Come ama ripetere spesso e
volentieri il regista gallese Peter Greenaway
«il cinema è costituito da nani che si reggono sulle spalle di
giganti». I presunti e tanto osannati “padri” della settima
arte, dalle origini all’età postmoderna, pur contandosi sulle dita
di una mano hanno contribuito a fungere da apripista –
“avanguardisti” li etichetterebbe il lessico militare – per tutta
una serie di correnti, movimenti e manifestazioni che in oltre 120
anni di storia hanno reso il panorama cinematografico alquanto
ricco e variegato. Ogni branca della cinematografia possiede i suoi
fondatori più o meno ufficiali e riconosciuti, e ciò vale anche per
lo splatter, sottogenere dell’horror caratterizzato da un
eccesso estetizzante di sangue e derivati emoglobinici di cui
sicuramente il primo e più grande (misconosciuto) antesignano
appare essere il regista americano Herschell Gordon
Lewis, scomparso nella semi oscurità mediatica il 26
settembre 2016 alla veneranda età di 87 anni.
In poco meno di un decennio
effettivo di attività, dal 1961 al 1972, Lewis è riuscito a
imprimersi ufficialmente nelle pieghe oscure e anguste della
storiografia del cinema di genere grazie a oltre 34 pellicole a
cavallo fra la sexploitation (filone super commerciale a
sfondo erotico dal sapore trash), il sex gore
(germe dell’attuale torture porn) e horror puro,
abituandosi a realizzare storie stravaganti e ricche di truculenza
mediante trame alquanto fragili e mezzi tecnico-produttivi a dir
poco precari, finendo per diventare il maestro più o meno
dichiarato di futuri esponenti del così detto “cinema spinto” quali
Wes Craven, John Carpenter e
Tobe Hooper, senza dimenticare ovviamente le
derive più kitsch di John Waters e quelle
più dichiaratamente pulp di Quentin
Tarantino.
Nato a Pittsburgh, nel profondo sud
degli Stati Uniti nel 1929, Herschell Gordon Lewis
vive un’infanzia e una formazione accademica del tutto tranquilla e
promettente, laureandosi in giornalismo e iniziando a insegnare
letteratura e lingua inglese presso il Mississippi State College
prima di diventare direttore di alcune emittenti radiofoniche
private. Prima di interessarsi al cinema e di approdare alla regia,
il futuro “padre dello splatter” (da non confondersi con
il nostrano “padre del gore” Lucio Fulci)
frequenta gli ambienti televisivi dei primi anni ’50, trasferendosi
a Chicago e iniziando l’attività di produttore e realizzatore di
spot pubblicitari per numerose emittenti private.
Il suo esordio filmico risale al
1960 con The Prime Time, un racconto
influenzato dall’atmosfera della beat generation e già
improntato su vaghi soffi di violenza che gli frutta un notevole
successo commerciale. Nel 1961, dopo aver conosciuto David
E. Friedman, Lewis inizia a dedicarsi a tempo pieno alla
regia cinematografica, producendo e realizzando Living
Venus, una pellicola alquanto particolare che narra
di una morbosa storia di sesso e violenza ispirata alla biografia
di Jack Norwall, direttore della rivista maschile Pagan.
Erotismo ed eccesso si definiscono subito come due delle più
importanti componenti poetico-stilistiche che domineranno il futuro
stile cinematografico di questo autore.
Nel periodo 1961-1965
Herschell Gordon Lewis, in qualità di regista, e
Friedman, nel ruolo di produttore, stringono un profondo sodalizio
professionale e amicale che li porterà a realizzare oltre 13
lungometraggi caratterizzati da un’estetica grezza molto vicina al
cosiddetto “cinema di serie Z” e da sceneggiature il cui
unico scopo è quello di applicare la filosofia
dell’exploitation pura, ovvero sfruttare al massimo una
tematica o una figura narrativa per puri scopi di vendibilità del
prodotto. Fra le prove più interessanti vanno sicuramente ricordate
alcune ottime commedie a sfondo erotico quali The
Adventures of Lucky Pierre (1961) e
Boin-n-g (1963), così
come alcuni finti documentari nudies vicini ai
mondo movie europei come Daughter of the
Sun (1962) e Nature’s Playmates
(1963), senza scordare una pellicola capitale come
Scrum of the Earth in cui l’erotismo
lascia il posto a una violenza alquanto spinta ed estetizzata che
anticipa una successiva e fondamentale svolta stilistica.
Dopo aver sfruttato al massimo il
sottogenere sexploitation ed essendosi convinti di
come il mercato in tal senso si fosse nel frattempo saturato,
Herschell Gordon Lewis e Friedman decidono di
spostare la loro attenzione verso un altro filone all’epoca ancora
poco battuto come l’horror, decidendo di rischiare
nuovamente – sempre in nome di obiettivi del tutto commerciali e
alimentari – e di tentare con una formula del tutto innovativa:
portare la violenza, la truculenza e soprattutto il sangue verso un
iperrealismo mai visto prima sul grande schermo, il tutto sempre
ricorrendo a mezzi di fortuna e a racconti del tutto funzionali a
portare all’estremo quanto mostrato attraverso immagini di forte
impatto. Ed è proprio in questo magico e oscuro istante che,
secondo i manuali apocrifi del cinema di genere, avrebbe avuto
inizio la gloriosa storia dello splatter (termine coniato
in realtà solo nel 1978 da George Romero per
descrivere lo stile del suo Zombi),
precisamente con Blood Feast (1963),
pellicola realizzata con un budget a dir poco irrisorio ma
destinata a diventare precocemente un cult internazionale,
soprattutto grazie a un livello di violenza visiva e soluzioni
sceniche al limite del delirio che all’epoca della sua uscita
fecero gridare simultaneamente allo scandalo e al miracolo. Mai
prima di allora infatti si era visto in un film “dell’orrore” una
tale quantità di sangue, interiora e membra lacerate, così come mai
nessun regista fino a quale momento aveva mai reso la pratica della
tortura così centrale e così insistente in una propria pellicola
tanto da rimembrare l’antica arte del teatro grand
guignol, il tutto reso ancora più scioccante dalla natura
grezza della messa in scena e da una recitazione a dir poco
straniante nella sua povertà.
Ricorrendo per lo più ad attori non
professionisti e a mezzi tecnico-scenici riciclati da dismesse
produzioni cine-televisive, Herschell Gordon Lewis
e Friedman continuano vittoriosamente su questa nuova strada “a
costo zero” – ma dignitosamente redditizia ai botteghini assaltati
dalla nuova generazione di spettatori letteralmente “assetati di
sangue” di inizio anni ’60 – sfruttando anche il sempre maggiore
ammorbidimento delle legge di censura cinematografica che non
lasciavano ora più alcun freno a ciò che poteva essere mostrato sul
grande schermo. Vedono così la luce pellicole al limite
dell’eccesso quali Goldilocks and the Three
Bares (1963) e Bell,
Bare and Beautiful (1963), virando poi decisamente
verso il gore grazie all’ultra osannato 2000
Maniacs (1964), divertente e truculenta epopea di una
cittadina del sud americano che in occasione del centenario della
fine della Guerra di Secessione si trova invasa da fantasmi
confederati redivivi e vendicativi.
Dopo le ultime fatiche produttive di
Moonshine Mountain (1964),
Monster a-Go Go (1965) e
Color Me Blood Red (1965), in cui il
livello di shock visivo e grottesco raggiunge vette sempre più
alte, Friedman interrompe il suo sodalizio con Lewis, il quale si
trova ora in condizione di realizzare e sostenere economicamente in
solitaria qualunque suo progetto, ricorrendo alla filosofia
cormaniana di “un dollaro, un film” e dunque dando vita in
poco meno di sette anni a numerosi lavori “estremi” in cui il suo
ormai inconfondibile tocco estetico si fa sempre più stabile e
riconoscibile, finendo però con tempo per diventare troppo di
maniera e infine superato. Fra i titoli sicuramente più degni di
nota diventati giustamente e rapidamente famosi – e realizzati
mediante budget un poco più sostanziosi del normale – vanno
ricordati la commedia nera a sfondo orrorifico
Something Weird (1967), la rilettura
vampiresca di A taste of Blood (1967), il
road movie bikeristico She-Devils on
Wheels (1968) ricco di citazioni al
sexy-trash di Russ Meyer e il piccolo capolavoro
The Wizard of Gore (1970). Va comunque
giustamente ricordato che la maggior parte delle pellicole dirette
e prodotte fra il 1966 e il 1972 oltre a non superare quasi mai il
costo di 35.000 dollari non trovarono (e non hanno ancora trovato)
un’adeguata distribuzione, tanto da essere considerate un autentico
sacro Graal per gli amanti del cinema di genere a causa dell’aura
di mito e mistero che le avvolge ancora oggi.
Nel 1972, dopo le
ultime tre stanche prove trash di This
Stuff’ll Kill Ya!, The Year of the
Yahoo! e The Gore Gore
Girls, Lewis decide di concludere la propria carriera
di cineasta e, all’apice di una carriera mai davvero decollata in
maniera ufficiale, opta per un timido ritiro dalle scene con
l’intento di inseguire nuovamente il tanto amato Dio Denaro,
fondando così la società di marketing Communicomp
e vivendo per lo più della gloria riflessa dei suoi passati lavori.
Ma nessun grande artista del passato può sopravvivere indenne al
fascino del postmoderno, cosicché, dopo le numerose insistenze
dell’amico e collega John Waters ecco che Lewis decide a sorpresa
di ritornare dietro la sua grondante e arrugginita macchina da
presa nel 2002 grazie a Blood Feast 2, un
manieristico e ultra(auto) citazionistico sequel dalla
celebre pellicola protosplatter che tanto lo aveva reso
famoso a suo tempo realizzato integralmente per un pubblico di fan
a lungo rimasti digiuni. Galvanizzato da tanto successo fra il
pubblico di più giovani e invitato periodicamente a tenere
conferenze dedicate ai suoi più celebri lavori, Lewis ritenta
nuovamente la carta della regia, ma si trova a impattare con la
scarsissima accoglienza riservata al seppur ottimo The
Uh-Oh Show (2009), ultima vera prova di carriera
prima di ritirarsi definitivamente da quella professione mai
veramente praticata con serietà e sempre condotta con quel sano
gusto artigiano che tanto lo accomunava a personaggi quali
Mario Bava, Lucio Fulci e Antonio
Margheriti. Se un autore come Dario
Argento ha saputo mostrare l’eleganza della
violenza, Lewis si è fatto invece portabandiera della
rozzezza del male, divenendo il grande maestro di molto
del cinema sporco, brutto e cattivo che dagli anni ’80 ad oggi
affolla gli schermi di mezzo mondo.
Entrato di soppiatto come uno
scarafaggio nel già grezzo e crepato muro del cinema di genere,
Herschell Gordon Lewis si è congedato dalla vita
così com’era solito fare con suoi impegni di lavoro, senza nessun
clamore ma lasciando dietro di sé molto di cui (s)parlare,
preferendo i fatti alle parole pur essendo un piacevole
interlocutore e un culto uomo di spettacolo, capace di covare nei
meandri della propria mente lucida e perfetta alcune delle più
impensabili e fantasiose crudeltà filmiche che occhio spettatoriale
abbia mai avuto il piacere di vedere.
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