di Francesco
D’Occhio
Natale a Beverly Hills: Due storie si intrecciano sotto il
sole di Beverly Hills.
Carlo (Christian De Sica) ritrova per caso Cristina (Sabrina
Ferilli) vecchio amore che aveva abbandonato quando era incinta di
7 mesi. Il figlio Lele ha ora come padre putativo Aliprando
(Massimo Ghini) che è stato vicino al ragazzo e alla madre per
tanto tempo.
Purtroppo per Carlo presto dovrà riconfrontarsi col suo
passato…
Serena e Marcello (Michelle Hunziker/ Alessandro Gassman)
festeggiano separatamente l’addio al celibato prima di sposarsi.
Purtroppo Serena a causa di una sbornia, crede di aver fatto
l’amore con Rocco, un uomo conosciuto fuori dal locale dove
festeggiava, quest’ultimo innamoratosi di lei cercherà in tutti i
modi di mettere i bastoni tra le ruote e le farà credere di aver
passato veramente la notte con lui.
Ventiseiesimo cinepattone che puntuale come tutti gli anni giunge
in una moltitudine di sale alle soglie del natale. Per la prima
volta dopo l’abbandono di Boldi non vi è Fabio de Luigi mentre per
la prima volta vi partecipa la coppia di figli d’arte Alessandro
Gassman e Gianmarco Tognazzi.
Dieci
Inverni: Siamo nel 1999 a Venezia e due studenti fuori
sede, Camilla e Silvestro si conoscono su un vaporetto. Lei lo
ospita nel suo appartamento, nelle vicinanze della città
lagunare.
Lui è sfacciato, lei è introversa e timida.
Anche se in casa di lei non si concretizzerà nulla, qualcosa
nasce.
I due si separeranno per rincontrarsi ancora molte volte per 10
anni ancora, fino a condividere esperienze a Mosca.
Opera prima per Valerio Mieli supportato dalla fotografia di Marco
Onorato, già al lavoro per “Gomorra” che punta alla rivisitazione
dell’amore distaccandosi dal filone “moccia” per riallacciarsi ad
uno più maturo simile al “Un’Amore” di Tavarelli.
Nei panni dei due protagonisti i bravi Michele Riondino e Isabella
Ragonese chiamati a interpretare un percorso di crescita e di
sentimenti che va dall’adolescenza alla quasi maturità, appunto,
Dieci Inverni.
A Serious Man: Nel
1967 il professore Larry Gopnik è in un periodo nero.
La moglie lo ha lasciato perché innamorata di un collega, uno
studente lo ricatta, riceve lettere minatorie e l’affascinante
vicina non fa altro che prendere il sole nuda.
Ormai senza speranza l’uomo decide di rivolgersi a tre rabbini per
chiedere consiglio.
I fratelli Coen firmano un lungometraggio dai toni sarcastici in
cui un uomo in fondo buono vede tutto il male ritorcersi contro lui
ad ogni suo gesto.
Presentato con successo al Toronto International Film Festival e al
Festival Internazionale di Roma.
“Volevo salvare
l’anima della compagna, poi ho capito di essere io l’anima della
compagnia…” dice Rebekah Neumann a suo marito
Adam in una delle puntate centrali di WeCrashed,
serie di Apple TV+ dedicata all’ascesa e
caduta dell’impresa WeWork. La donna ha perfettamente ragione: è
lei l’anima di quello che per alcuni anni si è rivelato un piccolo
grande fenomeno sociale, fino a creare un giro d’affari di alcuni
miliardi di dollari.
Lo show in otto puntate
ispirato dal podcast di David Brown mette in scena
con precisione certosina ed elegante senso della commedia
dell’assurdo proprio questo: l’anima della donna e dell’uomo che
hanno creato dal nulla un impero economico. La forza principale del
progetto è però quella di andare controcorrente e mostrare per
intero la vacuità, la meschinità, l’ipocrisia di questi personaggi.
Sotto questo punto di vista WeCrashed è un
qualcosa di sorprendentemente coraggioso, in quanto non concede mai
allo spettatore di
dubitare della superficialità della futilità dei protagonisti.
Fin dall’inizio la loro
è una anti-epopea ottimamente costruita a livello narrativo, che
puntata dopo puntata sa immergere in un vortice di decisioni
dettate puramente da ego smisurato, egoismo, vanità e ipocrisia. In
ogni momento in cui la trama sembra lasciar trasparire un minimo di
umanità nelle figure di Adam o Rebekah, ecco che qualche colpo di
scena oppure un dettaglio dissonante intervengono a ricordarci
quanto entrambi siano fuori dal mondo. Raramente è capitato di
vedere una miniserie in cui nulla viene concesso alla
drammatizzazione di un antieroe, per quanto fallace o ambiguo esso
sia.
In una maniera che, lo
ammettiamo, risulta piuttosto complessa da esprimere con totale
precisione, WeCrashed potrebbe essere una delle
serie più rappresentative di questi anni: attraverso la
rappresentazione del vuoto pneumatico rappresentato da Adam
Neumann e Rebekah Paltrow – cugina di
Gwyneth – la serie riesce a rendere i suoi protagonisti
paradigmatici, emblemi assurdi di una società in trasformazione che
(probabilmente) ancora non riesce a comprendere del tutto la sua
nuova dimensione e cerca punti di riferimento i quali spesso non
hanno lo spessore necessario o anche soltanto l’integrità morale
per esserlo.
Pur indirizzando i
propri strali contro queste due figure ben identificabili
WeCrashed propone un discorso tutt’altro che
conciliatorio anche sull’ambiente che li ha prodotti e lasciati
successivamente proliferare. La New York delle opportunità per
tutti, del flusso di denaro inarrestabile, del politically correct
a ogni costo, del #MeToo e della “Cancel Culture”, dei millennial e
dei social media: quanto tale contesto è (co)responsabile della
folle epopea economica e culturale che risponde al nome di WeWork?
Costruendo lo sviluppo narrativo dello show come un crescendo
rossiniano i creator Lee Eisenberg e Drew Crevello riescono
nell’intento di mettere alla berlina tutto e tutti, non salvando un
solo personaggio dell’entourage di WeWork. Sotto questo punto di
vista la miniserie si fa molto più radicale di altre contemporanee,
pur nascondendolo dietro la confezione della commedia satirica. Da
notare che alla regia dei primi episodi ci sono John Requa e Glenn
Ficarra, registi e sceneggiatori che in passato hanno denotato un
tocco sapido e pungente quando si tratta di ironizzare sul nostro
presente.
Jared Leto e Anne Hathaway
sono i protagonisti
Ultimo tassello del
discorso, ma di certo non meno importante dei precedenti, riguarda
la performance dei due protagonisti Jared Leto e Anne Hathaway, i quali si prestano con sincero
coraggio a impersonare con adesione e puntualità due figure tanto
meschine, probabilmente riuscendo al tempo stesso a ridere di loro
stessi e del loro stato di “star”: se l’attore che interpreta Adam
Neumann è indubbiamente efficace pur lavorando con un trucco che
non lo aiuta più di tanto, la vera mattatrice di
WeCrashed è una Hathaway che sa cambiare tono,
atteggiamento, linguaggio fisico all’interno di una sola scena e
risultare comunque credibile e irritante al tempo stesso.
Il lavoro dell’attrice
sul personaggio si muove costantemente su un equilibrio instabile
tra realismo e caricatura, facendosi puntata dopo puntata sempre
più prezioso. Non temiamo di sbilanciarci affermando che
l’interpretazione di Rebekah è uno dei capolavori personali per la
Hathaway, forse la miglior interpretazione della sua carriera. La
capacità di farsi ammirare eppure detestare significa in questo
caso aver fatto un lavoro enorme sul ruolo.
Finora i rumour sul casting di The
First Avenger: Captain America si sono concentrati sull’attore che
interpreterà il protagonista. Ora si apprende che Hugo Weaving sta
per ottenere la parte del villain Teschio Rosso…
Il regista di Weapons,
Zach Cregger, rivela che inizialmente aveva
previsto un finale alternativo molto più cupo. Durante
un’intervista con Inverse, Cregger ha infatti
spiegato che il film originariamente si concludeva semplicemente
mostrando il figlio di Archer (Josh
Brolin), lasciando il dubbio sulla sua effettiva
salute e non conteneva alcuna narrazione che offrisse maggiori
dettagli. Anche se Cregger avrebbe preferito quella scelta, ha
notato che il pubblico delle proiezioni di prova non l’ha
apprezzata.
Il regista ha poi aggiunto:
“Inizialmente, la voce fuori campo che si sente alla fine non
c’era nemmeno. Non mi piaceva molto l’idea. Volevo semplicemente
concludere con lo sguardo di Matthew. Ma alla gente non piaceva.
Non c’era la voce fuori campo e abbiamo semplicemente concluso con
il volto del ragazzo. Le luci si sono spente ed è apparso il titolo
“Scritto e diretto da Zach Cregger”, e una donna in sala ha
esclamato: “Ma che c***o?”.
Cosa succede nel finale di Weapons?
Dato che alla fine Gladys è stata
uccisa, e in modo raccapricciante, come si addice a un’antagonista
del genere, il finale di Weapons può sembrare
positivo. Justine Gandy (interpretata da Julia Garner), che era diventata il bersaglio
di molti genitori preoccupati a Maybrook, è sopravvissuta a
numerosi eventi terrificanti nel film, mentre i bambini sono stati
recuperati dai loro genitori e alcuni hanno finalmente ripreso a
parlare, come rivelato dal narratore.
Purtroppo, non tutto è finito in
modo ottimistico e Maybrook potrebbe essere segnata per sempre da
ciò che è accaduto. Ad esempio, Alex è riuscito a sconfiggere
Gladys, ma ha dovuto lasciare i suoi genitori, che sono rimasti in
stato vegetativo, alle cure di qualcun altro. Anche Justine, e in
particolare i suoi giovani studenti, porteranno probabilmente con
sé un trauma significativo, che potrebbe plasmare il loro carattere
in futuro.
Il regista Zach
Cregger parla della possibilità di realizzare un altro
film nel mondo di Weapons.
Il suo nuovo horror svela il mistero che circonda diciassette
bambini, tutti della stessa classe di scuola elementare, scomparsi
una notte alle 2:17 del mattino. Riuscendo a nascondere quasi tutti
i segreti principali, in particolare all’identità del personaggio
noto come Gladys, il film ha continuato a suscitare entusiasmo. Ora
che è in sala, sta ricevendo elogi, vantando un punteggio
Tomatometer del 95% su Rotten Tomatoes, e probabilmente diventerà
un successo commerciale.
Durante un’intervista con Variety, Cregger ha quindi
discusso della possibilità di tornare nell’universo costruito con
questo film. “Certamente. In realtà… è divertente che tu me lo
abbia chiesto. Non posso farci niente: ho un’altra idea per
qualcosa in questo mondo che mi entusiasma molto. Non lo farò
subito, e probabilmente non lo farò dopo il mio prossimo film, ma
ne ho uno e mi piacerebbe vederlo sullo schermo un
giorno”, ha affermato il regista.
Cosa significa questo per Weapons
Sulla base dei suoi commenti, non è
chiaro che tipo di storia abbia ideato Cregger e se sia
direttamente collegata a questa sua nuova uscita horror o se
semplicemente esista nello stesso universo. Tuttavia,
Weapons contiene diversi misteri irrisolti che un
altro film potrebbe potenzialmente chiarire. Ciò che è successo ad
Alex e ai suoi compagni di classe è stato brevemente accennato alla
fine del film. Tuttavia, il pubblico potrebbe essere interessato a
saperne di più su di loro e su come Justine Gandy sta affrontando
la situazione anni dopo.
Ci sono poi anche molte domande che
circondano Gladys e le sue misteriose imprese, prima di minacciare
Alex e sconvolgere completamente Maybrook. Poiché Gladys utilizzava
la stregoneria come mezzo per alleviare i suoi disturbi e
controllare gli abitanti di Maybrook, vale la pena chiedersi da
quanto tempo lo facesse e quale fosse la portata dei suoi poteri.
Non viene mai rivelato dove Gladys abbia ottenuto i suoi poteri, né
da dove provenisse il suo albero, ma questi sono aspetti che un
altro film nel mondo di Weapons potrebbe
esplorare.
Dalla New Line Cinema e Zach
Cregger, la mente originale dietro “Barbarian”, arriva un nuovo
horror/thriller: “Weapons”.
Quando tutti i bambini di una stessa classe, tranne uno, scompaiono
misteriosamente nella stessa notte esattamente alla stessa ora,
l’intera comunità si ritrova a interrogarsi su chi – o cosa – sia
responsabile della loro sparizione. Il film è interpretato da
Josh Brolin, Julia Garner, Alden Ehrenreich,
Austin Abrams, Cary Christopher, con Benedict Wong e Amy
Madigan.
Cregger firma la regia del film da
una sua sceneggiatura originale. Lo stesso Cregger è produttore del
film insieme a Roy Lee, Miri Yoon, J.D. Lifshitz e Raphael
Margules. Michelle Morrissey e Josh Brolin sono i produttori
esecutivi. Il team creativo dietro la macchina da presa include il
direttore della fotografia Larkin Seiple, lo scenografo Tom
Hammock, il montatore Joe Murphy e la costumista Trish Sommerville.
Le musiche sono di Ryan Holladay, Hays Holladay e Zach Cregger. New
Line Cinema presenta una produzione Subconscious/Vertigo
Entertainment/BoulderLight Pictures, un film di Zach Cregger,
“Weapons”. Distribuito da Warner Bros. Pictures, il film arriverà
nelle sale italiane il 6 agosto.
Cosa significa questo trailer
per Weapons
Questo trailer completo di
Weapons conferma diversi dettagli della
trama che erano stati già intuiti dal teaser e dalle prime
fotografie. Il narratore menziona direttamente che alle 2:17 del
mattino tutti i ragazzi escono di casa. Questo orario era già stato
visto sull’orologio in una delle prime immagini del film. Poiché
gran parte della pubblicità finora ha sottolineato l’ora in cui i
ragazzi escono di casa, sembra probabile che questo orario avrà un
ruolo significativo nella trama.
Il trailer completo offre anche
un’anteprima più dettagliata dell’esperienza di Justine
Gandy, l’insegnante la cui classe scompare. Il trailer la
mostra per la prima volta in un’immagine inquietante in cui entra
in un’aula vuota. Più tardi, sembrano esserci delle accuse quando
qualcuno durante una riunione scolastica dice: “Non capisco
proprio. Perché proprio la sua classe, perché solo la sua?” Il
personaggio viene poi visto piangere in macchina e svegliarsi con
degli incubi, a dimostrazione di quanto la scomparsa la stia
colpendo profondamente. Weapons seguirà il viaggio di
Justine mentre si svela l’orrore.
Pedro Pascal, il protagonista diThe
Last of Usdella HBO, ha
firmato per recitare
in Weapons, il nuovo
progetto cinematografico dei cineasti dietro l’horror di
successoBarbarian.New
Line è alla base del lungometraggio, che ha una sceneggiatura
scritta da Zach Cregger, l’attore diventato
regista che è anche seduto sulla sedia del regista.
Cregger produrrà anche insieme al suo
team di produttori Barbarian, Roy Lee
di Vertigo e JD Lifshitz e Raphael Margules di BoulderLight
Pictures. Produce anche Miri Yoon di Vertigo.
I dettagli della trama non sono stati
al momento resi noti, maWeaponsè descritto come un’epopea horror a più livelli interconnessa
e ricorda dal punto di vista dei toniMagnoliadel regista Paul Thomas
Anderson. I dettagli del personaggio per Pascal
non sono stati rivelati.Le riprese dovrebbero
iniziare in autunno.
Weapons è stato oggetto di
un’intensa guerra di offerte a gennaio, quando gli studi e gli
streamer di Hollywood hanno combattuto per avere la possibilità di
lavorare con Cregger, il cui
Barbarian,prodotto per soli 4,5
milioni di dollari, è diventato un successo non solo di pubblico e
di critica ma anche all’interno della stessa industria. La New Line
ha vinto l’asta che si è venuta a creare concludendoun accordo che includeva, tra le altre
clausole, un via libera garantito e un’uscita nelle sale
garantita.
Pedro Pascal è apparso in serie comeNarcos e Game
of Thrones prima di interpretare il
ruolo del cacciatore di taglie con l’elmetto Din Djarin
nella serie di Star
WarsThe Mandalorian. E
mentre il volto dell’attore non è stato visto spesso nello
spettacolo, la popolarità di
Mandalorianha aumentato il fascino galattico di
Pascal. Quest’anno ha recitato in The
Last of Us, l’adattamento della HBO
del videogioco Sony. Interpretando la figura paterna spezzata
e dal cuore di pietra che guida una giovane donna testarda in
un’America postapocalittica, lo spettacolo ha sfidato le
aspettative del genere zombie per concentrarsi sul dramma e sulle
relazioni.
Il nuovo film di Zach
Cregger con Julia Garner, Josh
Broline Benedict Wong dal
titolo Weapons
segna il ritorno del regista dopo il suo acclamato debutto con
Barbarian. Questa volta, però, Creggers affronta il
tema della drammatica realtà dei bambini scomparsi. Con l’uscita
del
trailer di Weapons, i fan hanno dunque
mostrato interesse verso le ispirazioni reali (se ce ne sono state)
alla base del film. Sebbene sia un’opera di finzione, il film
presenta effettivamente alcuni elementi ispirati a storie vere.
Il film narra di una piccola città
americana dove un’intera classe di studenti delle elementari si è
inspiegabilmente alzata e se n’è andata nel buio della notte. Il
film si concentra poi sui genitori dei bambini scomparsi, che
puntano il dito contro l’insegnante (interpretata da Julia
Garner) come principale sospettata. Parlando con Entertainment Weekly, il regista
ha ammesso che, sebbene il nuovo film sia una storia completamente
fittizia, è stato ispirato da alcune esperienze personali e da casi
reali di bambini scomparsi.
Cregger ha in quell’occasione
descritto cosa ha portato alla scrittura del suo secondo film,
raccontando: “ho vissuto una tragedia nella mia vita che è
stata davvero molto dura. Una persona molto, molto, molto cara è
morta improvvisamente e, onestamente, ero così affranto dal dolore
che ho iniziato a scrivere Weapons, non per ambizione, ma solo come
un modo per fare i conti con le mie emozioni“. Il regista ha
poi definito Weapons “una storia
incredibilmente personale”, aggiungendo che ci sono elementi
che sono “autenticamente autobiografici, che mi sembra di aver
vissuto”.
Josh Brolin in Weapons
Su quali storie vere è basato
Weapons?
Come descrive il regista
Zach Cregger, Weapons non è
necessariamente una storia vera, ma è saldamente radicato in
esperienze di vita reale. Il famoso regista horror ha dunque
utilizzato alcune delle sue esperienze personali (qualunque esse
siano) come spunto per iniziare a scrivere il nuovo film. Tuttavia,
come da lui dichiarato in altre interviste, si è basato su alcuni
reali casi di scomparsa di bambini per la scrittura del film ed il
racconto di come i genitori gestiscono l’evento.
Secondo il Centro statunitense per
la prevenzione dei crimini contro i minori e la loro sicurezza,
ogni 20 secondi negli Stati Uniti un bambino scompare o viene
rapito. Tra i tanti casi di questo genere si possono citaer quello
di Madeleine McCann, scomparsa mentre era in
vacanza a LAgos con la sua famiglia, o ancora quello di
Etan Patz. Perdere un figlio è il peggior
incubo di un genitore, quindi Weapons pone la
domanda: cosa succederebbe se decine di bambini scomparissero tutti
in una volta?
Per il film, Cregger ha dunque
esaminato casi di questo genere, dando vita a quest’incubo nel suo
nuovo film. Non si è però ispirato a nessun caso in particolare,
preferendo partire da questo scenario per dar vita ad un film che
sfocia poi nel puro horror, con situazioni agghiaccianti e misteri
ancor più spaventosi. È il racconto di una comunità sconvolta e
senza risposte, proprio come quella che potrebbe presentarsi
qualora si verificasse uno scenario simile a quello narrato dal
film. In Weapons, dunque, ritroviamo il
dolore e la paura per la scomparsa di qualcuno a fare da motori
dell’intero racconto.
Dopo aver costruito un avvincente
mistero horror per gran parte della sua durata, il finale di
Weapons porta le cose a una conclusione intensa,
inquietante e oscuramente esilarante. Il secondo lungometraggio da
solista dello sceneggiatore e regista Zach Cregger
ruota attorno alla scomparsa inspiegabile di (quasi) un’intera
classe di bambini di terza elementare, che sono scappati dalle loro
case di periferia nella stessa notte, esattamente alle 2:17 del
mattino.
Il film è diviso in sezioni che
seguono personaggi specifici, saltando avanti e indietro nel tempo
per coglierli nei momenti chiave del loro coinvolgimento nel caso.
Alla fine, man mano che i pezzi del puzzle vanno lentamente al loro
posto, diventa chiaro che tutte le stranezze della loro città sono
riconducibili a una donna: Gladys, una strega e
autoproclamata zia di Alex, l’unico bambino della
classe di Justine Grady a non essere
scomparso.
Nel momento culminante del film,
quasi tutti i personaggi principali (tranne il povero
Andrew Marcus, il preside la cui testa è stata
schiacciata poco prima quel giorno) si ritrovano nella casa di
Alex, dove sono tenuti prigionieri i bambini scomparsi.
Justine e Archer, un genitore di
un bambino scomparso, cadono però nella trappola di Gladys;
Paul, l’ex fidanzato poliziotto di Justine, e
James, il tossicodipendente che ha scoperto per
caso i bambini scomparsi, sono la trappola. Ne segue un livello di
violenza quasi caricaturale.
Josh Brolin in Weapons
Cosa succede nel finale di
Weapons
Gladys, rendendosi conto che il
gioco è finito e dicendo ad Alex di prepararsi a lasciare la città,
ha preparato Paul e James per una versione alternativa
dell’incantesimo d’attacco che aveva usato in precedenza. Invece di
prendere di mira incessantemente una persona specifica, sono
impostati per attivarsi se qualcuno attraversa le linee di sale
lasciate sul pavimento, cosa che Justine fa inconsapevolmente. Paul
le si avventa quindi contro, mentre James si scaglia su Archer.
Sebbene continui a sferrare colpi devastanti al volto di James,
Archer non riesce a tenerlo a terra a lungo.
Justine, traumatizzata, dopo che un
pelapatate si rivela inefficace, riesce a uccidere Paul con la
pistola del poliziotto. Poi la punta contro James e salva Archer,
che si dirige verso il seminterrato e trova i bambini scomparsi.
Tuttavia, mentre cerca suo figlio Matthew, trova
invece Gladys. Nel frattempo, Alex, che ha osservato Gladys
compiere i suoi orrori, calpesta il sale che i suoi genitori hanno
sparso intenzionalmente. Usa le stanze comunicanti per aggirarli e
si fa strada nella stanza di Gladys, che stavano sorvegliando.
Afferra uno dei rami spinosi che lei
usa per i suoi incantesimi, uno già in uso, e si rintana nel bagno
per ripetere i passaggi che l’ha vista eseguire. Gladys ha a quel
punto scagliato Archer contro Justine e lo sta guardando mentre la
strangola quando Alex, dopo aver avvolto una ciocca di capelli di
Gladys attorno al ramo, lo spezza. Capendo cosa è successo, lei
fugge dalla casa urlando, solo per essere inseguita dalla folla di
bambini che aveva rapito con la magia. Quando la raggiungono, la
fanno a pezzi, rompendo gli incantesimi.
Julia Garner in Weapons
La spegazione del perché Gladys ha
rapito i bambini
Nel capitolo su Alex in
Weapons, vediamo Gladys accolta nella casa
perfettamente normale della sua famiglia, apparentemente perché è
malata e non ha altro posto dove andare. Dalle conversazioni che
Alex ascolta di nascosto e dalla breve occhiata che le dà, sembra
che sia già in fin di vita. Tuttavia, non passa molto tempo prima
che i genitori del ragazzo siano praticamente catatonici e Gladys
sia di nuovo in piedi. Dopo un po’ di tempo, una notte confessa ad
Alex che la sua malattia, qualunque essa sia, è reale. Anche se
spiega le cose come si farebbe con un bambino, è chiaro che Gladys
ha in qualche modo rubato la forza vitale dei genitori del
ragazzo.
Questo spiega il suo improvviso
cambiamento fisico. Pensava che sarebbe stato sufficiente, ma sta
già ricominciando a perdere energia. Così, punta gli occhi sui
compagni di classe di Alex. Dopo essersi procurata un oggetto
appartenente a ciascuno di loro, lancia l’incantesimo che li
convoca da lei alle 2:17 del mattino, spiegando perché tutti hanno
lasciato le loro case esattamente a quell’ora. Li tiene rinchiusi
nel seminterrato, dove rimangono immobili, proprio come i genitori
di Alex; lui deve dar loro da mangiare della zuppa per mantenerli
in vita. In questo modo, lei prosciuga le loro vite per sostenere
la propria.
Dopo la sua morte, apprendiamo solo
frammenti sulla guarigione delle sue vittime dal narratore bambino
di Weapons, che ci parla a due anni
dall’incidente. I genitori, a quanto pare, sono rimasti in uno
stato relativamente vegetativo: vengono descritti come bisognosi di
essere nutriti con la zuppa altrove, il che indica che sono ancora
ricoverati in ospedale dopo tutto questo tempo. I bambini stavano
invece abbastanza bene da tornare alla loro vita quotidiana, anche
se il narratore riferisce che solo alcuni di loro hanno
ricominciato a parlare.
È chiaro che qualsiasi danno abbia
causato la magia di Gladys è permanente. Oltre ad essere più
anziani, i genitori di Alex sono stati sotto il controllo della
strega più a lungo e sono stati la sua unica fonte di energia per
un po’, il che spiegherebbe perché siano in condizioni peggiori. I
bambini hanno invece maggiori possibilità di guarire completamente.
Ma mentre guardiamo negli occhi di Matthew durante l’ultima scena
di Weapons, ci viene da chiederci se Archer abbia
davvero riavuto suo figlio.
Cary Christopher in Weapons
La vera identità di zia Gladys
Il cattivo di
Weapons probabilmente non è chi sembra essere
all’inizio. Dopo essere apparsa brevemente nei capitoli di Justine,
Archer e James, principalmente per spaventare i presenti, Gladys fa
la sua comparsa effettiva nell’ufficio di Marcus. Si presenta come
la zia di Alex (più precisamente, la sorella della nonna di Alex),
che si prendeva cura del ragazzo mentre i suoi genitori si stavano
riprendendo da gravi malattie. La seconda parte di questa
affermazione viene rapidamente e brutalmente smascherata come una
bugia, ma la prima parte si complica con il passare del tempo.
Nel capitolo di Alex, prima del suo
arrivo, Gladys viene descritta come la zia di sua madre, la sorella
della nonna di Alex. In una sorta di litigio ascoltato per caso, i
suoi genitori ricordano di averla incontrata almeno una volta, anni
fa, ma sono certi che non abbia partecipato al loro matrimonio. La
madre di Alex, tuttavia, sembra sicura che sia una parente. E
potrebbe esserlo, ma probabilmente è ancora più anziana. Gladys
dice a Marcus che il padre di Alex ha “un tocco di tisi”, un
termine che risale all’antichità ma che alla fine è diventato
sinonimo di tubercolosi, sostituendola.
La malattia batterica è stata
formalmente identificata nel 1882 e, sebbene il termine tisi fosse
ancora in uso all’inizio del XX secolo, alla fine è diventato
materia di letteratura classica e libri di storia. Marcus è colpito
dall’anacronismo. Non riesce a capire (né potrebbe farlo uno
spettatore che vede Weapons per la prima volta a
questo punto) come Gladys stia facendo una battuta macabra
sull’uomo di cui ha consumato l’energia. Ma, se associato alla sua
confessione ad Alex di essere malata da molto tempo, questo
potrebbe indicare che Gladys è almeno una o due generazioni più
anziana di quanto creda la sua famiglia.
Benedict Wong e Julia Garner in Weapons
Il vero significato del finale di
Weapons
Weapons è un film complesso e, anche
se otteniamo una spiegazione definitiva della violenta stranezza
che ha colpito questa città, probabilmente si rivelerà un terreno
fertile per molteplici interpretazioni tematiche. Ma ci sono alcuni
dettagli chiave che indicano determinate interpretazioni. Il primo
e più importante è la struttura. La narrazione frammentata di
Cregger rende la storia avvincente, fornendoci informazioni poco
alla volta, ma ci incoraggia anche a prestare attenzione a come le
vite dei singoli personaggi si scontrano tra loro. Justine, Archer,
Paul e James agiscono tutti sulla base di vari impulsi egoistici,
spesso distruttivi, senza preoccuparsi realmente delle loro
conseguenze.
In Weapons ci sono
diversi casi di persone che fanno pressione su altre affinché
facciano qualcosa che non vogliono fare (Justine e Paul che bevono;
Archer che guarda il video dei Bailey) molto prima che Gladys venga
introdotta. Ci sono anche casi di indifferenza quasi comica, ad
esempio il proprietario di un minimarket che urla a Justine di
uscire mentre Marcus, dall’aspetto orribile e omicida, la insegue.
Questi dettagli creano un inquietante parallelismo con Gladys e la
sua magia. La strega è una versione esagerata degli adulti di
questo film, un essere di puro egoismo e indifferenza.
È, come un motivo ricorrente
sottolinea, un parassita, che priva le persone della loro autonomia
per il proprio tornaconto. Ma lei è semplicemente la versione
horror di qualcosa che ci viene mostrato come abbastanza normale.
Tra gli adulti, solo Marcus sembra motivato dalla preoccupazione
per il benessere degli altri, e l’universo lo punisce in modo
brutale per questo. Alex è reso vulnerabile per lo stesso motivo. È
degno di nota il fatto che Gladys abbia cercato di controllarlo non
minacciando la sua sicurezza, ma quella dei suoi genitori.
Julia Garner e Josh Brolin in Weapons
Questa divisione tra bambini e
adulti è fondamentale anche in Weapons, ed è
integrata in modo simile nella sua struttura. Il film è narrato da
una ragazzina, che ci racconta questa storia come qualcosa di vero
ma soppresso, conferendole l’aria di una leggenda metropolitana.
Gli adulti di questo mondo non sono riusciti a gestire la rottura
con la normalità e l’hanno seppellita; i bambini la mantengono viva
nei sussurri. In questa ottica, la narrazione del film diventa un
avvertimento trasmesso da bambino a bambino sui mali che gli adulti
sono capaci di infliggere loro, così come gli uni agli altri.
Questa domanda aleggia sull’ultima
scena, insieme al dubbio se Matthew riuscirà mai a riprendersi:
dato ciò che abbiamo visto di Archer, è davvero fuori pericolo? Lo
sono tutti loro? Con il suo finale cruento,
Weapons è anche un promemoria di ciò che i bambini
sono capaci di fare in cambio. Se il film dovesse essere
sintetizzato in un’unica idea, sarebbe che i traumi che cerchiamo
di reprimere hanno il potere di ferire chi ci circonda, e il dolore
che riversiamo nel mondo ha il potere di tornare indietro verso di
noi. Chiunque può diventare un’arma se non sta attento.
Cosa ci lascia il film Weapons
Weapons ci lascia
dunque con una riflessione amara e potente: il vero orrore non sta
nella magia, ma nelle dinamiche quotidiane di egoismo, indifferenza
e abuso che gli adulti infliggono ai più giovani. Gladys è solo la
manifestazione sovrannaturale di un male già radicato nella
comunità, fatto di pressioni, manipolazioni e traumi silenziosi. La
sua fine, per mano dei bambini, non è una vittoria liberatoria ma
un grido di dolore restituito. Il film ci dice che il male, se
ignorato o represso, si trasforma e si riproduce. E che chiunque,
se ferito a sufficienza, può diventare un’arma. Anche un
bambino.
Sarebbero in corso trattative
preliminari per la realizzazione di un prequel di Weapons,
il suo film horror di grande successo scritto e diretto da
Zach Cregger, uscito questo fine settimana, come
confermato da Deadline. I dettagli della trama
sono ancora segreti e non è chiaro in che veste Cregger parteciperà
al progetto, dato che siamo ancora in una fase iniziale. È però
stato riportato che New Line Cinema e
Warner Bros. stanno corteggiando Zach Cregger per
realizzare un prequel sulla zia Gladys, basato in parte sul
materiale che aveva ideato per il personaggio e che non è stato
inserito nel film.
Fonti indicano che al momento
Cregger ha in programma altri due film che lo terranno impegnato
nel prossimo futuro. Attualmente sta preparando il
prossimo film di Resident Evil per la Sony e si
prevede che poi si dedicherà a un progetto originale intitolato
Flood. Cregger ha inoltre rivelato di aver scritto uno
spin-off sul mondo di Batman intitolato Henchmen,
ma questo progetto non è al momento stato confermato.
Il fatto che esista già una parte
della storia del misterioso personaggio noto come Gladys significa
che, se Cregger fosse abbastanza interessato a tornare a bordo del
treno di Weapons, scrivere una sceneggiatura per
un lungometraggio potrebbe non essere un’impresa così ardua come,
ad esempio, inventare una nuova storia per un sequel (anche
se il regista ha confermato di avere delle idee a
riguardo).
Quando tutti i bambini di una stessa
classe, tranne uno, scompaiono misteriosamente nella stessa notte
esattamente alla stessa ora, l’intera comunità si ritrova a
interrogarsi su chi – o cosa – sia responsabile della loro
sparizione. Il film è interpretato da Josh Brolin, Julia
Garner, Alden Ehrenreich, Austin Abrams, Cary Christopher, con
Benedict Wong e Amy Madigan. Cregger firma la regia del
film da una sua sceneggiatura originale.
È stato diffuso il secondo trailer
ufficiale di Weapons,
nuovo film di Zach Cregger,
la mente dietro “Barbarian”.
La sinossi recita: quando tutti i
bambini di una stessa classe, tranne uno, scompaiono
misteriosamente nella stessa notte esattamente alla stessa ora,
l’intera comunità si ritrova a interrogarsi su chi – o cosa – sia
responsabile della loro sparizione. Il film è interpretato da
Josh Brolin, Julia Garner, Alden Ehrenreich,
Austin Abrams, Cary Christopher, con Benedict Wong e Amy
Madigan.
Cregger firma la regia del film da
una sua sceneggiatura originale. Egli stesso è anche produttore del
film insieme a Roy Lee, Miri Yoon, J.D. Lifshitz e Raphael
Margules. Michelle Morrissey e Josh Brolin sono i produttori
esecutivi. Il team creativo dietro la macchina da presa include il
direttore della fotografia Larkin Seiple, lo scenografo Tom
Hammock, il montatore Joe Murphy e la costumista Trish Sommerville.
Le musiche sono di Ryan Holladay, Hays Holladay e Zach Cregger. New
Line Cinema presenta una produzione Subconscious/Vertigo
Entertainment/BoulderLight Pictures, un film di Zach Cregger,
“Weapons”.
Distribuito da Warner Bros.
Pictures, Weapons
arriverà nelle sale italiane il 6 agosto.
Sono partite le riprese di We’re
the Millers, film che vedrà di nuovo insieme sul set Jennifer
Aniston e Jason Sudeikis, dietti da Rawson Marshall Thurber. Il
film vede i due attori tornare a recitare insieme dopo l’esperienza
di Horrible Bosses (in italiano, Come ammazzare il capo… e vivere
felici). La trama vede David Burke (Sudeikis), piccolo trafficante
di droga la cui eterogenea clientela vede mescolarsi cuochi e madri
di famiglia, finire nei guai dopo essere stato derubato di ‘merce’
e soldi, dovendo inoltre pagare un rilevante debito nei confronti
del suo ‘fornitore’ (Ed Helms).
Così, per far fronte alla
situazione, il protagonista si imbarca nell’impresa di trasferire
un grosso quantitativo di droga attraverso il confine col Messico.
Per portare a termine il compito e non destare sospetti, David
mette insieme una famiglia ‘fittizia’ assoldando una
spogliarellista (Aniston) e due ragazzi (Will Poulter ed Emma
Roberts) dalle vite disastrate. Prevedibilmente, nel corso del
film, i rapporti trai quattro, inizialmente improntati al totale
opportunismo, finiranno per complicarsi… La sceneggiatura è firmata
da Steve Faber e Bob Fisher (2 Single a nozze) e Sean Andersen e
John Morris (Un tuffo nel passato).
Il cinema di guerra è da sempre uno
dei generi più popolari, dove di solito si raccontano di più o meno
note imprese militari che hanno contribuito a cambiare gli esiti di
importanti scontri bellici. Molti dei più celebri film di guerra
sono statunitensi, dove si ripercorrono eventi come la Prima o la
Seconda guerra mondiale, la guerra del Vietnam o la più recente
guerra del golfo. Grandi capolavori di questo genere, solo per
citarne alcuni, sono Apocalypse Now,Salvate il soldato Ryan
e The Hurt Locker. Un
altro interessante e recente titolo è We Were Soldiers
– Fino all’ultimo uomo.
Diretto nel 2002 da Randall
Wallace, sceneggiatore di Braveheart e La
maschera di ferro, questo film da lui anche scritto si
concentra battaglia di Ia Drang, uno degli scontri più violenti e
importanti del conflitto tra l’esercito statunitense e quello
nordvietnamita. Per raccontare questa storia vera, Wallace si è
basato sul libro We Were Soldiers Once … And Young del
tenente colonnello Hal Moore, non più in servizio,
e del reporter Joseph Galloway, che presero parte alla battaglia.
L’ambientazione è dunque quella della guerra del Vietnam, una delle
guerre più drammatiche del Novecento.
Pur se interpretato da attori
particolarmente noti, il film manco di affermarsi come un grande
successo e ancora oggi è un titolo poco ricordato. Per chi ha
interesse ad approfondire la vicenda narrata, però, è un buon film
da recuperare. Prima di intraprendere una visione del film, però,
sarà certamente utile approfondire alcune delle principali
curiosità relative a questo. Proseguendo qui nella lettura sarà
infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla
trama, al cast di attori e alla
storia vera. Infine, si elencheranno anche le
principali piattaforme streaming contenenti il
film nel proprio catalogo.
We Were Soldiers – Fino
all’ultimo uomo: la trama e il cast del film
La vicenda è ambientata nel 1965 e
vede le vicissitudini dell’esercito americano durante la battaglia
nella Valle di Ia Drang. Dopo che gli States hanno dichiarato
guerra al Vietnam del Nord, il colonnello Hal
Moore viene scelto per addestrare e condurre un
battaglione in territorio ostile. Sul luogo, i soldati riescono a
catturare un disertore vietnamita, apprendendo da lui che sono
atterrati nei pressi del campo base di una divisione dell’esercito
del Vietnam del Nord di 4.000 uomini. Spaventati da ciò, i soldati
statunitensi si rendono conto di essere letteralmente in trappola e
che per poter uscire vivi da quella situazione dovranno fare
affidamento su tutte le loro abilità.
Ad interpretare il colonnello Hal
Moore vi è l’attore premio Oscar Mel Gibson, il
quale ebbe modo di prepararsi al ruolo incontrando il vero Moore.
Accanto a lui, nel ruolo del reporter Joseph Galloway vi è l’attore
Barry Pepper, mentre Madeleine
Stowe interpreta Julia Moore, la moglie di Hal. Anche lei
ebbe modo di conoscere la vera Julia, apprendendo da lei in
particolare cosa vuol dire essere la moglie di un soldato. Sam Elliot
interpreta il sergente Basil L. Plumley, con il quale divenne
grande amico anche fuori dal set. Quando Plumley, morì Elliot
partecipò anche al suo funerale.
Nel film sono poi presenti
Greg Kinnear nei panni del maggiore Bruce
Crandall, e Jon Hamm in
quelli del capitano Matt Dillon. Hamm si era ripromesso di
abbandonare la recitazione a 30 se non avesse ottenuto un buon
ruolo. Fu proprio questo film a permettergli di continuare la sua
carriera. Tutti gli attori coinvolti nel film dovettero partecipare
ad un campo di addestramento militare. Pur trattandosi di una
versione “semplificata” di un vero allenamento previsto per i
soldati, Gibson affermò che fu ugualmente un momento molto intenso,
che contribuì al dar vita a interpretazioni più autentiche.
We Were Soldiers – Fino
all’ultimo uomo: la vera storia dietro il film
Nel suo libro We Were Soldiers
Once… And Young, Hal Moore dichiara: “Ogni maledetto film
di Hollywood ha sbagliato nel rappresentarla [la guerra del
Vietnam]“. Il regista, Randall Wallace, ha detto di essere
stato ispirato proprio da quel commento nel realizzare il suo film,
desideroso di essere fedele a quanto avvenuto durante la battaglia
di la Drang. Questa ebbe luogo dal 23 ottobre al 27 novembre 1965
nella Valle di la Drang, una provincia di Pleiku, nel Vietnam del
Sud. L’esercito americano si recò lì per iniziare l’operazione
bellica volta ad impedire il crollo del Vietnam del Sud e frenare
l’espansione comunista. Questo fu uno degli episodi che gli storici
considerano come l’inizio di questa feroce guerra.
La missione del Settimo Cavalleria
doveva essere abbastanza semplice. I soldati dovevano infatti
arrivare sul campo, dispiegare i plotoni e aspettare l’elicottero
per ogni dispiegamento. Qui, però, un intero plotone venne assalito
da una banda di guerriglieri vietnamiti, guidati dal generale
Nguyễn Hữu An. Così, per giorni, l’X-Ray – la zona
di atterraggio dell’elicottero – divenne un infernale catino di
morte, con gli americani senza via di fuga, accerchiati dagli
inesorabili guerriglieri nord-vietnamiti. Dopo tre giorni di totale
stallo, il colonnello Moore prese la decisione di far avanzare i
suoi per andare in soccorso del plotone decimato.
I pericoli erano però numerosi e
andando verso la landing zone di Albany, infatti, i soldati vennero
sorpresi da un’imboscata nemica che decimò la compagnia Delta e la
compagnia Charlie e, solamente grazie ad un ulteriore intervento in
elicottero, con lo sgancio del napalm, riuscirono definitivamente
ad avere la meglio. Le perdite furono però ingenti, con 305 uomini
deceduti e oltre 400 feriti. Quella “vittoria” non dava però motivo
di gioia, poiché da quel momento fu chiaro a tutti di quanto
l’esercito vietnamita fosse forte e che quella guerra si sarebbe
protratta a lungo e con dolorosissime perdite su entrambi i
fronti.
We Were Soldiers – Fino
all’ultimo uomo: il trailer e dove vedere il film in streaming
e in TV
È possibile fruire di We
Were Soldiers – Fino all’ultimo uomo grazie alla sua
presenza su alcune delle più popolari piattaforme streaming
presenti oggi in rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi
di Chili Cinema e Amazon Prime Video. Per vederlo, una
volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il
singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così
modo di guardarlo in totale comodità e al meglio della qualità
video. Il film è inoltre presente nel palinsesto televisivo di
giovedì 23 giugno alle ore 21:00
sul canale Iris.
Made in Dagenham, ecco il titolo
originale di We want sex, in uscita in Italia il 5
dicembre, e già accolto al Festival Internazionale del film di Roma da
scoscianti applausi. La storia racconta del primo sciopero al
femminile avvenuto da parte delle operaie della fabbrica Ford
proprio di Dagenham, e portato avanti dalla coraggiosa Rita
O’Grady, interpretata sullo schermo da Sally
Hawkins.
Le donne che si batterono per avere
pari stipendio e pari dignità lavorativa rispetto agli uomini,
paralizzarono la Ford inglese smettendo di fabbricare i
rivestimenti in pelle per i sedili delle automobili. Il regista
Nigel Cole gira con diligenza un film che si basa
fondamentalmente su una sceneggiatura brillante (di William
Ivory) e su un cast di donne eccezionali, a partire dalla
già citata Hawkins che è affiancata da
Andrea Riseborough, Jaime Winstone, Lorraine Stanley, Bob
Hoskins e Daniel Mays, senza dimenticare
tra gli altri una straordinaria Miranda Richardson
nel ruolo dell’energico Ministro Barbara Castle.
Il racconto, che si svolge sul filo
della commedia, strappando risate, sorrisi e ammiccamenti, riserva
un’anima di grandiosità, dovuto alla realtà che sullo schermo è
raccontata. Queste donne, sempre impeccabili nei loro abiti
economici ma puliti vivaci portano avanti la loro protesta
contro il sistema, e contro i mariti che si sentono abbandonati per
questo. Proprio questo contrasto tra la realtà e le cose come
dovrebbero essere genera la vera forza del film, la sua anima seria
e socialmente impegnata.
We want sex, il
film
Questo nucleo forte acquista valore
poiché è raccontato con toni leggeri, che solo in due occasioni si
incupiscono, ma che donano allo spettatore la godibilità di una
bella commedia che racconta una storia vera. Questo grande
equilibrio che preferisce ricercare il sorriso invece che la
lacrima non si sviluppa mai a scapito della grandissima dignità e
importanza della storia che mantiene sempre il primo posto davanti
allo spettatore.
Non ci si stanca di seguire le
vicende, si parteggia per le protagoniste e si esulta nel finale.
Un’esperienza coinvolgente e divertente che guarda con ironia alla
severità e alla durezza di quello che è stato, raccontandolo
fedelmente. Il titolo in italiano, We want sex, è
giustificato dalla scena in cui le nostre vanno a protestare
davanti al ministero a Londra e il Ministro legge su uno striscione
non completamente srotolato “We want sex
(equality)”, sorridendo tra sé e dicendo “Chi non ne vuole”(!).
We Live in Time –
Tutto il tempo che abbiamo, diretto da John Crowley e
sceneggiato dal drammaturgo Nick Payne, esplora le sfumature più
profonde dell’amore, della perdita e soprattutto del tempo.
Presentato al Toronto Film Festival e in seguito alla Festa del
Cinema di Roma, il film si affida a una narrazione emotiva
complessa, fondata su un montaggio non lineare che, con questo
espediente amplifica il senso di ogni momento sottoposto
all’attenzione dello spettatore.
La trama di We Live
in Time – Tutto il tempo che abbiamo
Protagonisti di questo
racconto sono Almut, una chef stellata interpretata da
Florence Pugh, e Tobias, interpretato da Andrew Garfield. La loro relazione viene
raccontata attraverso una serie di salti temporali che spaziano tra
passato e presente, creando un mosaico di ricordi, momenti di
tenerezza, circostanze tristi e altre gioiose, scene ricche di
emozione. I due personaggi si incontrano in maniera del tutto
accidentale (o dovremmo dire “incidentale”?) e si innamorano.
Condividono una storia di dieci anni, scandita da quotidianità e
complicità, ma anche da un importante evento tragico: una malattia
terminale che colpisce Almut. La narrazione si sviluppa attraverso
l’uso del montaggio, affidato a Justin Wright, che riesce a dare
continuità ai vari momenti della storia, mettendoli tutti in
relazione reciproca, scelta che di volta in volta “aggiusta” il
significato di ogni scena.
Il percorso narrativo che
costruisce John Crowley non è dettato dalla cronologia ma da
corrispondenze emotive che di volta in volta permettono al racconto
di saltare avanti e indietro nel tempo e costruire un racconto
organico e coeso che compone la storia di Almut e Tobias in
un’alternanza di momenti felici e dolorosi. La scelta drammaturgica
richiama l’esperienza teatrale di Payne, noto per
Constellations, in cui esplora le relazioni umane attraverso
una struttura ispirata alla teoria delle stringhe, dove ogni scena
rappresenta una possibilità alternativa. In questo spettacolo, come
in We Live in Time, Payne mette in scena una riflessione sul tempo
e sulla transitorietà, rendendo il montaggio un vero e proprio
protagonista della storia.
La grande alchimia
tra Andrew Garfield e Florence Pugh
L’alchimia tra Andrew Garfield e Florence Pugh è senz’altro
uno dei punti di maggiore forza del film. Tobias è un uomo
abbastanza ordinario che si trova a confrontarsi con lo
straordinario in termini di emozioni e sentimenti e per tutto il
film lui cerca di portare ordine e razionalità nella sua vita.
Florence Pugh porta invece in scena una Almut intensa e magnetica,
capace di attraversare in pochi sguardi un’intero range emotivo,
dalla forza alla vulnerabilità, dalla gioia alla disperazione, con
naturalezza. La sua Almut sceglie di vivere ogni momento della sua
vita con intensità, al 100%, tanto che il suo lavoro diventerà
emblematico per la storia stessa. Come ci ha insegnato The
Bear di Disney+, in cucina “ogni secondo conta”
e la protagonista di We Live in Time lo sa meglio di tutti. Una
metafora che si replica anche nel gesto del preparare le uova al
mattino, un’immagine di cura e dedizione con cui il film si apre e
si chiude, e che ricorre nel corso della storia: il rituale ma
anche un gesto quotidiano, speciale e scontato allo stesso tempo,
come la storia d’amore che il film racconta.
Una regia intima
La firma di Crowley
restituisce un’atmosfera intima e a tratti sospesa, che riesce a
evocare spazi infiniti e metaforici, come nella bella scena in cui
padre e figlia tagliano i capelli a Almut, ma anche momenti
estremamente concreti, presenti, ironici, come la scena del parto
in una stazione di servizio. In questa alternanza sapiente di reale
e impalpabile, il film nasconde poi la sua vera forza che è quella
di raccontare il dolore e la gioia più puri, la paura e
l’avventatezza, la passione selvaggia e la tristezza più profonda
senza mai ricorrere a facili sentimentalismi e senza mai perdere di
autenticità.
Il lavoro di Nick
Payne e John Crowley è riflessione sulla
natura dell’amore, che non cerca la permanenza, ma l’accettazione
della sua finitezza. Lo spettatore è invitato a riflettere sul
valore del tempo e sull’importanza di scegliere come vivere il
tempo a disposizione, con la consapevolezza che tutto è passeggero
su questa Terra.
Si chiama We Do It
Together la compagnia di produzione no profit che si
prefigge di incentivare il coinvolgimento delle donne
nell’industria hollywoodiana e del cinema e della televisione in
generale.
Il gruppo è stato fondato da un
gruppo di donne, esponenti di spicco della comunità artistica di
Hollywood e rappresentante di una varietà culturale e etnica che fa
ben sperare per i futuri progetti della casa di produzione e per la
battaglia all’uguaglianza di cui tanto si è discusso in questo
ultimo mese post-nomination agli Oscar 2016.
Tra le più note e famose citiamo
Jessica Chastain, Freida Pinto, Queen Latifah, Catherine
Hardwick, Hany Abu-Assad, Ziyi Zhang, Amma Asante, Juliette
Binoche, Marielle Heller, Katia Lund, Małgorzata Szumowska, Alysia
Reiner, Haifaa Al Mansour.
La compagnia raccoglierà
finanziamenti da sponsor governativi e di corporazioni, oltre alle
donazioni individuali per investire in film i quali, creando
profitto dovrebbero creare una realtà autosostenuta. Il primo
progetto della nuova casa di produzione sarà annunciato al Festival di Cannes 2016.
Non esiste giorno
migliore di quello di Natale per debuttare con un film per
famiglie, e Netflix lo sa bene, tanto che quest’anno, ha unito i
buoni sentimenti, l’avventura e il divertimento, con un occhio di
riguardo ai più piccoli, per mettere a disposizione dei suoi
abbonati, proprio il 25 dicembre, We can be heroes, il nuovo film originale della
piattaforma, scritto e diretto da Robert Rodriguez.
Sequel diretto di Le
avventure di Sharkboy e Lavagirl in 3-D, We can be
heroes racconta della nuova generazione di eroi, i figli dei
Super, che sono costretti a entrare in azione dopo che i loro
genitori sono stati presi in ostaggio dagli alieni che minacciano
la Terra.
We Can Be Heroes
We can be heroes è sequel ed erede di Spy
Kids
La lezione di
Spy Kids si sente forte e chiara, anche se questa
volta Rodriguez contamina il suo mondo colorato di piccoli eroi con
i superpoteri che hanno invaso cinema, tv, piattaforme e streaming,
negli ultimi dieci anni. E così i figli delle spie diventano figli
di supereroi alle prese con la pesante eredità dei genitori che,
salvando il mondo, stabiliscono standard altissimi per i giovani
protagonisti.
Sulla scia dei film tv
prodotti in grande quantità da Disney Channel e ora da Disney+, Netflix conferma la sua
intenzione di potenziare l’offerta per il pubblico più giovane, a
partire dai prodotti di animazione, fino a film del genere che sono
sicuramente un diversivo divertente per i più giovani e per un
pomeriggio in famiglia.
I temi che il regista
affronta sono tutti edificanti, dall’importanza di avere fiducia in
se stessi, al valore del lavoro di squadra quando si è in
difficoltà, fino alla consapevolezza delle proprie forze e alla
fondamentale presa di coscienza del proprio ruolo all’interno di
una comunità. La giovane protagonista, Missy (YaYaGosselin), è infatti l’unica
senza superpoteri, ma è anche l’unica in possesso di una capacità
di leadership che dovrà imparare a gestire, per accettarsi e farsi
accettare dagli altri.
Personaggi edificanti
ma divertenti
Numerosissime sono
invece le trovate divertenti e gustose, che rendono la visione di
We can be heroes gradevole anche per i più grandi,
come la giovane eroina con una voce magica, A Cappella
(Lotus Blossom) che non perde occasione per
introdurre siparietti musicali, o la piccola Guppy (Vivian
Blair) che va addirittura in modalità berserk quando perde
il controllo, proprio lei che è il link con il film precedente, dal
momento che è la figlia di Lavagirl e Sharkboy. Oltre a
rappresentare un gruppo molto inclusivo, questi simpatici e svegli
supereroi sono un gruppo davvero ben scritto e immaginato. Certo il
film palesa una ingenuità disarmante, ma svolge egregiamente il suo
compito di raccontare una storia edificante per tutti.
Disponibile dal 25
dicembre sulla piattaforma, We can be heroes è
un’avventura divertente per tutta la famiglia, perfetta per le
vacanze di Natale casalinghe che si prospettano in questo 2020
disastroso.
Il 25 dicembre debutta su Netflix in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo
We
can be Heroes, il nuovo film live action per i ragazzi
e le famiglie diretto da Robert Rodriguez.
Nel cast di We
can be Heroes YaYa Gosselin,
Pedro Pascal,
Priyanka Chopra Jonas,
Christian Slater, Boyd Holbrook, Christopher McDonald e Adriana
Barraza. Nel cast anche Vivien Lyra Blair, Isaiah Russell-Bailey,
Akira Akbar, Lyon Daniels, Nathan Blair, Lotus Blossom, Hala
Finley, Andy Walken, Dylan Henry Lau, Andrew Diaz, Taylor Dooley,
Sung Kang, Haley Reinhart, J. Quinton Johnson, Brittany Perry
Russell e JJ Dashnaw.
We can be Heroes, la trama
Quando gli invasori alieni
rapiscono tutti i supereroi della Terra, i loro figli vengono
portati al sicuro in un rifugio del Governo. La giovane e
intelligente Missy Moreno (Yaya Gosselin) non si fermerà però
davanti a nulla per salvare il suo papà supereroe Marcus Moreno
(Pedro Pascal). Missy fa squadra con il resto dei
giovani super per sfuggire a Miss Granada (Priyanka Chopra-Jones),
la misteriosa babysitter inviata dal Governo per controllarli.
Se vogliono salvare i loro
genitori, dovranno lavorare insieme usando i propri super poteri –
dall’elasticità al controllo del tempo, fino alla capacità di
prevedere il futuro – formando un team straordinario. Ricco di
azione ed emozioni, WE CAN BE HEROES è diretto da Robert Rodriguez
(SPY KIDS, LE AVVENTURE DI SHARKBOY E
LAVAGIRL) e vede nel cast anche Boyd Holbrook, Christian
Slater, Chris McDonald e Adriana Barraza.
Netflix rilascia le prime immagini di
We
Can Be Heroes, la nuova avventura live action per i
ragazzi e le famiglie. Diretto da Robert
Rodriguez, il film arriverà il 1° gennaio 2021 in tutti i
Paesi in cui il servizio è attivo.
Nel cast
Pedro Pascal, Christian Slater,
Priyanka Chopra, Boyd Holbrook, Adriana Barraza, Chris McDonald
e Yaya Gosselin.
Nel cast anche Vivien Blair, Isaiah
Russell-Bailey, Akira Akbar, Lyon Daniels, Nathan Blair, Lotus
Blossom, Hala Finley, Andy Walken, Dylan Henry Lau, Andrew Diaz,
Taylor Dooley, Sung Kang, Haley Reinhart, J. Quinton Johnson, JJ
Dashnaw.
La trama di We Can Be Heroes
Quando gli invasori alieni
rapiscono tutti i supereroi della Terra, i loro figli dovranno fare
squadra e imparare a lavorare insieme se vogliono salvare i propri
genitori e il mondo.
E’ stato finalmente diffuso il
Trailer di We Bought A Zoo, nuovo film del regista Cameron
Crowe con protagonisti Matt
Damon, Scarlett Johansson, Elle Fanning. Per
vedere il trailer:
È stato pubblicato online il nuovo trailer
di We Are Your Friends, commedia che
vede protagonisti Zac Efron, Emily Ratajkowski
e Wes Bentley. Il film sarà distribuito da
Warner Bros Pictures.
Ecco il trailer:
[nggallery id=1009]
We Are Your
Friends è prodotto dalla Working Title Films e
Studio Canal ed è ambientato nel mondo della della
musica elettronica e della vita notturna di Hollywood. Un aspirante
ventitreenne DJ di nome Cole (Zac Efron) passa le sue giornate a
divertirsi con i suoi amici e la notte a lavorare. Ma la sua vita
cambia quando incontra un DJ carismatico di nome James
(Bentley) che lo prende sotto la sua ala. Ma le cose si complicano
subito quando Cole inizia a perdere la testa per una ragazza molto
più giovane di lui, Sophie (Ratajkowski).
We Are Your
Friends racconta la storia di un aspirante DJ, il
ventitreenne Cole Carter (Zac
Efron), che trascorre le giornate uscendo con gli
amici di sempre e le notti nei locali a caccia della traccia
perfetta, quella che sarà in grado di segnare finalmente il suo
successo. L’incontro con il famoso DJ e produttore musicale James
Reed (Wes Bentley) cambia le cose. Reed diventa il
suo mentore e lo prende sotto la sua ala, spingendolo a fare musica
nuova. Ma quando Cole si innamora della giovane
fidanzata/assistente personale di James, Sophie (Emily
Ratajkowski), le cose si complicano.
We Are Your
Friends segna il debutto alla regia
di Max Joseph, più conosciuto come produttore
di Catfish: false identità, il reality show di MTV che racconta le verità e le bugie
delle relazioni online. Il suo uso di grafica e animazione che si
intreccia con la storia risulta poco originale. La sceneggiatura,
scritta dallo stesso Joseph insieme
a Meaghan Oppenheimer, è tratta da un racconto
di Richard Silverman, produttore esecutivo
del film.
We Are Your Friends, tra musica e
comicità
La musica è stata curata
da Randall Poster (The
Wolf of Wall Street,
Divergent,
Spring Breakers), ma anche se nelle canzoni ci sono dei
bit originali, questi svaniscono facilmente nel susseguirsi di
tracce simili e senza anima.
Qualche parola c’è da dire anche su
Zac Efron, che non aggiunge nulla di nuovo
alle sue doti recitative, interpretando per l’ennesima volta lo
stesso personaggio dei suoi ultimi film. We Are Your
Friends è una ridicola rappresentazione di cosa
vuol dire essere un DJ di musica elettronica. Il film prende
qualcosa che in origine può sembrare attraente e tenta di
spiegarlo, esagerarlo e trasformarlo in qualcosa di più profondo e
più drammatico di quanto non sia realmente. Complessivamente, il
film sembra un video musicale stilizzato di 96 minuti, con troppi
slow-motion e primi piani su parti del corpo che si agitano, una
sorta di pubblicità progresso sui pericoli di alcol e droga, e una
povera lezione informativa su cosa, secondo chi ha raccontato il
film, serve per essere un DJ.
La Warner Bros. Pictures ha
annunciato oggi di aver acquistato i diritti di distribuzione negli
USA del film di Max Joseph, We Are Your
Friends, commedia che vede
protagonisti Zac Efron, Emily Ratajkowski
e Wes Bentley. L’annuncio è stat dato da Greg
Silverman, responsabile sviluppo creativo della Major, e Sue
Kroll, presidente Worldwide Marketing e distribuzione
internazionale.
We Are Your Friends è prodotto
dalla Working Title Films e Studio Canal ed è ambientato nel
mondo della della musica elettronica e della vita
notturna di Hollywood. Un aspirante ventitreenne DJ di nome Cole
(Zac Efron) passa le sue giornate a divertirsi con i suoi amici e
la notte a lavorare. Ma la sua vita cambia quando incontra un DJ
carismatico di nome James (Bentley) che lo prende sotto la sua
ala. Ma le cose si complicano subito quando Cole inizia a perdere
la testa per una ragazza molto più giovane di lui,
Sophie (Ratajkowski).
Sono passati 39 anni da quando fu
incisa una delle canzoni simbolo degli anni Ottanta, We are
the World, per sollevare l’attenzione sul tema della
povertà in Africa. We are the World. La notte che ha
cambiato la storia del pop, il documentario diretto da
Bao Nguyen che ne porta il titolo,
racconta la lunga sessione di registrazione e lo straordinario
lavoro di preparazione che ha consentito di riunire per
beneficienza quasi cinquanta artisti agli A&M Studio di Los
Angeles nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1985 per interpretare
il brano.
C’erano proprio tutte, o quasi, le
voci più note dell’epoca, oltre ad alcune ingloriose assenze, come
quella di Madonna, ritenuta una fugace meteora, alla quale
fu preferita la ‘rivale’ Cindy Lauper, e Prince, che
snobbò invece l’invito a partecipare a brano già assegnato. Il
numero dei cantanti riuniti in studio scese a quarantaquattro dopo
le defezioni in corso d’opera di Waylon Jennings, che
rifiutò la proposta di cantare un verso in swahili non
comprendendone il significato, e di Sheila E, batterista di
Prince, stanca di sentirsi chiedere quando sarebbe arrivato
Lui.
We are the World. We are the
Stars
Il documentario racconta il dietro
le quinte di quella notte ma, soprattutto, le settimane che l’hanno
preceduta e durante le quali lo staff del produttore musicale
Ken Krieger ha organizzato l’evento con modalità da agenti
dei servizi segreti per non far trapelare la notizia. Niente
smartphone, email, chat a disposizione: stiamo parlando di quattro
decennni fa, quando i business men viaggiavano con valigie ricolme
di rubriche cartacee e i cantanti incidevano i demo su
musicassetta. Portar fuori dalle chart e dai tour mondiali le star
più acclamate dell’epoca per farle incontrare in una data condivisa
da tutti apparve fin da subito estremamente complicato. Come ci
riuscirono?
USA for Africa: dagli American
Music Awards all’Etiopia
Fu Harry Belafonte ad avere
l’idea di quello che nasce come l’Ethiopia Project. La sua attività
per il riconoscimento dei diritti civili e l’attenzione per le
condizioni della povertà in Africa erano note, per quanto, come
testimonierà tra gli altri Bruce Springsteen, non si parlava
né si sapeva molto del problema della fame (e chissà se il Boss
avrà poi apprezzato il titolo originale inglese del film, We
are the Word. The greatest night in Pop, dimenticandosi
completamente dei rocker). Il 23 dicembre 1984, Belafonte propone a
Kriegen di organizzare un evento per sollevare l’attenzione sulla
questione, perché “i bianchi salvano i neri ma non ci sono neri
che salvano i neri“.
Il riferimento è chiaramente a
Bob Geldof, in corsa per il Live Aid che si sarebbe tenuto
nel successivo mese di luglio. Nessuna competizione tra i due
eventi, tanto che Geldof portò di persona i suoi saluti agli
A&M Studios per raccontare ai colleghi gli aspetti della
povertà in Africa e l’importanza dell’aiuto che sarebbe potuto
arrivare anche solo da quel semplice brano. Il vero motivatore
della serata e dell’intera avventura fu tuttavia Lionel
Richie, narratore principale nel video e mattatore dell’evento
benefico, che per tutta la notte si mosse da un gruppo all’altro
per raccogliere focolai di discontento e spegnerli
tempestivamente.
Il 28 gennaio, Richie, all’apice
della sua carriera, avrebbe presentato gli American Music Awards:
tutte le personalità più importanti del mondo della musica USA
sarebbero state riunite nella stessa città, in uno stesso luogo:
quale altra occasione avrebbe consentito di avere tutte quelle star
in una volta? Gli artisti furono invitati a incidere subito dopo la
cerimonia di premiazione. Alcuni mossi dallo scopo benefico
dell’operazione, altri semplicemente legati da un profondo rapporto
di stima agli organizzatori. Mancava solo la canzone e qui
cominciano gli aneddoti con Stevie Wonder che, contattato
per primo dal produttore Quincy Jones, se la prende comoda e
Lionel Richie che si ritrova a comporre musica e testo di We
are the World nella villa-zoo di Michael Jackson in mezzo a uccelli, scimmie e
pitoni.
Tutto in una notte
Una sola notte a disposizione per
legare insieme voci, altezze e personalità di oltre quaranta
primedonne. Jones appese un foglio A4 all’ingresso della sala di
registrazione con su scritto ‘Check your Ego at the door’ e, a
giudicare dai filmati d’archivio, lo scopo è stato raggiunto, tanto
che alla fine c’è chi, come Diana Ross, scoppia a piangere
perché non vuole che quella notte finisca.
Il documentario si avvale anche del
materiale audio raccolto dal giornalista David Breskin,
della rivista Life Magazine, che intervistò molti degli intervenuti
nelle settimane precedenti la registrazione, fermando anche
testimonianze oggi impossibili da recuperare come quella di
Jackson.
Tre mesi dopo la canzone fu
trasmessa dalle radio di tutto il mondo e fu un successo: We
Are the World totalizzò un milione di dollari nel primo fine
settimana di vendite per raggiungere la cifra record di ottanta
milioni di dollari. La somma fu destinata all’Etiopia, toccata da
una pluriennale carestia che le Nazioni Unite stimarono aver
provocato un milione di morti. Sarebbe bello sapere come fu speso
il denaro raccolto per la beneficienza ma per questo ci vorrebbe un
altro documentario.
We Are The Thousand –
L’incredibile storia di Rockin’1000 racconta la
storia di Rockin’1000, la più grande Rock Band al mondo, iniziata
nel 2015 quando per la prima volta al mondo 1000 musicisti si
incontrarono nel Parco Ippodromo di Cesena, per eseguire il più
grande tributo mai realizzato: suonare all’unisono Learn To Fly e
recapitare il video ai Foo Fighters. Diventato virale in poche ore,
il video attirò l’attenzione della band statunitense che non
esitò a rispondere con un concerto epico, proprio a Cesena.
We Are The Thousand – L’incredibile storia di
Rockin’1000, il progetto cinematografico diretto da
Anita Rivaroli, racconta l’evento attraverso le testimonianze dei
suoi protagonisti, mille musicisti di tutte le età provenienti da
ogni parte d’Italia uniti dall’amore per la musica. Un mega
concerto unico nel suo genere che grazie alle immagini live e ai
racconti di chi l’ha vissuto riesce a emozionare e appassionare lo
spettatore, coinvolto e trasportato quasi per magia nel Parco
Ippodromo di Cesena.
Oggi Rockin’1000 è una realtà
conosciuta a livello globale, che riceve riconoscimenti, inviti e
proposte di collaborazione in tutto il mondo. Dal 2016 organizza
veri e propri concerti negli stadi – Cesena, Firenze, Parigi,
Francoforte – e iniziative speciali che vedono protagonisti 1000
musicisti. Rockin’1000 nasce da un’idea di Fabio Zaffagnini,
Claudia Spadoni, Martina Pieri, Mariagrazia Canu, Francesco Ridolfi
“Cisko” e Anita Rivaroli.
Sotto la sapiente regia di Anita
Rivaroli, We Are The Thousand – L’incredibile storia di
Rockin’1000 porta sul grande schermo un momento epico
della storia della musica live italiana. “E’ prodotto da Indyca in
collaborazione con Rockin’1000 e New Lanark Film & Music,
sostenuto dalla Film Commission Emilia Romagna e dal Piemonte Doc
film Fund”; We Are The Thousand – L’incredibile storia di
Rockin’1000 sarà sugli schermi italiani come evento I
Wonder Stories dal 25 al 28 ottobre.
I Wonder Pictures ha diffuso una
featurette esclusiva del documentario We Are The
Thousand – L’incredibile storia di Rockin’1000, il
lungometraggio diretto da Anita Rivaroli.
We Are The Thousand –
L’incredibile storia di Rockin’1000 racconta la
storia di Rockin’1000, la più grande Rock Band al mondo, iniziata
nel 2015 quando per la prima volta al mondo 1000 musicisti si
incontrarono nel Parco Ippodromo di Cesena, per eseguire il più
grande tributo mai realizzato: suonare all’unisono Learn To Fly e
recapitare il video ai Foo Fighters. Diventato virale in poche ore,
il video attirò l’attenzione della band statunitense che non
esitò a rispondere con un concerto epico, proprio a Cesena.
We Are The Thousand – L’incredibile storia di
Rockin’1000, il progetto cinematografico diretto da
Anita Rivaroli, racconta l’evento attraverso le testimonianze dei
suoi protagonisti, mille musicisti di tutte le età provenienti da
ogni parte d’Italia uniti dall’amore per la musica. Un mega
concerto unico nel suo genere che grazie alle immagini live e ai
racconti di chi l’ha vissuto riesce a emozionare e appassionare lo
spettatore, coinvolto e trasportato quasi per magia nel Parco
Ippodromo di Cesena.
Oggi Rockin’1000 è una realtà
conosciuta a livello globale, che riceve riconoscimenti, inviti e
proposte di collaborazione in tutto il mondo. Dal 2016 organizza
veri e propri concerti negli stadi – Cesena, Firenze, Parigi,
Francoforte – e iniziative speciali che vedono protagonisti 1000
musicisti. Rockin’1000 nasce da un’idea di Fabio Zaffagnini,
Claudia Spadoni, Martina Pieri, Mariagrazia Canu, Francesco Ridolfi
“Cisko” e Anita Rivaroli.
Sotto la sapiente regia di Anita
Rivaroli, We Are The Thousand – L’incredibile storia di
Rockin’1000 porta sul grande schermo un momento epico
della storia della musica live italiana. “E’ prodotto da Indyca in
collaborazione con Rockin’1000 e New Lanark Film & Music,
sostenuto dalla Film Commission Emilia Romagna e dal Piemonte Doc
film Fund”; We Are The Thousand – L’incredibile storia di
Rockin’1000 sarà sugli schermi italiani come evento I
Wonder Stories dal 25 al 28 ottobre.
Matthew McConaughey e Matthew
Fox in We Are Marshall (2006)
We Are Marshall è
il film biografico sportivo del 2006 diretto da McG. Il film
racconta le conseguenze dell’incidente aereo del 1970 che causò la
morte di 75 persone: 37 giocatori della squadra di football
Thundering Herd della Marshall University, cinque
allenatori, due preparatori atletici, il direttore sportivo, 25
sostenitori e l’equipaggio dell’aereo, composto da cinque
persone.
Matthew McConaughey interpreta il capo
allenatore Jack Lengyel, Matthew Fox il vice
allenatore William “Red” Dawson, David Strathairn
il presidente dell’università Donald Dedmon e Robert
Patrick lo sfortunato capo allenatore della Marshall Rick
Tolley. L’allora governatore della Georgia Sonny Perdue ha un cameo
nel ruolo di un allenatore di football della East Carolina
University.
L’incredibile storia vera di
We Are Marshall
La storia raccontata in “We
Are Marshall” sembra un po’ l’invenzione di uno
sceneggiatore. Un aereo che trasporta la squadra di football di
un’università si schianta, uccidendo quasi tutti i giocatori, la
maggior parte dello staff tecnico e diversi tifosi di spicco.
L’università e l’affiatata comunità circostante sono sconvolte, ma
decidono di perseverare. Un nuovo allenatore mette insieme una
squadra di matricole e di atleti che non hanno mai giocato a
football. Questa squadra eterogenea vince la sua prima partita in
casa con un numero record di tifosi presenti.
Ma nonostante sembrino fatti per
Hollywood, questi eventi sono realmente accaduti. Il 14 novembre
1970, il volo 932 della Southern Airways si schiantò durante
l’avvicinamento all’aeroporto Tri-State di Kenova, in West
Virginia. La Marshall University aveva noleggiato l’aereo per
riportare a casa la sua squadra di football, i Thundering Herd,
dopo una partita contro la East Carolina University. Tutti i 70
passeggeri e i cinque membri dell’equipaggio sono morti. Solo pochi
membri dei Thundering Herd non erano a bordo.
L’aereo, un McDonnell Douglas
DC-9-31, aveva volato da Atlanta, in Georgia, a Kinston, nella
Carolina del Nord, per prendere i suoi passeggeri. Il volo 932 è
partito da Kinston alle 18:38 (Eastern Standard Time) e il volo,
della durata prevista di 52 minuti, è proseguito normalmente. Ma a
circa 1 miglio (1,6 metri) dalla pista dell’aeroporto Tri-State,
l’aereo ha colpito gli alberi su una collina, incidendo una
striscia larga 75 piedi e lunga 279 piedi (22,8 x 85 metri) prima
di schiantarsi al suolo. L’aereo è esploso all’impatto. Il relitto
principale è atterrato a soli 1.286 metri dalla pista.
Il controllore della torre di
controllo ha iniziato a sorvegliare il volo 932 dopo che aveva
superato il segnalatore esterno del sistema di atterraggio
strumentale (ILS). Alle 19:36 EST, il personale ha notato un
bagliore rosso a ovest della pista. Il controllore non era entrato
in contatto visivo con l’aereo, ma ha visto l’esplosione e il fuoco
che hanno provocato l’incidente. Non riuscendo a contattare
l’aereo, l’equipaggio della torre ha avviato le procedure di
emergenza. Sono intervenuti la polizia, i vigili del fuoco e la
Guardia Nazionale.
Il National Transportation Safety
Board (NTSB) ha indagato sull’incidente e ha rapidamente escluso
una grave negligenza o un’azione dolosa: L’aereo era in buone
condizioni ed era stato sottoposto a una manutenzione adeguata.
Aveva fatto rifornimento a Kinston prima della partenza.
L’equipaggio aveva presentato un piano di volo accurato e lo aveva
rispettato. L’aereo non era sovraccarico e il suo centro di gravità
era entro i limiti normali. Il pilota e il primo ufficiale erano
esperti e qualificati per effettuare il volo. Il pilota aveva un
periodo di riposo di 20 ore prima di presentarsi in servizio. Il
primo ufficiale aveva un periodo di riposo di 18 ore.
Gli investigatori non hanno
riscontrato alcun segno di guasto catastrofico nella struttura
dell’aereo, negli strumenti o nel sistema di alimentazione.
Inoltre, non hanno riscontrato gravi errori nell’aeroporto. La
pista era bagnata a causa del tempo, ma l’equipaggio di volo era a
conoscenza delle sue condizioni e aveva regolato la discesa per
compensarle. Nonostante la pioggia e il freddo, il personale
dell’aeroporto ha riferito di una visibilità di otto chilometri
fino a poco dopo l’incidente. Le luci della pista e i lampeggianti
di notifica erano tutti funzionanti.
Tuttavia, a causa della natura del
terreno circostante, l’aeroporto non disponeva di un pendio di
planata come parte dell’ILS. Un pendio di planata trasmette un
segnale al velivolo per aiutare il pilota ad assicurarsi che
l’aereo scenda con la giusta angolazione. A causa dell’assenza del
pendio di planata, l’atterraggio è stato considerato un
avvicinamento strumentale non di precisione. L’aeroporto è stato
autorizzato a operare senza il pendio di planata, ma senza di esso
i piloti hanno avuto uno strumento in meno per atterrare in
sicurezza.
Gli investigatori hanno anche
escluso l’altezza degli alberi come fattore. Gli alberi erano
troppo alti secondo i regolamenti dell’aviazione federale in vigore
all’epoca. Tuttavia, queste norme erano utilizzate per scopi
amministrativi, come l’assegnazione di fondi o la notifica al
pubblico di una costruzione. L’altezza degli alberi non violava gli
standard statunitensi per le procedure terminali strumentali
(TERPS). In altre parole, in circostanze normali, l’altezza degli
alberi non avrebbe dovuto influire sulla capacità di atterraggio di
un aereo.
Secondo l’analisi finale dell’NTSB,
l’aereo si è schiantato perché si trovava al di sotto della quota
minima di discesa (MDA). In altre parole, si è schiantato perché
era troppo vicino al suolo durante la discesa. Ma l’NTSB non è
stato in grado di stabilire con precisione perché l’aereo volasse
troppo basso. Gli investigatori hanno ristretto il campo a due
possibilità. Secondo il rapporto sull’incidente, “le due
spiegazioni più probabili sono (a) l’uso improprio dei dati della
strumentazione della cabina di pilotaggio o (b) un errore del
sistema altimetrico” [fonte: NTSB Aircraft Accident Report]. In
altre parole, o gli strumenti funzionavano male o il pilota e il
primo ufficiale utilizzavano i dati in modo errato.
We Are Marshall: Analisi dei dati
del volo 932
Durante l’indagine, l’NTSB ha
analizzato gli strumenti dell’aereo e il comportamento
dell’equipaggio. L’aereo volava chiaramente troppo basso e l’NTSB
voleva determinarne il motivo. Inoltre, il registratore dei dati di
volo (FDR) mostrava che l’aereo aveva superato per due volte la
quota di volo e poi aveva corretto la velocità di discesa. Ciò
suggerisce che il pilota potrebbe aver compensato letture
strumentali errate.
I funzionari hanno condotto test
approfonditi sugli altimetri barometrici dell’aereo. L’analisi ha
rivelato che sia la strumentazione del pilota che quella del primo
ufficiale potrebbero aver avuto un malfunzionamento. Sembravano
indicare che l’aereo fosse più alto di 91,4 metri. Tuttavia,
l’impatto dell’incidente potrebbe aver fatto sì che entrambi gli
altimetri riportassero altitudini errate.
Un’altra teoria è che il pilota e
il primo ufficiale abbiano usato i loro radioaltimetri per
determinare l’altitudine dell’aereo. Un radioaltimetro funziona
essenzialmente come un radar. Misura il tempo impiegato dalle onde
radio per raggiungere il suolo e tornare indietro. Ma in terreni
molto collinosi o irregolari, come l’area della West Virginia in
cui l’aereo si è schiantato, i radioaltimetri potrebbero fornire
letture imprecise. Il pilota e il primo ufficiale lo sapevano bene
grazie al loro addestramento. Gli investigatori dell’NTSB hanno
riferito che l’uso dei radioaltimetri durante l’avvicinamento
all’aeroporto era possibile, ma non probabile.
Indipendentemente dal motivo esatto
per cui l’aereo volava troppo basso, il pilota e il primo ufficiale
erano probabilmente del tutto inconsapevoli di farlo. Le chiamate
del primo ufficiale registrate nel registratore vocale della cabina
di pilotaggio (CVR) erano costantemente più alte delle misure
registrate nell’FDR dell’aereo. Non è chiaro se il pilota abbia
verificato le chiamate sui propri strumenti o se si sia affidato
alle letture del primo ufficiale.
Inoltre, secondo le conversazioni
registrate dal CVR, l’equipaggio riteneva che l’aereo fosse in
normale discesa verso l’aeroporto. Il pilota e il primo ufficiale
non hanno notato alcun motivo di preoccupazione, a parte un piccolo
problema con l’autopilota. Sembrava che avesse catturato un segnale
di pendio di planata anche se l’aeroporto non aveva pendii di
planata. Il pilota ha anche osservato che l’autopilota sembrava
lento. Gli investigatori non ritengono che il pilota stesse usando
l’autopilota in modo scorretto o che l’autopilota abbia causato
l’incidente.
Il CVR ha registrato anche un
commento del coordinatore del volo charter, un dipendente della
Southern Airways che si trovava nella cabina di pilotaggio poco
prima dell’incidente. Le mansioni del coordinatore di volo gli
imponevano di parlare con il pilota, quindi gli era consentito di
stare in cabina di pilotaggio. Poco prima dell’incidente, ha
osservato: “Sarà un mancato avvicinamento”. Gli investigatori
ritengono che abbia notato che l’aereo si stava avvicinando a MDA
ma non aveva stabilito un contatto visivo con l’aeroporto. Ciò
avrebbe richiesto che l’aereo si livellasse e virasse. I dati
dell’FDR suggeriscono che il pilota abbia cercato di fare proprio
questo prima di colpire gli alberi.
L’NTSB ha rilevato alcuni punti in
cui il pilota o il primo ufficiale non hanno rispettato
rigorosamente le procedure di atterraggio durante l’avvicinamento
all’aeroporto Tri-State. Ad esempio, sembra che il pilota abbia
cercato di livellare solo dopo aver raggiunto la quota minima di
discesa. Questo avrebbe permesso all’aereo di passare attraverso la
MDA e di continuare a scendere mentre si livellava. Tuttavia,
poiché le cime degli alberi si trovavano a oltre 300 piedi al di
sotto della MDA, un livellamento anticipato non avrebbe
probabilmente impedito l’incidente. In realtà, l’unica cosa che
avrebbe probabilmente evitato l’incidente era un pendio di planata
nell’aeroporto. L’aeroporto Tri-State ha installato un pendio di
planata con fondi federali nel 1972.
L’incidente ha causato la morte di
tutti i passeggeri: il pilota, il primo ufficiale, due assistenti
di volo, il coordinatore del charter, 24 tifosi della Marshall
University, nove allenatori e 37 giocatori. Vedremo cosa è successo
al programma di football della Marshall University.
Ricostruire il calcio
dell’Università di Marshall
Già prima della stagione 1970, il
programma di football della Marshall University aveva incontrato
alcune difficoltà. Negli anni ’60 la squadra aveva avuto un
bilancio negativo, con stagioni senza vittorie. Nel 1962, il suo
stadio fu condannato per violazioni della salute e della sicurezza.
Nel 1969, la Mid-American Conference espulse Marshall dai suoi
ranghi a causa di oltre 100 violazioni in materia di reclutamento.
All’epoca dell’incidente, Marshall faceva parte della National
Collegiate Athletic Association (NCAA) ma era in libertà vigilata a
causa delle stesse accuse.
Nel 1970, la scuola aveva apportato
alcuni miglioramenti. Il Fairfield Stadium era stato completamente
ristrutturato e il campo da gioco era stato dotato di un nuovo
AstroTurf. Anche se il 1970 non fu una stagione vincente, l’ultima
partita della squadra contro la East Carolina University fu
combattuta. Marshall perse con un punteggio di 14 a 17.
L’incidente colpì sia l’Università
che la comunità circostante. Dopo l’incidente, gli uffici
governativi e le attività commerciali locali rimasero chiusi.
L’Università ha cancellato molte attività e ha tenuto una cerimonia
commemorativa allo stadio domenica 15 novembre. Ha anche cancellato
le lezioni del lunedì. I funerali e le commemorazioni si sono
svolti nelle settimane successive. I corpi dei sei giocatori di
football che non è stato possibile identificare sono stati sepolti
insieme nel cimitero di Spring Hill, che si affaccia sul campus di
Marshall.
Il 17 marzo 1971 Jack Lengyel
divenne il nuovo allenatore di football della Marshall University.
Il vice-allenatore Alfred “Red” Dawson, che aveva fatto il viaggio
in auto per tornare in West Virginia, tornò ad allenare per un
anno. Con l’aiuto di altri membri del corpo docente e dello staff
sopravvissuti, iniziarono a mettere insieme una nuova squadra di
football.
Iniziarono con i giocatori che non
erano stati a bordo del volo a causa di infortuni, conflitti
accademici e altri motivi. A questi giocatori si aggiunsero atleti
che praticavano altri sport. La scuola ha anche chiesto alla NCAA
il permesso di far giocare le matricole, cosa che la NCAA ha
concesso. Lengyel ribattezzò la squadra Young Thundering Herd, fino
a quando non riprese la sua struttura originale di classe
quadriennale.
I Young Thundering Herd persero la
prima partita, contro Morehead. Ma vinse la seconda partita – la
prima in casa – contro la Xavier University con il punteggio di 15
a 13. La squadra vinse un’altra partita nella stagione 1971.
I Thundering Herd iniziarono ad
avere stagioni vincenti nel 1984. Marshall ha partecipato ai
playoff della NCAA Division I-AA nel 1987 e al campionato di
football della Southern Conference nel 1988. Nel 1992 e nel 1996
Marshall è stato campione della NCAA Division I-AA. La squadra è
passata alla Division I-A nel 1997 e ha vinto il suo primo bowl
game nel 1998.
La tragedia del 1970 fa ancora
parte della vita di Marshall e della città di Huntington. Ogni anno
si svolge una cerimonia commemorativa presso la fontana del
Memorial Student Center, inaugurata il 12 novembre 1972. Dopo
questa cerimonia, la scuola chiude l’acqua della fontana fino alla
primavera.
Oltre al film del 2006 “We Are
Marshall”, il documentario “Ashes to Glory” e il libro “Real
Tragedy, Real Triumph: True Stories and Images from the Crash and
Rebirth of Marshall University Football” raccontano la storia della
squadra di football della Marshall University. Per ulteriori
informazioni sul disastro aereo della Marshall University, su “We
Are Marshall” e su argomenti correlati, consultare i link
sottostanti.