Migliaia di attori ed attrici si
sono avvicendati sui pallidi schermi da proiezione fin dalla
nascita del cinema, alcuni brillando per pochi attimi per poi
scomparire miseramente nel grande baratro dei ricordi dimenticati,
altri invece imprimendosi in modo indelebile nella memoria
collettiva, diventando delle vere e proprie icone. Ognuno di questi
personaggi, dal più insignificante al più celebre, ha avuto una
propria storia, proprie radici che lo hanno fatto crescere,
germogliare e fiorire (o sfiorire), ed ognuno ha lasciato una
traccia nel suo passaggio dinnanzi ai nostri occhi. Ma è proprio
per una di queste stelle del luminoso firmamento delle immagini in
movimento che oggi scomodiamo i nostri ricordi, facendo un breve
tuffo in un passato ormai nebuloso ma che ci riserva in realtà
numerose sorprese.
Era infatti il lontano 1914 quando
negli Stati Uniti venne proiettato per la prima volta
Kid Auto Races at Venice, cortometraggio
di soli 7 minuti prodotto da Marck Sennett per la
Keystone, storica casa di produzione specializzata in slapstick
comedy (una forma di umorismo estremamente esagitata
caratterizzata da inseguimenti, acrobazie e comicità fisica, molto
in voga alle origini del cinema).

La pellicola, scritta, diretta e
interpretata dal regista Henry Lehrman mostrava
per la prima volta sullo schermo, nei sui tratti caratteristici, un
personaggio destinato a diventare a breve una vera e propria icona
della comicità mondiale, una pietra miliare della storia del
cinema; un piccolo vagabondo abbigliato con un frac troppo piccolo,
con ai piedi enormi scarpe, un bastoncino di bambù in mano, una
piccola bombetta e un paio di piccoli baffi neri. Un giovanissimo
attore di nome Charles Spencer Chaplin (in seguito
conosciuto meglio come “Charlie”), apparso per la prima
volta sullo schermo appena alcuni mesi prima in un altro
cortometraggio di Lehrman dal titolo Making a
Living (in Italia Charlot
giornalista), partecipa come spettatore ad una corsa
d’aiuto per bambini, continuando ad importunare un piccola troupe
cinematografica, formata dallo stesso Lehrman e dall’operatore
Franck D.Williams, mentre è intenta a riprendere
l’evento, cercando in tutti i modi di intromettersi
nell’inquadratura. Ricorrendo ad una continua alternanza fra
riprese oggettive dall’esterno in cui viene mostrata l’azione degli
operatori e del neonato Charlot e alcune immagini della
soggettiva di camera (tanto cara e abusata dai moderni
mokumentary), Lehrman da prova di una grande
sperimentazione stilistica per l’epoca, ma il vero gioiello di ogni
scena rimane sempre e comunque il nuovo irriverente personaggio del
vagabondo Charlot, che diverrà in futuro protagonista di
celebri pellicole come Il monello (1921),
il Circo (1928) e Tempi
moderni (1936).
Seppur nel film precedente
Chaplin aveva già iniziato ad impostare le sue future
caratteristiche recitative (l’uso creativo degli oggetti, i
movimenti-danza, la pantomima espressiva) assumendo anche alcuni
elementi fisici in sintonia col futuro ruolo (il cappello a
cilindro, il frac e il bastone), è solo qui che finalmente tutti i
tratti caratteristici del suo personaggio appaiono definitivamente
codificati, seppur ancora acerbi e grezzi. Le capacità atletiche e
mimiche di Chaplin emergono chiaramente nelle poche inquadrature
che compongono il film, anche grazie ad una storia semplice ma ben
strutturata dal sapore pseudo-documentaristico, che per giunta
tratta chiaramente un discorso metacinematografico (un
film sulla realizzazione delle riprese di un film).
Lehrman, ancor prima di Sennett,
passerà alla storia come il primo regista ad aver diretto Chaplin,
e il loro sodalizio durerà ancora molto all’interno della Keystone,
prima che il giovane e promettente attore passi ad altre case di
produzione, tra cui la Mutual, per poi fondare nel 1919 la famosa
United Artist assieme al regista D.W Griffith e
gli attori Mary Pickford e Duglas
Fairbanks. Proiettata in Italia con il titolo di
Cahrlot si distingue, la pellicola segna
la consacrazione filmica di uno dei personaggi più iconici della
comicità a 24 fotogrammi al secondo, mostrandosi come il seme
ancestrale da cui sarebbe presto germogliato un fiore dai mille
petali di bravura, capostipite e ispiratore di una comicità sana,
genuina e sincera, baluardo di epoca in cui per far ridere
bastavano due panini e una scarpa fatta di liquirizia (vedere per
credere La febbre dell’oro). Un’epoca in
cui volgare non era ancora sinonimo di divertente.
