Ad incontrare la stampa per l’uscita
del suo documentario, Felice chi è diverso – in sala
dal prossimo 6 marzo, già presentato al Festival di Berlino, che
mette a confronto racconti di vita e materiale di repertorio sul
tema dell’omosessualità dal Fascismo agli anni Ottanta – il regista
Gianni Amelio e Ninetto
Davoli.
Le campane sul finale sembrano
sottolineare e quasi voler essere un viatico da parte del nuovo
Papa per tutte le generazioni presenti e future
Gianni Amelio: “E’ probabilmente
più importante di tutti i coming out del mondo ciò che Papa
Francesco ha detto qualche settimana dopo la sua elezione: chi sono
io per giudicare un omosessuale? Questa frase equivale alla posa di
una prima pietra. Credo nessun papa abbia mai detto una frase di
questo genere. Anzi, ci sono stati papi che hanno detto cose
nefaste contro qualcosa che non è né nefasto, né peccaminoso, né
contro natura, né violento, solamente naturale”.
Ninetto Davoli: “La frase che ha
detto il Papa avrebbero dovuto pensarla tutti. Mi sconcerta molto
che ci siano ancora questi pregiudizi, che tante persone ancora
trovino l’omosessualità una diversità, in senso negativo. Mi sembra
come tornare ai tempi della pietra.”
Avete scelto da subito persone
così avanti con l’età? Oggi sembra esserci un rigurgito di
omofobia, che ne pensa?
G. A.: “L’Hollywood Reporter ha
scritto che sembra un film fatto 30 anni fa. Questo è l’elogio più
grande che mi potesse arrivare. Dal momento che queste persone
parlano oggi di loro stesse in questi termini, allora significa che
ho ragione quando dico che purtroppo la guerra non solo non è
finita, ma deve ancora cominciare. Tutta l’omofobia nasce, secondo
me, dalla paura di essere froci. Chi è omofobo ha in sé una
fragilità di cui non vuole prendere coscienza. Crediamo che
certe cose siano ormai alle nostre spalle, ma non è vero. Perciò ho
fatto un documentario in cui parlassero persone che testimoniano
ciò che è stato, ma soprattutto ciò che è. Chi indica la strada è
il più giovane, Aron, che ha impedito alla madre di avere pietà di
un gay. La scuola, poi, è uno dei luoghi in cui davvero è difficile
vivere l’omosessualità. Perciò il gesto di Aron è straordinario. E’
una scommessa perché le cose migliorino.”
Perché non ci sono i nomi di chi
interviene, durante il documentario, ma solo alla fine?
G. A.: “Il caso singolo fa parte
del disegno generale, ecco perché abbiamo evitato di mettere i
nomi. Per questo, nemmeno nei titoli abbiamo privilegiato le
persone note, ma abbiamo messo insieme persone che raccontano il
proprio vissuto: in questo senso, i racconti sono tutti
uguali”.
Da trent’anni esistono
associazioni che sostengono gli omosessuali, mentre il film sembra
suggerire uno scenario agghiacciante in cui ancora è un problema
parlare di omosessualità a scuola. Non si rischia così di
confermare un’immagine dei gay come isolati, senza famiglia, dediti
al sesso promiscuo, attaccati alla mamma?
G. A.: “Non esiste
possibilità di vivere socialmente nella maniera giusta se ancora
diciamo che devono esistere queste associazioni. Mi auguro che
smettano per mancanza di materia prima, che non si facciano mai più
documentari come questo, che Felice chi è diverso sia il
primo e l’ultimo, ma purtroppo so che non lo sarà”.
Com’è nata quest’idea?
G. A.: “Probabilmente, da tanto
avevo in me la necessità di fare un documento su questa realtà. Il
momento giusto è arrivato due anni fa, quando mi è stato chiesto di
fare un documentario per Cinecittà Luce su un argomento a mia
scelta. Immediatamente ho detto che mi sarebbe piaciuto raccontare
come l’omosessualità è stata vissuta da una parte dagli
omosessuali, dall’altra dai media – da quando hanno cominciato ad
occuparsene (cioè dopo il Fascismo, perché Mussolini negava
l’omosessualità). Purtroppo se ne è parlato negli anni ’60, ad
esempio con certe vignette, come quelle su Pasolini. Penso a cosa
sia stato per lui leggere quelle didascalie”.
Perché non si parla mai
dell’affettività degli omosessuali?
G. A.: “Me lo sono chiesto
spesso. Invece che di omosessualità, dovremmo forse parlare di
omoaffettività. Non tutti siamo nati per gli amori “alla cosacca”,
di cui ho un grande rispetto. Non si parla mai del bisogno che un
omosessuale ha di immaginare o realizzare una vita di coppia.
Questo la dice lunga sulla ghettizzazione che la cultura
eterosessuale ha fatto della cultura omosessuale”.
N. D.: “Si può essere amico di
chi è innamorato di te. A me piacciono le donne, ma ero molto amico
di Pier Paolo (Pasolini ndr) perché mi piaceva come persona,
m’ispirava cose meravigliose. Mi attraeva per il suo modo di
essere. Mi sembra normale: che una persona ti piaccia, ti sia
amica, che tu lo difenda, come è successo tante volte. Dovrebbe
essere normalissimo per tutti. Pier Paolo era così e io colà, ma ci
univa qualcosa di positivo e bello, questo è l’importante.
Dove troviamo una speranza di
cambiare le cose?
G. A.: “Viene da Sandro Penna,
che ci mette in guardia dal conformismo, dalla trappola del
considerarsi come gli altri per auto protezione. Ma questa non è
vita, se deleghi il tuo comportamento a quello della maggioranza.
Bisogna invece mettere da parte le barriere, cercare di sentire con
il proprio cuore, ragionare con la propria intelligenza, sentirsi
liberi, non avere paura”.
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