C’era un volta la commedia
all’italiana, oggi non c’è più. Luca Lucini con
Oggi Sposi tenta la titanica impresa di
riportare alla luce quello che di più caratteristico c’era nel
nostro cinema passato: l’amarezza del sorriso, la caricatura e la
critica alla società ipocrita. Il risultano non è pienamente
riuscito anche se qualche spunto interessante c’è e viene colto
parzialmente soprattutto se coinvolti sono
Michele Placido e
Luca Argentero, il cui episodio dei quattro, è senza
dubbio il più divertente.
Tuttavia Oggi
Sposi non brilla per acutezza, pur rappresentando una
valida alternativa al cine-panettone che più ridanciano è senza
dubbio più volgare e meno costruito. Oggi Sposi si avvale anche di
buoni attori che si calano bene nei personaggi stereotipati e che
danno verve a storie un po’ deboli, basti come esempio l’esasperata
soubrette svampita di Gabriella Pession che
lavorando per accumulo, condensa nel personaggio tutto il peggio
del divismo spicciolo italiano. In definitiva film mediocre che
punta sulla risata facile ma non riesce a tenere un ritmo che a
tratti sembra sfuggire di mano alla stesso regista creando
caos.
Il
concerto – Un direttore d’orchestra
allontanato dal suo lavoro per aver difeso i suoi musicisti ebrei
durante la seconda guerra mondiale, è ridotto a fare le pulizie
nello stesso teatro che un tempo lo osannava ad artista indiscusso.
Si presenterà a lui una sola occasione di realizzare il suo sogno,
tornare a dirigere la sua orchestra e ritornare allo splendore
della musica. Radu Mihaileanu acclamato regista di
Train de vie, ritorna con una storia
forte e commovente, che diverte ed emoziona, eccezionale.
Il
concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore
per immagini, sia dal punto di vista del linguaggio, sobrio e
contenuto, sia per la storia, l’umanità e la freschezza con cui
racconta questa storia di sofferenza e riscatto.
I personaggi, tratteggiati con
poche linee guida che ne caratterizzano la provenienza e gli
stereotipi, si mescolano in questo colorato spaccato di umanità:
gli ebrei praticanti sono gentili, ma attenti al profitto e al
commercio; i russi veraci allegri e dediti alla bottiglia; gli
zingari confusionari ma con una grande dote innata per il ritmo e
la musica; i comunisti più radicali ancora sognatori ed
idealisti. Una parodia sociale costruita magistralmente,
un’armonia di realtà e creature diverse che nella musica, nel
concerto di Tchaikovsky per violino ed orchestra, trovano il loro
riscatto, la speranza di una ritrovata dignità e realizzazione
personale.
Il
concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore
per immagini
Il regista si fa in mezzo ai
personaggi, magistralmente interpretati, e ne scova paure e
difetti, doti e ambizioni, aggiungendo addirittura una punta di
mistero che alla fine si rivela un saldo legame umano, una
ritrovata felicità, un’ottimismo senza retorica che pervade come un
dolce velo la storia così come la musica dona espressività ed
emozione ad un epilogo forse improbabile ma ben costruito e
potente.
Come pochi film Il
concerto riesce a far piangere e ridere allo stesso
tempo regalando due ore di cinema così come dovrebbe essere:
divertente, emozionante, impegnato ma soprattutto poetico nella sua
semplicità, un difficile equilibrio che Mihaileanu riesce a
raggiungere nella sua pienezza.
Presentato nella Selezione
Ufficiale fuori concorso a Roma, Il
concerto è senza dubbio una delle migliori pellicole
viste all’Auditorium nell’anno 2009.
Il vincitore della seconda edizione
del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso
pubblico capitolino con Tra le nuvole,
una commedia dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato
insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra
vecchia conoscenza del Festival per The
Departed.
George Clooney è un uomo che si occupa di
licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da
diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua
casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a
Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo
una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude
tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un
progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e
l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue
fondamenta di scapolo impenitente.
Tra le nuvole
– Reitman regala un altro film frizzante e
divertente
Scrivendo magistralmente e
dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro
film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con
leggerezza.
Come già ci ha abituati in passato
con Juno e Thank You for
Smoking, Reitman costruisce la
storia su solide premesse (in genere la presentazione del
personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi
comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa
presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale
a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per
questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con
l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.
È Skellig di
David Almond ad aprire invece la sezione sempre
molto propositiva di spunti narrativi che vanno oltre il mero
intrattenimento per soli piccoli. Anche quest’anno non si
smentisce, presentando come prima opera un curioso film, che fa del
suo lato fantastico la sfumatura più
interessante. Skellig ruota
attorno al piccolo Michael, da poco approdato insieme alla propria
famiglia in una decadente e pericolante casa.
Motivo del trasloco, la
gravidanza della madre, incinta e pronta a regalare a Michael una
sorellina. Peccato che la bimba nasca con una rara e pericolosa
malformazione al cuore. Michael, combattuto dagli eventi, finisce
per scoprire in giardino, all’interno di un vecchio magazzino, uno
’strano uomo’. Sembra un barbone, non riesce ad alzarsi, è sporco,
mangia insetti ed ha una ’strana’ schiena. Accudito con amore e
passione da Michael, Skelling, questo il suo nome (come al
solito un ottimo Tim Roth che col passare degli
anni sembra diventare sempre più bravo ad offrire interpretazione
degne di nota), finirà per ritrovare le forze, finendo per
svelargli il suo incredibile segreto…
Un opera, come anticipato che ha
nella sua chiave fantastica la sua migliore peculiarità e come
pezzo forte senza dubbio l’interpretazione dei suoi protagonisti,
che oltre al Tim Roth mangiatore di insetti, che
grazie ad un buono make-up, diventa una presenza scenica a tratti
inquietante, e il giovane protagonista Bill Milner
che certamente non sfigura, riuscendo talvolta anche ad insidiare
lo scettro di re della pellicola ma, per brevi istanti al
“mostruoso” Roth.
Il regista dal canto suo forse non
riesce a mantenere in equilibrio stabile fra i due nodi
centragli del film, e pecca anche un pò di inesperienza sul
fantastico e il mistero, tirando troppo per le lunghe gli enigmi
dietro alla figura di Roth, diventando quasi un estenuante attesa,
che a tratti ridimensiona l’opera, forse anche per l’eccessiva
durata. Tuttavia, il risultato totale è di un film godibile ad un
largo pubblico, che sia disposto a credere al fantastico e che
assieme ai protagonisti si faccia trascinare per le vie di una
Londra in secondo piano, quasi anonima.
Skellig –
Ottimi alcuni riferimenti significanti sulla figura di Tim
Roth, degni di approfondimento, che dietro ad esse vi sia
celato qualche messaggio subliminale.
Barbarossa – Quando con un occhio si
guarda alla Storia e con l’altro all’intrattenimento
cinematografico si fa spesso grande cinema, lo dimostrano i tanti
capolavori storici che sono arrivati nelle sale negli ultimi anni.
Questa equazione tuttavia non si verifica sempre e purtroppo
Martinelli è caduto in pieno nella trappola che si è preparato da
solo. Film pretenzioso e costoso,
Barbarossa si presenta come una storia
forte, epica, soprattutto reale, che promettendo tanto, delude
profondamente lo spettatore. Una storia lunga scritta male e
raccontata peggio.
L’intreccio è confuso, portato
avanti seguendo i singhiozzi di un montaggio apparentemente casuale
che non aiuta ad appassionarsi alla storia con tempi morti e
momenti risolutivi trattati troppo in fretta, annoiando per i 139
minuti della sua durata. Martinelli si porta dietro l’eredità di
regista di videoclip, proponendo un prodotto i cui blocchi
narrativi non hanno consequenzialità né producono la giusta armonia
che un racconto dovrebbe avere tra le sue parti. Pur supportato da
tecnologie all’avanguardia come la crowd replication (per la prima
volta in una produzione italiana), il regista mostra la sua
inesperienza a sfruttarne il potenziale espressivo, inficiando la
credibilità dell’immagine, come esempio per tutti valga l’utilizzo
del digitale per riprodurre il sangue nella battaglia di Legnano:
asettici schizzi rossi che partono dalle ferite dei guerrieri per
proiettarsi verso lo spettatore, a ricordare gli altrettanto finti
schizzi di sangue dei titoli di coda dello snyderiano 300; sarebbe
bastato il sangue finto che nella tradizione italiana dell’horror
ha espresso sempre bene, seppure in maniera talvolta grottesca, il
disgusto e lo scempio dei corpi.
Gli ingenti mezzi
messi a disposizione di Martinelli impallidiscono di fronte ad una
sceneggiatura cattiva e senz’anima. Il regista cerca di dare un
ritmo, ma senza seguire uno spartito mette male l’accento con
l’abuso di ralenti che non sono giustificati dalla narrazione.
Eppure buone sono le
interpretazioni di Rutger Hauer e F.
Murray Abraham a dispetto dei ‘nostri’ attori. La bella
Kasia Smutniak, alle prese con un personaggio
controverso e complesso, non fa che ripetere gli stessi gesti
scarmigliati e confusi per tutto il film e
Raz Degan, nella sua stentata interpretazione, sembra
l’unico elemento che possediamo per orientarci nel tempo, in quanto
pare che il trascorrere degli anni nella storia venga misurato
tramite in progressivo grado di disordine dei capelli dell’attore
protagonista.
Le musiche di accompagnamento sono
anonime, approssimative e senza il respiro epico e poetico che la
storia dei ribelli avrebbe meritato. E’ vero, il coraggio andrebbe
premiato, poiché Martinelli si dimostra coraggioso scegliendo
sempre temi che vanno oltre il contemporaneo panorama delle storie
italiane da cinema, né drammi familiari né cine-panettoni quindi,
ma purtroppo non mette a frutto l’originalità dell’idea con la
realizzazione di un buon prodotto. Barbarossa si potrebbe definire
un passo falso, un altro dopo il non entusiasmante Carnera, e se è
vero che ‘errarehumanum est, perseverare autem diabolicum’.
Baarìa – “Noi
Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le
braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce
stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa
frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del
regista del film. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra
un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la
Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo
secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si
trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un
fiume di vite, raccontate magnificamente.
Tornatore
rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare,
regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante
conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella
direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.
Convince la modella siciliana
Margareth Madè, che in
Baarìa vede il suo esordio, più di quanto
faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista
romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo
Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri),
Picone, Aldo Baglio,
Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche
legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del
personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i
dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.
Il regista dice in molte interviste
che si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto
fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il
sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue
memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del
suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino
all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si
snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di
ampio respiro.
Alcune note di demerito.
Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film.
Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che
fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling
(dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita
splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di
Tornatore sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte
calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio
Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano
le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero
lasciar il posto alle immagini.
Grande attenzione ai particolari,
Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con
cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione.
Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento,
vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza
dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più
sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con
spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella
cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli
Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.
Qualcuno ha avuto da ridire sul
fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista
vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa
dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far
capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive
di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani
troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che
tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.
In definitiva, un bellissimo film,
assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di
un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la
smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi
omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti
Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore
scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così
da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel
passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia
si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo
riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del
miglior cinema italiano.
Un’altra nota positiva è che la
mafia in Baarìa di
Tornatore viene accennata ma non le si dà mai
troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede.
Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo
dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo
avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni,
come effettivamente desiderava fare? (Forse ancor più
bello….)
Voto: 8/10 Un kolossal d’autore come
Baarìa non si vedeva da anni (o forse non
si è mai visto). Bellissimo.
Prendi un po’ de
“La cosa” di John
Carpenter, lo spunto visivi di “Cloverfield”
e un po’ della visione Spielberghiana del mondo alieno ed ecco che
per magia appare District 9. Ma veniamo a noi e appunto al film.
Ambientato nel natio Sudafrica, a Johannesburg, lasciata da
Blomkamp all’età
di 18 anni per il Canada, District 9
parte come un reportage su un evento ormai cristallizzato: la
presenza di una gigantesca nave aliena sospesa sul cielo della
capitale sudafricana.
District 9:
recensione del film con Sharlto Copley
Trovate in fin di vita, disidratati
e affamati a bordo, centinaia di migliaia di “clandestini” vengono
curate e rinchiuse in un ghetto alla periferia della città. Un
ghetto vero, sporco e malsano, in cui queste creature insettiformi
sopravvivono mangiando cibo per gatti, vittime dei traffici dei
boss nigeriani della zona (anche questo basato su una situazione
reale a Johannesburg, senza connotazioni razziste). Quando la
situazione diventa esplosiva, il governo affida a una corporazione
privata, la MNU, il compito di evacuare e bonificare la zona, per
spostare gli alieni altrove. Da lì prende le mosse, tra
un’intervista e un reportage televisivo, che danno alla storia uno
straordinario carattere di film verità nella prima parte (forse
l’unico spunto interessante dell’opera), la trama che vede
protagonista un ambizioso ma ingenuo dipendente della MNU e un
alieno col figlio, determinato a far funzionare la tecnologia che
li riporterà alla nave madre e quindi in patria.
Se qualcuno si aspettava più
originalità e rivoluzione nel genere Sci-fi, rimarrà un po’ deluso.
Il film per l’appunto pecca di originalità, soprattutto riguardo
all’evolversi della storia, troppo convenzionale e più delle volte
prevedibile. Chi si aspettava un re-start per il genere Sci-fi che
tanta soddisfazione ha dato con film come Alien e Predator deve
fare ammenda di fronte ad un film lontano da quelle dimensioni.
Tuttavia, il film contiene degli
ottimi spunti registici, che per buona parte del film mantengono
alta l’attenzione. L’inizio in stile documentario incuriosisce e al
tempo stesso da un tocco sottile ed intrigante alla vicenda, e
sotto questo punto di vista il regista si dimostra bravo ad
amalgamare i vari pezzi tra il doc e la fiction, riuscendo
nell’impresa di tirare fuori un buon prodotto fruibile dal grande
pubblico in quella che ha detta di molti, anzi a dette di tutti è
la natura del cinema: l’intrattenimento.
In aggiunta c’è anche spazio alla
riflessione degli avvenimenti sociali che caratterizzano gran parte
della contemporaneità e la sua situazione a dir poco spiacevole su
ciò che riguarda la clandestinità, razzismo a cui si vanno ad
aggiungere problemi di natura di diversità religiose etc. In
definitiva il film rappresenta un tentativo sufficiente a
riproporre un genere che ha affascinato le menti di molti giovani e
che proietta il debuttante Blomkamp
verso un futuro assai migliore, sempre che Cameron con il suo
Avatar non si piazzi in mezzo e dica: “ehi sono io il maestro del
genere.” Di fronte a ciò nemmeno lo stesso Blomkamp
riuscirebbe a contraddirlo, visto che Alien è il suo film
preferito.
Ricatto
d’amore – Un pretesto banale, la scadenza della Green
Card, per una commedia romantica fresca e divertente, in pieno
stile Made in Usa. Questo è Ricatto
d’amore, in originale The Proposal,
letteralmente La Proposta.
Sandra Bullock è una donna in
carriera severa e feroce, una strega per i suoi sottoposti nella
casa editrice. Ryan Reynolds è un giovane assistente,
sottomesso e servizievole, che asseconda ogni pretesa della strega
Bullock, per realizzare il suo sogno di
diventare capo-redattore.
Ricatto d’amore
Due persone che sono a stretto
contatto i cui rigidi rapporti di lavoro impediscono di
conoscersi meglio, fino a che la minaccia per lei di essere espulsa
dagli Stati Uniti per la scadenza della sua Green Card, scatena
l’imprevisto. Reynolds sarà il prescelto, colui che , con un
matrimonio di convenienza, permetterà alla strega cattiva di
rimanere in terra USA.
Ovviamente il finale è previsto
dall’inizio, e i personaggi sono stereotipati, ma la storia corre
via senza pretese e con tanti sorrisi, con una Sandra Bullock in perfetta sintonia con i suoi
costumi austeri e in perfetta forma fisica. Elegante e raffinata
porta sulle sue spalle gran parte della storia, a dispetto di un
Reynolds mono espressivo nonostante le innumerevoli opportunità
cinematografiche che gli si stanno offrendo negli ultimi mesi.
Ricatto
d’amore è una commedia spiritosa che lascia lo
spettatore di buon umore, senza chiedere troppo e restituendo il
giusto.
G.I. Joe la nascita dei
Cobra – Stephen Sommers ci presenta ancora una volta una
pellicola d’azione che rispetta le aspettative del pubblico in
cerca di intrattenimento senza troppe pretese. Ancora la
Hasbro cerca di guadagnare sfruttando il cinema
per i suoi leggendari giocattoli, dopo il travolgente successo di
Transformers, che , almeno per il primo episodio, ha decisamente
più consistenza e valore di questo film.
La storia è quella dei Joe, una
squadra speciale che deve salvare il mondo da un gruppo di cattivi.
Niente di nuovo nella forma e nella sostanza, anche se qualche
scena ben congegnata riesce ad interessare lo spettatore, vedi la
scena dell’attacco a Parigi. I personaggi, quasi tutti volti
emergenti del nuovo panorama cinematografico, riesco a convincere,
chi più chi meno, nei ruoli loro assegnati, su tutti la bella
Rachel Nichols, la rossa Joe. Bello il personaggio
di Snake Eyes, interpretato da Ray Park, che
ricorda un po’ della malinconia degli X-Men.
G.I. Joe la nascita dei Cobra, il
film
Sommers si tira
dietro un po’ di cast della Mummia,
Brendan Fraser e Arnold Vosloo, e
combina diversi elementi action e comedy, per creare un film che
senza pretese intrattiene, ma non convince e si dimentica presto.
Anche visivamente, numerose sono le immagini e le suggestioni che
ricordano Transformers,
segno che forse le ambizioni di Sommers erano
superiori a quelle poi avveratesi.
G.I. Joe la nascita dei
Cobra è un film d’azione che sfrutta la tecnologia
spettacolare per realizzare scene ben ritmate ma non destinate a
passare in fretta nella storia del cinema e nell’immaginario degli
spettatori.
I Mangiamorte
attaccano Londra, piombano dal cielo in forma di scie di fumo nero
mortifero, attaccando maghi e babbani indiscriminatamente. In
disparte, in un piccolo bar della metropolitana londinese, Harry
Potter legge la Gazzetta del Profeta e flirta con una bella
cameriera, poi alla finestra appare
Albus Silente…e Harry viene catapultato verso il suo sesto anno
a Hogwarts, e noi con lui. Carico di attese, il sesto episodio di
Harry Potter, Harry Potter e il Principe
Mezzosangue, mantiene le promesse: più cupo e più
divertente degli altri. Evidente il ritorno al timore della
sceneggiatura di Steve Kloves che nonostante la
complessità del sesto libro, fa un ottimo lavoro di riduzione,
mantenendo il senso del film e aggiungendo qua e là qualche
efficace modifica al corso degli eventi.
In Harry ha 16 anni, deve
affrontare un nuovo anno durante il quale sarà capitano della
squadra di Quidditch, dovrà tener testa alla sua nuova popolarità
con le ragazze, farà i conti con un nuovo, profondo sentimento che
sta crescendo nei confronti della bella Ginny, sorella di Ron, avrà
una vera e propria ossessione per il suo nemico
Draco Malfoy, si imbatterà in un libro di pozioni, che è
appartenuto al ‘Principe Mezzosangue’, ma soprattutto seguirà
lezioni private con Silente, che con lui si addentrerà nei ricordi
del Signore Oscuro
Voldemort, quando era ancora un ragazzino.
Harry Potter e il Principe
Mezzosangue, il film
Ma trasformati sono anche gli
inseparabili amici di Harry, il rosso Ron, alle prese con la sua
prima ragazza, un’ossessiva biondina tutta bacini e sorrisini
frivoli, e Hermione, che si barcamena tra un insistente
corteggiatore poco raffinato e la sua inaspettata, incontrollata,
gelosia per Ron. Tanto mistero intorno a questa storia: chi è il
Principe Mezzosangue? Cosa nasconde il nuovo professore di Pozioni
sotto l’apparente cordialità? Cosa è successo alla mano destra di
Silente, annerita e morta? Che cosa affligge
Draco Malfoy? Interrogativi che troveranno una risposta nel
corso del lunghissimo film, ben 150 minuti.
I toni del racconto
in Harry Potter e il Principe
Mezzosangue si dipanano in buon equilibrio tra
il serio e il faceto, lasciando molto spazio ai menage tra i
ragazzi con gli ormoni in tumulto. Un fotografia affascinante ed
efficace, mutevole come i toni del film, accompagna i protagonisti
per le aule e i corridoi del castello rendendo l’atmosfera lieve e
greve, festosa e macabra. Alla regia, di nuovo David
Yates che se aveva fatto storcere il naso per
L’Ordine della Fenice, adesso ha preso confidenza con i ritmi
potteriani e si dimostra più capace di portare avanti la storia, ma
il merito va soprattutto a Kloves, che come detto, ha ottimizzato i
contenuti aggiungendo qualcosa. Ottimo lavoro sui personaggi, più
articolati, finalmente cresciuti anche a livello professionale.
Peccato per il finale che si sgonfia su se stesso e lascia passare
sotto silenzio una grandiosa scena finale di battaglia ad
Hogwarts.
Harry Potter e il Principe
Mezzosangue è un film più adulto, che mette da parte gli
incantesimi e si pone come pre-finale per l’ultimo atto atteso per
il 2012. Menzione speciale a tutto il cast, ancora una volta la
fucina inglese si mostra la migliore, per quanto riguarda si
attori: oltre agli ovviamente bravi Michael Gambon e
Alan Rickman, bene anche la new entry Jim
Broadbent nei panni del Prof. Horace Lumacorno, ma
soprattutto Helena Bonham Carter, mai così adatta e
apparentemente a suo agio in un ruolo, la sua
Bellatrix è superlativa.
I presupposti ci sono tutti: i
personaggi vincenti, i robot che già conosciamo e quelli nuovi, le
relazioni e le situazioni nuove da esplorare, un intreccio che per
quanto fantascientifico regge bene in Transformers – La
vendetta del caduto. Tuttavia Michael Bay
vuole strafare mettendo troppo di tutto e finendo con un risultato
appunto affollato e un po’ confusionario, soprattutto alla
fine.
La trama di Transformers – La vendetta del
caduto
Sono passati due anni dall’epocale
scontro tra Decepticon e Autobot, il governo degli Stati Uniti ha
smantellato il settore 7 e ha istituito una unità speciale, il
NEST, per combattere i focolai di Decepticon che faticano ad
ammettere la sconfitta del loro leader Megatron, intanto Sam parte
per il college, lasciandosi alle spalle dei genitori devastati
dall’inevitabile crescita del loro unico figlio, e una fidanzata
splendida e innamoratissima, ma inverosimilmente gelosa … Tutto
sembra procedere bene a parte un nuovo ed invadente compagno di
stanza, ma i guai cominciano quando Sam comincia a vedere strani
simboli in cybertroniano e gli attacchi dei Decepticon si
moltiplicano
Gli sceneggiatori, i pur bravi
Roberto Orci e Alex Kurtzman
insieme a Ehren Kruger, non hanno approfittato del
fatto che il grosso lavoro di introdurre luoghi e personaggi era
già stato fatto nel primo film e che quindi sarebbe stato più
semplice per loro portare avanti un plot definito insieme ai tanti
piccoli corollari che avrebbero seguito i diversi temi: la guerra
vera e propria, i genitori di Sam, il rapporto tra Sam
(Shia
LaBeouf) e Michaela (Megan
Fox) e così via. Il risultato dunque non è dei più
esaltanti, soprattutto nella parte iniziale, dove una forzata
ricerca della risata spinge i personaggi e soprattutto la madre di
Sam, un’eccessiva July White, a scendere nell’imbarazzo
generalizzato. Pesanti alcuni dialoghi, a volte prolissi altre
volte superflui, a tratti anche un po’ volga rotti, anche per bocca
dei robot, così compassati e dignitosi nel primo film.
Transformers 2: La
Vendetta del Caduto, in scena John Turturro
La seconda parte
Transformers 2: La Vendetta del Caduto si
risolleva con l’entrata in scena di John Turturro, eccezionale nei panni
dell’agente Simmons, relegato dal governo a vendere carne dopo lo
smantellamento del Settore 7, la sua verve resta intatta nonostante
cambi il registro tra una pellicola e l’altra. I moltissimi robot
mantengono invece le promesse, sicuramente più umanizzati che
antropomorfi, tengono la scena e perfezionano le trasformazioni, la
mdp entra nelle loro viscere metalliche e rende lo spettatore
partecipe del mutamento, merito soprattutto degli effettoni di cui
il film fa uso e abuso e che sono sicuramente perfezionati e
migliorati che in Transformers.
Si perdoni il continuo riferimento
al primo film, ma è inevitabile, soprattutto quando si va a
valutare l’evoluzione dei personaggi: un Sam più maturo e sicuro di
sé si affaccia alla vita di college e cerca di mantenere invariati
i rapporti con la splendida fidanzata, che dal canto suo non fa
propriamente una bella figura, o meglio, è sicuramente un bel
vedere, ma decisamente parla troppo e se le avessero fatto dir meno
sarebbe stato sicuramente meglio per tutti.
Ancora, i genitori più presenti
hanno il loro, seppur breve (meno dei 15 minuti di Warhol), momento
di gloria in una piccola ma intensa scena che coinvolge e quasi
emoziona alla maniera di Bay. Ma i personaggi più interessanti sono
sicuramente i robot: si delinea meglio il rapporto di Sam con il
guardiano Bumblebee, amico fedele e a suo modo affettuoso, i
Gemelli, decisamente troppo umani; capiamo meglio la natura di
Megatron, che lungi dall’essere un villain a tutto tondo sfiora la
codardia, forse offuscato dal ben più cattivo Fallen e dagli altri
numerosi e terribili, Decepticon, soprattutto il mostruoso
Devastator. Ma ancora una volta, su tutti si erge Optimus Prime:
oltre a scoprire qualcosa in più delle sue origini, lo vediamo in
azione potente e crudele contro il male nella sua incommensurabile
umanità, accompagnato ancora dalla poderosa e bellissima colonna
sonora di Steve Jablonsky che costella tutto il
film di tracce favolose.
In definitiva
Transformers 2: La Vendetta del Caduto è
un bel film fracassone, che a tratti stordisce lo spettatore e che
sicuramente perde il confronto con il primo Transformers, e che,
come differenza principale, lascia presagire un sicuro sequel per
completare la trilogia.
Moonacre e i segreti
dell’ultima luna – La 13enne Maria, cresciuta senza
la madre, resta orfana anche del padre, che a dispetto delle
apparenze, lascia dietro di sé una lunga serie di debiti che
costringeranno la ragazzina a trasferirsi in campagna nella villa
dello zio burbero a apparentemente misantropo. L’unica eredità che
Maria riceve dal padre, è un grosso libro che racconta la storia
dell’incantata valle di Moonacre.
Nel cercare di sciogliere la maledizione che grave
sulla valle, Maria farà molti incontri, belli e brutti, e scoprirà
il suo importante ruolo nella leggenda. Il film, non privo di
spunti interessanti, è un pallido esempio di fantasy che dispiega
ogni genere di banalità di genere per dar vita ad una storia un po’
scialba e telefonata. Molteplici i riferimenti a storie ben più
famose: il giardino segreto, la bella e la bestia e tanti altri in
cui la protagonista attraverso una sorta di viaggio iniziatico
compie il suo destino.
Tuttavia Moonacre e i
segreti dell’ultima luna resta un abbozzo di storia
con personaggi poco approfonditi e intreccio che sta in piedi per
mezzo di una storia nella storia. La performance di Dakota
Blue Richards, nonostante la sue doti indiscusse, viene
messa a dura prova nella versione italiana da un pessimo doppiaggio
che ne appiattisce ogni inclinazione vocale, e il fascino di
Natascha McElhone, per quanto notevole, non basta
a creare un personaggio credibile. Tristissimo anche il
cattivissimo (nell’intenzione del regista) Tim
Curry, che sebbene invecchiato e appesantito resta sempre
una presenza inquietante, anche se talvolta fine a se stessa. Nota
di merito invece ai costumi di Beatrix Aruna
Pasztor, un mix di antico e moderno, che, soprattutto
negli abiti femminili, trova la sua massima eccellenza.
L’ungherese Gabor Csupo, già
regista di Un Ponte per Terabithia, non
riesce questa volta a dare un ritmo avvincente alla storia, optando
per un racconto classico poco scandito e tutto sommato banale.
Belli gli effetti che ci mostrano leoni neri, unicorni e mandrie di
cavalli tra le onde, ma dai quali lo spettatore ormai smaliziato
non riesce a trarre meraviglia.
Bradley Cooper, astro nascente della commedia
made in USA, l’ha definito “Memento che incontra Salvate il soldato
Ryan!”. E paradossalmente, The Hangover
(Il doposbornia), in Italia, Una Notte da Leoni,
riesce nell’intento di dare un’idea generale del film, pellicola
scatenante ed irriverente che cadenza la comicità più demenziale
con una struttura alla Memento appunto che ne consolida la base di
racconto ben costruito e raccontato.
Quattro amici partono per un week
end al Las Vegas, per celebrare come si deve l’addio al celibato di
uno di loro. Dopo un brindisi per iniziare la serata, ci troviamo
direttamente in una suite d’albergo devastata, dove i nostri sono
riversati sul pavimento in condizioni di doposbornia pietose, in
compagnia di una gallina una tigre, che si scoprirà essere di
proprietà di Mike Tyson, e di un neonato battezzato sul momento
come Carlos. L’unico problema è che il futuro sposo non si trova e
nessuno ricorda nula della notte appena trascorsa. Una
Notte da Leoni seguirà i tre improbabili ed esilaranti
amici alla ricerca dell’amico perduto con la speranza di
ricostruire quello che è successo. Piccoli indizi li porteranno e
scoprire luoghi e incontri notturni.
Una Notte da
Leoni, raccontato con irriverente leggerezza da
Todd Phillips, già regista di Starsky e Hutch,
è un perfetto esempio di come la commedia riesca ad offrire un
divertimento sano e addirittura intelligente quando la storia
conduce per mano lo spettatore e presenta personaggi nei quali
identificarsi ma dei quali ridere e scandalizzarsi nella più totale
assenza di pretenziosità. Una commedia all’American Way che detta
regole di comicità che alcuni dei ‘nostri’ in Penisola dovrebbero
imparare. Infatti per quanto alcune trovate possano risultare poco
originali e già sentiti, sono inserite con una freschezza e una
precisione cadenzata nella storia che aiutano a definirla senza mai
abbassare l’attenzione divertita dello spettatore. Anche
l’eterogeneo assortimento dei personaggi contribuisce ad ottenere
quel riverbero comico in ogni battuta, in ogni occhiata d’intesa
dei tre eroi alla ricerca dello sposo sparito. Oltre al già citato
Bradley Cooper ricordiamo Ed Helms e
Zach Galifianakis, assolutamente splendidi.
Una volta tornati alle loro vite, i
quattro rimarranno amici ma purtroppo per lo spettatore nessuno
saprà mai cosa è successo durante quella notte da leoni…meno male
che sotto il sedile posteriore della mercedes è rimasta la
fotocamera con ricca documentazione!
I
love Radio Rock non si tratta di un film celebrativo
del network romano più conosciuto negli ambienti underground della
capitale, ma della radio più trasgressiva nell’Inghilterra degli
anni 60, in cui il rock’n’roll spopolava per le strade, ma non
sulle radio ufficiali, che potevano trasmetterlo solo per due ore
alla settimana. E così nascevano radio pirata che trasmettevano da
grosse barche ormeggiate nel Mare del Nord e i deejay erano più
popolari delle stesse rockstar.
Sceneggiato e
diretto da Richard Curtis, I love Radio
Rock è una commedia brillante, ritmato da battute
fulminanti e situazioni di puro divertimento, capace di ritrarre in
modo essenziale ogni personaggio che anima la vita a bordo della
radio pirata. La musica aziona ogni ingranaggio, dalle fulminee
storie d’amore consumatesi sulla nave, alle amicizie nate tra un
disco e l’altro, alle sfide lanciate tra le star della radio, fino
agli sleali meccanismi dei quali il potere si serve per ostacolare
la concorrenza dilagante e amorale del rock.
I love Radio Rock è una commedia
brillante
Il potere è
impersonato in modo incredibile da un Kenneth Branagh che rende il suo
personaggio una macchietta di se stesso, uno stereotipo bigotto e
puritano rianimato in questo film da scene memorabili (su tutte,
l’emozionante cena di Natale in famiglia).
Dall’altra parte
c’è la variegata comitiva di deejay che vivono per la musica e con
la musica, 24 ore al giorno sulla nave – radio rock, allietati
saltuariamente dalla visita di giovani fanciulle disinibite e
affascinate dalla vita trasgressiva in mezzo al mare: dal
proprietario della radio, un dandy votato alla causa della
liberalizzazione dei costumi (Bill
Nighy), al Conte, autentico esempio di vita spesa per
la musica (un possente Philip Seymour Hoffman), a
Gavin, la voce più sensuale del rock inglese (un esaltato Rhys Ifans) fino al giovane Carl (Tom
Sturridge), che trova nella nave rockettara il percorso di
formazione che ogni adolescente vorrebbe avere.
In I love
Radio Rock un plauso al costumista: un tripudio di
colori, fantasie optical e accessori assolutamente inutili vestono
i corpi dei personaggi rendendoli completamente immersi in un’epoca
ormai svanita, ma che ogni volta che torna lascia dietro di sé un
senso di nostalgia.
L’attesissimo sequel
Terminator Salvation è arrivato nelle
sale, promettendo adrenalina spettacolo, soprattutto un approccio
più moderno rispetto all’originale, che resta l’indimenticabile
primo film.
A volte le promesse non si
mantengono, altre volte si, altre volte ancora si esagera e si
finisce col portare nelle sale film che risultano fastidiosi. E’,
purtroppo, il caso di Terminator
Salvation, che lungi dall’essere un film totalmente
negativo è troppo immerso nell’universo macchinista che fa di
Christian Bale un soldato urlatore e
spara-tutto, insulso ed egoista nel suo personaggio di John Connor,
che avrebbe meritato un trattamento ben migliore. Ma non diamo la
colpa al Christian che invece si impegna diligentemente, com’è suo
solito, a portare a termine la missione pur con qualche capriccio
di troppo sul set.
Terminator Salvation, il film con
Christian Bale
Chi mai incolperemo per aver fatto
di uno dei film più attesi della stagione un clamoroso fiasco (non
al botteghino…)? Gran parte della colpa è senza dubbio di McG, il
regista che dopo un inizio esaltante, vedi il piano sequenza
dell’elicottero che precipita con Bale all’interno, si concentra
tutto sullo spara spara contro le cattivissime ed attrezzatissimo
macchine. Un abbozzo di storia decisamente interessante che crolla
su se stesso, senza risparmiare nemmeno il ben costruito
personaggio di
Sam Worthington, umano meccanico che ruba la scena al
povero Bale che già ne Il Cavaliere Oscuro si era fatto offuscare dal
talento di Heath Ledger.
Si capisce bene, considerando la
travagliata vicenda della sceneggiatura, la richiesta di soccorso
inviata a Jonathan Nolan, per risollevare le sorti
del film. Il buon Jonathan arriva sul set, consola
l’amico Chris e mette mano alla sceneggiatura
modificandone l’ultima parte. Il finale infatti si salva
parzialmente anche se, come per tutto il film, resta quel qualcosa
di inespresso che una storia comunque bella poteva dare. Bello il
cameo di Shwarzy, ovviamente ricostruito in digitale, come
è ‘espressivo’ lui nel ruolo di macchina mortifera nessuno!
Risultato complessivo appena sufficiente, si salva infatti
l’aspetto visivo del film…ma dopotutto non si tratta di un quadro,
e una fotografia azzeccata non solleva un film mediocre.
Martyrs
– Una bambina spaventata e ferita, corre urlando
lungo una strada di periferia. Quella bambina, accolta in un centro
per l’infanzia, continua ad essere sempre spaventata e ad avere
spaventose visioni. Dopo qualche anno, una famiglia apparentemente
tranquilla viene trucidata da due giovani donne.
È questo l’inizio
di Martyrs, che si aggiunge al nutrito
filone horror-splatter che imperversa nelle sale cinematografiche
contemporanee.Un film che basato su una trama ai limiti del
possibile, mette a nudo un maldestro tentativo da dare un fondo di
misticismo ad un film che rimane tuttavia ancorato al genere senza
offrire nulla più che intrattenimento, il quale in verità è molto
relativo, considerando che a metà film, se non prima, la maggior
parte delle persone in sala ha lasciato vuota la propria
poltrona.
Martyrs
Presentato al Festival
Internazionale del film di Roma nella sezione Extra curata da Mario
Sesti, Martyrs presenta in questo la sua
unica nota positiva: un film di genere horror splatter presentato
ad un festival. Tuttavia si tratta del contesto e non del film, il
quale invece a detta degli esperti del genere, non è assolutamente
all’altezza dei primi due Saw o di The
Ring. Deludente.
Film d’esordio del
regista/sceneggiatore Bertino, che già alla sua opera prima
dimostra di conoscere i meccanismi di tensione del cinema horror.
The Strangers raccontata è una delle tante
storie di violenza accadute realmente, lontanamente ispirata ad una
vicenda personale del regista e ai massacri compiuti per mano della
Charles Manson Family.
The Strangers si
apre con una nota circa le statistiche dei casi di aggressione che
ogni anno avvengono in America: in tal modo il regista cerca di
liberarsi dal dramma personale, cercando di inserire la vicenda in
un contesto più ampio, facendo in modo cha la storia sia il
riflesso della violenza in generale.
A prova di ciò basti considerare il
fatto che Bertino rifiuta di raccontare la storia della coppia,
accennando soltanto alla loro crisi, e concentrandosi invece sugli
atti brutali da loro subiti. Così facendo egli non cade nel
patetico e riesce a concentrarsi sul ritmo del film , ben
equilibrato tra momenti di attesa ed esplosioni di violenza.
Quando Kristen (Liv
Tyler) chiede una spiegazione per quello che stanno
subendo, la risposta è chiaramente assurda ed è la dichiarazione
palese del rifiuto di qualsiasi forma di psicologismo e della
mancanza di un reale movente che spinge gli aggressori alla
violenza.
« Perché ci fate questo? Perché eravate in casa »
The
Strangers diventa espressione quindi di una violenza
totalmente gratuita, confermata anche dal fatto che il regista non
mostra mai i volti degli assassini, presentandoli talvolta come
fantasmi che vengono fuori dal nulla: sono solo l’espressione del
male irrazionale; la violenza spesso non ha un volto e vien fuori
dal nulla proprio come gli aggressori protagonisti di questa
vicenda. Finale inusuale e spiazzante, che vede i protagonisti
morire alla luce del giorno; se gran parte delle violenze
raccontate nei film di questo genere si consumano durante la notte,
Bertino lascia che il delitto finale venga compiuto proprio al
sorgere del sole. Con un gesto simbolico, l’aggressore apre la
tenda e lascia che la luce inondi la stanza e soltanto dopo
provvedono all’esecuzione tanto attesa durante tutto il film.
Ben Stiller torna a vestire i panni dell’ex
guardiano notturno Larry Dailey, ma questa volta in una veste tutta
nuova. Una Notte al Museo 2 ripropone le stesse
tematiche del primo episodio, ma necessariamente sotto una diversa
ottica, essendosi ormai esaurito l’effetto “novità” dell’idea
originale. Dailey ha fatto fortuna vendendo le sue improbabili
invenzioni, ma continua saltuariamente a frequentare il museo. La
direzione, però, decide di sostituire molte attrazioni con degli
ologrammi, condannando così Jedediah e amici all’immobilità eterna
negli archivi dello Smithsonian di Washington. Inizia così per
Dailey una nuova missione per salvare i suoi compagni di tante
notti.
La trama di Una Notte al
Museo 2 , ideata dagli stessi sceneggiatori del primo
episodio Ben Garant e Thomas Lennon, si è dovuta pesantemente
confrontare con l’eredità del predecessore e, soprattutto, con il
fatto che l’aria fresca dell’idea originale era ormai finita. La
soluzione è stata quella di “pensionare” alcuni dei personaggi
principali, come il Roosevelt di
Robin Williams, ridotto ad una comparsa, e di
aggiungerne di nuovi, che potessero avere qualcosa da dire. Braccio
destro di Stiller diventa Amelia Earhart (Amy Adams),
famosissima pilota americana, dipinta come un’inarrestabile
scavezzacollo determinata ad affermare il suo ruolo di pioniere
femminile dell’aria persino in faccia ai fratelli Wright.
Una Notte al Museo 2, il film
Antagonista è il malvagio faraone
Kah Mun Rah, fratello di Akmen Rah, ironicamente interpretato da
Hank Azaria (già visto in Friends) con un difetto di pronuncia che
gli fa perdere gran parte della sua carica di “cattivo”. La cosa,
ovviamente, si sposa bene con l’intero film, che gioca sull’ironia
e, più che nel primo episodio, con le icone della cultura
americana, contrapposte ad altre non a caso straniere (un pizzico
di nazionalismo filo-americano non è mai mancato in questo genere
di film e, in fondo, è accettabile quando ci si può ridere
sopra).
Da una parte abbiamo il mai domo
Jedediah, un goffissimo generale Custer e il romanesco Ottaviano,
costretti ad affrontare un Al Capone in bianco e
nero, un Ivan “non così Terribile” e uno spassoso Napoleone, il
quale se ne esce con alcune battute di stampo politico che faranno
ridere soprattutto noi italiani. La storia scorre liscia senza
particolari problemi o patemi d’animo e, infatti, non vi è mistero
o impresa che occupi più di una ventina di minuti per essere
risolta. Scelta forse poco drammatica, ma che contribuisce comunque
a rendere il film leggero e piacevole da vedere. Vi sono alcuni
grossi buchi, però, che non vengono spiegati. Se nel primo film,
infatti, la baraonda creata dai reperti animati non viene notata
dalle guardie in quanto esse stesse al corrente della magia, non è
chiaro come in questo secondo episodio nessuno sembri accorgersi di
nulla, nonostante disastri e danni che, nella realtà, avrebbero
fatto scattare tutti gli allarmi della città. In definitiva i due
autori e il regista Shawn Levy hanno deciso di
giocare e divertirsi con tutti gli oggetti che hanno potuto trovare
all’interno di un luogo come lo Smithsonian, non a caso uno dei
musei più grandi del mondo.
Ne esce fuori una commedia
divertente e che strapperà più di una risata, pur sforando a volte
nell’esagerazione e in alcune situazioni tipiche da “vorrei girare
questa scena, ma è chiaro che non posso in un film simile”.
Ben Stiller interpreta il personaggio di Larry
con la solita carica comica, ponendo però l’accento su come sia
cambiato caratterialmente e come sia più deciso e sicuro di sé
questo nuovo Dailey. Alla fine diventa un personaggio interessante,
ma forse più ostico per il pubblico che volesse identificarsi in
lui. I riflettori, infatti, finiscono per essere quasi tutti per
Amelia Earhart, che eredita da Stiller il ruolo di eroina
dolce e simpatica, seppur determinata. La regia di Levy è piuttosto
frenetica in molti punti, ma ciò non è un male, in quanto
conferisce un certo ritmo all’intera pellicola e riesce a
comunicare la situazione fuori controllo che l’intero museo vive in
questa particolare notte.
Il tutto è completato dalla colonna
sonora di Alan Silvestri (Trilogia di Ritorno al
Futuro) che si innesta bene nella narrazione facendo al tempo
stesso il verso a produzioni più pompose e maestose. Interessante,
infatti, è il contrasto in molte scene tra la goliardicità degli
elementi in gioco e la conduzione della musica classica, più adatta
ad un Jack Sparrow che a un Larry Dailey. Musica pop e rock si
fondono ogni tanto, com’è caratteristica comune di Silvestri, con
in più una comparsata solo “vocale”dei celebri Jonas Brothers nei
panni di tre amorini svolazzanti a cantanti. Menzione d’onore per i
responsabili degli effetti speciali, che hanno restituito alla vita
un intero museo in maniera magistrale, probabilmente
divertendosi anche parecchio nel farlo.
In conclusione, Una Notte al Museo 2 è un
film leggero e divertente, forse inferiore come carica al suo
prequel, ma ugualmente godibile. Pollice alzato.
Quello che Ron Howard e Dan
Brown sanno fare bene insieme è creare suggestioni. Dalle
prime immagini di Angeli e Demoni della
rottura dell’anello piscatorio, all’intricato thriller che mescola
arte, scienza e religione.
Niente da dire quindi, grande
sceneggiatura (la firma di David Koepp si
avverte), ottima regia con una bella visione della scena,
funzionale alla narrazione, e ovviamente incredibile colonna
sonora, a tratti forse troppo discreta, del maestro Hanz
Zimmer. Tutto comincia nella solennità delle stanze
papali, e tutto lì finisce, ma nel mezzo l’adrenalina e
inseguimenti si susseguono senza sosta fino all’ultimo, forse per
qualcuno prevedibile, colpo di scena. Tom Hanks ritorna negli atletici e sicuramente
più giovani panni di Robert Langdon, a risolvere enigmi su
commissione, profondendosi in dettagliate descrizioni dei rituali
che seguono la morte del pontefice.
La realtà del film, così familiare
per gli italiani e in particolare per i romani, non è scontata per
il pubblico americano, che copioso ha inondato le sale di tutto lo
Stato (così com’è successo in tutto il Mondo a quanto dice il
box-office). Ovviamente grande prova d’attore, forse migliore che
ne Il Codice da Vinci, per Hanks e ben
supportato dal resto del cast su tutti in Ewan McGregor in grande forme, affascinante
pure con l’abito talare. Ma anche uno degli ultimi orgogli
nazionali esportati all’estero, Pierfrancesco Favino, nei panni dell’ispettore
Olivetti tiene alto l’onore di fronte a cotanto protagonista
fregiato a suo tempo da due premi Oscar. Apparentemente messo a
caso, il personaggio femminile di Ayelet Zurer
sembra servire più alla par condicio che alla storia.
Ma protagonista indiscussa in tutto
il suo splendore (ricostruito) è senza dubbio Roma, città caotica
ma bellissima e misteriosa, perfetto scenario di un discreto
intrigo che però lascia tiepido chi si aspetta qualcosa di più.
Grande intrattenimento quindi, ma non bastano riprese acrobatiche,
belle battute e colonna sonora superba per fare un buon film, ci
vuole l’anima, ma forse quella si può comprare, basta guardare i
risultati ai botteghini.
Prima di iniziare con l’analisi di
San Valentino di sangue 3D, vorrei porre l’accento
sul successo questo film sta avendo: le sale sono sempre piene, e
in alcuni casi è doveroso prenotare i biglietti ed entrare quanto
prima per godere di un buon posto; gli spettatori non sono soltanto
i cultori del cinema
horror, bensì giovani d’ogni sorta curiosi di vedere la
violenza in 3d. Considerato lo scarso successo di molte film
horror, che al cinema vedono incassi soprattutto grazie ai cultori,
viene da chiedersi cosa spinge lo spettatore a scegliere di subire
la violenza in maniera così diretta.
È ovviamente tutto consequenziale
all’avanzamento tecnologico che ci travolge e ci investe in maniera
così distruttiva da coinvolgere anche la dimensione emotiva:
l’espressione affettiva è infatti sempre più mediata dal mezzo (che
sia un PC o un telefonino cellulare); il contatto viene a mancare,
ed internet impera all’insegna delle nuove relazioni virtuali.
Considerando ciò, è chiaro come la terza dimensione al cinema si
confaccia alle esigenza di una generazione aliena sempre di più al
contatto fisico.
San Valentino di sangue
3D si inserisce direttamente nella linea dei nuovi
videogames che mirano sempre più alla simulazione del reale, e
all’interazione diretta tra uomo e macchina: mi riferisco in
maniera specifica a tutti quei giochi che simulano attività
sportive, allontanando sempre di più l’uomo dalla propria fisicità;
la soddisfazione è grande le nuove generazioni impazziscono per i
videogiochi di calcio al punto da preferire la finzione dallo sport
reale. Tenendo conto di tutto ciò, è chiaro il motivo che spinge i
giovani ad affollare le sale che proiettano San Valentino di sangue
in 3d piuttosto che un “banale” horror movie che si limita a
mostrare la violenza entro le due dimensioni: la terza dimensione
colloca lo spettatore direttamente dentro la violenza, sempre però
tenendolo al sicuro da qualsiasi contatto fisico. La violenza è
quindi sempre più realistica ma non reale, e rispetta le esigenze
di un pubblico portato alla ricerche di esperienze virtuali. Le due
dimensioni non ci bastano più. Sempre più dentro lo schermo e
sempre più fuori dal corpo. Ora, dopo questa piccola
digressione, passiamo all’analisi del film.
San valentino di sangue 3D, remake
di un film culto
Dedito al genere horror, Patrick
Lussier, già regista di Dracula’s legacy e White Noise
the light, si prodiga in un remake di un film di culto degli
anni ’80 molto amato da Tarantino. Assistiamo ad uno dei rari casi
in cui il rifacimento supera l’originale, non solo dal punto di
vista tecnico- visto l’uso del 3d – ma anche e soprattutto grazie
ad una sceneggiatura più solida. Il prodotto non potrebbe essere
più classico di questo, presentando quelli che sono i topoi
del genere slasher: scene di nudo esplicito; efferati omicidi ai
danni di coppie indifese; corse ed inseguimenti per il bosco;
un killer che ritorna a sconvolgere un piccolo centro dopo molti
anni; e naturalmente la final girl, al centro del dramma e
superstite alla strage dell’assassino.
Un horror piuttosto standard, che
non sovverte le regole, né sperimenta nuovi meccanismi di tensione,
ma che però riesce in ogni caso a catturare in maniera prepotente
l’attenzione dello spettatore, grazie ovviamente all’uso della
tecnologia 3d: la violenza è tanta, e si protende fino a quasi
toccare lo spettatore, divertendo ed entusiasmando i sadici fautori
del cinema estremo, impressionando e soddisfacendo le pulsioni
masochiste dei più timorosi, e le curiosità dei meno vicini al
cinema di questo genere.
In Disastro a
Hollywood Un produttore cinematografico d’eccezione
(Robert
De Niro) ci accompagna per una settimana nel difficile
mondo di Hollywood. Lo seguiamo nelle varie tappe delle sue
giornate, tra figli, ex mogli amiche e ex mogli ancora amate che
però non riescono ad avere la meglio sul proprio lavoro, tra star
capricciose, festival imminenti e major tiranne.
Un affresco asciutto e a tratti
eccessivo del mondo del cinema, quello dell’industria, che si
nasconde agli occhi del pubblico, quello delle star capricciose (un
inedito e divertente Bruce Willis nella parte di se stesso), dei
registi divisi tra l’arte e il mercato, della produttrice rigida
che ‘o fai come dico, o mi prendo il tuo film’, delle piccole
grandi tragedie di quelli che lo star system proprio non lo reggono
e decidono di uscirne definitivamente (vedi il produttore suicida)
… e tra tutti il produttore, diventato quasi atarassico a tutte le
sue incombenze, che si barcamena tra tutti cercando di non
soccombere.
Disastro a Hollywood
– Un affresco asciutto e a tratti eccessivo del mondo del
cinema
Film ironico ma distaccato, il
punto di vista è quello di un osservatore superiore, che guarda i
personaggi alle prese con i loro meschini problemi, trattandoli con
freddezza, senza scendere nel dettaglio psicologico, ma
semplicemente raccontando quello che succede quasi in maniera
documentaristica. E meno male. Il film scorre via, senza pretese, e
senza una storia di fondo, solo problemi su difficoltà dai quali il
nostro eroe alla fine verrà sopraffatto. Cast d’eccezione: oltre a
De Niro,
Sean Penn e Bruce Willis nei panni di se stessi,
Robin Wright,
Stanley Tucci,
Kristen Stewart, Catherine Keener,
John Turturro.
Uno sfavillio di luce galattica
avvolge lo spettatore che si lascia prendere da una storia di
nascita e origini. Ancora una volta, come già accaduto per il
Batman
di Christopher Nolan, per il restyling del mito
si torna alle origini dell’uomo (o nel caso, del vulcaniano), alla
nascita e all’educazione, per capire i ruoli i rapporti i
sentimenti che legano gli eroi che tante avventure hanno
attraversato insieme sull’enterprise tra tv e cinema in
Star Trek.
J.J. Abrams orchestra tutto con maestria ed
equilibrio, misurando emozione e phatos, adrenalina e battaglie,
prediligendo lo spostamento della camera al cut della pellicola,
per farci seguire con lo sguardo, per accompagnarci nei meandri di
una storia bella e ben raccontata, da un punto di vista visivo ma
soprattutto da quello narrativo, merito di due sceneggiatori di
tutto rispetto Roberto Orci e Alex Kurtzman che insieme
avevano già dato prova di sapere il fatto loro con transformers,
usando la commedia per entrare nell’action puro e per arrivare
attraverso di esso ai sentimenti primordiali del bene e del male,
dimensioni talvolta banalizzate ma sempre attuali.
Star Trek –
Uno sfavillio di luce galattica avvolge lo spettatore
Merito anche di un cast
convincente, Star Trek si dipana in
tutta la sua notevole durata, senza pesare minimamente sullo
spettatore, dosando con reminiscenze (oso dire) kubrickiane
riferimenti ben più calzanti e vicini come star
wars e coinvolgendo lo spettatore che esce dalla sala
soddisfatto, con gli occhi pieni di immagini poderose ed
emozionanti.
“Voglio il
sangue…” adrenalinico e a tratti malinconico X-Men le
origini – Wolverine di Gavin Hood,
perfettamente interpretato da Hugh Jackman, è uno dei film più attesi della
stagione, e finalmente dal 29 maggio abbiamo potuto vederlo in
tutto il suo ruvido splendore.
Una storia triste quella di Jimmy
Logan, alias Wolverine, costretto all’esilio e alla fuga, in
continua ricerca di se stesso e di una sua nemesi che potrà forse
un giorno liberarlo dal suo senso di colpa. Una Nemesi che ben
presto scoprirà essere sempre stata al suo fianco, impersonata
Victor Creed/Sabretooth, suo simile ma completamente abbandonato ai
suoi istinti, che Logan tenta costantemente di domare.
X-Men le origini –
Wolverine – “Voglio il sangue…” adrenalinico e a tratti
malinconico il Wolverine di Gavin Hood
Un lunga ricerca, interiore ed
esteriore, che porterà Logan lontano dal Mondo, solo per rientrarvi
bruscamente quando la sua tranquillità verrà compromessa dagli
intrighi del villain di turno, il colonnello Striker, già visto in
X2, principale fautore del mito che diventerà Wolverine, l’uomo
bestia indistruttibile munito di scintillanti artigli di
adamantio.
Difficile però parlare di controllo
tra esplosioni colossali e scontri leggendari, doti sovrumane,
brama di vendetta e di potere. E proprio così che X-Men le
origini – Wolverine si presenta, un grande blockbuster di
intrattenimento con un grande potenziale purtroppo inespresso per
fare spazio al glamour di muscoli e frasi un po’ costruite.
Un Hugh Jackman in forma smagliante (anche
troppo) da volto e voce ad un anti-eroe fondamentalmente buono, che
ha sentimenti ed umanità ma che ha anche una forte dose di sensi ed
istinto da animale, un anti-eroe indistruttibile in maniera
indirettamente proporzionale alla sua anima lacerata dalle guerre,
dalla sofferenza, dal rimorso, dalla voglia di fuggire ma quella
ancora più grande di trovare un posto nel mondo. Un film che si
pone a metà tra cine-fumettone e a film più ambizioso, una bella
storia ma che non lascia traccia. Niente di serio insomma, ma allo
stesso tempo niente di faceto, in piena corrispondenza con la
dualità di un personaggio che Jackman interpreta con diligenza.
La regia di Gavin
Hood in X-Men le origini – Wolverine si
fa sentire e funziona per il genere, cerca di conciliare il momento
drammatico con quello più spettacolare che grazie a lui è
spettacolarizzato. Interessante la cerchia di comprimari che si
stringono intorno all’eroe di adamantio, spicca su tutti Victor
Creed/ Sabretooth, interpretato da un ottimo Liev Schreiber, che qualche volta mette ko il
collega artigliato non solo letteralmente ma anche sulla scena, ma
belli sono i personaggi di Silver Fox (Lynn
Collins) e dello scarmigliato Gambit (Taylor
Kitsch), sicuramente il più coreografico ma anche meno
credibile. Lavoro di routine invece per Danny
Huston, alias Colonnello Striker, l’algida disumanità
dell’uomo fa contrasto con le emozioni del mutante introducendo un
tema che è caro agli X-Men e che è stato ampiamente dispiegato
nella trilogia dedicata agli uomini straordinari (specialmente nel
primo e secondo capitolo).
Arriva al cinema distribuito
da Universal Pictures State of Play – scopri la
verità, il film drammatico diretto da Kevin
Macdonald, e con protagonisti un cast d’eccezione composto
da Russell Crowe e
Ben Affleck.
In State of Play – scopri
la verità Crowe interpreta il reporter Cal McCaffrey che,
grazie alla sua scaltrezza, si ritrova a risolvere un mistero di
delitti e collusione nel quale sono coinvolti alcuni dei politici e
degli uomini d’affari più promettenti del paese. Il membro del
congresso degli Stati Uniti Stephen Collins (Ben
Affleck), bello e imperturbabile, è il futuro del suo
partito politico: onorevole eletto, è il presidente di un comitato
che supervisiona la spesa della difesa. Tutti gli occhi sono
puntati su questo astro nascente che dovrebbe rappresentare il suo
partito nella prossima corsa alla Casa Bianca. Tutto questo finché
la sua assistente/addetta alle ricerche ed amante viene brutalmente
assassinata e segreti seppelliti da tempo cominciano a tornare alla
luce.
“I bravi giornalisti non
hanno amici, ma solo fonti”. In questa frase della direttrice di
The Washington Globe (l’attrice
Helen Mirren), lo spirito del thriller
al veleno “State of Play”, per l’ottima regia di Kevin McDonald, con un Russell Crowe superlativo.
L’attore Premio Oscar è un veterano
reporter di Washington alle prese con una serie di omicidi
collegati con un astro nascente della politica interpretato da
Ben Affleck.
Crowe torna a fare scintille nel suo ruolo, vero e
appassionato, di un uomo comune, fuori moda, interessato a far bene
il proprio lavoro, che vuole trovare il cuore della notizia senza
scorciatoie. Convince Affleck, come Robin Wright nei panni di sua moglie.
Brava Rachel McAdams che nel thriller è una blogger
del W. Globe, un po’ ingenua ma agguerrita, mentre si conferma
fuoriclasse di sempre Helen Mirren che dirige il
giornale con piglio british.
Ex-CIA officer Claire Stenwick
(JULIA ROBERTS) and former MI6 agent Ray Koval (CLIVE OWEN) are
spies-turned-corporate operatives in the midst of a clandestine
love affair in the caper Duplicity, from writer/director Tony
Gilroy.
Duplicity, cioè doppio gioco, malafede ma
anche inganno spionaggio e tradimento. Questi gli ingredienti del
film che, ahimè, vengono meno alle premesse. Un film scritto e
diretto da Tony Girloy (Michael
Clayton) promette assai più di quanto in questo caso
non mantenga. Un uomo e una donna si incontrano e passano una notte
insieme, senza pensare che quella sarà l’inizio di una pseudo-
storia infinita che non si vede l’ora che finisca.
Girato in moltissime locations,
Duplicity assume colori e sapori diversi
per ogni posto che le due spie, Clive Owen e Julia
Roberts (già coppia super sexy in Closer),
attraversano nel corso del loro “colpo” per vivere felici e
contenti, combattendo contro la connaturata forma mentis della spia
che li obbliga a non fidarsi nemmeno l’uno dell’altra. I loro
viaggi, nel tempo e nello spazio, sono accompagnati da un
esasperato affastellamento di gap temporali e un uso dello split
screen fastidioso fino all’inutile che frammenta lo sguardo come a
voler economizzare il tempo mostrando più cose insieme, senza una
vera e propria funzione narrativa.
Una storia complicata che in
maniera complicata viene raccontata. E’ vero, lo spettatore
smaliziato riesce ad entrare nei cunicoli stretti e intricati delle
narrazioni più complesse, ma in questo cosa un montaggio
approssimativo confonde davvero lo spettatore calibrando male il
ritmo e bruciando il colpo di scena finale che pure è ad
effetto. Nonostante una regia poco organica il film è scritto
benissimo ed interpretato ancora meglio dagli attori, su tutti i
comprimari Tom Wilkinson e Paul
Giamatti.
Augurandoci che Michael
Clayton sia la regola e
Duplicity l’eccezione, Tony
Gilroy delude come regista ma mantiene alto l’onore dello
scrittore di L’Avvocato del Diavolo, la
trilogia di Bourne
e altri.
Gangester movie
(RocknRolla) strampalato quello di Guy Ritchie dove improbabili cattivi si
mescolano a traditori e a boss opportunisti. Un debito da saldare,
una truffa subita, un gruppo di malviventi e una contabile molto
sexy quanto determinata sono gli ingredienti di una scoppiettante
commedia travestita da un action-gangster-movie, dove tutto sembra
quello che alla fine non è. Abbandonate le 300 spade alle
Termopili, Gerard Butler è decisamente convincente nel
ruolo di One Two, seriosamente sarcastico. Nel cast anche la bella
e sensuale
Thandie Newton nei panni della contabile del boss
doppiogiochista Tom Wilkinson/Lenny Cole.
RocknRolla: crimine e illegalità nei bassifondi londinesi
RocknRolla
racconta il modo criminale e dei bassifondi della Londra
contemporanea, dove il mercato immobiliare è diventato il business
più importante, anche più di quello della droga e i criminali ne
sono gli imprenditori più entusiasti. Ma chiunque voglia entrare in
questo mercato – dal piccolo malvivente One Two (Gerard
Butler), al misterioso miliardario russo Uri Obomavich
(Karel Roden) – deve fare i conti con un solo
uomo: Lenny Cole (Tom Wilkinson). Gangster della
vecchia guardia, Lenny sa come arrivare ai suoi obiettivi e tiene
per il collo tutti i burocrati, gli intermediari o i criminali che
contano.
Basta solo una telefonata e Lenny
può far scomparire ogni impedimento burocratico. Ma come gli dice
sempre il suo braccio destro Archy (Mark
Strong), Londra è a un punto di svolta nella malavita,
con i grandi criminali che vengono dall’Est, i criminali affamanti
e disperati della strada e tutti che vogliono cambiare le regole
del commercio e del crimine. Con la quantità di soldi che circola,
tutto il mondo criminale di Londra vuole prendere parte agli
affari. Ma mentre i grandi nomi del mondo del crimine ed i piccoli
criminali si battono per ottenere il dominio, l’affare
multimilionario finisce nelle mani di una rockstar drogata
(Toby Kebbell) – il figliastro di Lenny che era
stato creduto morto ma che invece è assolutamente vivo.
Come è ormai segno distintivo di
Guy Ritchie, il film si basa su una buona regia
scandita da un montaggio che in poche battute riesce a rendere
completamente il complesso di una scena. Esempio ne è la scena di
sesso tra Butler e la Newton, efficace e divertente insieme.
Presentato nella sezione Proiezioni Speciali del Festival
Internazionale del film di Roma, la pellicola ha
riscosso successo presso coloro che hanno avuto la possibilità di
vederla, purtroppo messo in programma per poche repliche. Uscirà al
cinema questo fine settimana, dopo un’anteprima tenutasi lunedì 20
aprile all’UGC Cinemas.
Un monumento vivente del cinema
come Clint Eastwood non può sbagliare un colpo,
nemmeno raccontando una storia semplice, e molto americana, come il
suo ultimo Gran Torino. Clint questa
volta si mette nei panni di Walt Kowalski, veterano della guerra in
Corea, razzista, nazionalista, ultra-conservatore, con la bandiera
americana che sventola sul suo portico, probabilmente elettore di
Bush figlio per ben due volte, incompreso dai suoi figli (e nuore
vipere e nipoti opportunisti), presta le sue uniche attenzioni alla
sua Gran Torino del ‘72, frutto di una vita
passata a lavorare per la Ford, portandolo ad un’avversione
naturale verso chiunque si permetta il lusso di comprare auto che
non siano americane (i figli in primis).
Ha messo su una corazza così dura
che è (quasi) impossibile scalfirla, deve proteggersi in
continuazione dai musi gialli che hanno messo piede nel
suo quartiere e ora sono i suoi vicini di casa. Ma ecco che i due
ragazzi Hmong che gli abitano accanto riescono a fare breccia nel
suo animo: sebbene abbiano la stessa età dei suoi nipoti, Sue e
Thao non si sono lasciati corrompere dalla civiltà consumistica
occidentale, ma hanno saputo conservare e rispettare le loro
tradizioni asiatiche, così come Walt avrebbe voluto facessero i
suoi nipoti.
Clint
Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima
produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui
al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue
convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con
quello che è adesso. Ma il regista, vera e propria leggenda del
cinema, riesce con un’essenzialità incredibile a portare sullo
schermo pregiudizi, conflitti, relazioni, conversioni. Prende tutta
l’umanità che lo circonda, nella maniera più essenziale possibile,
e la trasforma in una poesia ruvida ma vibrante, concisa ma pregna
di emozione.
Reduce dal trionfo di
Million Dollar Baby e dal suo
straordinario dittico bellico, Flags of Our
Fathers e Lettere da Iwo
Jima, Eastwood torna nella provincia americana, che
sembra non stancarsi mai di raccontare con un occhio saggio ma
spietato. Che sia poi un testamento di revisionismo personale non
c’è da escluderlo, dal momento che nella vita vera, l’uomo Clint Eastwood è sempre stato un
repubblicano convinto, non troppo diverso dal protagonista del
film, tuttavia, forse proprio come Walt, nella sua maniera
granitica e introversa, il regista sembra porsi domande anche sulla
sua stessa vita, sul suo modo di affrontare le cose, sulle
posizioni sempre molto nette nella sua carriera. Questo aspetto
personale si è sempre scontrato con la grande sensibilità che ha
dimostrato nel corso di una carriera in continuo crescendo. Un
netto passo in avanti da quell’attore belloccio con “sole due
espressioni”.
La narrazione di Gran
Torino è seguita in maniera semplice e lineare, i dialoghi
sono cuciti addosso al personaggio (gag strepitose sono quelle tra
Walt e il barbiere di origini italiane) e gli eventi portano
naturalmente a un climax di tensione che si scioglie in lacrime
amare. Nessun effetto speciale, flashback, flashforward, nessuna
inquadratura manieristica, eppure il grande cinema si riconosce in
questo film: la semplicità è sempre la miglior scuola.
Che vuol dire quando lui non ci
chiama, non ci dice mai Ti Amo, non ci vuole sposare…? La risposta
che danno Greg Behrendt e Liz Tuccillo nel loro libro “He’s Just
Not That Into You: The No-Excuses Truth to Understanding Guys” è
che La verità è che non gli piaci abbastanza. Su
questo binario iniziale muove il film di Ken Kwapis (Licenza di
matrimonio), tratto dall’omonimo best-seller degli sceneggiatori di
Sex and tha City(la serie).
La verità è che non gli piaci abbastanza, la
trama
La verità è che non gli
piaci abbastanza è la storia di Gigi che è una frana con
gli uomini e non riesce a percepire e leggere bene i “segnali”
di Conor che lungi dall’essere interessato da Gigi, corre
dietro ad Anna che invece comincia una relazione adulterina con
Ben, marito di Janine che è amica di Gigi e di Beth, la quale è
fidanzata da 7 anni con Neil che si rifiuta di sposarla e così via.
Storie parallele che si intrecciano mostrando le relazioni d’amore
nel loro nascere, costruirsi, nel loro disfarsi, nella loro
sostanza di compromesso armonico tra le due parti. Un film
intessuto sulla regola che tutte le persone sono uguali e si
comportano, davanti alle medesime situazioni, allo stesso modo. Una
regola che finisce con l’essere infranta poiché alla fine della
storia, chi merita un premio lo riceve, chi si ama davvero resta
insieme, chi invece ha distrutto resta solo e chi invece è stato
lasciato trova la forza di ricominciare e di ricostruire la propria
vita.
La verità è che non gli
piaci abbastanza, in 129 minuti, dipana le sue storie con
freschezza senza mai eccedere nel patetismo o nel romanticismo
smielato, strizzando un occhio allo spettatore che ride dei
personaggi ma ride anche di sé, rispecchiandosi in alcune delle
situazioni rappresentate. Il film ha il suo punto di forza in un
cast stellare, dove la frangia femminile fa la parte del leone
comprendendo:
Jennifer Connelly, Jennifer Aniston,
Scarlett Johansson,
Drew Barrymore (anche produttrice), Busy
Philipps. A queste bellissime si contrappongono
Ben Affleck, Justin Long,
Bradley Cooper, Kevin Connolly.
Forte soprattutto di una
sceneggiature brillante di Abby Kohn e Marc Silverstein, il film
tira dritto per tutta la sua durata, senza stancare, risultando
divertente e alla fine non troppo retorico. Interessante è la
struttura simile a documentario di costume sulle esperienze
sentimentali delle persone comuni, interessante soprattutto perché
alla fine mopstra che lo stereotipo sociale per cui è sempre e solo
la donna a soffrire per amore, viene a cadere. Il film dunque non è
parziale ma paritario e mostra molte situazioni reali rendendo così
persone hollywoodiane, personaggi reali. La verità è che
non gli piaci abbastanza si conclude con l’implicita
riflessione che non è vero che La verità è che non gli piaci
abbastanza, ma che ogni storia è a se stante, ed ogni reazione
umana dipende da una coscienza diversa, da un percorso individuale,
che qualche volte finisce con l’essere condiviso dall’altro.
Scritto e diretto da David
S. Goyer, acclamato sceneggiatore dei Batman di Nolan.
Il mai nato si presenta come un horror
riuscito, che a classici temi di fantasmi, della compresenza del
mondo dei morti con quello dei vivi, associa volti nuovi, come
quello di Odette Yustman, simbologie e credenze di
connessioni tra i gemelli, e temi caratterizzanti, come il
misticismo e la cabala ebraica e il tema dell’esorcismo che rimanda
a ben più noti e riusciti film di genere.
La trama de Il mai
nato si dipana nell’atmosfera fredda e invernale del
film, dondogli insolita solidità considerando il genere che spesso
e volentieri non da molte spiegazioni. Goyer cerca di dare
profondità alla storia anche attraverso il tempo arrivando
addirittura a scomodare un bambino morto ad Auswitz. Resta un film
di non troppo ampio respiro, pieno di ogni stereotipo tipico del
genere, ma si distingue dai vari Scary Movie che non danno troppo
importanza alla trama.
Il mai nato
si presenta come un horror riuscito
Straordinario come di consueto
Gary Oldman, che tolti i panni dell’ormai
commissario Gordon, indossa quelli del coraggioso rabbino
esorcista. Interessante e mai scontata è l’idea del male che
si nutre della paura della propria vittima, metafora, anche se un
po’ troppo stiracchiata, del momento storico che vive il mondo.
E se tutte le favole che si leggono
ad alta voce prendessero vita propria entrando nel nostro mondo?
Questo diventa un grande problema per Mortimer Folchart, rilegatore
e, si scoprirà in seguito, lingua di fata, capace di dar vita a ciò
che legge. Il problema è ancora maggiore quando per ogni
personaggio che viene fuori dai libri, una persona del mondo reale
vi finisce dentro. Ed è questo il motore di Inkheart – La
leggenda di cuore d’inchiostro: la ricerca decennale di un
famigerato libro che prima ha sputato fuori buoni e cattivi, e poi
ha risucchiato dentro la moglie di Mortimer, detto Mo.
Il cinema ha sempre attinto dalla
letteratura, sia per quanto riguarda i soggetti da trattare, sia
per le storie vere e proprie che vengono narrate, basti pensare a
La Storia
Infinita, e al legame che si crea tra il piccolo
lettore Bastian e il regno di Fantasia. E proprio una relazione
simile lega Mo e Inkheart, ma laddove Bastian è affascinato dal
libro e volle continuare a leggere, per Mo la lettura diventa un
peso, un fardello troppo pesante, e che infatti suo malgrado
passerà alla figlia.
Inkheart La leggenda di cuore
d’inchiostro il fantasy tra fiaba e narrazione
Inkheart – La leggenda di
cuore d’inchiostro, pur avendo dell’ottimo materiale per
una storia se non Infinita, quantomeno Fantastica, crolla su se
stesso. Quando tutto è possibile, ma niente è permesso, quando il
super eroe con i super poteri ha già le sue responsabilità e non
deve rendersene conto durante il viaggio, il meccanismo si inceppa
e si hanno risultati come Inkheart, che purtroppo
per gli appassionati del genere non ha sostanza, anche se bisogna
riconoscere che è la dimostrazione di come si possano realizzare
begli effetti visivi senza budget astronomici.
Un cast avvero eccezionale con
Brendan Fraser e Helen Mirren non basta a far decollare
Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro che
cerca di portare lo spettatore al gran finale trascinandosi dietro
stralci di tensione mal formulata e che promette di esplodere alla
fine ma che invece crolla su se stesso lasciando l’ormai smaliziato
spettatore a bocca asciutta.