qualunquismo s. m. [der. di
(Uomo) qualunque (v. oltre)]. –
1. Movimento politico, promosso dal
commediografo e pubblicista Guglielmo
Giannini (1891-1959) con il giornale
L’Uomo qualunque fondato nel 1944 e con il libro La
folla del 1946: caratterizzato da una polemica sfiducia nelle
istituzioni statali e nei partiti politici, e da una tendenza
sostanzialmente conservatrice, è durato in vita fino al
1948.
2. L’atteggiamento, morale e politico,
polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di
una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai
promotori e sostenitori del movimento qualunquista. Per estens.,
con valore spreg., atteggiamento di generica svalutazione di
qualsiasi impegno ideologico e politico.[1]
In base alla definizione fornita
dal vocabolario Treccani, un qualunquista è sicuramente un
individuo critico nei confronti delle istituzioni politiche
canoniche, verso le quali nutre un profondo e amareggiato rapporto
di sfiducia che spesso trascende fino a trasformarsi in reazionario
disprezzo dai tratti conservatori, indirizzato verso quelle
ideologie che un tempo sosteneva.
Dal punto di vista della stampa
critica – di settore o generalista – c’è sempre stata un’innata
tendenza a marchiare a fuoco con la “Q” scarlatta del qualunquista
della prima ora personalità appartenenti al mondo dell’industria
culturale: personaggi distanti tra loro per interessi, sensibilità,
gusti e scelte in ambito artistico e personale, ma sicuramente
accomunati da una caratteristica, ovvero la scelta di non scegliere
(almeno, a livello politico) di schierarsi con nessuno dei due
macro- blocchi che si contendevano le aree d’interesse del mondo
intero, calato in un sistema manicheo e bipolare all’insegna della
guerra fredda.
Luciano Salce fu
tra i registi che più subirono la condanna unanime – e senza
redenzione o pentimento – da parte della critica nostrana, troppo
presa dall’eterno dialogo “a due” tra partiti diversi come Dc
(Democrazia Cristiana) e Pci (Partito Comunista Italiano); in un
contesto del genere, dove ogni “artigiano del cinema” doveva, in
qualche modo, allinearsi con una delle due parti per poter
continuare a realizzare prodotti culturali, senza ricevere piogge
d’accuse acide da entrambi gli schieramenti, Salce fece la scelta
più folle: decise di ridere di tutto e di tutti, senza allinearsi,
risultando indigesto agli occhi della critica centrista come di
quella spostata a sinistra.
A parte alcune pellicole, che
riabilitarono il suo nome agli occhi della critica e del pubblico
(come, ad esempio, Le ore dell’amore, Ti ho sposato per
allegria oppure Fantozzi
seguito da Il secondo tragico Fantozzi)
per tutto il resto della sua produzione vale, ancora oggi, una
sorta di crudele damnatio memoriae che ha relegato il suo
nome alla schiera dei registi minori, incapaci di elevarsi dalla
semplice produzione di prodotti in serie, film destinati ad
intrattenere il variegato pubblico delle sale di terza visione.
Ricostruire una genealogia critica
che spieghi per quale ragione, ma soprattutto quando, per la prima
volta il termine “qualunquismo” è stato associato alla vita e alle
opere di Salce non è così semplice, perché non comporta la
possibilità di seguire un iter lineare già tracciato: le
sue alterne fortune hanno spinto la sua carriera – e il suo
interesse verso il cinema – a viaggiare parallelamente con la
grande crisi collettiva che si abbatté prima sulla società
italiana, delusa dal repentino boom economico attraversato durante
i favolosi sixties, e in seguito anche sull’industria del
cinema, riflesso del malessere collettivo dilagante.
Che si tratti di pochade
teatrali, adattamenti modulati da celebri pièce, opere di
satira sociale o fanta- politica, la critica ha sempre condannato
il disimpegno mostrato dal regista, il suo humour molto
anglosassone, così tagliante e cinico, condannando
irrimediabilmente questa sua volontà e riducendola ad una
superficiale forma d’analisi degli usi, dei costumi, dei vizi e
delle virtù (poche) degli italiani.
Se i suoi primi film, realizzati
una volta approdato in Italia dopo il periodo brasiliano durante il
quale ebbe modo di approcciarsi per la prima volta alla materia
audiovisiva, sono già all’insegna di questa condanna da parte di
alcuni filoni critici, è con l’avvento del 1969 che realizza una
pellicola, destinata ad avere sul pubblico e sulla critica lo
stesso impatto fisico ed emotivo che provoca una molotov lanciata
in Chiesa la Domenica: dirige Colpo di
stato, il suo film più politico, per la prima volta
impegnato (nonostante il disimpegno di fondo, ma la materia
trattata era di natura politica), il film subisce condanne unanime
da parte di entrambi gli schieramenti politici e perfino il
pubblico, perfino quello zoccolo duro costituito da accaniti
cinefili frequentatori delle sale d’essai, rifiuta il
prodotto finale.
La sua colpa? La scelta di
prendersi piacevolmente – e cinicamente – gioco delle elezioni
politiche, degli italiani al voto, dell’eterna lotta impari tra Dc
e Pci, delle alleanze servili tra Italia e Stati Uniti,
dell’inquietante minaccia rossa che marciava, sottile e bieca,
dalla Russia; la sua punizione? L’oblio. La pellicola viene
cancellata dalle memorie collettive, nessuna copia su pellicola
viene tutt’ora fatta circolare: fino al 2002 solo la Cineteca
Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia ne possedeva
un’unica copia sopravvissuta, rigorosamente in VHS; ricontrollando
oggi, l’archivio della cineteca non riporta più il titolo nel suo
catalogo, così non rimane altro da fare che visionare online
l’unica copia (una ripresa televisiva trasmessa il 17 Giugno 1989
su Canale 5, nella fascia notturna) dal pessimo stato, ma almeno
unica testimonianza di un film cancellato dalle memorie collettive
per circa 30- 35 anni.
Il mio intento, attraverso questo
saggio, è quello di calare Colpo di stato
nel contesto storico – politico che segnava il brusco passaggio tra
gli anni ’60 e i ’70, per poi analizzare i motivi che hanno spinto
la critica ad accusare definitivamente – ed irrevocabilmente –
Salce di “qualunquismo” anche oltre la sua morte (avvenuta nel
1989), attraverso la raccolta di alcune voci critiche “catturate”
sia dalle riviste ufficiali e di settore (Il Morandini,
La Rivista del Cinematografo) che dalle riviste
generaliste, interessate piuttosto ai fenomeni di costume
(La Stampa, Epoca).
- Luciano Salce, l’eterno incompreso
Gli avrebbero dovuto assegnare
l’Oscar dell’incomprensione. Perché, sebbene si sia talora piegato
a compromessi e su tanti film ne abbia diretti anche di mediocri
[…] è pur vero che è stato uno degli uomini di spettacolo più acuti
e intelligenti degli anni ‘60, e almeno una mezza dozzina dei suoi
film sono da annoverare fra i risultati più significativi della
commedia all’italiana[2].
Questa dichiarazione di Enrico
Giacovelli tratteggia con sintetica precisione la personalità del
regista Luciano Salce, e soprattutto il controsenso critico del
quale sembra preda fin dai suoi esordi registici italiani.
Classe 1922, nato a Roma, dopo i
mancati studi universitari (giurisprudenza) e il diploma in regia
teatrale all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, decide di
abbandonare l’Italia alla volta del Brasile (siamo nel 1950- 1951)
dove realizza i suoi due primi lungometraggi grazie al contributo
della casa di produzione Società Vera Cruz. Quando torna in Italia,
nonostante gli impegni teatrali, la prima grande occasione gli
viene fornita nel 1960 con Le pillole
d’ercole, una tradizionale pochade scritta
da Hennequin e Billhaud che doveva segnare il debutto di Nino
Manfredi come protagonista (affiancato da Vittorio De Sica e
Andreina Pagnani): la pellicola non è il successo sperato dai
produttori, nonostante l’ottimo cast e la bontà del lavoro
realizzato, per cui un velo di diffidenza sembra avvolgere
l’operato di Salce anche quando prova, nuovamente, a distanza di un
anno a mettersi dietro la macchina da presa.
Stavolta, l’idea per una nuova
commedia, con protagonisti un fascista e un intellettuale anti-
fascista durante gli ultimi giorni prima della caduta del
regime, nasce da Salce stesso insieme ai
solidali collaboratori Castellano e Pipolo, con lui in altre
pellicole successive a quel 1961; come protagonista della pellicola
sceglie Ugo Tognazzi – col quale aveva già collaborato – fino a
quel momento destinato a restare comicamente ingabbiato nella
coppia costituita con Raimondo Vianello sul piccolo schermo, che
qui invece mostra le capacità d’attore di cui era dotato, e che lo
porteranno col tempo ad incarnare i vizi e le debolezze
dell’italiano medio. Anzi, fu proprio l’attore a proporre il nome
del giovane Salce ai produttori Broggi e Libassi.[3]
Col Il
federale (1961) Salce comincia ad attirare su di sé
le invettive della critica specializzata e generalista, pronto a
destare scandalo da entrambi gli schieramenti con la sua satira sul
fascismo e – più in generale – gli effetti che i fascismi suscitano
sulla gente: nel raccontare il viaggio avventuroso e on the
road (già una scelta azzardata, considerando che anche questo
genere è sempre stato ad appannaggio del circuito culturale
statunitense) del piccolo gerarca fascista Arcovazzi e
dell’intellettuale sinistroide Bonafè (interpretato dal francese
Georges Wilson) mette in luce, senza ricadere nelle classiche
macchiette abbozzate, le contraddizioni psicologiche di due
personalità così diverse, sia per ideologia politica, che per umori
ed istinti umani: Arcovazzi è ciecamente convinto della bontà
dell’ideologia fascista della quale abbraccia qualunque aspetto, ma
è dotato di slanci umani che mostrano il suo grande cuore; d’altra
parte il professor Bonafè è una mente illuminata, un pensatore, che
non arriva però a comprendere – o a condividere – i gesti più
semplici del suo nuovo compagno di viaggio, che alla fine riesce a
salvare da un linciaggio di massa: normale che il pubblico
dell’epoca e la stampa fossero rimasti scioccati, scandalizzati e
spiazzati da questa pellicola, e che per la prima volta alcune
fonti autorevoli abbiano alzato, dalle pagine dei quotidiani o
delle riviste specializzate, i toni delle loro voci accusando il
regista romano di assumere un atteggiamento… “qualunquista”[4], perché sceglie –
volontariamente – di non raffigurare, in un’ottica manichea, il
fascismo (e i fascisti) come il male assoluto e gli intellettuali
che si schierarono contro il regime come eroi; le fazioni
politiche, la Democrazia Cristiana e i Comunisti, che in quel
momento si contendevano le aree d’influenza culturale in Italia
gridarono allo scandalo, schierandosi in modo unanime per
condannare la pellicola.
Questa sfortuna critica non
abbandonerà nemmeno i film successivi, girati nel 1962:
La voglia matta e La
cuccagna; il primo sarà addirittura bollato da alcuni
critici come un film destinato a corrompere i costumi della
gioventù italiana, uno spettacolo qualunquista per via della
messinscena che restituisce e proprio per questo…
pericoloso.[5]
La Cuccagna desterà meno scandalo, ma
sarà sempre criticato il caotico incedere diegetico (frutto della
mancanza dei sodali Castellano e Pipolo alla sceneggiatura) che
restituisce un racconto improbabile che somiglia piuttosto ad una
carrellata di incontri con personaggi sul filo del grottesco, e
proprio per questo terribilmente reali. Attraverso queste due
commedie, il regista tenta di immortalare uno spirito del tempo, un
malcontento che comincia a serpeggiare sinistro e che di lì a breve
porterà alla fine della fiducia, da parte degli italiani, verso il
benessere economico che li aveva investiti durante gli anni ’50 e i
primi ’60. Nella prima pellicola c’è la ribellione giovanile, la
rappresentazione (falsata e a tratti “patinata”, sicuramente non
troppo aderente alla realtà) di una “gioventù bruciata” stanca ed
annoiata, che ha difficoltà relazionali incolmabili con le
generazioni precedenti, incarnate dalla figura dell’industriale
Berlinghieri (interpretato, di nuovo, da Tognazzi): un quarantenne
affetto da crisi di mezz’età, dalla paura dell’arrivo inesorabile
della fine di tutto – argomento che, finora, non aveva mai
contemplato – uomo stanco del suo trito ménage che si
innamora della sedicenne Francesca (una scandalosa Catherine Spaak,
prototipo femminile ben lontano dagli standard italiani dell’epoca
e anticipatore dell’icona della ragazza yè- yè proveniente
dalla Swinging London della fine degli anni ’60);
nell’altra, c’è il racconto di formazione e (dis)educazione di una
ragazza che parte dalla provincia alla conquista della città e
dell’emancipazione, ma che dovrà scontrarsi con le difficoltà di un
mondo popolato da squali e marpioni pronti ad usarla, trascinandola
in situazioni al limite del grottesco; suo compagno di viaggio, un
giovane testardo ed arrabbiato (perfettamente incarnato dagli occhi
scuri ed inquieti di Luigi Tenco), precursore dei tanti giovani
arrabbiati e contestatori che popoleranno le università – e la
militanza politica – nel post ’68.
Tralasciando proprio l’ultimo film
citato, che diventa in fondo una riflessione generale
sull’illusorietà del boom economico – la famosa cuccagna del titolo
appunto – che invece rivela la sua faccia grottesca ed ambigua, le
altre due pellicole precedentemente citate, unite a Le
ore dell’amore, presentano dei leitmotiv
ricorrenti: oltre alla presenza, come sceneggiatori, di Castellano
e Pipolo, soprattutto la figura di Ugo Tognazzi come protagonista.
Tognazzi incarnava alla perfezione le caratteristiche morali più
deboli e meschine non solo dell’italiano medio, ma di una classe
sociale definita, come quella borghesia che si andava delineando
sulla scena politica – culturale del belpaese uscito dalle spire di
una sanguinosa guerra.
Le tre pellicole costituiscono una
sorta di trilogia ideale ribattezzata “Trilogia dell’uomo comune”,
dove Tognazzi porta in scena – attraverso le indicazioni di Salce –
sempre lo stesso prototipo di uomo, cercando di delineare
attraverso pennellate decise e venate di cinico umorismo, il
ritratto di un paese, dei suoi abitanti, o più in generale
dell’italianità, inteso proprio come carattere dell’unità
nazionale. La finalità dell’autore- regista è di mettere alla
berlina, tramite l’affilata arma della satira, i nuovi costumi
della borghesia italiana, conseguenze dirette degli effetti del
boom repentino che ha investito gli italiani in una, tutto sommato
breve, fase di euforica marcia verso la postmodernizzazione[6] prima di avviarsi,
con il pesante bagaglio delle contraddizioni, in una mera parabola
discendente che comunemente viene fatta coincidere con la metà
degli anni ’60 (il 1964 in particolare, come annus
horribilis)[7] un periodo di evidente crisi collettiva che
investe anche l’industria del cinema e, personalmente, Salce
stesso.
- 1969: annus rivoluzionariamente horribilis
È l’anno 1969 quello della –
tremenda, niente di positivo- svolta critica di Salce. Tremenda,
perché lo porta alla definitiva ed irrevocabile condanna ad
indossare a vita la famosa “Q” scarlatta del qualunquista, che la
critica di ambo i fronti gli cuce addosso con vivo zelo.
Nel mondo il 1969 si apriva come
l’anno della svolta: non in effetti il “mitologico” ’68, che ha
creato intorno a sé l’indotto di un vero fenomeno culturale di
massa: è nel corso di questo anno al bivio, che precede l’avvento
dei ’70, che il mondo assiste ad una serie di repentini cambiamenti
che segneranno il corso degli eventi storici – politici – sociali
nel corso dell’intero decennio successivo.
Nel 1969 i Beatles suonarono
live sul tetto della Apple. Fu la loro ultima esibizione
dal vivo: si sciolsero nel 1970.
Nel 1969 veniva trovato morto il
chitarrista dei Rolling Stones Brian Jones. Non si sa ancora se si
sia trattato di omicidio o suicidio, e il suo caso rimane tutt’ora
aperto.
Il 20 Luglio 1969 i due astronauti
della missione americana Apollo 11, Neil Armstrong e Buzz Aldrin,
furono i primi uomini a sbarcare sulla luna, aprendo la mente umana
alle infinite possibilità pioneristiche della conquista della
frontiera spaziale, soprattutto sbaragliando la concorrenza
sovietica.
La guerra del Vietnam procedeva
ormai dal lontano 1963 (a livello ufficiale e su vasta scala, senza
contare gli anni sotto la presidenza Kennedy) ma è nell’anno 1969
che la contestazione giovanile prende sempre più corpo e voce nelle
università americane e non solo: l’apoteosi è il concerto
organizzato a Woodstock (Bethel, NY) e durato dal 15 al 17 Agosto,
durante il quale si sono avvicendati sul palco alcuni dei musicisti
più iconografici del XX secolo. Alla fine dei tre giorni, i tre
organizzatori si ritrovarono con 70 cause legali che li vedevano
coinvolti in prima persona e oltre un milione di dollari di debiti
da pagare.
Nello stesso anno l’Egitto e la
Siria, col sostegno dell’URSS e di Mosca, venivano riarmati e
attaccavano lo stato d’Israele nel sanguinoso conflitto del Sinai
(1967- 1970) cominciando a delineare quella sottile linea rosso –
sangue – che attraversa tutt’ora il medioriente.
In Cecoslovacchia, dopo che
Chruscev nei primi anni ’60 aveva aperto gli archivi rivelando gli
orrori dello stalinismo, fu avviato (già a partire dal 1968) quel
processo per realizzare un “socialismo dal volto umano” dando vita
ad un movimento di trasformazione meglio noto come “primavera di
Praga”.
Chruscev finì defenestrato dal
partito nel 1964 e al suo posto fu eletto Breznev, più incline a
vivere i privilegi della casta burocratica al potere in Russia.
La “primavera di Praga” terminò in
modo sanguinoso nello stesso anno.
Il leader dei socialdemocratici
tedeschi Willy Brandt aveva promosso, già da tempo, un’apertura
verso Est che passerà alla storia come Ostpolitik e
rappresentava uno dei primi tentativi di distensione: questo perché
il mondo, nel 1969, poteva essere semplicemente ridotto a due
macro- aree d’influenza dominate dal capitalismo di stampo
americano e dal comunismo sovietico, due blocchi pronti a
confrontarsi – scontrarsi in ogni ambito possibile, dalla cultura
allo spazio. In quest’ottica bisogna leggere l’incremento del
benessere, il boom che investe le popolazioni, come un modo per
rivendicare la “patria potestà” e le alleanze storiche sancite già
da tempo. Se negli anni ’50 la guerra fredda si era combattuta tra
le macerie di un’Europa devastata dallo spettro della guerra,
adesso il polo d’attenzione erano le nuove frontiere, lo spazio e
il terzo mondo, i nuovi “giocattoli” atomici e il Vietnam, come il
medioriente. Ognuno aveva i suoi interessi in gioco, ed essere
schierati da una delle due parti voleva dire fedeltà assoluta e
appoggio totale, pena l’oscurantismo e la damnatio
memoriae.[8]
Insomma, culturalmente, proprio ciò
che avvenne a Salce nel piccolo caso limitato dell’Italia.
Nel belpaese al potere c’era la
Democrazia Cristiana fin dal 2 Giugno 1946: la Dc era, ovviamente,
interessata a difendere gli interessi del suo alleato statunitense
pena la perdita degli aiuti economici concessi dal piano Marshall
formulato nel 1947; i comunisti erano fuoriusciti dal governo
italiano precisamente il 18 Aprile 1948 dopo le elezioni che videro
la vittoria del partito maggioritario col 48,5% dei suffragi,
raggiungendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Il
partito dello scudo crociato diventava, quindi, l’unico in grado di
“arginare” l’avanzata comunista in Italia (ruolo che mantenne fino
al crollo del comunismo negli anni ’80).
In questo contesto, la longa
manus del bipolarismo investiva anche – e soprattutto – gli
aspetti culturali italiani. Le riviste di settore e generaliste,
quelle che si occupavano di critica cinematografica (restiamo nel
nostro ambito di competenza) erano schierate o a “sinistra” o al
“centro”; gli intellettuali che popolavano il sottobosco creativo
avevano delle posizioni politiche (di solito sinistroidi, ma non
sempre) che palesavano attraverso i loro prodotti culturali; un
discorso a parte vale per i produttori, spesso interessati solo ad
investire i capitali e ad ottenere il maggiore profitto da
un’opera.
Così la critica si schiera
prendendo delle posizioni determinate e considerando il cinema non
solo come un semplice oggetto culturale, analizzabile solo da un
punto di vista estetico – artistico, bensì guardandolo sempre
nell’ottica della spendibilità o meno all’interno di un contesto
politico: se il prodotto filmico era impegnato, schierato,
impregnato di un’ideologia, allora era approvato secondo quella
“dittatura del contenuto” di cui venivano accusati; ogni prodotto
audiovisivo veniva interpretato e criticato nell’ottica della sua
spendibilità o meno a livello politico/ culturale/ sociale,
all’insegna di una lettura fortemente contenutistica.
Per tale motivo la commedia di
solito veniva denigrata perché considerata come un genere dal
contenuto più frivolo e meno spendibile nell’ottica precedentemente
citata; a maggior ragione un autore come Luciano Salce, che
sfuggiva a qualunque tentativo di classificarlo politicamente,
veniva accusato con regolarità, dalle pagine dei giornali, di
qualunquismo. A maggior ragione quando, nell’anno 1969, il regista
decise di realizzare il suo film più impegnato, allontanandosi dai
territori della commedia e inoltrandosi in quelli della fanta-
politica: stiamo parlando di Colpo di
stato.
- Colpo di stato e l’avversione della critica
Le riprese di Colpo di
stato vengono iniziate il 25 Marzo 1968 e già da subito il
film manifesta le sue infinite difficoltà, nonostante la gran
voglia da parte di Salce e dello sceneggiatore Ennio De Concini di
raccontare una storia che li impegni in prima persona e che
rappresenti, per entrambi, un esperimento.
Salce ricorda i primi ostacoli
produttivi incontrati con Franco Cristaldi (avvezzo, tra l’altro,
ad alcuni flop clamorosi al botteghino come Le notti
bianche).
Con De Concini abbiamo lavorato un
anno, un tempo interminabile, su Colpo di stato. Anche
perché Cristaldi è un produttore faticoso nel metter su le cose,
sempre cagadubbi e con tanti progetti. Simpatico, cordiale,
ospitale, ma prima di arrivare a fare un film ce ne vuole. Forse
aveva ragione perché poi il film non è stato un trionfo, ma resta
il fatto che è stato il film a cui mi sono più dedicato. L’idea era
di De Concini, e non si chiamava così, anche se non ricordo più
come [la schiavitù è finita, nda]. Un soggetto prodigioso
per le sue capacità divinatorie perché dopo successero quasi le
stesse cose! Ho conservato le critiche di “Times Magazine” e
“France Observateur” perché dicevano che si trattava di un film
esemplare per capire qualcosa dell’Italia. C’erano intuizioni
notevoli, in un film originale come struttura, che parte come
un’inchiesta televisiva e piano piano diventa spettacolo. La
seconda cosa interessante è l’uso dei cori dell’opera lirica, come
coro da tragedia. Gente con costumi diversi, con cori molto
spiritosi, su parole mie e un pastiche musicale di tipo melodramma
di Marchetti. Il coro era l’italiano che commenta le situazioni. La
cosa che mi dispiacque di più fu l’indifferenza con cui fu accolto.
Il film urtò un po’ tutti, anche i comunisti perché si permetteva
di dire che era loro sistema stare alla finestra. C’era dentro il
Papa, Saragat. Gli avvocati di Cristaldi ci dissero che c’erano
quattordici punti per cui noi potevamo essere arrestati: offesa a
capo di stato estero, al Papa, a tutti quanti. E invece cascò tutto
nell’indifferenza. Eppure era un film pieno di cose divertenti, mi
pare. Qualche anno dopo Monicelli fece Vogliamo i
colonnelli, che fu una specie di rifacimento di
Colpo di stato, ma tutto grottesco,
esagerato. Noi andavamo sul credibile, sul possibile, sul
reale.[9]
La dichiarazione di Salce è quanto
mai puntuale e delinea alcuni dei passaggi fondamentali che hanno
portato il suo film ad un’aggressione critica sfociata poi in
totale indifferenza e silenzio. Come ricorda anche De
Concini[10],
comunista convinto che di solito non era avvezzo a realizzare film
impegnati – quindi estraneo al cinema civile – nonostante l’alto
grado di coinvolgimento personale da parte di entrambi (addirittura
Salce dichiarò che Colpo di stato era il film più
personale della sua carriera) la stampa italiana non fu clemente
nei loro riguardi, mentre al contrario all’estero ricevettero buoni
feedback e le attenzioni di importanti testate.
La pellicola non era scevra da
debolezze tecniche palesi (dovute anche allo scarso budget di
partenza messo a disposizione da Cristaldi) che il regista romano
seppe usare a suo vantaggio, impostando il racconto filmico come un
reportage giornalistico, un’inchiesta sui costumi degli italiani
alle elezioni incastonato in un gustoso gioco metacinematografico;
quest’ultimo costituisce la prima parte del film, incentrata su
alcuni strani fatti che avvengono apparentemente senza nessun filo
logico ad unirli: una mano guantata ruba un segretissimo dossier
governativo, un aereo con sopra quaranta attori di una compagnia
viene dirottato, delle foto spariscono da casa Salce (con ghignante
cameo del regista stesso, camera look incluso).
Il ghigno mefistofelico di Salce,
incuriosito dal fatto che qualcuno sia ancora interessato alla sua
persona e infine una spia viene arrestata all’aeroporto. Sulle
immagini delle misteriose bobine ritrovate in valigia, ascoltiamo
questo discorso che fa da sottofondo.
Il gioco era ormai chiaro: una
grande potenza, infida e lontana, aveva girato un film, realizzato,
bisogna ammetterlo, con eccezionale talento, che avrebbe diffuso
nel mondo intero un’immagine falsa, tendenziosa e qualunquistica
delle nostre elezioni del 1972. Lo scopo? Ma era evidente.
Descrivere il caos e la crisi del mondo occidentale di fronte ad un
ipotetico, quanto assurdo… colpo di stato!
Subito dopo partono i titoli di
testa.
Con questa premessa, all’inizio
effettivo del film nel film, Salce e De Concini mettono subito in
chiaro l’argomento della pellicola: parlare delle fantomatiche
elezioni del 1972 vinte – contro ogni pronostico – dal nemico
comunista. A quel punto, cosa accadrebbe in un paese preda della
pura anarchia?
L’incipit definito spesso dalla
critica come “fanta” politico, è in realtà più vero… del vero. Dì
lì a pochi anni i comunisti cominceranno ad insediarsi realmente al
governo, attraverso una serie di alleanze e accordi presi con la
Dc. L’idea di base non è, quindi, irreale e utopica, quanto
minacciosa e sottile; elementi che destarono scalpore e timore nel
pubblico – e nella critica – di entrambi i partiti. Gli scarsi
mezzi, come già accennato, hanno spinto Salce ad impostare la
seconda tranche del film come un mockumentary, un
finto documentario di inchiesta dove il regista, in giro per Roma,
raccoglie sia le testimonianze dirette, che le immagini legate ai
comportamenti degli italiani al voto. A fare da supporto alle
immagini, un coro: ispirandosi alla tradizione tipicamente italica
dell’opera lirica (fino a trascendere nella maestosità della
tragedia greca), il coro costituito dagli stessi interpreti del
film ricopre la funzione di “coscienza morale”, di inner
voice del cittadino medio, chiamato al voto. Lo stile
documentaristico presenta movimenti di macchina, raccordi e tagli
bruschi di montaggi che richiamano da vicino la sensibilità europea
della nouvelle vague.
Successivamente, una volta
terminata la grottesca disamina delle abitudini degli italiani in
cabina elettorale (con scene dal forte impatto anch’esse riprese
dalla realtà e mai così vicine alla verità: in una, un gruppo di
suore carica dei malati su un pulmino con lo slogan “Votare sì, ma
votare bene”, nell’altra sempre una suora porta un uomo morto da
tre giorni a votare per la Dc), decolla il cuore centrale del
discorso filmico: l’inaspettata vittoria comunista, determinata da
un sofisticato computerone americano. Nei dialoghi e nelle
situazioni Salce sembra ispirarsi al Kubrick de Il Dottor
Stranamore[11], con improbabili e
surreali dialoghi tra membri del partito comunista incentrati sul
tempo di Mosca o sui figli. Solo che all’uscita nelle sale
americane, nessuno accusò l’opera di Kubrick di qualunquismo: la
pellicola raccontava, attraverso un umorismo cinico e nero, le
paure di un’epoca dominata dal bipolarismo incalzante e dalla
minaccia nucleare. In Salce, agli occhi dei critici almeno, il
circo mediatico montato nel film è solo un pretesto per deridere
tutti, prime fra tutte le icone del decennio 1960 – 1970: c’è un
sosia del Papa, uno di Saragat e uno del presidente americano, che
ad un certo punto parla al telefono col suo ambasciatore
completamente nudo ed avvolto in una bandiera a stelle e strisce
(Fig. 3).
Fig. 3: The naked President
Come nella premessa, sottofondo ai
titoli di testa, è il regista stesso che per la prima volta sembra
beffarsi delle accuse di “qualunquismo” che gli rivolge la critica.
Ma non si sarebbe mai aspettato una condanna unanime da tutti i
fronti, un pubblico distante (che riconquisterà solo dopo
Fantozzi… cioè nel 1975) e feroci
attacchi che portarono alla scomparsa della pellicola per oltre
trent’anni, almeno fino al recupero – nella 61esima edizione della
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – della
copia in 35 mm con conseguente proiezione nel corso della rassegna
“Storia Segreta del cinema italiano” organizzata da Marco Giusti e
Luca Rea[12].
Nemmeno il finale amaro della pellicola, che contiene un tipico
esempio di malinconico umorismo salciano, servirà al regista per
eliminare dalla sua “fedina penale” quell’accusa di qualunquismo
che si andrà a costruire, lentamente, nel periodo compreso tra il
1968 e il 1972; a nulla serve l’entusiasmo del giornalista
comunista Giordano, l’unico a non sapere niente della decisione
finale presa dal partito (quella di rinunciare al potere restando
all’opposizione, come comandano da Mosca): sulle sue frasi cariche
di entusiasmo, scorre una teoria di donne impellicciate, ricche
sciure pronte a riprendere la propria routine dopo la
tempesta elettorale; un modo per ristabilire uno status quo di
partenza che in fondo va bene a tutti. Tranne che alla ferocia
della critica ferita nell’orgoglio (proprio come Mimì
Metallurgico).
- La stampa specializzata
Com’era già accaduto con Miccichè
dopo la prima visione de Il Federale, la
stampa specializzata e tutti coloro che vi ruotavano intorno sono
stati i primi ad urlare allo scandalo dopo la prima proiezione di
Colpo di stato, avvenuta il 15 Marzo 1969
al Cinema Barberini di Roma. Morando Morandini, autore del celebre
Dizionario del Cinema che porta il suo nome (fin dal 1998)
insieme a quello della moglie Laura e della figlia Luisa, regala,
proprio dalle pagine dell’edizione 1999 di quest’ultimo, una
critica al vetriolo indirizzata al film: «[…] buffoneria
rivistaiola e piuttosto qualunquista»[13], ponendo sempre l’accento sulla
natura qualunquista dell’operazione compiuta da Salce,
evidentemente turbato dalla rappresentazione della sinistra che
orchestrava il regista romano nella pellicola. Al contrario, dalle
pagine della Rivista del Cinematografo,
palesemente orientata al centro e con forti influenze degli scudo-
crociati un tempo, e della Chiesa oggi, Enzo Natta pubblica il 3 e
il 4 Aprile 1969 una critica a caldo in risposta alla visione del
film:
[…] L’idea di raccontare una storia
di fantapolitica è nuova per il cinema italiano, ma appunto
trattandosi di cinema italiano, non poteva finire che in chiave
ironica e satirica, o meglio ancora in chiave di barzelletta
sceneggiata. Trascurando completamente i risvolto etico, i
campanelli d’allarme, i pericoli prospettati dai film fantapolitici
americani (pensiamo al Dottor Stranamore) […] Colpo di Stato di
Luciano Salce si è mantenuto al livello del raccontino goliardico,
dove la satira e l’ironia si limitano a personaggi e situazioni
contingenti, guardando più all’effetto immediato e alla battuta che
al discorso di fondo e alla valutazione in prospettiva. […] La
mancanza di buon gusto nel trattare la «cosa pubblica» eguaglia poi
il solito qualunquismo di Salce nell’affrontare argomenti del
genere: in Colpo di Stato mancano, pur concedendogli il pregio e
l’utilità dell’ironia in questi casi, la serietà e la profondità
con cui tali aspetti della vita politica vanno trattati anche
quando rimangono sul piano della satira. E infatti sono proprio il
pressappochismo e il genericismo che inficiano un discorso che
invece, se fosse stato visto, rivisto e opportunamente limato,
avrebbe potuto dar vita ad un motivo grazioso e garbato, fine e
intelligente pur nella sua dimensione di satira politica.[14]
Anche qui, nel mare di feroci
commenti al margine, l’attenzione va posta sempre sulla stessa
parola: “qualunquismo”, definito addirittura “solito” (ergo:
presente in chissà quanti altri film realizzati prima di quel
fatidico 1969) sottolineando una tendenza a ricondurre tutto il
discorso nei limiti del genere che si sta affrontando, ovvero della
satira politica/ commedia anarchica: dotato di potenzialità
narrative limitate (agli occhi di Natta, almeno) il regista avrebbe
potuto confezionare un buon prodotto, se solo fosse riuscito a
contenere il suo ridondante pressappochismo (rubando le parole e i
contenuti alla recensione del giornalista stesso). È la
raffigurazione spietata e irrefrenabile che Salce fa di entrambi
gli schieramenti che infastidisce gli occhi degli esperti, come del
resto la naturalezza attraverso la quale racconta la realtà delle
elezioni in Italia, attraverso quelli che sembrano grotteschi
luoghi comuni e che invece, oggi, sono cronache d’attualità che
popolano i nostri quotidiani.
- La stampa generalista
Anche i quotidiani – ognuno
schierato sul suo lato della barricata – accolgono il film di Salce
nel peggiore dei modi, considerandolo realmente un prodotto
“pericoloso”.
Dalle pagine de La
Stampa, quotidiano da sempre basato su posizioni
moderate, Leo Pestelli a caldo, proprio il 16 Marzo 1969 (giorno
dopo l’anteprima) fa tuonare la sua voce nei confronti di questa
ostentazione di “qualunquismo” da parte del regista:
[…] frastagliato come un’inchiesta
non solo elettorale ma di tutto il nostro costume messo in fuoco
dall’occasione, Colpo di Stato è fin troppo scoppiettante e
divertente […] cosicché sfiora il goliardico e ha insomma il
difetto di essere una satira politica italiana fatta all’italiana.
[…] Del suo «qualunquismo» […] si deve invece dire che avendo
indovinato l’occasione e il tono, è di qualità superiore, ossia che
si dissolve in una autentica quanto rara disposizione alla satira
umanistica dall’alto, quella che canzona tutti e non offende
nessuno.[15]
Più che tuoni, in realtà, sembrano
i minacciosi boati di un temporale estivo, man mano che si
allontana: per la prima volta il termine “qualunquismo” non viene
usato in un’accezione totalmente negativa/ dispregiativa,
riconducendo il tipico atteggiamento sprezzante nei confronti delle
ideologie sotto l’egida rassicurante della satira annacquata che –
citando Pestelli – “non offende nessuno” (ma condanna il suo autore
e la pellicola che ha realizzato, scomparsa per trent’anni).
Dalle pagine della rivista di
costume Epoca (nata sulla scia delle
americane Life e Time) Filippo Sacchi
delinea invece, in data 27 Aprile 1969, una condanna definitiva e
riduttiva dell’intento satirico di cui è permeato il film: «[…]
rozzo qualunquismo […]. Siamo ancora a Guglielmo Giannini. Come
apertura mentale abbiamo fatto dei bei progressi.»[16] avvicinando, per una
libera associazione d’idee, il lavoro compiuto dalla coppia Salce –
De Concini alla produzione di Giannini, colui che, nel lontano
1944, fondò il quotidiano L’Uomo Qualunque dando vita ad
un vero e proprio movimento su scala nazionale.
- Conclusioni: Non tutti i mali qualunquistici vengono per
nuocere
Scrive Giacomo Manzoli:
[…] Non ci interessa affatto
“rivalutare” questi film o stabilire che i loro registi erano degli
autori capaci di manifestare un talento comparabile a quello di
coloro che hanno segnato il canone dell’arte cinematografica.
Questo testo non ha l’ambizione di occuparsi di Arte né di Cultura,
bensì – al massimo – di quelle che Bordieu avrebbe chiamato “arti
medie”, produzione artigianale alla portata (più o meno) di tutti,
elaborata da registi “medi” o “normali” […] opere fatte per un
pubblico medio o normale, qualunque, desideroso di
compiere un investimento simbolico in forme di consumo culturale
quotidiano, capaci di ottemperare a un compito di “intrattenimento
efficiente”, vale a dire alla doppia funzione di impiegare
piacevolmente il tempo libero e di svolgere negoziazioni
identitarie che aiutino a restare al passo con il mutare dei
tempi.[17]
Anche Manzoli usa la parola
“qualunque” – vero e proprio ossessivo leitmotiv di questo
saggio – collocandola però in un contesto totalmente differente:
“qualunque” qui si riferisce ad ognuno di noi, ad ogni fruitore di
un prodotto culturale, in questo caso legato all’industria
cinematografica. E se “qualunquismo” si trasformasse da una feroce
critica dispregiativa in un complimento? Se “qualunquismo”
indicasse il fatto che Luciano Salce è riuscito, attraverso i suoi
film, a raccontare uno spaccato dell’Italia smarrita, travolta dal
boom, attraverso la mise en scene dei suoi nuovi tic, le
manie, le debolezze e i vizi? Se fosse riuscito, con le sue storie,
ad anticipare mutamenti e cambiamenti di un paese ancora lontano
dalle rivoluzione degli anni 1968- 1969?
Magari queste premesse potrebbero
fornire nuovi spunti per la critica odierna nel rivalutare, col
senno di poi, la portata profetica dei fatti narrati dal regista
romano in Colpo di stato.
[1] Definizione tratta dal vocabolario online
Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/qualunquismo/
[2] E. Giacovelli, La commedia
all’italiana, Gremese, Roma, 1990, cit., p, 71
[3] G. Fofi, F. Faldini, L’avventurosa storia
del cinema italiano, cit., p. 70 in Andrea Pergolari,
Verso la commedia – momenti del cinema di Steno, Salce, Festa
Campanile, Firenze Libri, Firenze, 2002, cit., pp. 110-
111
[4] A tal proposito, è interessante seguire la
polemica montata da Lino Miccichè e contenuta nel suo libro
Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia
1996, cit., p. 47
[5] « […] Tranquillamente immorali ma basati su uno
slogan capace di racchiudere nell’ordine dello scherzo e della
piacevolezza quanto di immorale contengono, sono proprio questi i
film più pericolosi, in quanto più aperti verso ogni tipo di
equivoco, da quello artistico a quello morale.» scrive Leandro
Castellani sulle pagine della Rivista del cinematografo,
il 4 e il 5 Maggio 1962, in A. Pergolari – E. Salce, Luciano
Salce – Una vita spettacolare, Edilazio, Roma 2009, cit., p.
175
[6] Il periodo a cui mi riferisco qui viene
considerato il Secondo e in particolare pongo l’attenzione sulla
fase A (1958- 1976) a sua volta suddivisibile in un altro periodo
A1 (1958- 66, definito euforico). Per la periodizzazione completa
rimando a G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi – cinema popolare e
società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-
1976), Carocci, Roma 2013, cit., p. 24
[7] A. Pezzotta, Il western italiano, il
Castoro, Milano 2012, cit., pp. 7- 9
[8] Informazioni tratte dal quarto capitolo
(“Disordine Bipolare, 1964 – 1971”) di F. Romero, Storia della
guerra fredda, Einaudi, Torino 2009
[9] G. Fofi – F. Faldini, L’avventurosa storia
del cinema italiano, cit., p. 386 in A. Pergolari, Verso
la commedia, cit., pp. 146- 147
[10] Ivi, pp. 386- 387 e 148
[11] Il Dottor Stranamore – Ovvero: come ho
imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove
or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Stanley
Kubrick, 1963) http://www.imdb.com/title/tt0057012/
[12] Per informazioni più dettagliate, rimando
all’analisi pubblicata da Pierpaolo De Sanctis su www.cinemaavvenire.it il 28
Agosto 2004 in A. Pergolari – E. Salce, Luciano Salce,
cit., pp. 218- 220
[13] A. Pergolari, Verso la commedia,
cit., p. 151
[14] A. Pergolari – E. Salce, Luciano Salce –
una vita spettacolare, cit., p. 218
[15] Ivi, cit., p. 217
[16] A. Pergolari, Verso la commedia,
cit., p. 151
[17] G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi,
cit., p. 12