Per il suo esordio alla regia, Otto Bell decide di raccontare in un avvincente documentario, The Eagle Huntress, distribuito in Italia da I Wonder Pictures con il titolo La Principessa e l’Aquila, la storia vera di Aisholpan, una tredicenne mongola con un sogno che va contro la tradizione e i costumi della sua tribù.
La ragazza desidera diventare una cacciatrice con l’aquila, una disciplina vera e propria che nei millenni è sempre stata una prerogativa maschile e che ha fatto eccellere la sua famiglia, prima il nonno e poi il padre, nella comunità mongola di appartenenza, con diverse vittorie al Golden Eagle Festival, a cui partecipano tutti i cacciatori delle tribù circostanti. Nonostante la diffidenza e la disapprovazione degli anziani, Aisholpan, sostenuta dal padre, e dopo aver ricevuto la benedizione del nonno, comincia il suo addestramento. La cattura dei cucciolo di aquila, la formazione di un legame con il regale rapace, la tecnica di caccia vera e propria, fino al momento dell’esordio all’importante evento.
La Principessa e l’Aquila arriva alla Festa di Roma con una potenza insospettata
Dopo aver registrato un grande successo al Sundance, al Telluride e a Toronto, La Principessa e l’Aquila arriva alla Festa di Roma con una potenza insospettata. La storia alquanto lineare ma incredibile si avvale di un racconto ricco di momenti di tensione, con note poetiche e tratti in cui il ritmo diventa da film sportivo pur rimanendo fedele alla sua natura di racconto di formazione.
Il paesaggio innevato delle montagne della Mongolia costituisce un paesaggio bello e terribile, uno sfondo possente e crudele, così come lo è la natura in quelle fredde lande, al coraggio di una ragazzina che ha sfidato un pregiudizio. Il film si rivela anche essere una storia di emancipazione femminile in senso più ampio, nel momento in cui fotografa la prima donna che in punta di piedi si fa largo in un mondo che la tradizione ha sempre voluto essere riservato agli uomini.
Ciò che coinvolge però nel film di Bell sono le location e la scelta di riprenderle con tecniche d’avanguardia che si discostano dal classico documentario didascalico, raccontando le vicende con il coinvolgimento in prima persona dei protagonisti ma anche utilizzando espedienti drammaturgici e tecnici (tempi di montaggio e angolazioni di ripresa) da cinema action.
La Principessa e l’Aqulia è un’immersione nella natura, nella tradizione ma anche nel sentimento fervido di rivalsa e affermazione, portato a compimento con modestia e naturalezza e con incredibile determinazione.




Kicks rischiava, almeno su carta, di diventare il classico racconto di formazione (o de-formazione?) di un adolescente cresciuto in un contesto socio – culturale difficile; ma l’abilità di Tipping sta proprio nell’utilizzo di un linguaggio onirico, sospeso e rarefatto per raccontare l’Io interiore del giovane protagonista e le conseguenze fenomenologiche sulla realtà innescate dalle sue scelte. Rievocando un clima ed un gusto tesi e adrenalinici simili a pietre miliari del cinema come American History X, è affascinante osservare come si può raccontare un’apparente storia di banale violenza attraverso un punto di vista unico, giocando con le inquadrature e sfruttando la metafora – vincente – dell’astronauta, alter ego ideale di Brandon che con i suoi lenti movimenti lunari distorce la lente del reale, sublimando l’immaginario ma soprattutto le complesse sfumature dell’interiorità inquieta di un quindicenne.
La damnatio memoriae applicata su Strzemiński è logorante: prima viene ostracizzato dalla vita pubblica, poi gli viene tolto il lavoro, la possibilità di dipingere, di esprimersi liberamente, di parlare e di comunicare la propria posizione. Con la stessa sublime visione attraverso la quale aveva già raccontato la Polonia post Seconda Guerra Mondiale, anche in Afterimage Wajda sceglie di narrare una vicenda umana che diventa specchio dei mutamenti storici, si interseca con gli eventi, finisce per diventare proprio “La Storia” restituendo una lucida ed implacabile visione dei fatti che si trasformano in un pubblico manifesto alla libertà d’espressione (e non solo artistica).
Thor Ragnarok sarà diretto da




Il sogno d’amore di Arturo, antieroe timido e impacciato, s’intreccia con la Storia. Coinvolgono l’incedere leggero e a tratti surreale del lavoro, un protagonista stralunato e quasi inconsapevole di quanto accade attorno – Forrest Gump è un chiaro riferimento – ma che nel corso del film acquisirà consapevolezza, soprattutto grazie alla sincera amicizia con Catelli. Efficace però anche il racconto della guerra nei suoi aspetti più drammatici – la fame, i bombardamenti, la morte, le speranze frustrate. Con leggerezza, ma non senza far riflettere, si racconta la mafia, la tracotanza dei boss, la spregiudicatezza alleata che se ne servì. Ad animare il film sono anche le caratterizzazioni, specie quelle, spesso tragicomiche, degli isolani – Teresa (Stella Egitto), Saro e Mimmo (Sergio Vespertino e Maurizio Bologna), Don Calò (Maurizio Marchetti), Annina (Aurora Quattrocchi). Assieme alla suggestiva ambientazione ad Erice – nel film un paesino di fantasia – completano un lavoro godibile, che rende plausibile e non fa pensare troppo anche un’operazione scivolosa come cercare di bissare il successo dell’esordio sfruttando la stessa formula.



Il film è prodotto da Charles Roven, Zack Snyder e Deborah Snyder, con Richard Suckle, Stephen Jones, Wesley Coller, Geoff Johns, Connie Nielsen e Rebecca Roven come executive producers.