Porsi delle regole può sembrare il
modo migliore per imprigionarsi da soli oppure il preludio a una
ribellione e a una maggiore libertà. Un paradosso che, più ci si
riflette su, e meno sembra tale.
Inscritto tra le righe del
manifesto di Dogma 95, avventura in cui
Thomas Vinterberg segue il mentore Lars
Von Trier, c’è una forte spinta a stimolare la creatività:
una cosa che il paradosso sa innescare bene. Impegnarsi di più,
imparare meglio a rompere gli schemi, a creare regole per poi,
sottilmente, trasgredirle. Il voto di castità a cui i registi
aderenti al movimento prestavano giuramento, mirava a una
purificazione del cinema dagli effetti speciali, dai trucchi
utilizzati per nascondere la realtà che, in fondo, era proprio ciò
che il cinema voleva mostrare. Attraverso la stesura di 10 regole
si voleva limitare all’indispensabile l’intervento della tecnologia
sulla realtà dei fatti. Le riprese andavano effettuate nei luoghi
reali, senza scenografia alcuna; il suono doveva essere
indiscutibilmente quello di presa diretta e non era prevista
alcuna colonna sonora, se non diegetica; le riprese andavano
effettuate a mano e senza illuminazioni speciali, così come non
erano ammessi particolari ottiche e filtri; il film non poteva
inoltre essere accreditato a nessun regista, doveva essere girato
in 35 mm e rispettare la sacra regola del hic et nunc.
Ebbene sulla carriera di
Vinterberg, il movimento nato nel 1995 – che durò 10 anni e
35 film – ebbe un effetto propulsorio di cui ancora oggi si
vedono i segni. Festen, Gran Premio della
Giuria a Cannes nel 1998, fu un successo di critica e box office ed
è tuttora il film più celebre dell’autore danese. E, tra i film
Dogma, fu anche quello che più ispirò, e continua a farlo,
film-maker indipendenti a seguire il sentiero tracciato da Von
Trier e soci. Il cinema rifiutava di essere un fatto elitario, si
spogliava del costoso trucco e si concentrava sullo spettacolo puro
della realtà.
Vinterberg si allontanerà dal Dogma
definitivamente nel 2003 – due anni prima del suo scioglimento
ufficiale -, con il film Le forze del destino ma, prima di
farlo, si lancerà in un altro esperimento che sembra conservare
l’influenza del movimento. Nel 1999 dirige infatti il videoclip di
No distance left to Run, singolo della band inglese
britpop capeggiata da Damon Albarn, i Blur.
Proprio come nei film Dogma – anche se con le dovute, evidenti
differenze – , Vinterberg attua un’opera di decostruzione, stavolta
più concettuale che formale. Il videoclip consiste infatti in un
dietro le quinte inedito, fatto delle riprese a carattere
documentario dei quattro musicisti che, semplicemente, dormono. A
subire la decostruzione è la star, che viene defraudata di quel
titolo che sembrerebbe porla più in alto della persona comunemente
non nota, diventando un semplice individuo che dorme, si rotola nel
letto, si stropiccia la faccia proprio come tutti. Dopodichè,
chiuderà la sua avventura con Dogma, lasciando però la porta
socchiusa. Infatti, a uno sguardo complessivo sul lavoro del
regista danese, non viene poi così difficile unire i punti e
tracciare le linee di una poetica autoriale che si sta sviluppando
negli anni e che non rinnega nulla del percorso fatto.
Dunque passando per Le
Forze del destino (2003),
Submarino (2010) e Via dalla
pazza folla (2015) che, rispettivamente, lo
allontanano dal movimento Dogma e lo catapultano nella
trasposizione cinematografica di opere letterarie, i film che più
ci hanno fatto parlare di lui restano quelli che hanno una, anche
labile, connessione con il suo esordio dogma. Una connessione di
poetica, come accennato prima.
Festen
(1998), Riunione di Famiglia (2007),
Il Sospetto (2017) e – per come si
preannuncia – La Comune (2016), sono film
che mantengono aperto il dialogo tra l’incanto e la sua corruzione
all’interno di gruppi relativamente piccoli di persone, che vanno
dalla famiglia alla comunità per l’appunto. I tre film – ma
dovremmo dire quattro, anche se de La
Comune sappiamo ancora troppo poco – sono un successo
di critica. Successo probabilmente dovuto proprio al fatto che in
questi, più che in altri, la mano del regista danese è
riconoscibile nella capacità di far emergere con naturalezza la
fragilità degli equilibri comunitari e lo sguardo attivo del
bambino su di essi.
In un universo di decisioni e
regole stabilite senza il suo consenso, il bambino è come lo
spettatore al cinema: osserva. Poi, col passare del tempo e con lo
scorrere dei fotogrammi il bambino impara ad agire praticamente in
quell’universo, mentre lo spettatore inizia ad agire in esso
criticamente. Il bambino e lo spettatore sono insieme in un
esercizio di giudizio critico-attivo, che nei film di Vinterberg è
oggettivato e mai sterile e sembra dire: Attenzione! I
bambini ci guardano.
Un bambino a cui, stando alle sue
recenti interviste, Vinterberg si sentirebbe particolarmente
vicino. Pare infatti che tra gli anni ’70 e ’80, epoca in cui è
ambientato appunto il suo ultimo film, il regista abbia vissuto in
una comune insieme ai suoi genitori, e abbia sentito la necessità
di scrivere una lettera d’amore all’epoca della sua
infanzia.
E dunque torna, come in apertura,
il filo conduttore dei limiti, imposti dalle regole che si decide
di sottoscrivere o dalle situazioni che qualcun altro impone: i
film migliori del regista danese rivelano questo comune
denominatore che si riassume in caso-limite. I legami
precari eppure indistruttibili di una famiglia, la corruzione del
pregiudizio e delle apparenze, il sentimento lasciato libero e
selvaggio costituiscono dei casi limite su cui si può ragionare. E
il binomio, che investe l’asse estetico-concettuale della sua
cinematografia, è quello indissolubile della libertà e i suoi
naturali limiti. È, nello specifico, un interrogativo scritto in
grassetto: quanto siamo bravi a gestire la
libertà?
Forse Vinterberg ci darà qualche
elemento in più per rispondere con La
Comune, valso l’Orso d’Argento come migliore attrice
a Tryne Dyrholm e in uscita nelle sale italiane il
31 Marzo.