solito è rappresentata traboccante di prodotti e di frutta di ogni
genere: un’abbondanza generosa che, secondo il mito, non diminuisce
mai, perché vera e propria rappresentazione dell’inesauribilità
infinita. È stato il mito greco a ispirarmi a unire tutte
queste scene, tutti questi temi in uno stesso film. Io voglio
sottolineare la bellezza di essere vivi e umani, ma per dimostrarlo
ci vuole un contrasto, bisogna rivelare anche il lato peggiore.
Questo film è sull’infinità dei segni dell’esistenza.
Monica Bellucci è
stata la protagonista di un incontro a Venezia 76
in occasione della riedizione di Irreversible,
film di Gaspar Noé del 2002 che ha girato insieme
all’allora marito Vincent Cassell. Alla Mostra il
film viene presentato in un nuovo montaggio, che ricostruisce in
senso cronologico le vicende della versione originale della
pellicola che fece scandalo diciassette anni fa.
“Questo nuovo montaggio mette
più in evidenza il contrasto tra la bellezza e la violenza, è
chiaro che sono temi polemici ma credo che ora questi temi vadano
affrontati – ha dichiarato la Bellucci – Io ho fatto
questo film 17 anni fa e la differenza è che oggi, con dei figli,
vedo le loro generazioni che sono diverse, c’è più apertura sono
più preparati rispetto a noi. Bisogna quindi trovare un terreno di
comunicazione per tutti perché anche la brutalità dell’abuso può
toccare chiunque e secondo me e credo secondo tutti non si tratta
di fare una guerra ma trovare argomenti che possano far evolvere il
rapporto uomo-donna”.
Ha poi proseguito, in merito alla
famosa scena di violenza nel tunnel: “All’epoca, nel girare
sotto quel tunnel, mi sentivo tutelata dalla presenza di mio marito
Vincent Cassel, protagonista del film. Ma le attrici dentro il loro
cuore hanno tante fate: dentro ne avevo una adatta per quella
scena. Ma prima della scena, per un giorno, non volli vedere
nessuno. Ora quando mi chiedono di fare un film penso molto a come
possono reagire le mie figlie, loro e i compagni di scuola, quindi
pensi che se fai una cosa un po’ scabrosa o scottante poi chissà
che impatto avrà, forse quindi ci rifletterei due volte prima di
accettare una cosa così potente e forse ne parlerei prima con
loro”.
Sono passati degli anni e ora che il
dibattito sulla violenza sulle donne è così vivo a livello
internazionale, Monica Bellucci spiega che molte
donne non riescono a guardarlo, oggi: “Sono passati tanti anni
e tante lotte per la condizione della donna, forse per questo qui a
Venezia dopo la proiezione e dopo quella scena di 9 minuti di
massacro alcune donne mi guardavano perplesse e mi hanno chiesto:
perché ho fatto quel film…” Ma l’attrice è convinta, a
ragione, che quella violenza finta, sullo schermo, possa aiutare
ancora a tenere alto l’interesse sull’argomento.
Il Re
Leone domina al box office italiano, seguito da
Attacco al Potere 3 e Fast &
Furious – Hobbs & Shaw. Seconda settimana
strepitosa per Il Re
Leone, che domina la classifica degli incassi con
cifre da capogiro. Il live action diretto da Jon Favreau incassa
6,3 milioni di euro in circa mille sale a disposizione e giunge
alla bellezza di 26 milioni di euro in undici giorni di
programmazione.
Il resto della classifica ha ben
altri numeri, a partire da Attacco al Potere
3 che apre in seconda posizione con 942.000 euro in
415 copie, registrando una media per sala di 2200 euro. Fast & Furious – Hobbs & Shaw scende
al terzo posto con altri 314.000 euro arrivando a quota 5,8
milioni. Flop per 5 è il numero perfetto,
che debutta con soli 228.000 euro incassati in ben 337 sale
disponibili. Il Signor Diavolo perde due posizioni
rispetto all’esordio raccogliendo altri 209.000 euro con cui
totalizza 816.000 euro.
Seguono le new entry
Genitori quasi perfetti (156.000 euro) e
Blinded by the light – Travolto dalla
musica (114.000 euro). Teen Spirit esordisce con appena
66.000 euro in 220 sale a disposizione, mentre Crawl – Intrappolati precipita al
nono posto con altri 56.000 euro con cui arriva a 783.000
complessivi. Chiude la top10 L’amour flou – Come
separarsi e restare amici, che debutta con con 49.000
euro in una quarantina di copie.
Uno dei film più iconici degli anni
ottanta è senza dubbio I Goonies, film
d’avventura diretto da Richard Donner e prodotto
da Steven
Spielberg. Il film ha per protagonisti un gruppo di
ragazzi i quali, rinvenuta una mappa del tesoro, si incamminano
alla ricerca di questo. Durante il loro percorso, i sette piccoli
Goonies affronteranno paure e prove terribili, incontrando
pipistrelli e trabocchetti.
Per anni si è parlato di realizzare
un possibile sequel al film del 1985, ma le tante idee proposte non
si sono mai concretizzate. Durante una piccola reunion del cast
originale al FAN EXPO in Canada, tuttavia, le speranze dei fan sono
state riaccese da alcune dichiarazioni degli attori presenti.
“Il pubblico lo desidera, –
ha dichiarato Sean Austin, interprete di Mikey
Walsh – e lo realizzeranno. E’ snervante che ci stia volendo
così tanto tempo. Mi dispiace anche per conto di Steven Spielberg.”
“Lo faremo domani, lo
giuro.” ha invece affermato Corey Feldman,
che ricopriva il ruolo di Clark Devereaux. “Un giorno. Un
giorno accadrà”, profetizza invece con tono più serio
Jonathan Ke Quan, che nel film interpretava
Richard Wang.
Se quanto dichiarato è vero, prima o
poi verrà realizzato davvero un sequel diretto del film I
Goonies, ma non è ancora possibile stabilire con certezza
quando ciò avverrà. Certamente l’attuale nuova ondata di nostalgia
verso gli anni ’80 potrebbe contribuire ad accelerare i tempi di
realizzazione.
Dopo Dumbo, Aladdin e Il Re Leone, tra i
prossimi adattamenti in live action dei classici Disney ci sarà
anche Hercules, film animato del 1997 di grande
successo.
Tra i primi nomi proposti per
interpretare il celebre semidio ci sarebbero Alexander Skarsgard
e Trevor Donovan. Novità arrivano invece per
quanto riguarda la ricerca dell’interprete di Ade, il celebre
villain del film, il quale aspira a spodestare Zeus e ottenere il
dominio dell’Olimpo.
Nella versione animata era
James Woods a dare voce al personaggio, ma stando
ad alcune indiscrezioni la Disney sarebbe alla ricerca di un
differente tipo d’attore per il remake. Nella speranza di conferire
ad Ade una nuova personalità, i produttori starebbero pensando ad
un attore britannico, che abbia classe e carisma.
Quest’ultimo ha già dato vita ad un
villain all’interno del mondo Disney e Marvel, ovvero il celebre Loki.
Cumberbatch dal canto suo ha già prestato la voce,
e le movenze, per il temibile Smaug della trilogia
dedicata a Lo Hobbit, dimostrando dunque grande
versatilità. Bisogna inoltre considerare che entrambi hanno più
volte rivelato grandi doti comiche, e nel caso uno di loro venisse
davvero selezionato, anche quest’aspetto del personaggio di Ade non
andrebbe perso.
Si tratta tuttavia ancora soltanto
di voci, e non sembrano esserci ancora state delle prime trattative
tra la Disney e i due attori. Per avere novità riguardo il live
action di Hercules bisognerà dunque aspettare i
prossimi mesi, quando probabilmente la produzione del film entrerà
nel vivo.
Dopo settimane di tensione tra la
Disney e la Sony, nuove proposte sono state avanzate da
quest’ultima circa il futuro del personaggio. Spider-Man potrebbe
tornare nell’MCU ad una condizione, ovvero la
libertà di apparire nei futuri film Sony legati all’universo
fumettistico del personaggio, sequel di Venom in primis.
La Marvel potrebbe in tal modo gestire
il personaggio all’interno del Marvel Cinematic Universe, mentre
la Sony lo gestirebbe all’interno di un altro proprio universo
cinematografico, senza che i due si intersechino tra loro.
Questa clausola dovrebbe estendersi
anche a qualsiasi altra opera in cui è potenzialmente prevista la
presenza di Peter Parker, come i film attualmente in lavorazione
dedicati a Kraven e
Morbius.
Come recentemente riportato, lo
Spider-Man di Tom
Hollandappariva in un cameo
all’interno del film Venom, ma al montaggio
questo fu fatto tagliare dalla Disney. Qualora vi fosse stata la
presenza di Spider-Man nel film, questo avrebbe di conseguenza
incluso anche Venom all’interno dell’MCU, cosa che invece Kevin Feige e
i Marvel Studios non sembravano disposti ad
accettare.
Si attende ora una risposta dalla
parte opposta, e in caso l’accordo riesca ad essere nuovamente
stretto, ci sarebbe la possibilità di vedere il supereroe
interpretato da Holland all’interno di due distinti universi
narrativi, salvo una futura unione.
Vi ricordiamo che Spider-Man: Far From Home
è uscito il 10 luglio in sala, ed è ancora oggi presente al cinema.
Nel film, ambientato pochi mesi dopo gli eventi di Avengers: Endgame, Spider-Man si
ritroverà a dover fronteggiare gli Elementali, esseri composti dai
quattro elementi fondamentali che minacciano di distruggere il
pianeta. Al suo fianco ci sarà però Quentin Beck, rinominato
Mysterio, eroe dall’enigmatico passato.
Il film è diretto da
Jon Watts con Tom Holland, Jake
Gyllenhaal, Zendaya, Samuel L. Jackson, Cobie Smulders, Jon
Favreau, JB Smoove, Jacob Batalon e Marisa
Tomei.
Per il suo ruolo nel film Joker, l’attore Joaquin Phoenix ha
dichiarato di non essersi ispirato a nessuna delle molteplici
versioni del personaggio.
Con il debutto avvenuto nel 1940,
Joker doveva essere un nemico come un altro per il guardiano di
Gotham City, ma il suo successo spinse gli editori a portarne
avanti la storia, facendolo ben presto diventare la nemesi per
eccellenza di Batman.
Nel corso degli anni il personaggio
è stato adattato numerose volte, dalla versione animata doppiata da
Mark Hamill a quella
cinematografica di Jack Nicholson per il film
Batman di Tim Burton. Più di
recente il personaggio è stato portato al cinema in una
riuscitissima versione da Heath Ledger in
Il Cavaliere Oscuro e in una meno fortunata da
Jared Leto in Suicide Squad.
Parlando con Variety al Festival di Venezia, dove il film è stato
presentato in anteprima, Joaquin Phoenix ha
dichiarato di aver avuto grande liberta da parte dei produttori
sulla costruzione del personaggio. “Non è ispirato a nessuna
delle precedenti versioni. – ha dichiarato l’attore – E’
come un qualcosa di nostra creazione.”
“Quello che mi attraeva di più
del personaggio, – continua Phoenix – è che è davvero
difficile da definire. In realtà non vuoi davvero definirlo. Ogni
giorno ci sembrava di scoprire nuovi aspetti del personaggio, ed è
stato così fino all’ultimo giorno.”
Stando a quanto dichiarato
dall’attore, la vera fonte d’ispirazione del personaggio viene
dalla lettura di alcuni libri basati su celebri assassini di
politici. “Volevo la libertà di creare qualcosa che non fosse
identificabile. Questo è un personaggio inventato, non volevo che
uno psichiatra potesse realmente identificare che tipo di persona
fosse.”
Joker sarà un film
scollegato dal DC
Extended Universe, e avrà per protagonista Arthur Fleck, un
aspirante cabarettista il cui scarso successo lo costringe a
lavorare come pagliaccio. Alienato ed emarginato dalla società, nel
tentativo di ribellarsi finirà con il trasformarsi in una delle
peggiori menti criminali mai viste a Gotham.
Vi ricordiamo che il film
Joker è stato presentato alla 76° Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, per poi arrivare
nei cinema dal 4 ottobre. Il film è diretto da Todd
Phillips e ha nel suo cast attori quali Joaquin
Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Bill Camp,
Frances Conroy e Brett Cullen.
Durante un intervista con il
magazine Disney Twenty-Three, Downey Jr. riflette sulla loro uscita
dall’MCU, affermando che secondo loro
era il momento giusto per farlo.
“Dovevamo lasciare. L’abbiamo
deciso noi, e sapevo sarebbe stato parte del lavoro il scendere dal
bus mentre questo si dirige verso altre destinazioni. – ha
spiegato l’attore – E’ molto triste, ma io e Chris saremo
sempre pronti ad accogliere coloro che lasceranno dopo di
noi.”
Robert Downey Jr.
ha ricoperto il ruolo di Tony Stark/Iron Man sin
dal primo film, realizzato nel 2008 e dedicato proprio al celebre
supereroe. Chris Evans ha invece interpretato il
ruolo di Steve Rogers/Captain America dal 2011. I
due sono parte del gruppo originale degli
Avengers, nel film del 2012. Da
quel momento i due sono apparsi in numerosi altri film
dell’MCU, tramite cameo o ruoli
secondari.
Avengers: Endgame ha concluso
l’arco narrativo dei due supereroi, con il sacrificio estremo di
Tony Stark per l’umanità e la possibilità di Captain America di
tornare nel passato e vivere la sua vita accanto all’amata Peggy
Carter.
Ricordiamo che Avengers:
Endgame è di prossima uscita in home-video. Il film,
diretto da Joe e Anthony Russo, si ritrovano
Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris
Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch,
Jeremy Renner, Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick Boseman, Paul
Bettany, Elizabeth Olsen, Antony Mackie, Sebastian Stan, Letitia
Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin, Chris Pratt,
Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie Larson e
Samuel L. Jackson.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018),
l’universo è in rovina a causa degli sforzi del Titano Pazzo,
Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti in vita dopo lo schiocco,
i Vendicatori dovranno riunirsi ancora una volta per annullare le
azioni del villain e ripristinare l’ordine nell’universo una volta
per tutte, indipendentemente dalle conseguenze che potrebbero
esserci.
Gli sceneggiatori di Avengers: Endgame,
Christopher Markus e Stephen
McFeely si sono dichiarati in disaccordo con i registi
Joe e Anthony Russo riguardo a
come il ritorno nel passato di Captain America per
vivere insieme a Peggy Carter influenzi la
timeline dell’MCU.
Contrariamente a quanto affermato
dai due registi, secondo i quali una nuova timeline si genera dal
ritorno nel passato del personaggio, stando ai due sceneggiatori
nulla viene alterato, e Steve Rogers semplicemente rimane sullo
sfondo degli eventi.
Uno dei principali punti di
discussione avviene riguardo la possibilità per Steve Rogers, in
una timeline alternativa, di influenzare gli eventi della storia,
impedendo così alcuni dei più scioccanti e tragici momenti accaduti
dalla metà del Novecento in poi.
Tuttavia, durante un panel al
Comic-Con International a San Diego, Christopher
Markus ha spiegato come mai secondo lui Steve
Rogers non abbia cambiato la storia: “Io e Stephen
siamo stati attratti fin da subito dall’idea che il ritorno nel
passato di Steve comportasse la sua silenziosa presenza sullo
sfondo di tutti gli eventi poi accaduti.”
“Certo, avrebbe potuto evitare
tante cose che sapeva sarebbero accadute, – ha continuato
Markus – ad esempio salvare Bucky o Kennedy, ma questo non è il
motivo per cui l’abbiamo rimandato indietro. L’abbiamo fatto
tornare indietro così che potesse tornare dalla guerra, vivere la
sua vita, e onorare l’appuntamento con Peggy.”
Ricomparso ormai invecchiato alla
fine di Avengers: Endgame, Captain America
dona il suo famoso scudo a Sam Wilson, alias
Falcon, il quale prende così il suo posto, e
comparirà in tale ruolo nella serie Disney+ intitolata The Falcon and the Winter
Soldier.
Ricordiamo che Avengers:
Endgame è di prossima uscita in home-video. Il film,
diretto da Joe e Anthony Russo, si ritrovano
Robert Downey Jr.,
Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Jeremy Renner,
Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick
Boseman, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Antony Mackie, Sebastian
Stan, Letitia Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin,
Chris Pratt, Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie
Larson e Samuel L. Jackson.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018),
l’universo è in rovina a causa degli sforzi del Titano Pazzo,
Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti in vita dopo lo schiocco,
i Vendicatori dovranno riunirsi ancora una volta per annullare le
azioni del villain e ripristinare l’ordine nell’universo una volta
per tutte, indipendentemente dalle conseguenze che potrebbero
esserci.
Nell’anno del grande sacrificio
cinematografico di Iron
Man, avvenuto in Avengers: Endgame,
un monumento in onore del celebre supereroe è stato eretto in
Italia, a Forte dei Marmi. Le foto sono state diffuse su Reddit
all’indirizzo r/MarvelStudios.
La statua, realizzata in acciaio
lucido e ottone, ritrae Iron Man nella sua più iconica posa. Alta
circa quattro metri, è stata disegnata e realizzata dallo scultore
Daniele Basso per la sua esposizione d’arte
intitolata “Oltre Verso” e presente alla galleria Lorenese a Forte
dei Marmi. L’omaggio a Tony Stark si trova all’esterno della
galleria, precisamente nel mezzo di via Carducci.
Alla base della statua vi è una
targa che recita: “Il primo monumento dedicato a Iron Man
nell’anno della sua morte cinematografica. Celebriamo Toni Stark
come l’uomo che ha dedicato la sua vita a combattere per gli ideali
in cui credeva, ricordandoci che siamo tutti protagonisti del
nostro futuro, che il futuro dell’umanità dipende dalle nostre
decisioni… e che tutti noi dobbiamo essere eroi.”
Il tributo rende così onore al volto
di questi primi dieci anni di Marvel Cinematic Universe, iniziati
proprio con il film Iron Man nel 2008. Nell’arco
di 23 film, Robert Downey
Jr. è apparso ben 10 volte nel ruolo del genio,
miliardario, playboy e filantropo.
Avengers: Endgameè di
prossima uscita in home-video. Il film, diretto da Joe e
Anthony Russo, si ritrovano Robert Downey Jr.,
Chris Hemsworth, Mark
Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Jeremy Renner,
Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick
Boseman, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Antony Mackie, Sebastian
Stan, Letitia Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin,
Chris Pratt, Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie
Larson e Samuel L. Jackson.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018),
l’universo è in rovina a causa degli sforzi del Titano Pazzo,
Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti in vita dopo lo schiocco,
i Vendicatori dovranno riunirsi ancora una volta per annullare le
azioni del villain e ripristinare l’ordine nell’universo una volta
per tutte, indipendentemente dalle conseguenze che potrebbero
esserci.
È stato un red carpet affollato e
pieni di star quello che ha impreziosito la serata di domenica 1
settembre, alla Mostra internazionale d’arte cinematografica
di Venezia 76. Hanno sfilato i protagonisti di Wasp Network, il
film di Olivier Assayas, Penelope Cruz, Edgar Ramirez e Gael Garcia
Bernal, ma anche i due premi Oscar Meryl Streep e Gary Oldman,
protagonisti di The Laundromat, film di Steven Soderberg, pure in
concorso.
Ecco tutti gli ospiti negli scatti di Luigi De Pompeis:
E’ il grande giorno del nominato
all’Oscar Timothée Chalamet che arriva al lido per
presentare The King, il film originale Netflix fuori concorso al Venezia 76. The
King è prodotto da Plan B
(Brad
Pitt, Dede Gardner), Porchlight Films
(Liz Watts), Yoki (David Michôd),
Blue-Tongue Films (Joel Edgerton) e Netflix. Alla
regia il regista di Animal Kingdom David Michôd. Nel cast anche
Joel Edgerton, Sean Harris, Tom Glynn-Carney,
Lily-Rose Depp, Thomasin McKenzie, Robert Pattinson, Ben
Mendelsohn.
The King, il film
Principe ribelle e riluttante erede
al trono d’Inghilterra, Hal ha voltato le spalle alla vita di corte
e vive tra il popolo. Ma quando il tirannico padre muore, Hal
è incoronato re con il nome di Enrico V e si trova costretto
ad abbracciare la vita alla quale aveva cercato di sfuggire fino ad
allora. Il giovane re si trova ora a destreggiarsi tra la politica
di palazzo, il caos, le guerre che il padre si è lasciato alle
spalle, e le vicende emotive della sua vita passata, incluso il
rapporto con l’intimo amico e mentore, l’anziano cavaliere
alcolista John Falstaff.
COMMENTO DEL REGISTA
Prima che io e
Joel Edgerton decidessimo di ripercorrere la storia di Enrico V,
non avevo mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato a girare un
film ambientato nel Medioevo. Non mi sono mai sentito molto vicino
a spade e cavalli. Ma più ne parlavamo e approfondivo le
ricerche, più mi entusiasmavo all’idea di ritrarre il Medioevo
– con le sue ombre, la sua brutalità, la precarietà tra la
vita e la morte, il suo misticismo – in modo crudo e umano allo
stesso tempo. Volevo realizzare il tipo di film medievale che avevo
in mente, ossia privo della retorica nazionalista normalmente
associata alla storia di Enrico V. Un film che potesse fare luce su
come la guerra può emergere dalle paludi del potere e della
paranoia, dell’avidità e dell’arroganza, della paura e della
famiglia.
Tutti la ricordano per quel taglio
così corto e quel pollice delicatamente passato sopra alle labbra,
alla fine di Fino all’Ultimo Respiro, ma l’attrice
Jean Seberg è stata protagonista di una delle più
interessanti, misteriose e tormentate biografie. Questa biografia
viene riproposta in Seberg, di Benedict
Andrews, presentato Fuori Concorso a Venezia
76.
La storia ruota intorno alla periodo
in cui l’attrice, divenuta il simbolo della Nouvelle Vague, decise
di proseguire la sua carriera a Hollywood, della sua relazione
clandestina con un attivista per i diritti dei neri, del suo
finanziamento alle Pantere Nere e della sua intensa attività
sociale. L’attrice diventa così d’interesse del FBI che
la spia secondo il protocollo illegale voluto da Hoover, il
COINTELPRO. Questo processo porterà l’attrice a un tracollo
personale che la spingerà addirittura a tentare il suicidio.
Andrews sceglie Kristen
Stewart per interpretare l’avvincente biografia della
Seberg, peccato che non faccia lo stesso con il tono e
l’angolazione del racconto. Il fuoco del racconto, infatti, si
sposta di continuo dall’attrice al privato di uno degli agenti del
FBI incaricati di spiarla, passando anche per la vita privata
dell’attivista per i diritti dei neri che ebbe una storia d’amore
con Jean.
Questa mancanza di direzione rende
il film un compendio biografico che informa di una storia,
romanzando dove possibile, senza aggiungere un valore
cinematografico al progetto che pure vede coinvolta la Stewart che
è una delle giovani attrici più richieste e amate del cinema
d’autore. Lei, dal canto suo, offre un’ottima performance, giocando
alla diva degli anni ’60, scivolando in abitini, costumi da bagno e
vestiti di scena con grande agilità e restituendo parte della forza
e della determinazione, ma anche della fragilità di questa donna
così affascinante e misteriosa.
Il film vuole essere principalmente
un omaggio alla figura della Seberg, un ricordo,
nemmeno troppo commosso, di una storia dimenticata.
Il veterano della mostra
Olivier Assayas, dopo Doubles
Vies dello scorso anno, porta in concorso a Venezia
il suo nuovo film Wasp Network, storia ambientata
a Cuba negli anni novanta e interpretata tra i tanti attori da
Gael García Bernal e Penélope
Cruz.
Nel film, basato su una storia
realmente accaduta, è raccontata la storia dei cosiddetti
“Cinque Cubani”, ovvero cinque prigionieri politici (in
realtà erano molti di più), accusati di spionaggio, omicidio,
traffico di droga e altri crimini e condannati a molti anni di
carcere dal governo Americano. Tra loro c’è René González,
un pilota cubano, che rubò un aereo e fuggì da Cuba, abbandonando
la moglie e la figlia. González, una volta arrivato
in Florida si costruì una nuova vita a Miami, entrando in
contatto con altri dissidenti, tutti impegnati nella
destabilizzazione del regime di Castro, ma in realtà si trattava di
agenti che dovevano raccogliere informazioni per sventare atti
terroristici a Cuba a danno dei turisti stranieri. Il gruppo di
infiltrati venne chiamato Wasp Network. La vicenda narrata
nel film inizia nel 1990, proprio con la fuga di René González, per
intrecciarsi poi con altre fughe ed espatri, in una ragnatela di
intrighi, bugie e continui voltafaccia.
Olivier Assayas
pensa che i fatti accaduti durante tutto il periodo della Guerra
Fredda abbiano influenzato il pensiero della sua generazione e
delineato i contorni del presente. Le ceneri di quei conflitti
ardono ancora, anche se poco visibili, ma possono riprendere
facilmente vigore e bruciare nuovamente. Per questo motivo ha
scelto di raccontare in Wasp Network la storia di
uno di questi avvenimenti, nella convinzione che la distanza
storica sia ormai tale da poterne discutere. Sicuramente non
distaccandosene, ma potendo “fruire di libertà e rigore in
un’analisi magnanima, seppur prudente. Senza farsi ingannare dalle
maschere dell’ideologia.” Assayas si dichiara
interessato alla storia moderna vista attraverso la lente della sua
umanità e chiamando in causa Shakespeare dice: “La politica,
come la vita, è un racconto narrato da uno stolto, pieno di rumore
e furore, che non significa nulla. Ma è di questa passione che gli
uomini vivono. E muoiono.”
Wasp Network è ben
costruito e descrive esaurientemente tutte le figure, gli intrecci
e le motivazioni che spinsero i personaggi reali fare scelte così
difficili. Tutto il cast è centrato e credibile. Su tutti spicca
l’interpretazione di Penélope Cruz, nel ruolo
della moglie del pilota, abbandonata a cuba con la figlia piccola.
Ma il film di Assayas manca di ritmo, in molte
sequenze la narrazione diviene didascalica e mera illustrazione di
una descrizione necessaria alla comprensione dello svolgimento dei
complessi fatti. Lo svolgimento della vicenda, che si dipana su
oltre un decennio, non aiuta certo ad alleggerire.
Dopo la prima stagione di
The young Pope , che era stata proiettata in
anteprima a Venezia nel 2016, Paolo Sorrentino
presenta un goloso assaggio della nuova serie. Il titolo cambia in
The new Pope per assecondare
l’andamento narrativo della storia. Sono stati presentati il
secondo e il settimo episodio, puntellati da un riassunto della
prima serie e di uno di collegamento tra le due puntate. Il cast è
ricchissimo, composto da nomi internazionali: Jude Law,
John Malkovich,
Silvio Orlando, Cécile de France, Javier Cámara, Ludivine
Sagnier.
La storia riprende dopo l’infarto
del giovane Papa nel finale della prima stagione. Ora Pio
XIII è in coma e sembra destinato a non riprendersi. Passati
alcuni mesi viene proclamato un nuovo pontefice che però muore in
circostanze sospette. Il Cardinale Voiello si opera allora, con
tutto il suo potere politico, a far salire al soglio pontificio
Sir John Brannox, un aristocratico inglese, affascinante e
sofisticato, che prende il nome di Giovanni Paolo III. Il nuovo
papa sembra perfetto, ma cela debolezza e segreti. Pio
XIII sembra ormai destinato a essere solamente ricordato e
venerato, ma forse i miracoli sono sempre possibili.
The new Pope
conferma in pieno lo stile inconfondibile di Paolo
Sorrentino. Bastano pochi fotogrammi per riconoscere il
suo modo di raccontare, fatto di simmetrie geometriche innaturali,
di scene al rallentatore esasperate, di musica pop e tecno, di nudi
femminili e maschili, di colori acidi e luci al neon. E’ uno stile
che film dopo film si evolve, o meglio lievita, come un impasto
impazzito che potrebbe anche rischiare di esplodere, imbrattando
tutto. Gli stilemi si fanno reiterati e insieme a grande bellezza e
fascino visivo si ha la sensazione di patinatura, di estrema
impalcatura estetica che spesso vorrebbe soffocare i contenuti. E’
un male? Certamente no. Tanti autori, dai quali Sorrentino sembra
attingere a piene mani, hanno fatto lo stesso, costruendo la
propria poetica espressiva sull’eccesso e sulla costruzione barocca
e provocatoria.
Nel vedere The new
Pope come si fa a non pensare a Peter
Greenaway, a Derek Jarman, a
FedericoFellini, a Ken
Russell, solo per citarne alcuni. Forse è citazionismo, o
forse è uno studio accurato di riferimenti importanti per la
costruzione di uno stile personale, che si nutre di arti figurative
con golosità. Per Sorrentino il volgare si sposa
con l’eleganza, la trivialità si eleva a stile, il sacro abbraccia
il profano e la blasfemia è così ruffiana da apparire ammaliante.
Vedendo The new Pope si avvertono sensazioni
simili a quelle che si provano nell’ammirare una fotografia di
David La Chapelle, o una scultura di Jeff
Koons, o anche un opera di Damien Hirst.
Si può rimanere stupefatti, indignati, affascinati, o magari anche
schifati, o offesi. E questo è bello. Vuol dire che sta succedendo
qualcosa di positivo nella serialità televisiva, che stiamo
parlando di una serie che strappa i confini dello schermo,
cinematografico o televisivo che sia, e che pone l’opera in
territori di sperimentazione che sembravano persi a favore della
speculazione.
La capacità di narrazione di
Sorrentino è notevole e la descrizione dei tanti
personaggi risulta perfettamente calibrata, scritta in punta di
pennino da un abile affabulatore moderno, con calligrafia elegante
e mai ovvia. Gli interpreti sono tutti azzeccati, nella loro
caratterizzazione forzata che li rende pupazzi, burattini alla
mercé di un estroso burattinaio. Spiccano Jude Law
e John Malkovich, per aver dato spessore e
sfumature a due uomini misteriosi, apparentemente impenetrabili,
con dubbi e tormenti profondi, ma che rappresentano il più alto
punto di riferimento per gran parte dell’umanità.
The New Pope di
Paolo Sorrentino conferma l’originalità e la
fascinazione di The Young Pope e si conferma una
serie che rompe violentemente gli schemi e allarga lo sguardo verso
progetti di grande respiro espressivo, uscendo finalmente dalla
mera commercialità.
Adattamento dell’omonimo testo
teatrale di Eduardo De Filippo,
Il Sindaco del Rione Sanità è il nuovo film di
Mario Martone, in Concorso a Venezia
76. Modificando alcuni elementi dell’originale, il regista
tenta di dare una nuova attualità all’opera, avvalendosi di giovani
attori del panorama teatrale partenopeo e di alcuni volti molto
noti del cinema, trai quali spicca Massimiliano
Gallo, sempre in grande forma.
Antonio Barracano, “uomo d’onore”
che sa distinguere tra “gente per bene e gente carogna”, è “Il
Sindaco” del rione Sanità. Con la sua carismatica influenza e
l’aiuto dell’amico medico amministra la giustizia secondo suoi
personali criteri, al di fuori dello Stato e al di sopra delle
parti. Chi “tiene santi” va in Paradiso e chi non ne tiene va da
Don Antonio, questa è la regola. Quando gli si presenta disperato
Rafiluccio Santaniello, il figlio del fornaio, deciso a uccidere il
padre, Don Antonio, riconosce nel giovane lo stesso sentimento di
vendetta che da ragazzo lo aveva ossessionato e poi cambiato per
sempre. Il Sindaco decide di intervenire per riconciliare padre e
figlio e salvarli entrambi. Nei panni di Antonio Barracano c’è
Francesco Di Leva, di trent’anni più giovane
di Eduardo, quando mise in scena la prima volta il testo nello
stesso ruolo. Uno spostamento, e soprattutto un cambiamento di
look, laddove l’incarnazione anziana era elegante e quella giovane
è appariscente, che sono sintomatiche del lavoro di spostamento
verso una contemporaneità in cui i boss non diventano vecchi,
oppure lo sono già a 40 anni.
Il Sindaco del Rione Sanità, il film
Il testo di Eduardo al cinema è
inizialmente forzato, ostico, teatrale nel senso negativo del
termine perché sembra non sposarsi con i ritmi di un racconto
filmato, ma man mano che entriamo nella vicenda, ci abituiamo
all’enfasi e scopriamo cosa qual è il racconto principale, dove va
a parare e soprattutto che razza d’uomo è questo signorotto un po’
sgradevole nei modi autoritari, con un fine nobile però, tanto che
arriva a sacrificare la sua vita, più o meno volontariamente, per
la pace nel suo rione. Martone trasla i tre atti su grande schermo,
e si avvale di interpreti efficaci e dedicati, così che la sua
messa in scena de Il Sindaco del Rione Sanità, al
netto dello spostamento del testo originale, riesce comunque a
restituire il contenuto altissimo che Eduardo aveva dato alle
parole di Barracano. Certo, l’effetto straniante rimane, ma la
potenza delle parole travalica il tempo.
Meryl Streep, trai
protagonisti di The Laundromat, in concorso a
Venezia 76, descrive così il film diretto da
Steven Soderberg: “Il film racconta di un
messicano e un tedesco che prendono dei soldi dai cinesi, dai
presidenti di Islanda e Malta, da Bruce Lee”. “Ma anche
Kubrick…” le fa eco Gary Oldman, altro
protagonista, insieme ad Antonio Banderas assente,
del film che racconta dello scandalo dei Panama
Papers.
Il film si apre e si chiude con due
piano sequenza, lunghe inquadrature senza stacchi che vedono
protagonisti in apertura Oldman e in chiusura la Streep, che offre
un altro saggio, l’ennesimo, della sua grande bravura.
Gary Oldman:
“Nel mio caso è stato più semplice, perché io rimango nel mio
personaggio per tutta la scena, un unico piano sequenza senza
tagli. L’unica difficoltà di una scena così è il testo, da attori
il minimo da fare è imparare le battute, e in film come questi ci
sono intere pagine di battute da imparare a memoria. Il regista
chiede sempre cose diverse, rigirando la stessa scena, e quindi è
importante sapere tutto a memoria.”
Meryl Streep:
“Il mio piano sequenza finale è stata una delle scene più
difficili del film. Non lo sapevo fino alla sera prima: le mie
scene erano tutte concentrate in un unico blocco e solo la sera
prima ho scoperto che avremmo fatto questa parte in questo modo.
L’aspetto più difficile è stato il fatto che ho recitato la lettera
John Doe: è la vera lettera, scritta dalla gola profonda dei Panama
Papers, ed è scritta nel linguaggio scritto, che non è colloquiale.
Mi sono dovuta impegnare a renderlo tale ma sforzandomi di non
cambiare nulla, e nel frattempo dovevo trasformarmi. Non è stato
affatto semplice. L’abbiamo rigirata tantissime volte, volevo che
fosse perfetta, che non ci fosse nemmeno una parola fuori posto,
perché erano le parole di una persona coraggiosissima che ha
cambiato il mondo.”
Il personaggio della Streep ricorda
tutte le persone comuni che, colpite da un fatto personale, cercano
di fare qualcosa per cambiare il mondo. “Penso che tutti noi
quando vediamo persone appassionate tendiamo a fidarci – ha
detto Meryl Streep – Io stessa beneficio delle
leggi che hanno dato la possibilità a queste persone di perpetrare
questi crimini, ma non mi interessa conservare questo diritto.
Spesso, le persone che alimentano e sostengono questo sistema sono
le più povere, e c’è dell’ironia in questo. Il mio personaggio non
è diverso da mia madre, o dalla gente del posto in cui sono nata:
persone che vivono la loro vita, vanno in chiesa, pensano ci sia
giustizia, e quando vedono che non c’è, non si sa con quale forza
cercano di cambiare il mondo. Ma il mio è un personaggio creato da
Soderbergh e Scott Z. Burns.”
Entrambi gli attori si sono distinti
per le trasformazioni nei loro ruoli. Ed entrambi hanno dei canoni
molto precisi in base ai quali scelgono i copioni che vengono loro
proposti.
Meryl Streep:
“Non vedo il mio lavoro come un compito a casa o una
prescrizione medica. Ovviamente amo la sfida, amo mantenere la
mente aperta e imparare a pensarla diversamente. Invecchiando
qualcuno pensa di aver imparato tutto, di sapere tutto, e invece a
me piace aprire la mia mente.”
Gary Oldman:
“Vi rendete conto che avete davanti due primi ministri inglesi!
Il punto è che nell’interpretazione l’elemento fisico è uno degli
aspetti più difficili. Quando mi trovo davanti a un rischio, quello
che penso è: se cadrò, precipiterò e sarà una caduta lunghissima e
quando arriverò al suolo mi farò molto male. Ma questo fa parte del
rischio che ci prendiamo quando accettiamo un ruolo
difficile.”
Per Olivier
Assayas, Cuba è il cuore pulsante di Wasp
Network. Oggi il regista francese, presente in conferenza
stampa con i protagonisti del suo ultimo thriller politico, ha
raccontato di quanto sia stato complicato conoscere le molteplici
sfaccettature de La Havana. Certamente è stato un processo di
scoperta lungo e complicato, ma fondamentale per arricchire e
perfezionare la sceneggiatura e lo spessore dei personaggi.
All’inizio erano tutti sospettosi nei confronti di un regista
francese che voleva parlare di quello che era successo ai Cinque
eroi di Cuba, di qualcosa che non apparteneva alla sua storia.
Superate le prime ritrosie la troupe
non ha mai incontrato grossi ostacoli, il lavoro è stati monitorato
ma mai compromesso e la pellicola è quella che Assayas voleva
realizzare fin dall’inizio. Durante la lavorazione di Wasp, i
rapporti tra USA e Cuba si sono fatti ancora più turbolenti e oggi
non sarebbe possibile avere accesso a quei luoghi per effettuare
delle riprese. Assayas non ha mai incontrato Fernando
Morais, autore de Los ultimos soldados de la guerra
fria da cui il film è tratto, ma ha usato il materiale
riservato che il giornalista ha raccolto nel corso degli anni e ciò
gli ha permesso di approfondire gli aspetti più controversi della
vicenda e sottolineare la posizione ambivalente degli Stati
Uniti.
Penélope Cruz ha
scelto di lavorare con Assayas per la passione e l’onestà che il
regista mette nel raccontare una storia. Ha parlato con molti
cubani per identificarsi meglio con il personaggio di Olga, fare
propri i suoi valori e comprendere il suo estremismo. È stato
difficile ricevere informazioni concrete e condividere il loro
punto di vista sugli avvenimenti degli ultimi decenni. Trova
assurdo che nel 2019 non si possa esprimere liberamente il proprio
pensiero. Una delle paure più grandi dell’attrice è vedere il mondo
sempre più diviso e mosso da un cieco individualismo, in balia
della tecnologia che toglie tempo alla comunicazione vera, ai
rapporti personali.
Per Edgar Ramírez
non esiste più l’idea romantica del patriottismo. Le spie compiono
un vero e proprio sdoppiamento di personalità. Si calano nei panni
di qualcun altro come fanno gli attori, con la differenza che gli
attori lo fanno per finzione, mentre le spie azionando dei
meccanismi reali, rischiano di pagare i loro sbagli con la vita.
Nascondersi e ingannare le persone che ami è devastante, questo è
l’aspetto che lo ha commosso maggiormente. Gael García
Bernal allontana ancora di più dal film il concetto di
patriottismo, che secondo lui potrebbe risultare semplicistico e
riduttivo. Quello che fanno i personaggi non è
spionaggio; con il loro operato cercano di fermare la violenza. Il
loro atto d’amore li porta a lasciare le loro famiglie, a
sacrificarsi e paradossalmente vengono puniti al posto dei
terroristi.
Il regista cileno, Pablo
Larraín, ha presentato in Concorso a Venezia
76 il suo ultimo film, Ema, con
protagonisti Mariana Di Girolamo e Gael
Garcia Bernal. Ecco la nostra intervista:
Dopo la proiezione di due episodi di
The New Pope, il secondo è il settimo,
Paolo Sorrentino incontra la stampa insieme ai
tanti produttori e agli attori Jude Law,
John Malkovich, Silvio Orlando,
Cécile de France, Javier Cámara,
Ludivine Sagnier.
I produttori sottolineano la
grandezza e l’importanza del progetto internazionale di questa
serie, che travalica i confini territoriali, sia per i contenuti e
la ricerca espressiva che per le professionalità che vi hanno
partecipato e anche per il cast. Volevano creare una serie
televisiva rilevante, che riunisse altissima qualità e popolarità.
Sono fieri di esserci riusciti grazie all’estro di Paolo
Sorrentino. E sono anche orgogliosi di aver spostato il
linguaggio cinematografico sulla televisione, usufruendo di grandi
star del cinema e di essere oggi a Venezia per mostrare in ambito
cinematografico il frutto di tale lavoro.
Ludivine Sagnier
crede che nella prima stagione della serie il suo personaggio fosse
più innocente, fatto di purezza e fede. Ma ora si è trasformato in
qualcosa di più cupo e misterioso. Javier Cámara,
è grato a Sorrentino per averlo voluto nel progetto e si sente
ancora eccitato di aver girato a Roma, a poca distanza deal
Vaticano e soprattutto di essere stato a Cinecittà nel Teatro 5,
dove era ricostruita la Cappella Sistina e dove aveva girato i suoi
film Federico Fellini ; per lui era come essere in cielo, in
paradiso. Cécile de France invece descrive il suo
personaggio e la sua evoluzione. Prima era una figura semplice,
poco sviluppata, anche se fondamentale per la storia, ma ora è
diventata certamente più complessa e intricato, con una vita
amorosa, una sessualità che lo caratterizza e con un entusiasmo che
piace molto al Vaticano.
Orfeo Orlando
scherza sul fatto di sentirsi un intruso entrato clandestinamente
in un cast internazionale. Anche lui ritiene che il suo Cardinale
Voiello abbia avuto una grande evoluzione e che sia sbocciato, con
le sue corde che vanno dal drammatico al comico. Si è sentito come
uno Stradivari del 700 nelle mani del più virtuoso dei
violinisti.
Jude Law trova che
l’ambientare parte della serie a Venezia sia stata un’idea geniale,
che arricchisce e vela di mistero e malinconia la complessità della
situazione del suo personaggio. Dice di essere stato diretto
magnificamente, anche quando la difficoltà di capire le sfumature
si palesava e per questo ringrazia Paolo Sorrentino. Scherza
sull’aver indossato in alcune scene degli slip microscopici e di
averne girata una dove nascondeva le parti intime con un
tovagliolo.
John Malkovich ,
elemento nuovo al progetto, entrato in questa seconda stagione,
racconta di aver visto e studiato con grande attenzione la prima
parte e anche tutti i film di Sorrentino. Gli piace il suo modo di
raccontare, di girare di come inserisce i personaggi nell’ambiente
con grande meticolosità. Si è sentito stimolato di interrogarsi
sulla religione e su tematiche profonde e trovato a proprio agio
nel lavorare per il formato televisivo.
Paolo Sorrentino
infine, sottolinea l’importanza del lavoro collettivo e di uno
sforzo produttivo enorme. È soddisfatto e onorato di avere un cast
di attori buoni, docili e anche bravi. Cita Carmelo Bene con una
sua frase “Non servono attori bravi, ma fuori di sé.”
Joaquin Phoenix ha
conquistato tutti a Venezia 76. Forte già di uno
status di attore molto amato e apprezzato, Phoenix ha regalato al
Festival una delle sue migliori interpretazioni in
Joker, di Todd Phillips.
L’attore è stato il protagonista
del tappeto rosso della serata di sabato alla Mostra del Lido e con
lui, oltre al regista e a Zazie Beetz, che nel
film interpreta un personaggio di contorno, c’era anche
Rooney Mara, sua collega e compagna. Di seguito le
foto:
Il red carpet di Joker di Venezia
76 ha visto splendere una stella in più. L’attrice due
volte premio Oscar, Cate Blanchett, ha sfilato per
i fotografi in un magnifico Armani Privé.
Dopo il delirio portato al Lido dal
Joker di Joaquin Phoenix, arriva
a Venezia 76Olivier Assayas che,
dopo il delizioso Non Fiction, uscito nelle nostre
sale con il titolo di Il Gioco delle Coppie (!),
torna nel concorso principale con Wasp Network,
con protagonisti Penelope Cruz e Edgar
Ramirez.
Grandi star in arrivo dalla parte
anglofona del globo, con Meryl Streep e
Gary Oldman protagonisti di The
Laundromat, il progetto che era nato con il titolo di
Panama Paper e che racconta proprio l’omonimo scandalo, ovvero la
raccolta di oltre 11 milioni di documenti confidenziali dello
studio legale di Panama Mossack Fonseca, che contiene informazioni
dettagliate su oltre 214.000 società offshore, fatta arrivare nel
2015 prima alla Süddeutsche Zeitung e poi al Consorzio
Internazionale dei Giornalisti Investigativi. Alla regia il geniale
Steven Soderberg.
Il Fuori Concorso, invece, presenta
l’evento speciale legato a Paolo Sorrentino. Il
regista premio Oscar che due anni fa portò al Lido The
Young Pope, torna con due episodi di The New
Pope, serie sequel. Nel cast Jude Law e
John Malkovich.
È stato proiettato in concorso uno
dei film più attesi della 76° Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, Joker di Todd
Phillip, interpretato da un superlativo Joaquin Phoenix, nei panni del noto, quanto
ilare, acerrimo nemico di Batman.
Nei film di supereroi, ma anche nei
fumetti o nella letteratura, i nemici e i cattivi destano da sempre
empatia e fascino, tanto da surclassare spesso le meste figure, che
bardandosi con la bandiera del bene e dell’ordine pubblico, si
prodigano per combatterli. Joker è di certo uno dei più
popolari di questi antieroi e il ritratto che ne costruisce
Todd Phillips contribuisce a donargli spessore,
umanità e motivazioni. Il suo oscuro affresco metropolitano fa
comprendere che il male non è sempre dalla stessa parte e che molte
volte i paladini della giustizia combattono contro chi ha invece
ragione da vendere. Joker è intriso di tanta disperazione
e forse avrebbe anche più diritti rispetto a chi lo combatte e deve
mantenere il controllo della legalità.
La storia si sposta indietro nel
tempo, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, quando Bruce
Wayne/Batman era ancora un bambino, in una fatiscente
Gotham City , molto simile a NY, afflitta da sporcizia e
invasioni di ratti, regno sudicio di violenza e disperazione e dove
la lotta della sopravvivenza è all’ordine del giorno, soprattutto
per i deboli e i derelitti. Il giovane Arthur Fleck
racimola i pochi soldi per sopravvivere esibendosi come clown in
strada o negli ospedali pediatrici, ma è continuamente vittima di
aggressioni e scherno che minano il suo già fragile equilibrio
psichico. Soffre di un disturbo emotivo che lo costringe a fare
continuo uso di psicofarmaci e a essere monitorato dai servizi
sociali. Quando è colto dall’emozione scoppia in un riso
incontrollabile, isterico e forzato, che non riesce a
reprimere. Il sogno di Arthur è quello di diventare un
comico e di esibirsi nei locali, ma viene deriso ed emarginato in
modo crudele. Un giorno, durante l’ennesima aggressione, al
culmine della sopportazione, ha una reazione che cambierà per
sempre il corso della sua vita.
Joker va oltre le
tante storie che i film di supereroi ci hanno raccontato, è un
viaggio nel profondo della psiche di un uomo al quale tutto è
negato, non è permesso essere normale, nato in un posto sbagliato,
in un momento sbagliato, tra persone sbagliate. Non ha colpe, non
ha mai fatto nulla di male, non è cattivo, non pretende nulla di
più del condurre una vita ordinaria, di amare e di essere amato. La
madre gli ha imposto fin da bambino di sorridere e lui lo fa, si
sforza di farlo, si allarga la bocca con le dita per apparire
sorridente, si dipinge con i colori del pagliaccio. Ma è tutta
apparenza, la gioia non si esprime semplicemente con il sorriso.
Per lui le fondamenta della felicità sono marce dal profondo e al
suo orizzonte si stagliano solamente i cancelli del tetro
Arkham Asylum, il manicomio di Gotham City.
Todd Phillips
racconta con piglio energico e concitato una storia tragica e
rivela l’inizio di una vicenda fin troppo conosciuta. La mostra da
un’angolazione completamente diversa, così differente da farci
sperare che da grande quel piccolo, mesto insignificante rampollo
viziato che si chiama Bruce Wayne, abbia sorte differente.
Costruisce una Gotham City lontana dai fumetti e
dall’immaginario comune, tradendo ogni aspettativa. La città è più
affine ai contesti urbani della saga de La notte del giudizio, piuttosto che alle
architetture gotiche Bartoniane o alla maestosità degli edifici
esibiti da Nolan. La fotografia, il suono e la musica
contribuiscono nella costruzione di un mondo credibile, che si
avverte essere fuori dalla porta di casa e non allocato nei meandri
dell’immaginazione, come troppo spesso avviene in questo genere di
film. Non ci sono effetti speciali o elementi prodigiosi, ma solo
lacrime, sudore, sangue, che sciolgono in continuazione il cerone
bianco da pagliaccio e si confondono col rosso sbafato del sorriso
sforzato di Joker. E poi c’è dolore, tanto dolore.
Todd Phillips sembra sussurrarci all’orecchio che
anche noi potremmo essere Arthur Fleck. E noi dovremmo
preoccuparcene.
Il regista racconta di essere stato
sempre attratto dalla complessità del personaggio di
Joker, pensando che sarebbe stato appassionante esplorarne
le origini, oltretutto nessuno lo aveva ancora fatto, salvo
sporadiche narrazioni inserite nei vari film che lo vedevano
presente. Ragione fondamentale del suo fascino, risiede proprio nel
mistero oscuro del non avere un’origine precisa.
Phillips sostiene che in fase di scrittura ha
voluto conservare gli elementi di riconoscibilità e ha pensato
sempre a Joaquin Phoenix, perché è un attore che quando
recita è capace di trasformazioni sorprendenti, andando oltre i
limiti. E non si può dare torto a questa felice intuizione, perché
il film si regge tutto sulle spalle scheletriche di Joaquin Phoenix, sul suo volto capace di
espressioni furastiche che tradiscono celata tenerezza, di smorfie
crudeli e di profonde esternazioni di sofferenza. E’ in grado di
esibirsi in balli squinternati, di raggomitolarsi su se stesso come
un randagio impaurito, di esplodere in improvvisi lampi di cieca
violenza, di cadere come un sacco di stracci e di rialzarsi come se
tutte le ossa del suo scheletro siano frantumate. Joaquin Phoenix non interpreta Joker,
è Joker.
Joker di
Todd Phillips è un film oscuro, convincente,
tagliente, raccontato con la minuzia di uno psichiatra. Scandaglia
le origini profonde di un personaggio diventato mito, supera i
canoni e gli stereotipi del genere e regala una delle più toccanti
interpretazioni di Joaquin Phoenix.
Joker è però altamente sconsigliato agli
ammiratori irriducibili dell’uomo pipistrello.
Dopo la proiezione di
Joker, la giornata dedicata al villain della DC è
proseguita in sala stampa. Erano presenti Todd
Phillips, Joaquin Phoenix, Zazie
Beetz e la produttrice Emma Tillinger
Koskoff. Le fonti di ispirazione per Phillips e
Silver durante la stesura della storia sono stati gli anni Settanta
e i film di quel periodo, ma Joker rimane una pellicola a sé, con
un approccio del tutto diverso e libero.
L’aspetto che più interessava Todd
era approfondire la storia di un personaggio così complesso e
interessante come quello di Arthur Fleck, partendo da pochissimi
riferimenti e contando sulla presenza di un attore fantastico.
Seppur ispirati da The man who laughs, Todd
Phillips e Joaquin Phoenix tengono a
precisare che il lungo percorso di costruzione del personaggio è
stato unico e non dettato da alcuna regola. Hanno dato vita ad
Arthur senza appigliarsi a elementi precisi, partendo da zero,
affinché potessero imprimere alla smorfia del comico fallito un
passato e un presente, e un’aura di mistero senza intaccarlo con
elementi già visti.
La mutazione continua di Arthur ha
il suo fulcro nella ricerca di identità, si distorce nel
susseguirsi delle vicende in un impatto devastante con la malattia.
Il personaggio è stato modificato fino all’ultimo giorno delle
riprese. Regista e attore hanno lavorato moltissimo sugli aspetti
fisici e psichici: la voce, i vestiti, i capelli, e tutti quei
dettagli che potevano arricchire il personaggio. Avrebbero persino
rigirato alcune scene per continuare ad approfondire la loro
ricerca. Joaquin Phoenix ha detto di aver studiato
a lungo il tema della perdita e letto, su consiglio di Todd
Phillips, un libro che classificava le malattie mentali ma
che non ha voluto legare ad Arthur nessun disturbo preciso per non
confinarlo in qualcosa di già esistente. Non era sicuro che sarebbe
riuscito a creare la famigerata risata. Dopo vari tentativi
fallimentari però, con la supervisione di Phillips, è riuscito a
incanalare il dolore di Arthur in quattro tipologie di risata:
ciascuna è attribuibile a una particolare scena e a uno stato
d’animo. Quella finale è uno scoppio di felicità.
La versatilità di Zazie
Beetz ha fatto in modo di rendere reale e indefinito allo
stesso tempo il personaggio di Sophie Dumond. Anche lei ha subito
modifiche continue per catalizzare, amplificare e sostenere le
azioni deflagranti di Arthur e ciò ha permesso all’attrice di
sfruttare tutta la sua capacità di improvvisazione. La pellicola
oltre a contenere colori e atmosfere degli anni Settanta/Ottanta,
racchiude ovviamente molti aspetti contemporanei, ma non è un film
politico. Nel suo personalissimo approccio al personaggio
Joaquin Phoenix non ha scorto in Arthur solo un
personaggio tormentato e negativo ma ha visto in lui un uomo pieno
di luce, alla ricerca della propria identità e della propria
realizzazione: far ridere la gente. Arthur vuole essere apprezzato,
non veder bruciare la città. Ma alcune scelte sbagliate lo
porteranno a diventare un simbolo sovversivo.
New York è stata la città dove si
sono svolte la maggior parte delle riprese: grazie alla produttrice
Emma Tillinger Koskoff è stato possibile per la
troupe sfruttare tutti quei luoghi simbolo, come la metropolitana
ad esempio, che imprimono alla mappatura del film un’identità
precisa e dove si svolgono le azioni più sanguinose. Todd
Phillips pensa che il suo Joker non sia un film
violento, al contrario di John Wick che lo è sicuramente
di più. La violenza del suo film è realistica e per questo colpisce
spiazzando. Anche la musica ha avuto un ruolo decisivo: subito dopo
le prime riprese sono state inviate a Hildur
Guðnadóttir le immagini realizzate, affinché musica
e film potessero crescere insieme. Il ballo e la musica sanciscono
in Arthur il cambiamento e fanno defluire con le sue movenze tutta
la follia del Joker nelle arterie di Gotham City.