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Skellig: la recensione del film tratto dal romanzo di David Almond

Tratto dal celebre romanzo di David Almond, Skellig si colloca tra quelle opere che cercano di superare il confine del semplice intrattenimento per ragazzi, avventurandosi su terreni più complessi, in cui fantasia e introspezione si intrecciano. Diretto da Annabel Jankel, il film propone un racconto sospeso tra il realismo del quotidiano e l’inquietudine del mistero, affidandosi a interpreti capaci di restituire intensità a una storia che si muove tra dolore, speranza e scoperta.

La pellicola apre spunti narrativi che non si limitano alla dimensione infantile, ma invitano a riflettere sul senso della cura, della fragilità e dell’accettazione. È un fantasy che poggia le sue basi sulla dimensione intima dei personaggi, un viaggio in cui il giovane protagonista trova nel fantastico la forza di affrontare le difficoltà più grandi.

Trama: Michael e l’incontro con l’enigmatico Skellig

Michael si trasferisce con la sua famiglia in una vecchia casa decadente alla periferia di Londra. Il motivo è la gravidanza della madre, che presto darà alla luce una sorellina. Ma la bambina nasce con una grave malformazione al cuore, lasciando la famiglia nell’angoscia.

Nel pieno delle sue paure, Michael scopre in giardino un uomo misterioso nascosto in un magazzino abbandonato. Sporco, debole, coperto di polvere e con un aspetto inquietante, questo essere – che si presenta come Skellig – sembra a metà tra un clochard e una creatura fantastica. Accudito con pazienza e dedizione, l’uomo recupera lentamente le forze, rivelando a Michael la sua vera natura e conducendolo verso un percorso di crescita personale e scoperta interiore.

Tim Roth e il giovane Bill Milner: un duetto intenso

Il cuore pulsante del film è rappresentato dalle interpretazioni. Tim Roth, trasformato da un trucco accurato che ne accentua l’aura inquietante, regala una performance intensa e stratificata, incarnando Skellig come un essere al tempo stesso spaventoso e fragile, enigmatico e salvifico.

Accanto a lui, il giovane Bill Milner dimostra notevole maturità, riuscendo a reggere il confronto con l’attore britannico e a farsi spazio con una recitazione sensibile e autentica. In alcune sequenze, il suo Michael riesce persino a rubare la scena al carisma di Roth, contribuendo a costruire un rapporto credibile e coinvolgente tra i due personaggi.

Regia e atmosfere tra fascino e incertezze

Se sul piano interpretativo il film funziona, la regia di Annabel Jankel mostra qualche limite. L’intreccio tra realismo e fantastico non sempre trova un equilibrio stabile: gli enigmi legati alla figura di Skellig si trascinano a lungo, generando un’attesa che in alcuni momenti si rivela eccessiva. La durata complessiva, un po’ dilatata, rischia di appesantire un racconto che avrebbe beneficiato di maggiore sintesi.

Nonostante ciò, Skellig mantiene un fascino particolare. La Londra sullo sfondo appare quasi neutrale, priva di tratti distintivi, scelta che accentua la centralità dei personaggi e della loro vicenda. Alcuni riferimenti simbolici legati alla figura di Skellig suggeriscono interpretazioni più profonde, lasciando spazio a letture metaforiche sul significato del personaggio e sul suo ruolo di “angelo caduto” o di guida spirituale.

Un fantasy intimo e malinconico

In definitiva, Skellig è un film che si rivolge a un pubblico ampio, disposto a lasciarsi coinvolgere da una storia sospesa tra realismo e mistero. Pur con i suoi difetti, soprattutto sul piano della regia e del ritmo, riesce a lasciare un segno grazie all’intensità dei protagonisti e al modo in cui affronta temi universali come la malattia, la paura e il bisogno di credere nel fantastico.

Barbarossa: recensione del film di Renzo Martinelli

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Barbarossa: recensione del film di Renzo Martinelli

Negli ultimi anni il cinema storico ha regalato grandi opere capaci di unire intrattenimento e rievocazione, offrendo epica e spettacolo insieme. Con Barbarossa, Renzo Martinelli tenta la stessa strada, affrontando un personaggio imponente della Storia europea e un evento simbolico per l’Italia medievale. Le ambizioni erano alte, i mezzi economici ingenti, e persino la tecnologia era dalla sua parte, con l’uso della crowd replication per ricreare grandi masse di combattenti. Tuttavia, il risultato non è all’altezza delle aspettative: un film pretenzioso e confuso, che finisce per deludere profondamente lo spettatore.

Invece di costruire un racconto coeso e avvincente, Martinelli propone una narrazione spezzata, affidata a un montaggio discontinuo che alterna momenti statici a scene risolutive trattate in modo frettoloso. La durata di 139 minuti diventa così un ostacolo, più che un’opportunità, trasformando l’epica promessa in un’esperienza lenta e poco coinvolgente.

Una regia debole e una sceneggiatura senza anima

La debolezza principale di Barbarossa risiede nella scrittura. L’intreccio appare sfilacciato, privo di consequenzialità interna, incapace di restituire il respiro epico che una storia simile avrebbe meritato. Martinelli, reduce dall’esperienza di regista di videoclip, sembra replicarne i limiti: scene che funzionano singolarmente ma che non dialogano tra loro, incapaci di costruire un ritmo narrativo coerente.

Anche le scelte visive tradiscono l’inesperienza del regista nell’uso degli strumenti digitali. L’uso del ralenti, reiterato senza giustificazione narrativa, appesantisce ulteriormente il racconto. Persino le sequenze di battaglia, cuore pulsante di ogni film storico, appaiono poco credibili: il sangue digitale della battaglia di Legnano si rivela artificioso e innaturale, un effetto che allontana invece di coinvolgere lo spettatore.

Interpretazioni altalenanti tra nomi internazionali e attori italiani

Sul piano recitativo, Barbarossa mostra un forte squilibrio. Gli attori internazionali Rutger Hauer e F. Murray Abraham conferiscono autorevolezza ai loro ruoli, dimostrando solidità e professionalità. Al contrario, il cast italiano fatica a reggere il confronto. Kasia Smutniak, impegnata in un ruolo complesso, appare ripetitiva e monocorde, mentre Raz Degan sembra caratterizzare il proprio personaggio quasi esclusivamente attraverso il progressivo disordine dei capelli, unico segnale del passare del tempo.

Questa disomogeneità mina ulteriormente la credibilità del racconto, impedendo allo spettatore di immergersi pienamente nella vicenda. Il contrasto tra interpretazioni convincenti e prove poco incisive diventa evidente e penalizza il coinvolgimento emotivo.

Comparto tecnico e colonna sonora senza respiro epico

Nemmeno il comparto tecnico riesce a risollevare l’opera. Le musiche di accompagnamento risultano anonime e prive di quella potenza evocativa necessaria a sottolineare il pathos della lotta per la libertà dei Comuni lombardi. L’uso della tecnologia digitale, pur innovativo per il cinema italiano, non viene sfruttato appieno: la crowd replication non restituisce l’impatto spettacolare che ci si sarebbe potuti aspettare, mentre le scelte estetiche finiscono per impoverire le scene più importanti.

Martinelli mostra coraggio nel tentare strade nuove, affrontando temi storici raramente trattati dal cinema italiano, lontani dai drammi intimisti o dalle commedie leggere. Tuttavia, il valore dell’idea non si accompagna a una realizzazione all’altezza. Barbarossa finisce così per essere un’occasione mancata, un passo falso che si aggiunge al non brillante Carnera.

Baaria: recensione del film di Giuseppe Tornatore

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Baaria: recensione del film di Giuseppe Tornatore

“Noi Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del regista del film. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un fiume di vite, raccontate magnificamente.

Tornatore rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare, regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.

Convince la modella siciliana Margareth Madè, che in Baarìa vede il suo esordio, più di quanto faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri), Picone, Aldo Baglio, Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.

Il regista dice in molte interviste che si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di ampio respiro.

Alcune note di demerito. Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film. Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling (dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di Tornatore sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero lasciar il posto alle immagini.

Grande attenzione ai particolari, Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione. Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento, vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.

Qualcuno ha avuto da ridire sul fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.

In definitiva, un bellissimo film, assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del miglior cinema italiano.

Un’altra nota positiva è che la mafia in Baarìa di Tornatore viene accennata ma non le si dà mai troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede. Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni, come effettivamente desiderava fare?  (Forse ancor più bello….)

Voto: / Un kolossal d’autore come Baarìa non si vedeva da anni (o forse non si è mai visto). Bellissimo.

Di Ottavio Mussari

District 9: recensione del film con Sharlto Copley

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District 9: recensione del film con Sharlto Copley

Quando uscì nel 2009, District 9 fu presentato come una ventata d’aria fresca nel genere fantascientifico. Prodotto da Peter Jackson e diretto dal sudafricano Neill Blomkamp al suo debutto cinematografico, il film univa elementi di La Cosa di Carpenter, suggestioni da Cloverfield e una sensibilità spielberghiana nell’approccio al tema dell’incontro con l’altro. Ambientato a Johannesburg, città natale del regista, District 9 prende le mosse da uno scenario distopico che affonda le radici nella storia sudafricana dell’apartheid.

Blomkamp costruisce la sua opera alternando reportage, interviste e fiction, conferendo alla pellicola un realismo documentaristico che, almeno nella prima parte, rappresenta la sua intuizione più originale. Attraverso questa scelta stilistica, il film offre un approccio più crudo e diretto al tema dell’alieno, trasformandolo da invasore in emarginato sociale, privo di diritti e confinato in un ghetto.

Trama: alieni clandestini a Johannesburg

Un’enorme nave spaziale si blocca sopra i cieli di Johannesburg. A bordo, centinaia di migliaia di creature insettiformi, deboli e malnutrite, vengono soccorse e confinate dalle autorità sudafricane in un campo profughi chiamato District 9. Lì vivono in condizioni disumane, sfruttate dai criminali locali e guardate con sospetto dalla popolazione.

Il governo affida a una corporazione privata, la MNU, il compito di sgomberare il campo e trasferire gli alieni in una nuova zona ancora più isolata. Durante l’operazione, un impiegato della MNU, Wikus van de Merwe (Sharlto Copley), entra accidentalmente in contatto con una sostanza aliena che ne provoca una lenta trasformazione. Costretto a fuggire dai suoi stessi colleghi, Wikus si allea con un alieno e il figlio, determinati a rimettere in funzione la tecnologia che permetterà loro di tornare a casa.

Lo stile documentaristico e la regia di Blomkamp

Il punto di forza di District 9 sta nel suo stile ibrido. La prima parte si sviluppa come un reportage televisivo, con interviste, filmati d’archivio e telecamere a spalla che simulano un linguaggio da documentario. Questo espediente dona al film una forte impronta di realismo e rende più credibile l’assurda convivenza tra uomini e alieni.

Con il progredire della trama, lo stile documentaristico lascia spazio a una narrazione più convenzionale, fatta di azione, inseguimenti e scontri a fuoco. Qui Blomkamp dimostra comunque abilità tecnica, orchestrando sequenze spettacolari con un budget relativamente contenuto. Gli effetti visivi, curati con grande attenzione, riescono a rendere credibili gli alieni, soprannominati “gamberoni”, senza mai stonare con l’atmosfera cruda del film.

Temi sociali: dal razzismo all’emarginazione

Al di là della componente fantascientifica, District 9 è anche una riflessione sulla società contemporanea. Il ghetto degli alieni diventa metafora dell’apartheid, del razzismo e della discriminazione verso gli immigrati e i più deboli. L’uso dei boss nigeriani come antagonisti secondari ha suscitato polemiche, ma Blomkamp ha dichiarato di essersi ispirato a dinamiche reali della Johannesburg in cui è cresciuto.

La parabola di Wikus, uomo mediocre e conformista trasformato dalle circostanze in un ibrido tra umano e alieno, è il cuore emotivo del film. La sua alleanza con il padre extraterrestre e il figlio mette in scena un percorso di redenzione che mescola umanità e tragedia, mostrando come il “diverso” diventi occasione di crescita.

District 9 tra intrattenimento e limiti di originalità

Pur con tutte le sue qualità, il film non è privo di difetti. L’andamento della seconda parte diventa più convenzionale, rifacendosi a schemi tipici della fantascienza hollywoodiana, con svolte narrative prevedibili e una certa perdita di tensione rispetto all’inizio. Chi si aspettava un nuovo paradigma del genere sci-fi potrebbe restare deluso, soprattutto se abituato alle atmosfere cupe e originali di capisaldi come Alien o Predator.

Nonostante ciò, District 9 resta un’opera di esordio notevole, capace di fondere intrattenimento e riflessione sociale. Ha aperto la strada a Blomkamp, presentandolo come uno dei registi emergenti più promettenti del cinema di fantascienza contemporaneo.

Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

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Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

Le commedie romantiche hollywoodiane raramente sorprendono per originalità, ma quando sono ben confezionate riescono comunque a conquistare il pubblico. Ricatto d’amore (The Proposal), diretto da Anne Fletcher, rientra in questa categoria: un film leggero, costruito su cliché ben riconoscibili, che riesce però a regalare sorrisi e buonumore grazie soprattutto al carisma della sua protagonista.

La pellicola utilizza un pretesto narrativo banale – la scadenza della Green Card – per innescare una storia d’amore che si sviluppa in modo prevedibile, ma sempre con ritmo e vivacità. La forza del film sta nel saper bilanciare ironia, sentimenti e interpretazioni capaci di intrattenere senza mai appesantire la visione.

Trama: un matrimonio di convenienza per restare in America

Sandra Bullock interpreta Margaret, donna in carriera temuta e odiata dai suoi sottoposti in una grande casa editrice. Rigida, severa e priva di scrupoli, Margaret scopre di rischiare l’espulsione dagli Stati Uniti a causa della scadenza del suo visto. Per evitare di perdere il lavoro e la vita che si è costruita, decide di forzare il suo assistente Andrew (Ryan Reynolds) a sposarla, inscenando un matrimonio di convenienza.

Da questo punto prende avvio una commedia degli equivoci: la convivenza forzata, i rapporti con la famiglia di Andrew, le tensioni e i momenti comici che inevitabilmente avvicinano due persone profondamente diverse. Il finale è prevedibile, ma il percorso che conduce i personaggi all’inevitabile epilogo è condito da gag divertenti e situazioni brillanti.

Ricatto d'amore location

Sandra Bullock regina della commedia romantica

Il vero motore del film è Sandra Bullock, che si conferma attrice capace di unire eleganza, ironia e tempismo comico. Nei panni della “strega” inflessibile, riesce a costruire un personaggio inizialmente respingente ma progressivamente più umano e vulnerabile. Il contrasto tra il suo aplomb austero e la progressiva apertura sentimentale è ciò che regge gran parte della storia.

Ryan Reynolds, al contrario, appare più in ombra. Il suo Andrew resta spesso monoespressivo, nonostante il ruolo gli offra diverse possibilità di giocare con la commedia fisica e con il romanticismo. La dinamica tra i due attori funziona a tratti, ma è soprattutto la Bullock a mantenere viva la scena e a trascinare lo spettatore fino alla fine.

Una commedia prevedibile ma capace di divertire

Ricatto d'amore cast

Ricatto d’amore non punta sull’originalità: gli archetipi sono quelli della commedia romantica classica, con personaggi stereotipati e un epilogo scontato. Tuttavia, la regia di Anne Fletcher e la scrittura leggera permettono alla storia di scorrere senza intoppi. Le situazioni, pur prevedibili, sono gestite con un buon ritmo narrativo, alternando gag spiritose a momenti di tenerezza.

Il film si inserisce perfettamente nel solco delle rom-com americane degli anni Duemila, senza ambizioni di innovazione ma con la capacità di intrattenere e lasciare il pubblico con il sorriso. È una commedia che non chiede troppo, non pretende profondità, ma restituisce esattamente quello che promette: un paio d’ore di evasione piacevole.

G.I. Joe – La nascita dei Cobra: la recensione del film di Stephen Sommers

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Dopo il successo commerciale di Transformers, la Hasbro decide di riportare sul grande schermo un altro dei suoi brand più longevi: i leggendari G.I. Joe. A occuparsi della trasposizione è Stephen Sommers, regista già noto per La Mummia e Van Helsing, autore abituato a gestire progetti ricchi di effetti visivi e azione. Le aspettative erano quelle di replicare la formula del kolossal di Michael Bay, costruendo un nuovo franchise capace di attirare il pubblico più giovane e allo stesso tempo strizzare l’occhio agli appassionati di lunga data.

Il risultato, tuttavia, è meno incisivo del previsto. G.I. Joe – La nascita dei Cobra è un film che non nasconde la sua natura di puro prodotto commerciale: intrattiene, diverte a tratti e offre alcune sequenze spettacolari, ma fatica a distinguersi in un panorama cinematografico già saturo di cinecomics e blockbuster. Ciò che emerge è un’opera derivativa, che prende in prestito stilemi e soluzioni visive da altre saghe di successo senza riuscire a imporsi con una propria identità forte.

Trama di G.I. Joe – La nascita dei Cobra: la squadra speciale contro la minaccia dei Cobra

La storia di G.I. Joe – La nascita dei Cobra segue le vicende dei Joe, una squadra militare segreta d’élite chiamata a difendere il mondo da nuove e sofisticate minacce. La loro missione è affrontare i Cobra, organizzazione criminale dotata di armi tecnologiche avanzatissime e pronta a colpire i principali centri di potere mondiale.

Il film alterna momenti di addestramento, conflitti interpersonali e missioni sul campo. La sequenza dell’attacco a Parigi, con i Joe impegnati a fermare un ordigno devastante, è uno dei passaggi meglio orchestrati, capace di coniugare tensione, spettacolo e un buon uso degli effetti speciali. Nonostante questo, la trama nel suo insieme appare lineare, prevedibile e priva di quella complessità che avrebbe reso la vicenda più appassionante.

Maria, i Cobra e le dinamiche interne alla squadra si muovono secondo logiche già viste in decenni di cinema action: la lotta tra bene e male, il tradimento, la vendetta, l’eroismo e i sacrifici. Elementi che funzionano, ma che in questo caso non trovano un equilibrio tale da rendere la narrazione memorabile.

I personaggi tra volti emergenti e icone del passato

Uno dei punti di forza di G.I. Joe – La nascita dei Cobra sta nel cast eterogeneo, formato da giovani attori emergenti e da presenze consolidate. Rachel Nichols spicca nei panni della rossa Scarlett, convincente come figura femminile capace di alternare carisma e fascino. Ray Park interpreta Snake Eyes, guerriero silenzioso e tormentato che con la sua fisicità e il suo costume iconico riesce a conquistare la scena. È forse il personaggio più riuscito del film, perché porta con sé una malinconia che ricorda eroi più complessi come quelli degli X-Men.

Accanto a loro compaiono cameo e ruoli secondari che richiamano la carriera di Sommers: Brendan Fraser e Arnold Vosloo, volti familiari della saga de La Mummia, aggiungono un tocco di continuità stilistica al film. Tuttavia, la loro presenza resta più un richiamo nostalgico che un reale contributo alla narrazione.

I villain, fulcro di ogni buon film action, risultano invece meno incisivi. La minaccia dei Cobra appare stereotipata e priva di quel carisma necessario a rendere memorabile un antagonista. Ciò contribuisce a rendere la sfida tra Joe e Cobra più una successione di scontri spettacolari che un vero confronto ideologico.

Effetti speciali e sequenze spettacolari: tra spettacolo e déjà vu

Dal punto di vista tecnico, G.I. Joe – La nascita dei Cobra non delude. Sommers sfrutta la tecnologia digitale per costruire un mondo di armi futuristiche, veicoli da battaglia e scenari ad alto tasso di distruzione. Le scene d’azione sono ben ritmate, con un montaggio serrato e un uso massiccio di effetti visivi che, almeno sul piano estetico, regalano allo spettatore momenti di pura adrenalina.

Tuttavia, l’impressione costante è quella del déjà vu. Le inquadrature, i combattimenti e persino il design di alcune sequenze ricordano fin troppo da vicino Transformers, rendendo il film derivativo e poco originale. La spettacolarità visiva riesce a intrattenere, ma non a sorprendere. In questo senso, Sommers sembra inseguire un modello già collaudato senza introdurre elementi di reale novità.

Un film di puro intrattenimento ma poco memorabile

In definitiva, G.I. Joe – La nascita dei Cobra si presenta come un film d’azione onesto, capace di offrire due ore di intrattenimento leggero a chi non cerca altro che esplosioni, combattimenti e dinamiche di squadra. Ma al di là della patina spettacolare, poco rimane nello spettatore: i personaggi non si imprimono davvero, la trama è già sentita e la regia non osa mai spingersi oltre i confini del già visto.

È un titolo che può divertire gli appassionati dei giocattoli Hasbro e i fan del cinema action più spensierato, ma che difficilmente riuscirà a rimanere nell’immaginario collettivo. Un tentativo di lanciare un franchise che, rispetto ad altre saghe contemporanee, non ha trovato la stessa fortuna.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del sesto capitolo

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I Mangiamorte attaccano Londra, piombano dal cielo in forma di scie di fumo nero mortifero, attaccando maghi e babbani indiscriminatamente. In disparte, in un piccolo bar della metropolitana londinese, Harry Potter legge la Gazzetta del Profeta e flirta con una bella cameriera, poi alla finestra appare Albus Silente…e Harry viene catapultato verso il suo sesto anno a Hogwarts, e noi con lui. Carico di attese, il sesto episodio di Harry Potter, Harry Potter e il Principe Mezzosangue, mantiene le promesse: più cupo e più divertente degli altri. Evidente il ritorno al timore della sceneggiatura di Steve Kloves che nonostante la complessità del sesto libro, fa un ottimo lavoro di riduzione, mantenendo il senso del film e aggiungendo qua e là qualche efficace modifica al corso degli eventi.

In Harry ha 16 anni, deve affrontare un nuovo anno durante il quale sarà capitano della squadra di Quidditch, dovrà tener testa alla sua nuova popolarità con le ragazze, farà i conti con un nuovo, profondo sentimento che sta crescendo nei confronti della bella Ginny, sorella di Ron, avrà una vera e propria ossessione per il suo nemico Draco Malfoy, si imbatterà in un libro di pozioni, che è appartenuto al ‘Principe Mezzosangue’, ma soprattutto seguirà lezioni private con Silente, che con lui si addentrerà nei ricordi del Signore Oscuro Voldemort, quando era ancora un ragazzino.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue, il film

Ma trasformati sono anche gli inseparabili amici di Harry, il rosso Ron, alle prese con la sua prima ragazza, un’ossessiva biondina tutta bacini e sorrisini frivoli, e Hermione, che si barcamena tra un insistente corteggiatore poco raffinato e la sua inaspettata, incontrollata, gelosia per Ron. Tanto mistero intorno a questa storia: chi è il Principe Mezzosangue? Cosa nasconde il nuovo professore di Pozioni sotto l’apparente cordialità? Cosa è successo alla mano destra di Silente, annerita e morta? Che cosa affligge Draco Malfoy? Interrogativi che troveranno una risposta nel corso del lunghissimo film, ben 150 minuti.

Alan Rickman, Maggie Smith, Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson in Harry Potter e il principe mezzosangue
Alan Rickman, Maggie Smith, Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson in Harry Potter e il principe mezzosangue. © 2009 – Warner Bros. All rights reserved.

I toni del racconto in Harry Potter e il Principe Mezzosangue  si dipanano in buon equilibrio tra il serio e il faceto, lasciando molto spazio ai menage tra i ragazzi con gli ormoni in tumulto. Un fotografia affascinante ed efficace, mutevole come i toni del film, accompagna i protagonisti per le aule e i corridoi del castello rendendo l’atmosfera lieve e greve, festosa e macabra. Alla regia, di nuovo David Yates che se aveva fatto storcere il naso per L’Ordine della Fenice, adesso ha preso confidenza con i ritmi potteriani e si dimostra più capace di portare avanti la storia, ma il merito va soprattutto a Kloves, che come detto, ha ottimizzato i contenuti aggiungendo qualcosa. Ottimo lavoro sui personaggi, più articolati, finalmente cresciuti anche a livello professionale. Peccato per il finale che si sgonfia su se stesso e lascia passare sotto silenzio una grandiosa scena finale di battaglia ad Hogwarts.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue è un film più adulto, che mette da parte gli incantesimi e si pone come pre-finale per l’ultimo atto atteso per il 2012. Menzione speciale a tutto il cast, ancora una volta la fucina inglese si mostra la migliore, per quanto riguarda si attori: oltre agli ovviamente bravi Michael Gambon e Alan Rickman, bene anche la new entry Jim Broadbent nei panni del Prof. Horace Lumacorno, ma soprattutto Helena Bonham Carter, mai così adatta e apparentemente a suo agio in un ruolo, la sua Bellatrix è superlativa.

 

Transformers – La vendetta del caduto: recensione del film con Megan Fox

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I presupposti ci sono tutti: i personaggi vincenti, i robot che già conosciamo e quelli nuovi, le relazioni e le situazioni nuove da esplorare, un intreccio che per quanto fantascientifico regge bene in Transformers – La vendetta del caduto. Tuttavia Michael Bay vuole strafare mettendo troppo di tutto e finendo con un risultato appunto affollato e un po’ confusionario, soprattutto alla fine.

La trama di Transformers – La vendetta del caduto

Sono passati due anni dall’epocale scontro tra Decepticon e Autobot, il governo degli Stati Uniti ha smantellato il settore 7 e ha istituito una unità speciale, il NEST, per combattere i focolai di Decepticon che faticano ad ammettere la sconfitta del loro leader Megatron, intanto Sam parte per il college, lasciandosi alle spalle dei genitori devastati dall’inevitabile crescita del loro unico figlio, e una fidanzata splendida e innamoratissima, ma inverosimilmente gelosa … Tutto sembra procedere bene a parte un nuovo ed invadente compagno di stanza, ma i guai cominciano quando Sam comincia a vedere strani simboli in cybertroniano e gli attacchi dei Decepticon si moltiplicano

Gli sceneggiatori, i pur bravi Roberto Orci e Alex Kurtzman insieme a Ehren Kruger, non hanno approfittato del fatto che il grosso lavoro di introdurre luoghi e personaggi era già stato fatto nel primo film e che quindi sarebbe stato più semplice per loro portare avanti un plot definito insieme ai tanti piccoli corollari che avrebbero seguito i diversi temi: la guerra vera e propria, i genitori di Sam, il rapporto tra Sam (Shia LaBeouf) e Michaela (Megan Fox) e così via. Il risultato dunque non è dei più esaltanti, soprattutto nella parte iniziale, dove una forzata ricerca della risata spinge i personaggi e soprattutto la madre di Sam, un’eccessiva July White, a scendere nell’imbarazzo generalizzato. Pesanti alcuni dialoghi, a volte prolissi altre volte superflui, a tratti anche un po’ volga rotti, anche per bocca dei robot, così compassati e dignitosi nel primo film.

Transformers – La vendetta del caduto, in scena John Turturro

John Turturro Shia LaBeouf Transformers - La vendetta del caduto
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

La seconda parte Transformers – La vendetta del caduto si risolleva con l’entrata in scena di John Turturro, eccezionale nei panni dell’agente Simmons, relegato dal governo a vendere carne dopo lo smantellamento del Settore 7, la sua verve resta intatta nonostante cambi il registro tra una pellicola e l’altra. I moltissimi robot mantengono invece le promesse, sicuramente più umanizzati che antropomorfi, tengono la scena e perfezionano le trasformazioni, la mdp entra nelle loro viscere metalliche e rende lo spettatore partecipe del mutamento, merito soprattutto degli effettoni di cui il film fa uso e abuso e che sono sicuramente perfezionati e migliorati che in Transformers.

Si perdoni il continuo riferimento al primo film, ma è inevitabile, soprattutto quando si va a valutare l’evoluzione dei personaggi: un Sam più maturo e sicuro di sé si affaccia alla vita di college e cerca di mantenere invariati i rapporti con la splendida fidanzata, che dal canto suo non fa propriamente una bella figura, o meglio, è sicuramente un bel vedere, ma decisamente parla troppo e se le avessero fatto dir meno sarebbe stato sicuramente meglio per tutti.

Megan Fox in Transformers - La vendetta del caduto (2009)
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

Ancora, i genitori più presenti hanno il loro, seppur breve (meno dei 15 minuti di Warhol), momento di gloria in una piccola ma intensa scena che coinvolge e quasi emoziona alla maniera di Bay. Ma i personaggi più interessanti sono sicuramente i robot: si delinea meglio il rapporto di Sam con il guardiano Bumblebee, amico fedele e a suo modo affettuoso, i Gemelli, decisamente troppo umani; capiamo meglio la natura di Megatron, che lungi dall’essere un villain a tutto tondo sfiora la codardia, forse offuscato dal ben più cattivo Fallen e dagli altri numerosi e terribili, Decepticon, soprattutto il mostruoso Devastator. Ma ancora una volta, su tutti si erge Optimus Prime: oltre a scoprire qualcosa in più delle sue origini, lo vediamo in azione potente e crudele contro il male nella sua incommensurabile umanità, accompagnato ancora dalla poderosa e bellissima colonna sonora di Steve Jablonsky che costella tutto il film di tracce favolose.

In definitiva Transformers – La vendetta del caduto è un bel film fracassone, che a tratti stordisce lo spettatore e che sicuramente perde il confronto con il primo Transformers, e che, come differenza principale, lascia presagire un sicuro sequel per completare la trilogia.

Moonacre – I segreti dell’ultima luna: recensione del fantasy

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Moonacre – I segreti dell’ultima luna: recensione del fantasy

Dopo il successo di Un ponte per Terabithia, il regista ungherese Gabor Csupo torna al cinema con un’altra storia rivolta a un pubblico giovane, adattando il romanzo di Elizabeth Goudge. Con Moonacre – I segreti dell’ultima luna tenta di fondere fiaba, avventura e atmosfere fantasy, ma il risultato non riesce a mantenere la stessa intensità della sua precedente opera.

Il film si muove tra suggestioni letterarie e rimandi ad altri grandi classici del genere, cercando di costruire un mondo incantato popolato da creature mitiche e leggende millenarie. Tuttavia, la messa in scena appare più convenzionale che magica, incapace di regalare quella meraviglia visiva ed emotiva che dovrebbe contraddistinguere una fiaba fantasy.

Trama: la giovane Maria e la maledizione della valle

La tredicenne Maria, rimasta orfana, si trova costretta a trasferirsi in campagna nella villa dello zio burbero e solitario. L’unica eredità lasciata dal padre è un grande libro che racconta la storia della misteriosa valle di Moonacre, su cui grava un’antica maledizione.

Nel tentativo di sciogliere l’incantesimo, Maria intraprende un viaggio iniziatico che la porta a confrontarsi con incontri affascinanti e minacciosi, scoprendo poco alla volta il suo ruolo centrale nella leggenda. Nonostante le premesse avventurose, la narrazione si rivela prevedibile e appesantita da cliché già visti in opere come Il giardino segreto o La bella e la bestia.

Personaggi deboli e interpretazioni poco convincenti

La storia soffre per la mancanza di personaggi complessi: Maria, interpretata da Dakota Blue Richards, fatica a emergere, penalizzata da un doppiaggio italiano piatto che annulla molte sfumature. Natascha McElhone, pur affascinante, non riesce a rendere il suo ruolo credibile, mentre Tim Curry, relegato a cattivo di maniera, resta inquietante ma fine a se stesso.

Costumi e scenografia: il vero punto di forza

Tra gli aspetti più riusciti spiccano i costumi di Beatrix Aruna Pasztor, che mescolano elementi antichi e moderni con un’eleganza particolare, soprattutto negli abiti femminili. Anche gli effetti visivi offrono momenti suggestivi – dai leoni neri agli unicorni, fino alle mandrie di cavalli che emergono dal mare – ma non bastano a stupire un pubblico ormai abituato a ben altri standard di meraviglia digitale.

Una regia priva di ritmo e di autentico incanto

Csupo sceglie un racconto lineare e classico, ma la mancanza di ritmo e di tensione narrativa rende la visione poco coinvolgente. Moonacre – I segreti dell’ultima luna resta così un fantasy dalle buone intenzioni ma dalla realizzazione debole, che non riesce a distinguersi e finisce per apparire come una fiaba incompleta.

Una Notte da Leoni: recensione del film di Todd Phillips

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Una Notte da Leoni: recensione del film di Todd Phillips

Bradley Cooper, astro nascente della commedia made in USA, l’ha definito “Memento che incontra Salvate il soldato Ryan!”. Paradossalmente, The Hangover (Il doposbornia), distribuito in Italia come Una Notte da Leoni, riesce davvero a rispettare quella formula: una pellicola irriverente e scatenata che unisce il ritmo demenziale tipico della commedia americana a una struttura narrativa ben costruita, degna di un thriller a incastri.

Quattro amici partono per un weekend a Las Vegas per celebrare l’addio al celibato di uno di loro. Dopo un brindisi in suite, lo spettatore si ritrova catapultato direttamente nel mattino dopo: camere devastate, galline che girano indisturbate, una tigre (di proprietà di Mike Tyson) e persino un neonato ribattezzato Carlos. L’unico problema è che lo sposo è sparito e nessuno dei presenti ricorda cosa sia accaduto la notte precedente. Ha così inizio un viaggio rocambolesco tra indizi, rivelazioni e colpi di scena, in cui la ricerca dell’amico diventa il motore di una serie infinita di gag.

Una commedia demenziale costruita con intelligenza

Una notte da leoni cast

Todd Phillips, già regista di Starsky & Hutch, dimostra come il genere più bistrattato – la commedia demenziale – possa rivelarsi fresco e intelligente quando supportato da una sceneggiatura solida. Una Notte da Leoni accompagna lo spettatore per mano, costruendo situazioni assurde e spiazzanti ma senza mai perdere il filo narrativo. La comicità nasce non solo dalle gag, ma anche dal carattere dei personaggi, capaci di suscitare allo stesso tempo empatia e divertita incredulità.

Pur utilizzando alcuni cliché tipici della commedia americana, il film li innesta con ritmo e precisione all’interno della storia, mantenendo sempre alta l’attenzione. È proprio questa miscela a rendere il film più di una sequenza di trovate: una vera e propria avventura comica in cui lo spettatore ride, si sorprende e resta curioso di scoprire la ricostruzione della notte perduta.

Un cast perfetto tra amicizia, eccessi e gag memorabili

Una Notte da Leoni

La forza di Una Notte da Leoni risiede anche nel suo cast corale. Bradley Cooper guida il gruppo con carisma, affiancato da Ed Helms e soprattutto da Zach Galifianakis, che con le sue stramberie e ingenuità conquista la scena in ogni momento. L’alchimia tra i tre protagonisti funziona a meraviglia e dà vita a un continuo botta e risposta comico.

La loro dinamica è quella di amici improbabili ma complementari, in cui ognuno incarna un archetipo preciso: il leader, l’insicuro e l’imprevedibile. Il contrasto tra le personalità amplifica l’effetto comico e regala al pubblico un ritmo incalzante, con battute e gag che si trasformano subito in cult.

Il finale e la trovata della macchina fotografica

Dopo una serie di avventure paradossali, i protagonisti riescono a ritrovare lo sposo e a riportarlo in tempo per le nozze. Ma il vero colpo di genio arriva nel finale: quando ormai tutto sembra risolto, sotto il sedile dell’auto viene ritrovata la fotocamera con le immagini di quella notte folle. Un espediente semplice ma geniale, che regala allo spettatore l’illusione di intravedere finalmente cosa sia successo, lasciando intatta la magia del mistero e la voglia di rivedere il film.

I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

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I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

Non si tratta di un film celebrativo del network romano più conosciuto negli ambienti underground della capitale, ma della radio più trasgressiva nell’Inghilterra degli anni Sessanta, in cui il rock’n’roll spopolava per le strade ma non sulle emittenti ufficiali, che potevano trasmetterlo solo per due ore alla settimana. Nacquero così le radio pirata, installate su grandi navi ormeggiate nel Mare del Nord, dove i deejay divennero vere e proprie icone, più popolari delle stesse rockstar.

Sceneggiato e diretto da Richard Curtis, I Love Radio Rock è una commedia brillante, sostenuta da un ritmo travolgente fatto di battute fulminanti e situazioni spassose, capace di delineare con essenzialità ogni personaggio che abita la nave della radio pirata. La musica diventa carburante narrativo: muove gli amori fugaci consumati in fretta, le amicizie nate tra un disco e l’altro, le rivalità interne, fino agli stratagemmi con cui il potere cerca di soffocare la concorrenza dirompente e “amorale” del rock.

Il conflitto tra potere istituzionale e libertà musicale

Il potere è rappresentato da un memorabile Kenneth Branagh, che restituisce un funzionario rigido e caricaturale, macchietta di se stesso e simbolo di un’Inghilterra puritana e conservatrice. L’attore lo trasforma in un personaggio grottesco, portavoce di una politica incapace di accettare il cambiamento, con scene che restano impresse – come la cena di Natale, momento emblematico della sua comicità involontaria.

Sul fronte opposto c’è la comunità di deejay che incarna lo spirito libertario del rock: uomini e donne che vivono 24 ore al giorno per la musica e con la musica, in un microcosmo in cui trasgressione e leggerezza diventano stile di vita. Le visite a bordo delle giovani fan alimentano un’atmosfera di festa continua, mentre la nave stessa diventa un luogo di formazione per il giovane Carl (Tom Sturridge), simbolo di un’adolescenza che trova nel rock un percorso di emancipazione e scoperta.

Un cast corale tra ironia, carisma e leggenda rock

Il film può contare su un ensemble d’eccezione. Bill Nighy interpreta il proprietario della radio, un dandy elegante e votato alla liberalizzazione dei costumi, mentre Philip Seymour Hoffman è il “Conte”, colosso carismatico che incarna l’anima autentica del rock, un personaggio capace di trasmettere passione e vitalità in ogni scena. Rhys Ifans regala invece a Gavin una voce e una presenza magnetiche, esaltando il lato sensuale e ribelle della musica inglese. Ogni interprete contribuisce a creare un affresco collettivo vivace e indimenticabile, che alterna comicità e malinconia con straordinaria leggerezza.

Costumi, scenografia e nostalgia di un’epoca perduta

Il lavoro sui costumi merita un plauso particolare: un tripudio di colori, fantasie optical e accessori eccentrici avvolge i protagonisti, restituendo perfettamente lo spirito della Swinging London. Non si tratta soltanto di estetica, ma di un elemento che immerge completamente lo spettatore negli anni Sessanta, rendendo ogni dettaglio parte integrante della narrazione. Questa cura visiva contribuisce a rafforzare il tono nostalgico del film, che pur nella sua leggerezza lascia dietro di sé la consapevolezza di un’epoca ormai svanita ma sempre capace di riaccendere la memoria collettiva.

Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

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Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

L’attesissimo sequel della saga Terminator, diretto da McG, prometteva adrenalina, spettacolo e un approccio più moderno rispetto all’originale capolavoro di James Cameron. Terminator Salvation arriva nelle sale come uno dei film più attesi della stagione, con Christian Bale nel ruolo iconico di John Connor, leader della resistenza umana contro le macchine.

Eppure, tra aspettative altissime e promesse di rinnovamento, il risultato lascia un retrogusto amaro: un blockbuster visivamente potente, ma narrativamente fragile.

Christian Bale in un John Connor urlato e poco sfumato

Terminator Salvation 2009

Il cuore del problema non è tanto Bale, che come sempre si impegna con serietà e dedizione, quanto la scrittura del suo personaggio. John Connor avrebbe meritato una caratterizzazione più complessa, mentre qui appare come un soldato urlatore e spara-tutto, insulso ed egoista, ridotto a un cliché dell’action più muscolare.

La sua interpretazione, pur corretta, non riesce a emergere: già ne Il Cavaliere Oscuro era stato offuscato dal talento di Heath Ledger, e anche qui il rischio è di essere oscurato da altri comprimari.

La regia di McG tra spettacolo visivo e limiti narrativi

McG apre il film con una sequenza spettacolare: il piano sequenza dell’elicottero che precipita, con Bale all’interno, è un inizio che promette grande cinema. Ma presto la regia si appiattisce su un ritmo ripetitivo, fatto di sparatorie contro macchine sempre più cattive e indistruttibili.

Quella che poteva essere una storia affascinante sull’identità, la sopravvivenza e il destino dell’umanità, si riduce a un susseguirsi di scene d’azione senza vera profondità. L’universo “macchinista” finisce per soffocare le emozioni, rendendo la narrazione prevedibile.

Sam Worthington, la sorpresa che ruba la scena

Terminator Salvation cast

Se Bale fatica a brillare, a guadagnarsi la scena è invece Sam Worthington, nel ruolo di Marcus Wright, un ibrido umano-macchina. Il suo personaggio, ben costruito e carico di ambiguità, riesce a catturare l’attenzione più del protagonista stesso, aggiungendo una sfumatura drammatica che purtroppo non viene sviluppata fino in fondo.

Worthington riesce a incarnare il conflitto tra natura umana e componente artificiale, regalando al film i suoi momenti migliori.

La sceneggiatura travagliata e l’intervento di Jonathan Nolan

Non è un mistero che la sceneggiatura abbia avuto una gestazione complicata. Tanto da richiedere l’intervento di Jonathan Nolan, fratello di Christopher, chiamato a riscrivere la parte finale per tentare di risollevare le sorti del film.

Il risultato è un epilogo parzialmente riuscito, che introduce un certo pathos e si salva dalla mediocrità generale, ma non basta a cancellare la sensazione di un potenziale sprecato.

Effetti visivi spettacolari e il cameo digitale di Schwarzenegger

Terminator Salvation film

Dal punto di vista tecnico, Terminator Salvation si difende bene. Gli effetti visivi sono di alto livello e restituiscono un mondo post-apocalittico credibile e cupo. Il cameo digitale di Arnold Schwarzenegger, ricreato nei panni iconici del T-800, è un momento che strappa l’applauso nostalgico, pur evidenziando quanto il film cerchi di aggrapparsi alla memoria del passato.

Tuttavia, come accade spesso, la fotografia e l’impatto visivo non bastano da soli a salvare un film che manca di anima e profondità.

Un blockbuster che intrattiene ma non lascia il segno

Terminator Salvation non è un totale fallimento, ma neppure un capitolo memorabile della saga. È un film che diverte per la sua azione spettacolare e le sue atmosfere post-apocalittiche, ma che delude chi cercava la complessità e la forza emotiva dell’originale.

Il risultato complessivo è appena sufficiente: un film che si guarda, che intrattiene, ma che si dimentica in fretta.

Martyrs: recensione dell’horror estremo che divide pubblico e critica

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Una bambina spaventata e ferita corre urlando lungo una strada di periferia. Accolta in un centro per l’infanzia, continua a vivere tormentata da visioni angoscianti e incubi ricorrenti. Anni dopo, la sua sete di vendetta la conduce, insieme a un’amica, a massacrare una famiglia apparentemente tranquilla.

È questo l’inizio di Martyrs, film diretto da Pascal Laugier che si inserisce nel filone horror-splatter estremo degli anni Duemila, un’opera che cerca di unire violenza viscerale e suggestioni mistiche, ma che finisce per dividere pubblico e critica.

Martyrs tra horror estremo e ricerca di significato

L’intento del regista sembra essere quello di andare oltre il puro splatter, provando ad aggiungere una dimensione filosofica e metafisica al racconto. Il film infatti introduce una riflessione, mai del tutto sviluppata, sul dolore, sulla sofferenza e sul confine tra vita e aldilà.

Tuttavia, questa ambizione rimane in superficie: Martyrs non riesce davvero a trasformare la brutalità in discorso metafisico e, per buona parte della visione, resta ancorato ai cliché dell’horror estremo. La violenza è rappresentata con ossessiva crudezza, ma raramente assume un senso più profondo.

Un’esperienza estrema che allontana gli spettatori

La pellicola punta a colpire con la sua brutalità visiva, ma proprio questa scelta si rivela il suo limite più evidente. In molte proiezioni, il pubblico ha abbandonato la sala già a metà film, segno che l’eccesso di sangue e torture non è stato accompagnato da una scrittura capace di sostenere l’impatto emotivo.

Rispetto ad altri esponenti del genere – come i primi due Saw o The RingMartyrs manca di tensione narrativa e di un’atmosfera coerente che giustifichi la violenza messa in scena. Il risultato è un’esperienza disturbante, ma più respingente che realmente coinvolgente.

La presentazione al Festival di Roma e la ricezione critica

Curiosamente, l’aspetto più interessante di Martyrs non riguarda tanto il film in sé, quanto il contesto in cui è stato presentato. Inserito nella sezione Extra del Festival Internazionale del Film di Roma, curata da Mario Sesti, ha rappresentato un raro caso di horror estremo portato in un grande festival.

Un riconoscimento di genere che, però, non è bastato a salvarlo dalle critiche: gran parte della stampa e degli esperti lo ha considerato un titolo deludente, incapace di reggere il confronto con i migliori esempi di horror contemporaneo.

Un horror divisivo che non mantiene le promesse

Alla fine, Martyrs rimane un film che tenta di nobilitare il genere horror-splatter con ambizioni filosofiche e mistiche, senza però trovare una sintesi efficace. Per alcuni spettatori rappresenta un’esperienza disturbante e radicale, per altri solo un’opera fine a sé stessa che non lascia traccia se non per la sua eccessiva violenza.

Il giudizio complessivo è quindi negativo: un film che, pur avendo avuto il merito di portare l’horror estremo in un contesto festivaliero, non riesce a elevarsi oltre il suo esercizio di brutalità.

The Strangers: recensione dell’horror che trasforma la violenza gratuita in incubo domestico

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Film d’esordio di Bryan Bertino, The Strangers è un’opera che già alla sua prima regia dimostra una solida conoscenza dei meccanismi di tensione del cinema horror. Ispirato liberamente a una vicenda personale del regista e ai massacri della Manson Family, il film si inserisce nella tradizione delle home invasion, aggiornandola con un approccio più crudele e realistico.

La violenza come dato statistico e realtà quotidiana

Il film si apre con un’inquietante nota che riporta le statistiche dei casi di aggressione domestica che ogni anno avvengono negli Stati Uniti. Un espediente che permette al regista di dare subito una cornice realistica alla vicenda, sottraendola alla dimensione del puro intrattenimento.

Bertino sceglie di non raccontare nel dettaglio la storia personale della coppia protagonista, limitandosi ad accennare a una crisi sentimentale. La vera attenzione è rivolta agli atti di violenza che essi subiscono, facendo emergere l’idea di una brutalità casuale, irrazionale, che può colpire chiunque.

Una tensione calibrata tra attesa e improvvise esplosioni di terrore

Uno dei punti di forza del film è la capacità di Bertino di costruire la tensione alternando momenti di calma apparente a improvvise irruzioni di violenza. La regia mantiene un ritmo costante, evitando il rischio del melodramma, e concentra l’attenzione sul senso di angoscia crescente.

Quando Kristen (Liv Tyler) chiede agli aggressori perché lo stiano facendo, la risposta – «Perché eravate in casa» – è emblematica. Una dichiarazione che annulla qualsiasi tentativo di psicologismo e riduce la violenza alla sua forma più pura e inspiegabile.

Gli aggressori senza volto come incarnazione del male assoluto

Uno degli elementi più disturbanti di The Strangers è la scelta di non mostrare mai chiaramente i volti degli aggressori. Mascherati, indefiniti, spesso inquadrati come presenze spettrali che emergono dal nulla, diventano simboli del male irrazionale e incontrollabile.

La violenza non ha volto, sembra dirci Bertino, e può materializzarsi ovunque, in qualsiasi momento. Proprio questa scelta registica accresce la sensazione di impotenza che avvolge lo spettatore.

Un finale spiazzante che ribalta le regole dell’horror

Il film si chiude con una soluzione inusuale: l’esecuzione dei protagonisti non avviene nel buio della notte, ma alla luce del giorno. L’aggressore apre la tenda e lascia entrare il sole nella stanza prima di compiere l’atto finale.

Un gesto simbolico che trasforma l’orrore in qualcosa di inevitabile e quotidiano, privando lo spettatore della rassicurazione che la luce del giorno possa proteggere dal male. The Strangers si distingue così da molti altri horror simili, imponendosi come un racconto disturbante e senza catarsi.

Di Bino Mariani

Una notte al museo 2 – La fuga: recensione del film con Ben Stiller

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Ben Stiller torna a vestire i panni dell’ex guardiano notturno Larry Dailey, ma questa volta in una veste tutta nuova. Una notte al museo 2 – La fuga ripropone le stesse tematiche del primo episodio, ma necessariamente sotto una diversa ottica, essendosi ormai esaurito l’effetto “novità” dell’idea originale. Dailey ha fatto fortuna vendendo le sue improbabili invenzioni, ma continua saltuariamente a frequentare il museo. La direzione, però, decide di sostituire molte attrazioni con degli ologrammi, condannando così Jedediah e amici all’immobilità eterna negli archivi dello Smithsonian di Washington. Inizia così per Dailey una nuova missione per salvare i suoi compagni di tante notti.

La trama di Una notte al museo 2 – La fuga, ideata dagli stessi sceneggiatori del primo episodio Ben Garant e Thomas Lennon, si è dovuta pesantemente confrontare con l’eredità del predecessore e, soprattutto, con il fatto che l’aria fresca dell’idea originale era ormai finita. La soluzione è stata quella di “pensionare” alcuni dei personaggi principali, come il Roosevelt di Robin Williams, ridotto ad una comparsa, e di aggiungerne di nuovi, che potessero avere qualcosa da dire. Braccio destro di Stiller diventa Amelia Earhart (Amy Adams), famosissima pilota americana, dipinta come un’inarrestabile scavezzacollo determinata ad affermare il suo ruolo di pioniere femminile dell’aria persino in faccia ai fratelli Wright.

Una notte al museo 2 – La fuga, il film

Antagonista è il malvagio faraone Kah Mun Rah, fratello di Akmen Rah, ironicamente interpretato da Hank Azaria (già visto in Friends) con un difetto di pronuncia che gli fa perdere gran parte della sua carica di “cattivo”. La cosa, ovviamente, si sposa bene con l’intero film, che gioca sull’ironia e, più che nel primo episodio, con le icone della cultura americana, contrapposte ad altre non a caso straniere (un pizzico di nazionalismo filo-americano non è mai mancato in questo genere di film e, in fondo, è accettabile quando ci si può ridere sopra).

Da una parte abbiamo il mai domo Jedediah, un goffissimo generale Custer e il romanesco Ottaviano, costretti ad affrontare un Al Capone in bianco e nero, un Ivan “non così Terribile” e uno spassoso Napoleone, il quale se ne esce con alcune battute di stampo politico che faranno ridere soprattutto noi italiani. La storia scorre liscia senza particolari problemi o patemi d’animo e, infatti, non vi è mistero o impresa che occupi più di una ventina di minuti per essere risolta. Scelta forse poco drammatica, ma che contribuisce comunque a rendere il film leggero e piacevole da vedere. Vi sono alcuni grossi buchi, però, che non vengono spiegati. Se nel primo film, infatti, la baraonda creata dai reperti animati non viene notata dalle guardie in quanto esse stesse al corrente della magia, non è chiaro come in questo secondo episodio nessuno sembri accorgersi di nulla, nonostante disastri e danni che, nella realtà, avrebbero fatto scattare tutti gli allarmi della città. In definitiva i due autori e il regista Shawn Levy hanno deciso di giocare e divertirsi con tutti gli oggetti che hanno potuto trovare all’interno di un luogo come lo Smithsonian, non a caso uno dei musei più grandi del mondo.

Ne esce fuori una commedia divertente e che strapperà più di una risata, pur sforando a volte nell’esagerazione e in alcune situazioni tipiche da “vorrei girare questa scena, ma è chiaro che non posso in un film simile”. Ben Stiller interpreta il personaggio di Larry con la solita carica comica, ponendo però l’accento su come sia cambiato caratterialmente e come sia più deciso e sicuro di sé questo nuovo Dailey. Alla fine diventa un personaggio interessante, ma forse più ostico per il pubblico che volesse identificarsi in lui. I riflettori, infatti, finiscono per essere quasi tutti per Amelia Earhart, che eredita da Stiller il ruolo di eroina dolce e simpatica, seppur determinata. La regia di Levy è piuttosto frenetica in molti punti, ma ciò non è un male, in quanto conferisce un certo ritmo all’intera pellicola e riesce a comunicare la situazione fuori controllo che l’intero museo vive in questa particolare notte.

Il tutto è completato dalla colonna sonora di Alan Silvestri (Trilogia di Ritorno al Futuro) che si innesta bene nella narrazione facendo al tempo stesso il verso a produzioni più pompose e maestose. Interessante, infatti, è il contrasto in molte scene tra la goliardicità degli elementi in gioco e la conduzione della musica classica, più adatta ad un Jack Sparrow che a un Larry Dailey. Musica pop e rock si fondono ogni tanto, com’è caratteristica comune di Silvestri, con in più una comparsata solo “vocale”dei celebri Jonas Brothers nei panni di tre amorini svolazzanti a cantanti. Menzione d’onore per i responsabili degli effetti speciali, che hanno restituito alla vita un  intero museo in maniera magistrale, probabilmente divertendosi anche parecchio nel farlo.

In conclusione, Una Notte al Museo 2  è un film leggero e divertente, forse inferiore come carica al suo prequel, ma ugualmente godibile. Pollice alzato.

Angeli e Demoni: recensione del film con Tom Hanks

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Angeli e Demoni: recensione del film con Tom Hanks

Dopo Il Codice da Vinci, Ron Howard torna a collaborare con Dan Brown portando sullo schermo Angeli e Demoni, adattamento del romanzo che mescola mistero, scienza e religione in un intreccio ad alta tensione. Scritto da David Koepp e Akiva Goldsman, il film si inserisce nel filone dei grandi thriller internazionali che uniscono arte, simbolismo e intrighi ecclesiastici, con un Tom Hanks nuovamente nei panni del professore Robert Langdon.

Trama: enigmi tra arte e religione

La storia prende avvio dalle stanze papali in lutto per la morte del Pontefice. Robert Langdon viene convocato a Roma per risolvere un mistero che minaccia la Chiesa: un antico simbolo degli Illuminati e un piano di vendetta che mira a colpire il cuore del Vaticano durante il conclave. Inizia così una corsa contro il tempo tra basiliche, catacombe e piazze romane, tra inseguimenti, enigmi e colpi di scena.

Langdon, affiancato dalla scienziata Vittoria Vetra (Ayelet Zurer), deve decifrare codici nascosti, opere d’arte e rituali millenari per sventare una catastrofe. Il film si sviluppa come un intreccio serrato che alterna momenti di adrenalina pura a spiegazioni didascaliche, con l’obiettivo di tenere lo spettatore costantemente in tensione.

Regia e stile

Ron Howard dimostra ancora una volta grande capacità nel gestire un materiale narrativo complesso, puntando su un ritmo sostenuto e una regia solida, capace di dare respiro alle scene corali e tensione ai momenti più intimi. Le sequenze d’azione si alternano a passaggi più riflessivi, mentre la Roma barocca e rinascimentale diventa la vera protagonista, trasformata in un immenso set cinematografico.

La sceneggiatura di David Koepp porta il marchio della sua abilità nel costruire intrighi avvincenti, anche se in alcuni momenti le spiegazioni risultano ridondanti. La colonna sonora di Hans Zimmer, intensa e suggestiva, accompagna l’azione con efficacia, anche se talvolta fin troppo discreta rispetto all’impatto visivo.

Interpretazioni

Tom Hanks torna nei panni di Robert Langdon con una performance più convincente rispetto a Il Codice da Vinci. Il suo personaggio, sempre in bilico tra l’eroe d’azione e l’accademico appassionato, riesce a dare credibilità a un ruolo che richiede tanto fiato quanto cultura.

Tra i comprimari spicca Ewan McGregor, che interpreta con carisma e ambiguità il Camerlengo Patrick McKenna, personaggio chiave dell’intreccio. Robin Wright non compare, ma la presenza femminile di Ayelet Zurer come Vittoria Vetra appare un po’ sacrificata: più funzionale alla dinamica di coppia che alla sostanza narrativa. Da segnalare, invece, Pierfrancesco Favino nei panni dell’ispettore Olivetti, figura che conferisce al film un tocco di orgoglio italiano e si confronta con naturalezza con un cast internazionale di grande livello.

Roma protagonista

Se i personaggi restano a tratti convenzionali, la città di Roma emerge come la vera protagonista. Caotica, misteriosa, ma di una bellezza mozzafiato, la Capitale è trasformata in un labirinto di enigmi e scenari spettacolari. Dalla Basilica di San Pietro a Piazza Navona, passando per il Pantheon e Castel Sant’Angelo, ogni angolo della città diventa parte integrante del racconto, rafforzando l’aura di mistero e sacralità.

Un film di intrattenimento

Angeli e Demoni è un film che intrattiene e appassiona, costruito con mestiere e con una cura visiva che cattura lo spettatore. Tuttavia, nonostante l’ottima confezione, qualcosa manca: il film procede con ritmo incalzante e con ottime trovate visive, ma rischia di lasciare freddi coloro che cercano maggiore profondità o introspezione. È grande spettacolo, con acrobazie registiche, dialoghi serrati e colonna sonora superba, ma con poca “anima” al di là dell’intrattenimento.

Conclusione

Ron Howard realizza un thriller solido e coinvolgente, che conferma la sua abilità nel trasformare i bestseller di Dan Brown in eventi cinematografici globali. Con un Tom Hanks più a suo agio nei panni di Langdon, un Ewan McGregor carismatico e una Roma che ruba la scena, Angeli e Demoni si rivela un prodotto di grande intrattenimento, capace di conquistare il pubblico internazionale.

Non è un capolavoro, ma un film che unisce mistero, azione e spettacolo in una formula vincente per il botteghino.

San Valentino di sangue 3D: recensione del film Horror

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San Valentino di sangue 3D: recensione del film Horror

San Valentino di sangue 3D (My Bloody Valentine 3D), diretto da Patrick Lussier, è il remake di un film culto degli anni ’80 particolarmente apprezzato anche da Quentin Tarantino. Uscito nel 2009, il film rappresenta uno dei primi tentativi di rilanciare il genere slasher attraverso la tecnologia 3D, con l’obiettivo di offrire al pubblico un’esperienza visiva più immersiva e coinvolgente. Il risultato è un prodotto che, pur restando fedele ai topoi classici del genere, riesce ad attirare folle di spettatori, non solo gli appassionati di horror, ma anche i curiosi attratti dalla novità tecnica.

L’attrazione del 3D e il successo al botteghino

Prima ancora dell’analisi del film, vale la pena sottolineare il fenomeno che ha accompagnato la sua uscita: sale piene, biglietti esauriti e spettatori di ogni età pronti a vivere la violenza in tre dimensioni. Un successo che stupisce se paragonato agli incassi spesso modesti di altri horror contemporanei, generalmente sostenuti solo dal pubblico più affezionato.

Il motivo è chiaro: il 3D, con la sua capacità di collocare lo spettatore “dentro” l’azione, soddisfa la ricerca di esperienze immersive di una generazione abituata alle simulazioni videoludiche e ai rapporti virtuali. Se le due dimensioni non bastano più, la terza dimensione diventa il modo per vivere la violenza in modo più realistico, pur restando al sicuro. È lo stesso meccanismo che alimenta il successo dei videogiochi sportivi: la finzione sostituisce l’esperienza fisica, creando un’illusione di partecipazione.

In questo senso, San Valentino di sangue 3D diventa simbolo di un nuovo tipo di intrattenimento, in cui il cinema si avvicina sempre di più al linguaggio dei videogiochi.

La trama e i topoi dello slasher

La storia riprende fedelmente i canoni del genere slasher. Un killer mascherato ritorna a sconvolgere una piccola comunità dopo molti anni, seminando morte e terrore. Le vittime predilette sono coppie indifese, spesso colte in momenti di intimità, mentre gli inseguimenti tra boschi e spazi angusti scandiscono il ritmo della narrazione.

Non mancano gli elementi tipici: scene di nudo esplicito, omicidi efferati, la tensione costruita sulla paura della prossima vittima e, naturalmente, la figura della final girl, la sopravvissuta che diventa protagonista del confronto finale con l’assassino.

Un remake che supera l’originale

Patrick Lussier, già regista di Dracula’s Legacy e White Noise: The Light, firma un rifacimento che sorprende per efficacia. Non solo l’uso del 3D aggiorna il linguaggio visivo rendendo l’esperienza più coinvolgente, ma anche la sceneggiatura appare più solida rispetto all’originale, riuscendo a mantenere alta la tensione dall’inizio alla fine.

Pur restando un horror piuttosto standard, che non sovverte le regole del genere né sperimenta nuovi meccanismi di suspense, il film riesce comunque a catturare l’attenzione del pubblico con forza. La violenza “che esce dallo schermo” diventa l’elemento distintivo che entusiasma i fan del cinema estremo e incuriosisce anche chi di solito non frequenta l’horror.

Tra cinema, tecnologia e cultura pop

Uno degli aspetti più interessanti di San Valentino di sangue 3D non è solo l’uso innovativo della tecnica, ma anche la sua capacità di dialogare con il contesto culturale dell’epoca. Nel 2009, infatti, la diffusione del 3D al cinema coincideva con l’esplosione di nuove forme di intrattenimento interattivo e con la crescente dipendenza dalle esperienze virtuali.

In questo quadro, il film di Lussier riflette la condizione di una generazione sempre meno legata al contatto fisico e sempre più immersa in esperienze mediate dallo schermo. La violenza messa in scena è “più realistica ma non reale”: lo spettatore la vive in prima persona, ma senza mai correre rischi.

Conclusione

San Valentino di sangue 3D è un horror che non inventa nulla di nuovo sul piano narrativo, ma che sfrutta abilmente la tecnologia per rinnovare l’esperienza dello spettatore. Patrick Lussier realizza un remake che supera l’originale per solidità e impatto visivo, offrendo un intrattenimento che colpisce tanto i fan del genere quanto i curiosi.

Un prodotto che testimonia l’evoluzione del cinema horror nell’era del digitale: spettacolare, immersivo, capace di far vivere la violenza “da vicino” senza mai oltrepassare il confine della finzione.

Disastro a Hollywood: recensione del film con Robert De Niro

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Disastro a Hollywood: recensione del film con Robert De Niro

Arriva nelle sale italiane distribuito da Medusa Film Disastro a Hollywood (What Just Happened), commedia amara diretta da Barry Levinson e tratta dal libro autobiografico del produttore Art Linson. Il film offre un affresco ironico, disincantato e a tratti spietato del mondo del cinema, quello che si consuma dietro le quinte, lontano dai riflettori dei red carpet. Protagonista assoluto è Robert De Niro, affiancato da un cast corale che include Stanley Tucci, Robin Wright, Kristen Stewart, Catherine Keener, John Turturro, Sean Penn e un irresistibile Bruce Willis nei panni di se stesso.

Trama: una settimana nella vita di un produttore

La storia segue una settimana nella vita del produttore Ben (Robert De Niro), costretto a destreggiarsi tra i mille imprevisti e compromessi dell’industria cinematografica. Ben deve affrontare contemporaneamente:

  • il rapporto complicato con le sue ex mogli (tra cui Robin Wright), divise tra amicizia, rancore e sentimenti mai del tutto sopiti;

  • le difficoltà con i figli, che sembrano vivere ai margini della sua frenetica esistenza;

  • le pressioni di star capricciose, registi indecisi e produttori inflessibili;

  • il countdown per il Festival di Cannes, appuntamento fondamentale per il lancio dei film che ha in produzione.

Tra riunioni, telefonate, sceneggiature in crisi e attori intrattabili, Ben cerca di mantenere il controllo su un mondo che sembra ogni giorno più caotico e spietato.

Hollywood senza filtri

Disastro a Hollywood mostra un lato dell’industria cinematografica raramente visibile al grande pubblico: quello delle trattative estenuanti, degli ego smisurati e delle piccole grandi tragedie personali che si consumano dietro i riflettori.

C’è il regista che non vuole piegarsi alle esigenze del mercato, la produttrice che impone tagli e cambiamenti pena il ritiro del film, la star che rifiuta di radersi per il ruolo (un Bruce Willis autoironico e irresistibile). Ci sono anche le cadute tragiche di chi non riesce a reggere il peso di questo mondo, come il produttore che sceglie il suicidio pur di non soccombere.

In mezzo a tutto ciò, Ben appare come un uomo atarassico, quasi anestetizzato dalle pressioni continue, che tenta disperatamente di sopravvivere senza farsi travolgere dal sistema.

Lo stile: tra commedia e sguardo documentaristico

Barry Levinson sceglie un registro ironico ma distaccato, quasi documentaristico, che osserva i personaggi senza scavare troppo nella loro psicologia. Non ci sono grandi colpi di scena né una trama lineare, ma una successione di episodi e problemi che restituiscono la frenesia del lavoro di un produttore hollywoodiano.

Il film non pretende di raccontare una storia unica e avvincente, ma di offrire un mosaico di situazioni, tutte accomunate dall’impossibilità di trovare una soluzione definitiva. Il ritmo è leggero e scorrevole, ma sotto la superficie si percepisce un senso di disincanto e di rassegnazione.

Cast e interpretazioni

Robert De Niro si cala con naturalezza nei panni di Ben, offrendo una performance misurata e ironica, capace di trasmettere al tempo stesso energia e stanchezza. Accanto a lui, un cast ricchissimo:

Un affresco amaro ma divertente

Disastro a Hollywood non è una commedia tradizionale, ma una riflessione ironica e amara sul dietro le quinte del cinema. Non cerca di coinvolgere lo spettatore con colpi di scena o pathos drammatici, ma con la rappresentazione asciutta di un mondo fatto di compromessi, vanità e continue battaglie per il potere.

Il punto di vista è quello di un osservatore superiore, che guarda i personaggi con freddezza, senza giudicarli ma neanche giustificarli. Ne risulta un ritratto asciutto, a tratti eccessivo, che conferma l’abilità di Levinson nel mescolare satira e realismo.

Conclusione

Con Disastro a Hollywood, Barry Levinson firma un’opera che diverte e al tempo stesso smonta il mito dorato di Hollywood. Il film scorre leggero, senza grandi pretese, ma offre uno sguardo sincero e ironico su un mondo fatto di apparenze e pressioni.

Un cast corale d’eccezione, un De Niro in ottima forma e un Bruce Willis irresistibile nei panni di se stesso rendono il film un affresco gustoso, amaro e divertente dell’industria cinematografica. Non un capolavoro, ma un film che vale la visione, soprattutto per chi ama sbirciare dietro le quinte del cinema.

Star Trek: recensione del film di JJ Abrams

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Star Trek: recensione del film di JJ Abrams

Con Star Trek (2009), J.J. Abrams firma il reboot cinematografico di una delle saghe più amate della fantascienza, riportando sul grande schermo l’equipaggio dell’Enterprise e rilanciando un mito che ha segnato decenni di televisione e cinema. Prodotto da Paramount Pictures, il film non si limita a rilanciare un brand, ma sceglie di ripartire dalle origini, raccontando la nascita e la formazione dei personaggi principali, con un approccio simile a quello che Christopher Nolan aveva adottato per il suo Batman Begins.

La storia: ritorno alle origini

Il film si concentra su due figure centrali: James T. Kirk (Chris Pine) e Spock (Zachary Quinto). Attraverso la loro infanzia, la giovinezza e le difficoltà che affrontano nel diventare uomini e ufficiali della Flotta Stellare, Star Trek mostra come si costruisce il legame destinato a diventare iconico.

L’incontro tra i due – uno ribelle e impulsivo, l’altro razionale e guidato dalla logica vulcaniana – diventa il cuore della narrazione, che sfocia nell’epica avventura a bordo dell’Enterprise. Tra battaglie spaziali, missioni pericolose e conflitti interiori, il film getta le basi di una nuova saga che coniuga tradizione e modernità.

Regia e stile

J.J. Abrams orchestra il film con grande equilibrio. La sua regia predilige il movimento di macchina continuo, che accompagna lo sguardo dello spettatore invece di frammentarlo con troppi tagli di montaggio. Questo approccio conferisce fluidità e dinamismo, restituendo il senso di meraviglia e spettacolarità proprio della fantascienza classica.

Gli sceneggiatori Roberto Orci e Alex Kurtzman, già autori di Transformers, mostrano la loro abilità nel combinare azione e commedia, senza perdere di vista la dimensione emotiva. I loro dialoghi alternano leggerezza e tensione, costruendo un racconto che esplora i sentimenti primordiali del bene e del male, il valore dell’amicizia e il conflitto tra destino e libero arbitrio.

Cast e personaggi

Uno dei punti di forza del film è il cast, che riesce a dare nuova vita a personaggi storici senza tradirne l’essenza.

  • Chris Pine offre un Kirk giovane, irriverente e impulsivo, capace di catturare l’energia ribelle del personaggio.

  • Zachary Quinto restituisce a Spock un’intensità emotiva che arricchisce il conflitto tra logica e sentimenti.

  • Tra i comprimari spiccano Karl Urban come McCoy, perfettamente a suo agio nel ruolo iconico del medico di bordo, e Simon Pegg, che porta leggerezza e comicità al personaggio di Scotty.

  • La presenza di Leonard Nimoy, il leggendario Spock originale, conferisce al film un’aura di continuità e omaggio alla tradizione.

Un reboot tra citazioni e innovazione

Star Trek non si limita a essere un esercizio nostalgico. Abrams inserisce riferimenti alla saga classica, omaggi e citazioni per i fan di lunga data, ma al tempo stesso costruisce un film accessibile a un pubblico nuovo. Le reminiscenze kubrickiane nelle sequenze spaziali si alternano a suggestioni più vicine a Star Wars, in un mix che guarda al passato della fantascienza cinematografica per proiettarsi verso il futuro.

Il ritmo serrato e l’attenzione alla spettacolarità visiva rendono il film fruibile anche a chi non conosce la saga, ampliando così il bacino di spettatori.

Conclusione

Con Star Trek, J.J. Abrams riesce nell’impresa di rilanciare un franchise storico senza tradirne lo spirito, trovando un equilibrio tra rispetto per la tradizione e rinnovamento narrativo. Il film scorre con naturalezza nonostante la sua durata, conquistando con spettacolo, emozione e azione ben calibrata.

La Roma di Nolan e la Gotham oscura di Batman Begins diventano qui le origini di Kirk e Spock: un viaggio di formazione che riporta lo spettatore dentro l’universo dell’Enterprise con occhi nuovi. Il risultato è un film che soddisfa i fan storici e affascina i neofiti, confermando Abrams come un regista capace di gestire grandi saghe popolari.

X-Men le origini – Wolverine: recensione del film con Hugh Jackman

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“Voglio il sangue…” È con questa frase che si apre il viaggio adrenalinico e malinconico di X-Men le origini – Wolverine, film diretto da Gavin Hood e atteso spin-off dedicato al personaggio più amato della saga mutante. Uscito nel 2009 e distribuito da 20th Century Fox, il film riporta sul grande schermo la storia di James “Logan” Howlett, alias Wolverine, interpretato da un Hugh Jackman in forma smagliante. Dopo tre film corali dedicati agli X-Men, il progetto di un lungometraggio interamente centrato sul mutante dagli artigli di adamantio prometteva di svelare i segreti, le ferite e le origini di un eroe tormentato.

La trama di X-Men le origini – Wolverine: un viaggio interiore e di vendetta

Il film racconta la lunga ricerca di Logan, costretto a vivere nell’esilio e nella fuga, diviso tra il desiderio di pace e il richiamo della violenza. La sua vita è segnata dalla presenza costante del fratellastro Victor Creed, alias Sabretooth (Liev Schreiber), simile a lui ma abbandonato del tutto all’istinto primordiale. Il rapporto conflittuale tra i due diventa il motore narrativo principale: una Nemesi che Logan tenta di domare ma che ritorna sempre, trascinandolo in un circolo di dolore e vendetta.

La tranquillità di Logan viene spezzata dagli intrighi del Colonnello William Stryker (Danny Huston), già noto agli spettatori di X2. Sarà lui a trasformare il mutante in quello che tutti conosciamo: l’uomo-bestia indistruttibile con lo scheletro e gli artigli ricoperti di adamantio. Da quel momento, esplosioni, scontri e missioni si susseguono senza tregua, in un intreccio che mescola melodramma e puro spettacolo hollywoodiano.

Un blockbuster tra azione e dramma

Liev Schreiber and Hugh Jackman in X-Men- le origini - Wolverine (2009)
Gentile concessione di © 20th Century Fox.

Il film di Gavin Hood alterna momenti drammatici a sequenze d’azione spettacolari, cercando di bilanciare introspezione e intrattenimento. Tuttavia, la potenza del personaggio rischia talvolta di perdersi in una scrittura che predilige il glamour dei muscoli e la costruzione artificiosa di alcune battute.

Il cuore del racconto rimane la dualità di Logan: un anti-eroe indistruttibile ma lacerato interiormente. Se da un lato possiede forza e poteri sovrumani, dall’altro porta sulle spalle il peso della sofferenza, del rimorso e della solitudine. Jackman riesce a incarnare questa contraddizione con intensità, restituendo un Wolverine umano e tormentato, al tempo stesso ferino e fragile.

Un cast guidato da Hugh Jackman e Liev Schreiber

Accanto a Hugh Jackman si distingue un ottimo Liev Schreiber nei panni di Victor Creed/Sabretooth, capace di rubare la scena in diversi momenti e di offrire al film un antagonista carismatico. Interessante anche la presenza di Silver Fox (Lynn Collins), il grande amore perduto di Logan, che aggiunge una dimensione sentimentale alla trama.

Più spettacolare che convincente è invece Gambit (Taylor Kitsch), personaggio coreografico ma poco approfondito, mentre Danny Huston interpreta con mestiere il Colonnello Stryker, simbolo di un’umanità fredda e calcolatrice, opposta alle emozioni dei mutanti.

La regia di Gavin Hood tra spettacolo e dramma

X-Men le origini – Wolverine riprende alcuni dei temi cardine della saga degli X-Men: la diversità, l’accettazione di sé, il confine tra umanità e mostruosità. Logan, in questo senso, incarna il paradosso del mutante che, pur essendo un’arma vivente, resta alla ricerca di amore e di un posto nel mondo.

La regia di Hood è solida nelle sequenze d’azione e capace di restituire energia visiva, pur senza raggiungere la coesione narrativa dei migliori episodi della saga principale. Non mancano momenti spettacolari – dai combattimenti contro Sabretooth agli scontri ad alta tensione orchestrati da Stryker – ma il film lascia la sensazione di un potenziale non del tutto espresso.

X-Men le origini – Wolverine: un blockbuster tra azione e malinconia

X-Men le origini – Wolverine è un film che si pone a metà strada tra il grande blockbuster di intrattenimento e l’ambizione di raccontare un personaggio complesso e tormentato. Nonostante una sceneggiatura a tratti debole e un eccesso di enfasi visiva, il film resta godibile e regala momenti emozionanti, soprattutto grazie alla performance di Hugh Jackman e al rapporto conflittuale con Sabretooth.

Un’opera che, pur non lasciando un’impronta indelebile, conferma il fascino intramontabile di Wolverine e la sua centralità nel mito degli X-Men.

 

State of Play – scopri la verità: recensione del film di Kevin Macdonald

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Arrivato al cinema nel 2009 con distribuzione Universal Pictures, State of Play – Scopri la verità è il thriller politico diretto da Kevin Macdonald che porta sul grande schermo un cast di grande prestigio: Russell Crowe, Ben Affleck, Rachel McAdams, Robin Wright e Helen Mirren. Tratto dalla miniserie televisiva britannica State of Play del 2003, il film riprende le atmosfere tese e i complotti di potere della serie originale, adattandoli al contesto americano.

La trama: giornalismo contro potere

Al centro della vicenda troviamo Cal McCaffrey (Russell Crowe), reporter di lungo corso del Washington Globe. Uomo burbero, trasandato e poco incline al compromesso, Cal si ritrova suo malgrado a indagare su una serie di omicidi che finiscono per collegarsi a Stephen Collins (Ben Affleck), giovane e brillante membro del Congresso.

Collins è il presidente di una commissione che supervisiona le spese della difesa e sembra destinato a una carriera politica luminosa, fino a quando la sua assistente – e amante segreta – viene assassinata. Il caso diventa immediatamente un intrigo che coinvolge politica, affari e interessi militari. Mentre la carriera di Collins rischia di crollare, Cal, che un tempo era suo amico, si ritrova diviso tra il dovere professionale e i legami personali.

Giornalismo e verità scomoda

Uno dei temi più forti del film è il ruolo del giornalismo investigativo. “I bravi giornalisti non hanno amici, ma solo fonti”, afferma la direttrice del Washington Globe interpretata da Helen Mirren. Ed è proprio questo il filo conduttore del film: la tensione tra la ricerca della verità e le pressioni del potere politico ed economico.

Cal McCaffrey incarna il vecchio modello di reporter, legato alla carta stampata e a metodi tradizionali di indagine, in contrapposizione con la giovane blogger interpretata da Rachel McAdams, simbolo di un giornalismo nuovo, veloce, digitale. Il film diventa così anche una riflessione sul futuro dell’informazione e sulla difficoltà di mantenere intatta l’integrità etica in un mondo sempre più dominato da interessi esterni.

Le interpretazioni

Russell Crowe offre una delle sue prove più convincenti: il suo Cal è un uomo imperfetto, apparentemente fuori moda, ma capace di incarnare la passione autentica per la verità. Accanto a lui, Ben Affleck sorprende con un’interpretazione misurata, che restituisce al personaggio di Collins ambiguità e fragilità.

Robin Wright, nei panni della moglie del politico, aggiunge intensità al dramma personale che circonda la vicenda, mentre Rachel McAdams porta freschezza ed energia al ruolo della giovane giornalista che collabora con Cal. Su tutti domina Helen Mirren, direttrice inflessibile e carismatica del giornale, capace di rappresentare con ironia e rigore il peso del potere editoriale.

Regia e stile

Kevin Macdonald, già vincitore dell’Oscar per il documentario Un giorno a settembre, dimostra grande abilità nel mantenere alta la tensione narrativa. La regia mescola atmosfere da thriller politico classico con un ritmo più dinamico, capace di coinvolgere anche il pubblico meno abituato al genere.

La fotografia scura e realistica contribuisce a restituire il clima di complotto e corruzione che attraversa la storia, mentre il montaggio alterna momenti di riflessione più intimi a sequenze concitate che conducono lo spettatore verso un finale intenso e rivelatore.

Un film tra cinema e realtà

State of Play – Scopri la verità si inserisce nella tradizione dei grandi film politici americani, eredi di Tutti gli uomini del presidente e di certo cinema degli anni ’70, ma lo aggiorna al contesto post-11 settembre, in cui il ruolo dei contractor militari privati e le spese della difesa diventano temi centrali.

Il film non si limita a essere un intrattenimento avvincente, ma porta lo spettatore a interrogarsi sul rapporto tra politica, affari e media, mostrando quanto la ricerca della verità possa avere un costo personale e professionale altissimo.

Conclusione

Con un cast solido e una regia tesa e intelligente, State of Play si conferma un thriller politico avvincente, capace di mescolare azione, indagine giornalistica e dramma personale. Russell Crowe brilla nel ruolo di un reporter d’altri tempi, mentre il resto del cast contribuisce a dare spessore a una storia che parla di potere, corruzione e verità scomode.

Nonostante qualche passaggio narrativo a tratti prevedibile, il film di Kevin Macdonald resta un’opera avvincente, che dimostra quanto il giornalismo investigativo – anche nell’era digitale – resti un baluardo fondamentale contro le distorsioni del potere.

di Orietta Cicchinelli

Duplicity: recensione del film di Julia Roberts

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Duplicity: recensione del film di Julia Roberts

Con Duplicity (2009), Tony Girloy, già autore di Michael Clayton e sceneggiatore della trilogia di Bourne, tenta di unire il glamour della commedia romantica con i meccanismi del thriller di spionaggio. In teoria, gli ingredienti ci sarebbero tutti: una coppia di star di grande fascino come Julia Roberts e Clive Owen, un intreccio fatto di doppi giochi e colpi di scena, un respiro internazionale con riprese in diverse location. Ma il risultato, purtroppo, non è all’altezza delle promesse, lasciando la sensazione di un film raffinato in superficie ma poco incisivo nella sostanza.

Una trama tra amore e spionaggio

La storia inizia con l’incontro casuale tra Ray (Clive Owen) e Claire (Julia Roberts), due ex agenti segreti che, dopo una notte di passione, si ritrovano coinvolti in una complicata relazione sentimentale e professionale. Entrambi lavorano come spie aziendali, abili nel carpire segreti industriali e manipolare le informazioni, ma incapaci di fidarsi l’uno dell’altra.

Il loro obiettivo è mettere a segno un colpo che possa garantire un futuro felice e sicuro. Tuttavia, la loro stessa natura di spie li porta costantemente a dubitare delle intenzioni reciproche, generando un gioco di seduzione e inganno che, invece di appassionare, finisce spesso per appesantire la narrazione.

Stile e regia: virtuosismi poco efficaci

Girato in numerose location internazionali, Duplicity cerca di dare a ogni città un tono e un’atmosfera specifici, ma il respiro cosmopolita non basta a mascherare i limiti della regia. Gilroy ricorre con frequenza allo split screen, forse per richiamare certi modelli anni ’60 e ’70 del cinema di spionaggio, ma l’uso risulta eccessivo e poco funzionale, finendo per distrarre lo spettatore più che coinvolgerlo.

Anche la scelta di una narrazione frammentata, con continui salti temporali, rischia di confondere inutilmente. Se è vero che il pubblico contemporaneo è ormai avvezzo a intrecci complessi, in questo caso il montaggio approssimativo e il ritmo incostante bruciano l’efficacia del colpo di scena finale, che pure, sulla carta, avrebbe potuto sorprendere.

Cast e interpretazioni

Se la regia lascia a desiderare, il cast contribuisce a sollevare le sorti del film. Julia Roberts e Clive Owen, già coppia intensa e sensuale in Closer, mantengono una buona alchimia sullo schermo, anche se i loro personaggi non sempre risultano scritti con la necessaria profondità.

Di grande valore, come spesso accade, i comprimari: Tom Wilkinson e Paul Giamatti rubano la scena ogni volta che appaiono, offrendo momenti di ironia e intensità che danno respiro a una storia altrimenti troppo ingarbugliata.

Un’occasione mancata

Duplicity è un film elegante, patinato, ricco di ambientazioni suggestive e di dialoghi brillanti, ma incapace di tenere insieme tutti i suoi elementi. Dove Michael Clayton colpiva per la precisione della regia e per la forza narrativa, qui Gilroy sembra perdersi nei meandri di una struttura troppo artificiosa.

Il film avrebbe potuto essere un moderno omaggio alle commedie sofisticate con spionaggio e romanticismo, ma finisce per scivolare in una via di mezzo poco soddisfacente: troppo intricato per essere una commedia leggera, troppo patinato e superficiale per funzionare come spy thriller.

Conclusione

Pur con tutti i suoi difetti, Duplicity resta un film guardabile, grazie soprattutto al carisma dei suoi interpreti e alla qualità della scrittura di Gilroy, che rimane comunque uno sceneggiatore di grande talento. Se Michael Clayton resta la regola e Duplicity l’eccezione, c’è da augurarsi che Gilroy possa tornare in futuro a coniugare meglio eleganza e sostanza.

In definitiva, un’occasione mancata: un film che prometteva molto ma mantiene poco, lasciando lo spettatore con l’impressione di aver assistito a un raffinato esercizio di stile più che a un’opera compiuta.

RocknRolla: recensione del film di Guy Ritchie

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RocknRolla: recensione del film di Guy Ritchie

Con RocknRolla (2008), Guy Ritchie torna al genere che più lo rappresenta: il gangster movie britannico intriso di humour nero, personaggi sopra le righe e intrecci narrativi pieni di sorprese. Dopo i successi di Lock & Stock e Snatch – Lo strappo, e qualche passo falso con progetti meno incisivi, il regista londinese riprende in mano il suo mondo fatto di malavitosi sgangherati, boss corrotti e situazioni grottesche.

Questa volta, al centro della vicenda troviamo Gerard Butler nei panni di One Two, piccolo criminale ironico e sarcastico che, insieme al socio Mumbles, si ritrova coinvolto in un giro d’affari immobiliare più grande di lui. Accanto a lui una contabile affascinante e pericolosa, interpretata da Thandie Newton, e un boss della vecchia guardia, Lenny Cole, a cui Tom Wilkinson presta volto e carisma.

Trama: crimine e affari nei bassifondi di Londra

La Londra di RocknRolla non è più quella dominata dal traffico di droga, ma una città in cui il mercato immobiliare è diventato il nuovo terreno di conquista per criminali e investitori senza scrupoli. Chiunque voglia fare affari deve passare per le mani di Lenny Cole, gangster vecchia maniera che controlla politici, burocrati e intermediari con un semplice colpo di telefono.

Ma Londra è a un punto di svolta: i nuovi grandi capitali arrivano dall’Est, portati dal miliardario russo Uri Obomavich, mentre le nuove leve della strada non hanno più voglia di sottostare alle vecchie regole. In mezzo a questo conflitto di potere, One Two cerca di farsi strada, ma un affare milionario si complica in modo inaspettato quando entra in scena Johnny Quid (Toby Kebbell), rockstar tossicodipendente e figliastro di Lenny, creduto morto e invece vivo più che mai.

L’avidità, i tradimenti e le alleanze fragili fanno precipitare la situazione, mentre tutto il sottobosco criminale londinese tenta di mettere le mani sulla fetta più grossa del nuovo business.

Stile e regia: il marchio di Guy Ritchie

RocknRolla cast

Lo stile di Guy Ritchie è riconoscibile fin dal primo fotogramma: montaggio serrato, ritmo incalzante, personaggi caratterizzati da dettagli bizzarri e dialoghi rapidi. La regia costruisce un mosaico di storie che si intrecciano in modo rocambolesco, con il consueto mix di violenza, ironia e colpi di scena.

Una scena emblematica è quella di sesso tra Butler e Newton: montata con ritmo vivace, riesce a essere allo stesso tempo sensuale e ironica, dimostrando come Ritchie sappia giocare con i generi senza mai prendersi troppo sul serio. L’intera pellicola alterna momenti d’azione esplosiva a parentesi grottesche, mantenendo viva l’attenzione dello spettatore.

Personaggi e interpretazioni

Gerard Butler, reduce dal successo di 300, abbandona le spade delle Termopili per vestire i panni di un delinquente sarcastico e autoironico, convincente nel ruolo di One Two. Thandie Newton offre una prova elegante e affilata nei panni della contabile doppiogiochista, mentre Tom Wilkinson dà spessore a Lenny Cole, boss vecchia scuola pronto a tutto per restare al potere.

Tra i personaggi più memorabili spicca Johnny Quid, interpretato da Toby Kebbell: rockstar autodistruttiva, tossica e visionaria, destinata a diventare una sorta di simbolo della degenerazione e allo stesso tempo della vitalità incontrollata di quel mondo. Non a caso, Ritchie aveva pensato a RocknRolla come il primo capitolo di una trilogia, con Johnny al centro delle vicende future.

Temi e sottotesto

Oltre all’intrattenimento frenetico, il film fotografa una Londra in trasformazione, in cui i vecchi gangster sono costretti a fare i conti con il capitale straniero e con una criminalità nuova, più spietata e globalizzata. Il mercato immobiliare diventa metafora di un mondo in cui tutto è merce, perfino i rapporti umani.

Ritchie racconta questa realtà con il suo consueto sarcasmo, ma dietro le risate c’è un ritratto disincantato di un sistema in cui il crimine si intreccia con la politica e la finanza. Una realtà in cui la linea tra legalità e illegalità diventa sempre più sottile.

Accoglienza e valore del film

Presentato nella sezione Proiezioni Speciali del Festival Internazionale del film di Roma, RocknRolla riscosse successo presso il pubblico che ebbe occasione di vederlo, nonostante le poche repliche. Uscì poi nelle sale italiane nell’aprile 2009, confermando l’interesse per il ritorno di Guy Ritchie al gangster movie.

Pur non raggiungendo la potenza innovativa di Lock & Stock o Snatch, RocknRolla resta un titolo divertente e solido, con un cast in gran forma e uno stile registico che continua a essere il marchio di fabbrica di Ritchie. È un film che intrattiene, diverte e regala al pubblico esattamente ciò che promette: un action-gangster movie scoppiettante e stravagante, in cui niente è mai come sembra.

Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

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Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

Un monumento vivente del cinema come Clint Eastwood non può sbagliare un colpo, nemmeno raccontando una storia semplice, e molto americana, come il suo ultimo Gran Torino. Clint questa volta si mette nei panni di Walt Kowalski, veterano della guerra in Corea, razzista, nazionalista, ultra-conservatore, con la bandiera americana che sventola sul suo portico, probabilmente elettore di Bush figlio per ben due volte, incompreso dai suoi figli (e nuore vipere e nipoti opportunisti), presta le sue uniche attenzioni alla sua Gran Torino del ‘72, frutto di una vita passata a lavorare per la Ford, portandolo ad un’avversione naturale verso chiunque si permetta il lusso di comprare auto che non siano americane (i figli in primis).

Ha messo su una corazza così dura che è (quasi) impossibile scalfirla, deve proteggersi in continuazione dai musi gialli che hanno messo piede nel suo quartiere e ora sono i suoi vicini di casa. Ma ecco che i due ragazzi Hmong che gli abitano accanto riescono a fare breccia nel suo animo: sebbene abbiano la stessa età dei suoi nipoti, Sue e Thao non si sono lasciati corrompere dalla civiltà consumistica occidentale, ma hanno saputo conservare e rispettare le loro tradizioni asiatiche, così come Walt avrebbe voluto facessero i suoi nipoti.

Gran Torino filmClint Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con quello che è adesso. Ma il regista, vera e propria leggenda del cinema, riesce con un’essenzialità incredibile a portare sullo schermo pregiudizi, conflitti, relazioni, conversioni. Prende tutta l’umanità che lo circonda, nella maniera più essenziale possibile, e la trasforma in una poesia ruvida ma vibrante, concisa ma pregna di emozione.

Reduce dal trionfo di Million Dollar Baby e dal suo straordinario dittico bellico, Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, Eastwood torna nella provincia americana, che sembra non stancarsi mai di raccontare con un occhio saggio ma spietato. Che sia poi un testamento di revisionismo personale non c’è da escluderlo, dal momento che nella vita vera, l’uomo Clint Eastwood è sempre stato un repubblicano convinto, non troppo diverso dal protagonista del film, tuttavia, forse proprio come Walt, nella sua maniera granitica e introversa, il regista sembra porsi domande anche sulla sua stessa vita, sul suo modo di affrontare le cose, sulle posizioni sempre molto nette nella sua carriera. Questo aspetto personale si è sempre scontrato con la grande sensibilità che ha dimostrato nel corso di una carriera in continuo crescendo. Un netto passo in avanti da quell’attore belloccio con “sole due espressioni”.

La narrazione di Gran Torino è seguita in maniera semplice e lineare, i dialoghi sono cuciti addosso al personaggio (gag strepitose sono quelle tra Walt e il barbiere di origini italiane) e gli eventi portano naturalmente a un climax di tensione che si scioglie in lacrime amare. Nessun effetto speciale, flashback, flashforward, nessuna inquadratura manieristica, eppure il grande cinema si riconosce in questo film: la semplicità è sempre la miglior scuola.

La verità è che non gli piaci abbastanza: recensione del film con Ben Affleck

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La verità è che non gli piaci abbastanza è il film del 2009 diretto da Ken Kwapis e con protagonisti un cast d’eccezione composto da Jennifer Connelly, Jennifer Aniston, Scarlett Johansson, Drew BarrymoreBen Affleck, Justin Long, Bradley Cooper e Kevin Connoll.

Che vuol dire quando lui non ci chiama, non ci dice mai Ti Amo, non ci vuole sposare…? La risposta che danno Greg Behrendt e Liz Tuccillo nel loro libro “He’s Just Not That Into You: The No-Excuses Truth to Understanding Guys” è che La verità è che non gli piaci abbastanza. Su questo binario iniziale muove il film di Ken Kwapis (Licenza di matrimonio), tratto dall’omonimo best-seller degli sceneggiatori di Sex and tha City(la serie).

La verità è che non gli piaci abbastanza, la trama

La verità è che non gli piaci abbastanza è la storia di Gigi che è una frana con gli uomini e non riesce a percepire e leggere bene i “segnali” di  Conor che lungi dall’essere interessato da Gigi, corre dietro ad Anna che invece comincia una relazione adulterina con Ben, marito di Janine che è amica di Gigi e di Beth, la quale è fidanzata da 7 anni con Neil che si rifiuta di sposarla e così via. Storie parallele che si intrecciano mostrando le relazioni d’amore nel loro nascere, costruirsi, nel loro disfarsi, nella loro sostanza di compromesso armonico tra le due parti. Un film intessuto sulla regola che tutte le persone sono uguali e si comportano, davanti alle medesime situazioni, allo stesso modo. Una regola che finisce con l’essere infranta poiché alla fine della storia, chi merita un premio lo riceve, chi si ama davvero resta insieme, chi invece ha distrutto resta solo e chi invece è stato lasciato trova la forza di ricominciare e di ricostruire la propria vita.

La verità è che non gli piaci abbastanza, in 129 minuti, dipana le sue storie con freschezza senza mai eccedere nel patetismo o nel romanticismo smielato, strizzando un occhio allo spettatore che ride dei personaggi ma ride anche di sé, rispecchiandosi in alcune delle situazioni rappresentate. Il film ha il suo punto di forza in un cast stellare, dove la frangia femminile fa la parte del leone comprendendo: Jennifer Connelly, Jennifer Aniston, Scarlett Johansson, Drew Barrymore (anche produttrice), Busy Philipps. A queste bellissime si contrappongono Ben Affleck, Justin Long, Bradley Cooper, Kevin Connolly. 

Forte soprattutto di una sceneggiature brillante di Abby Kohn e Marc Silverstein, il film tira dritto per tutta la sua durata, senza stancare, risultando divertente e alla fine non troppo retorico. Interessante è la struttura simile a documentario di costume sulle esperienze sentimentali delle persone comuni, interessante soprattutto perché alla fine mopstra che lo stereotipo sociale per cui è sempre e solo la donna a soffrire per amore, viene a cadere. Il film dunque non è parziale ma paritario e mostra molte situazioni reali rendendo così persone hollywoodiane, personaggi reali. La verità è che non gli piaci abbastanza si conclude con l’implicita riflessione che non è vero che La verità è che non gli piaci abbastanza, ma che ogni storia è a se stante, ed ogni reazione umana dipende da una coscienza diversa, da un percorso individuale, che qualche volte finisce con l’essere condiviso dall’altro.

Il mai nato: recensione del film di David S. Goyer

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Il mai nato: recensione del film di David S. Goyer

Scritto e diretto da David S. Goyer, acclamato sceneggiatore dei Batman di Nolan. Il mai nato si presenta come un horror riuscito, che a classici temi di fantasmi, della compresenza del mondo dei morti con quello dei vivi, associa volti nuovi, come quello di Odette Yustman, simbologie e credenze di connessioni tra i gemelli, e temi caratterizzanti, come il misticismo e la cabala ebraica e il tema dell’esorcismo che rimanda a ben più noti e riusciti film di genere.

La trama de Il mai nato si dipana nell’atmosfera fredda e invernale del film, dondogli insolita solidità considerando il genere che spesso e volentieri non da molte spiegazioni. Goyer cerca di dare profondità alla storia anche attraverso il tempo arrivando addirittura a scomodare un bambino morto ad Auswitz. Resta un film di non troppo ampio respiro, pieno di ogni stereotipo tipico del genere, ma si distingue dai vari Scary Movie che non danno troppo importanza alla trama.

Il mai nato si presenta come un horror riuscito

Straordinario come di consueto Gary Oldman, che tolti i panni dell’ormai commissario Gordon, indossa quelli del coraggioso rabbino esorcista. Interessante e mai scontata è l’idea del male che si nutre della paura della propria vittima, metafora, anche se un po’ troppo stiracchiata, del momento storico che vive il mondo.

Il mai nato recensione

Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro: recensione del film

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E se tutte le favole che si leggono ad alta voce prendessero vita propria entrando nel nostro mondo? Questo diventa un grande problema per Mortimer Folchart, rilegatore e, si scoprirà in seguito, lingua di fata, capace di dar vita a ciò che legge. Il problema è ancora maggiore quando per ogni personaggio che viene fuori dai libri, una persona del mondo reale vi finisce dentro. Ed è questo il motore di Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro: la ricerca decennale di un famigerato libro che prima ha sputato fuori buoni e cattivi, e poi ha risucchiato dentro la moglie di Mortimer, detto Mo.

Il cinema ha sempre attinto dalla letteratura, sia per quanto riguarda i soggetti da trattare, sia per le storie vere e proprie che vengono narrate, basti pensare a La Storia Infinita, e al legame che si crea tra il piccolo lettore Bastian e il regno di Fantasia. E proprio una relazione simile lega Mo e Inkheart, ma laddove Bastian è affascinato dal libro e volle continuare a leggere, per Mo la lettura diventa un peso, un fardello troppo pesante, e che infatti suo malgrado passerà alla figlia.

Inkheart La leggenda di cuore d’inchiostro il fantasy tra fiaba e narrazione

Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro, pur avendo dell’ottimo materiale per una storia se non Infinita, quantomeno Fantastica, crolla su se stesso. Quando tutto è possibile, ma niente è permesso, quando il super eroe con i super poteri ha già le sue responsabilità e non deve rendersene conto durante il viaggio, il meccanismo si inceppa e si hanno risultati come Inkheart, che purtroppo per gli appassionati del genere non ha sostanza, anche se bisogna riconoscere che è la dimostrazione di come si possano realizzare begli effetti visivi senza budget astronomici.

Un cast avvero eccezionale con Brendan Fraser e Helen Mirren non basta a far decollare Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro che cerca di portare lo spettatore al gran finale trascinandosi dietro stralci di tensione mal formulata e che promette di esplodere alla fine ma che invece crolla su se stesso lasciando l’ormai smaliziato spettatore a bocca asciutta.

I love Shopping: recensione del film con Isla Fisher

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I love Shopping: recensione del film con Isla Fisher

I love Shopping Isla Fisher interpreta Rebecca Bloomwood, shopping dipendente e giornalista in attesa del grande incarico presso una prestigiosa rivista di moda.

I love Shopping, tratto dal best seller omonimo si Sophie Kinsella, è una commedia mediamente divertente, leggera e con il lietofine romantico. Seppure ricorda Il diavolo veste Prada, per la forte presenza del mondo della moda nella storia, il film ha ben poco delle atmosfere raffinate e super griffate della pellicola di Frankel. La storia si risolve in un finale buonista in cui tutti hanno ciò che vogliono e gli errori sono ripagati a prezzo scontato, cosa che nella vita reale non esiste, ma trattandosi del meraviglioso modno della celluloide, tutto è concesso.

Isla Fisher interpreta una Shopaholic, una maniaca dello shopping, delle spese inutile e superflue che sembrano tuttavia vitali. Anche se non è tra le commedie più brillanti degli ultimi anni, il film gode di una certa freschezza per l’interpretazione della protagonista e per la rappresentazione caricaturale di Robert Stanton nei panni del funzionario che cerca in tutti i modi di far quadrare i conti della signorina Bloomwood, merito del regista P.J. Hogan (Il matrimonio del mio migliore amico) che sa bene come fare commedia.

Operazione Valchiria: recensione del film con Tom Cruise

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Operazione Valchiria: recensione del film con Tom Cruise

Operazione Valchiria di Brian Singer riporta al cinema un genere di guerra che da molto tempo non si vedeva sugli schermi, un tipo di film che mette da parte ogni giudizio morale e che si fa intrattenimento, senza snaturare il genere classico. Singer mostra la sua personalità, ma lo fa con misura, lasciando andare avanti la storia, che per struttura e scrittura, corredata anche da un ottimo cast, parla da solo e lo fa decisamente bene.

Operazione Valchiria racconta di uno dei tanti colpi di stato che furono tentati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Come ha detto lo stesso regista, un film che ambisce ad intrattenere anche se se ne conosce la fine. Infatti, Singer ha fatto ironicamente riferimento al Titanic di James Cameron, che ha sbancato i botteghini di tutto il mondo pur se il pubblico sapeva come sarebbe andato a finire.

Operazione Valchiria

Messi da parte per una volta gli orrori contro gli ebrei il film racconta di come, seppure nella follia generale della Germania nazista, non tutti i generali (interpretati da Tom Cruise, Bill Nighy tra gli altri) di Hitler fossero come lui; proprio una battuta di Kenneth Branagh lo dice: “dobbiamo dimostrare alla storia che non tutti eravamo con lui”.

Un film gradevole, che pur svelando dall’inizio il suo finale non scarseggia di tensione e ritmo, ben costruiti dal regista che per una volta si è prostrato al genere confezionando un film che seppure non rimarrà nella storia del cinema, resta un momento godibile di intrattenimento. Operazione Valchiria è stato girato con fondi tedeschi.

 

Yes Man: recensione del film con Jim Carrey

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Yes Man: recensione del film con Jim Carrey

Metti la strepitosa capacità espressiva di un Jim Carrey. Metti una situazione da manuale di sceneggiatura, col ribaltamento di una situazione iniziale nel suo contrario. Metti che gli americani le commedie le sanno fare con la stessa serietà di un melodramma epico. Ed ecco Yes man, film brillante, portatore di una ventata di ottimismo che rispecchia la volontà del nuovo cinema americano di lasciarsi dietro anni di terrorismo e guerre chimiche per lasciarsi andare a un sorriso a trentadue denti. La parola Sì diventa in questa pellicola simbolo di cambiamento, di una speranza riposta nel futuro, di un accettare entusiasticamente ciò che la vita propone di giorno in giorno.

Yes Man

Da impiegato divorziato che rifiuta a priori ogni occasione di vivere, mettendo addirittura a repentaglio i propri affetti, Carl (Jim Carrey) si lascia convincere da un vecchio amico (il cui incontro è però abbastanza forzato) a partecipare a una chiassosa e grottesca convention di un mezzo santone che predica la via del Sì per aprirsi al meglio alla vita. Un po’ scettico, Carl comincia il suo percorso di conversione che lo porterà a trovare l’amore, consolidare le sue amicizie, e persino ad avanzare di carriera, il tutto in una serie di situazioni comiche e paradossali, che solo la bravura di Jim Carrey riesce a sostenere.

Perfetta comprimaria risulta essere Zooey Deschanel, l’eccentrica donna di cui Jim Carrey si innamora, bislacca almeno quanto lui (i testi delle canzoni che suona con la sua band sono una piccola chicca), diventa la protagonista di un amore che non vuole essere melenso e stucchevole, ma stravagante e libero almeno quanto i due personaggi.

Ma si sa, in ogni commedia buonista che si rispetti, c’è sempre la morale sottesa a chiudere i giochi: non sempre si può dire sempre di sì a priori, rischiando di fare quel che non si vuole; le scelte si devo fare sempre con la piena consapevolezza. Solo così si può veramente dire di sì alla vita.