Home Blog Pagina 1493

Le indagini di Lolita Lobosco ospite del Noir in Festival XXX

0
Le indagini di Lolita Lobosco ospite del Noir in Festival XXX

Lunedì 8 marzo, nella giornata inaugurale della XXX edizione del Noir in Festival (in programma fino al 13 marzo), il festival rende omaggio al personaggio iconico creato dalla penna di Gabriella Genisi, Lolita Lobosco

La commissaria, interpretata da Luisa Ranieri, sarà la protagonista  della serie tv Le indagini di Lolita Lobosco in prima visione in 4 serate su Rai 1 dal 21 febbraio.

Nel segno della giornata internazionale della donna il Noir in Festival dedicherà alla serie uno speciale focus, che aprirà gli incontri del festival, in cui interverranno l’autrice dei romanzi Gabriella Genisi, il regista Luca Miniero e le interpreti.

L’appuntamento è per lunedì 8 marzo alle ore 11.00 sui canali social del Noir in Festival.

Le Iene, citazionismo e cinefilia: o come cominciò il mito di Quentin Tarantino

Precisamente vent’anni fa veniva presentata al Sundance Film Festival la pellicola di un anonimo regista del Tennessee con alle spalle una lunga gavetta come correttore di bozze e sceneggiatore. Dopotutto, non è da sottovalutare un quasi-trentenne che vanta già nel suo curriculum una collaborazione con Tony Scott e un’altra con Oliver Stone, due grandi nomi di Hollywood.

Il film presentato ha un nome particolare: Reservoir Dogs, titolo probabilmente ispirato dalla difficoltà del regista- dovuta a dislessia- nel pronunciare il titolo della pellicola francese Au revoir, les enfants, che aveva ribattezzato The Reservoir film. Dopo una prima visione, il pubblico è sconvolto, spiazzato: c’è chi sghignazza e chi grida allo scandalo, perché il film presenta delle scene di una violenza inaudita. Non è, infatti, un successo al botteghino ma la critica osanna il nuovo genio che è nato, presentando al prestigioso Festival di Cannes non tanto l’opera quanto il regista, che finalmente ha un nome e un cognome e che, a partire da quell’anno, si ritaglia la propria nicchia di lusso nel dorato mondo della celluloide: Quentin Tarantino.

E proprio lui dichiara durante la celebre “Proiezione Faye Dunaway” all’Egyptian theater: “Non so voi, ma io adoro la violenza al cinema. Quello che mi sconvolge è tutta quella merda alla Merchant/Ivory!” dove l’accusa non era rivolta tanto contro i singoli tirati in ballo, bensì contro un certo tipo di cinema dall’impianto stantio e datato.

Il suo background non è quello delle scuole di cinema, ma quello delle videoteche e della cinefilia compulsiva, che lo spinge a “saccheggiare” letteralmente più elementi stilistici e registici che può dalle pellicole più disparate, spaziando dai film d’azione e wuxia di Honh Kong ai film francesi della Nouvelle Vague firmati da Godard o Melville, senza tralasciare i sottogeneri italiani anni ’70-’80 come il poliziottesco, lo spaghetti western e l’horror splatter d’autore. Cita tra i suoi maestri gli italiani Leone, Argento, Fulci, Soavi, Lenzi, Di Leo, Bava, G. Castellari ma non disdegna nemmeno Howard Hawks, figura paterna e nume tutelare per il cineasta. Tarantino arriva comunque in un momento particolare per il cinema e per la cultura in generale. Assistiamo, infatti, alle soglie degli anni ’90 ad una vera e propria “crisi dei valori” e della cultura monolitica: se le pellicole degli anni ’80 vedono protagonisti eroi fissi, senza sfaccettature, e personaggi manichei che si muovono in una dimensione divisa tra bene e male, alle soglie invece dei ’90 si assiste ad un cambiamento; nelle pellicole i ruoli si confondono, si assiste ad un gioco continuo delle parti e si perdono i punti fissi di riferimento: gli eroi non sono poi così buoni e i cattivi non sono esclusivamente perfidi e malvagi fino al midollo. Il cinema comincia a popolarsi di antieroi, personaggi ambigui portatori di valori relativi e di una loro sinistra morale. Ed è proprio in questo solco che si innesta il germe del pulp, iperrealistico e pop, specchio dell’assurda violenza grottesca che popola il quotidiano.

Le uniche scuole di formazione professionale che frequenta il giovane cineasta americano sono quelle di recitazione (dove comincia a farsi conoscere per i suoi fitti dialoghi logorroici, costante dei suoi futuri film) e Il Sundance Institute, tappa fondamentale perché è proprio qui che presenta la sua opera, il suo primo prodotto definitivo: Reservoir Dogs, da noi Le Iene.

le_iene_gruppoLa pellicola crea scandalo, divide la critica, scuote gli animi e dà lo slancio alla nascita di un nuovo genere (o forse alla sua rinascita in chiave pop): il Pulp, quel “pasticcio” di cui già aveva parlato Charles Bukowski nel 1995 con il suo romanzo omonimo. Secondo il dizionario, il termine “pulp” può avere un duplice significato: può indicare sia un “pasticcio”, ovvero una massa informe di materia, quanto una serie di riviste di basso costo e scarsa qualità, diffuse prevalentemente nell’America degli anni ’50, costituite da una serie di racconti brevi (spesso scritti da nomi noti della letteratura “di genere” come Cornell Woolrich o Raymond Chandler) a base di sesso, violenza e azione. Le pellicole di Tarantino probabilmente si avvicinano ad entrambe le definizioni e, cavalcando l’onda del successo dei suoi film, si crea così un fenomeno “pulp” globale che riporta in auge anche il già citato capolavoro di Bukowski scritto nel 1964 e dedicato alla “cattiva scrittura” ma edito da Feltrinelli solo nel 1995, ovvero un anno dopo il successo di Pulp Fiction e la morte dello scrittore.

Alcuni Paesi impongono pesanti tagli al film (come gli Stati Uniti, con il discorso sulla censura e il divieto per i minori di 18 anni o l’Italia, dove tutt’ora viene trasmesso dalle tv “epurato” da alcune scene), addirittura la Gran Bretagna arriva a ritirare le copie disponibili in vhs. Ma di lì a breve nascerà un vero e proprio fenomeno mondiale che lancerà il film nell’empireo della cinematografia mondiale facendolo assurge a “cult”.

Tarantino cominciò a girare nel 1990, con a disposizione un budget esiguo di 30.000 dollari, “prestati” dal produttore Lawrence Bender che avrebbe dovuto ricoprire, inizialmente, il ruolo di Eddie il Bello. Ma tutto cambiò quando una copia della sceneggiatura originale venne fornita dalla moglie del suo insegnante di recitazione direttamente al noto attore Harvey Keitel (che proprio nel 1992 fu presente a Cannes con due film: Le Iene e Il cattivo tenente di Abel Ferrara). L’attore non solo rimase colpito dal copione, ma decise addirittura di co-produrlo: così il budget lievitò fino a 1.200.000 dollari, investiti quasi tutti per gli abiti di scena. Tarantino abbandonò definitivamente l’idea di girare il film con pellicola da 16mm, ma decise di mantenere lo stesso alcuni elementi della sceneggiatura originale, come l’integrità spaziale (il film, infatti, è girato principalmente in un garage, in realtà un’impresa di pompe funebri in costruzione) riducendo al minimo perfino le inquadrature elaborate, lasciando libero spazio ai piani sequenza senza apparentemente nessuno stacco (il che ricorda da vicino l’Alfred Hitchcock di Nodo alla Gola) liberamente ispirati al capolavoro di Godard Fino all’ultimo respiro (citato apertamente nella celebre sequenza dove Mr. Orange e Mr. White ripassano i dettagli del colpo in auto).

le_iene_a_tavolaLa storia è semplice e lineare: una banda composta da sei uomini viene formata da Joe Cabot (Lawrence Tierney) per realizzare un colpo in una gioielleria di Los Angeles. Gli uomini, senza nome ma contraddistinti da nomignoli (che richiamano il film Il colpo della metropolitana di Joseph Sargent) sono Mr. Blue (Edward Bunker), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Orange (Tim Roth), Mr. Blonde (Michael Madsen) e Mr. Pink (Steve Buscemi), tutti avanzi di galera e fidati sgherri di Cabot. Ma il giorno del colpo qualcosa va storto: la polizia è già sul posto, Mr. Blonde apre il fuoco e si scatena una carneficina. Brown e Blue muoiono sul colpo, Orange viene ferito durante la fuga e ha i minuti contati. I superstiti si ritrovano in un garage abbandonato, il luogo dove Joe ha detto di aspettare sue indicazioni… Mr. White vorrebbe aiutare Orange, suo pupillo; Mr. Pink è riuscito a scappare con i diamanti e Mr. Blonde (ruolo per il quale, in un primo momento, si era pensato a nomi del calibro di Edward Norton, James Woods e George Clooney) mostra tutto il suo sadismo e la lucida follia nel momento in cui sequestra un poliziotto legandolo nel portabagagli della sua auto. Ma il dubbio si insinua nelle loro menti, un atroce sospetto che li porta a diffidare l’uno dell’altro: c’è una talpa nel gruppo, un infiltrato della polizia, ma chi?

Su questa trama lineare che ricorda da vicino la tradizione del noir-gangsteristico americano della migliore tradizione, Tarantino compone la propria personale sinfonia giocando con la cultura pop, l’American Way, il teatro dell’assurdo pinteriano e addirittura quello shakespeariano. I protagonisti sono  davvero “cani da rapina”, iene, animali sanguinari, sadici e individualisti pronti a sacrificare il loro prossimo pur di salvarsi la pelle. Non è un caso, forse, che l’unico dei sei a salvarsi, alla fine (anche se arrestato dalla polizia) sia proprio Mr. Pink, il più individualista del gruppo, colui che fin dall’inizio dichiara le sue vere intenzioni nel momento in cui rifiuta di dare la mancia alla cameriera.

Il film può essere inteso come una cinica apologia della nostra società contemporanea: siamo animali pronti a sbranare il nostro prossimo pur di preservarci, come recitava il vecchio motto del filosofo Hobbes “Homo Homini Lupus”. I sei uomini sono spietati e pronti a tutto, ma  a loro modo ognuno ha un’etica, una sorta di “codice morale dei ladri” che li porta a seguire un determinato modello di comportamento: Mr. Blonde non tradirebbe mai Joe ed Eddie, è solo un pazzo sadico che vuole divertirsi, un “cane pazzo”; Mr. White si lascia letteralmente “fregare” dal sentimento di amicizia e protezione che lo spinge verso Mr. Orange, tant’è che arriva addirittura a soppiantare la propria etica, anche se nel finale viene punito cinicamente dagli eventi (o dal Destino?) che gli mostrano  inesorabilmente l’errore di valutazione compiuto quando  ormai è troppo tardi.

Da molti critici il film è stato paragonato (o comunque confrontato) con l’opera di Stanley Kubrick Rapina a Mano Armata, ma le diversità tra le due pellicole sono profonde e significative: prima fra tutte, la frammentazione del tempo della storia, di cui Tarantino è un esperto, totalmente assente nel film di Kubrick che invece sceglie di raccontare cronologicamente la preparazione di un colpo in un ippodromo, destinato a finire tragicamente; inoltre, un’altra particolarità che distingue Le Iene è l’assenza della pianificazione, lo spettatore viene coinvolto fin dalle prime inquadrature nella banale quotidianità di un gruppo di uomini rozzi, nevrotici, sboccati che discutono di donne, sesso, canzoni di Madonna, mance e cameriere. Improvvisamente, dopo i titoli di testa (rigorosamente in giallo su fondo nero) ci troviamo a rapina compiuta: non vediamo cosa accade nella gioielleria, il massacro, possiamo solo intuirlo e ricostruirlo dai racconti dei sopravvissuti e dai flashback che ricostruiscono i frenetici eventi e le personalità complesse di questi loschi individui.

le_iene_mr_orange_morteProprio come in un dramma del Bardo, è la parola ad avere la meglio su complesse scenografie e perfino sul potere immaginifico del cinema stesso; la parola, i dialoghi costruiscono la struttura della narrazione proprio dove i personaggi “fanno”, letteralmente, la storia. Fin dalla carrellata iniziale, con il dolly che gira intorno ai personaggi prima prendendone le distanze poi avvicinandosi cautamente, dai loro dialoghi intrisi di cultura popolare e apparentemente senza senso capiamo in realtà la loro psicologia: Mr. Pink è un egoista, individualista che si rifiuta di dare un dollaro di mancia alla cameriera; Mr. Orange è pronto a fare la spia a Joe, svelando subito il suo gioco pericoloso su due fronti; Mr. Blonde è ciecamente fedele al capo Joe, pronto ad ubbidire a qualunque ordine; Mr. White tiene testa al capo, lo conosce bene e ha grinta da vendere, ma il suo lato debole è proprio l’istinto di protezione paterna verso Orange, che siede al suo fianco perfino a tavola;

Mr. Blue è schivo e taciturno; Mr. Brown è assurdo e logorroico come Tarantino stesso, che realizza con questo film il suo sogno di scrivere, dirigere e interpretare una sua opera. Un’ultima attenta analisi riguarda il personaggio di Mr. Orange e il suo aspetto meta- cinematografico: il personaggio interpretato magistralmente da Tim Roth è la quintessenza dell’attore, poiché in realtà il poliziotto Freddy Newandyke è costretto ad interpretare un ruolo, si cala in esso, lo studia attentamente vivisezionandolo al microscopio e finisce non solo per crederci totalmente, per abbandonarsi ad esso, ma per modellarlo su sé stesso e per viverlo fino in fondo, perdendo il labile confine tra finzione e realtà: si sente un gangster, acquisisce il loro linguaggio e il loro modo di pensare; uccide una donna a sangue freddo, e quando l’atto è ormai compiuto lo spettatore non si sente nemmeno più in grado di giudicarlo in alcun modo.

Il gusto di Tarantino per la citazione cinefila si vede già a partire da quest’opera prima: per esempio, l’uso del cosiddetto “Mexican Standoff” nel finale del film, ovvero un “triello” (duello a tre) dove i personaggi di Eddie il bello, suo padre Joe e Mr. White si tengono sotto tiro contemporaneamente; il cineasta usa una tipica inquadratura cara allo spaghetti western italiano e in particolare a Sergio Leone, che ne introduce uno ormai famosissimo nel finale del cult Il buono, il brutto e il cattivo dove i tre protagonisti si affrontano, faccia a faccia, in un cimitero. Allo stesso modo, un’altra scena ad alto tasso di cinefilia può essere considerata la memorabile sequenza della tortura, una delle più censurate della storia del cinema, dove il sadico Mr. Blonde si diverte a torture e tagliuzzare il povero poliziotto sequestrato. La scena ha un gusto fortemente grottesco, e la violenza che la pervade scivola in un’assurda atmosfera ironica ed eccessiva riconfermando quelle tesi che leggono il mondo descritto da Tarantino come chiuso in sé stesso, autistico insomma, fumettistico ed eccessivo quindi per questo totalmente avulso e lontano dalla realtà stessa. L’azione di Mr. Blonde è sottolineata dal sapiente uso di un pezzo rock degli anni ’70, “Stuck In The Middle With You” dei Stealers Wheel, una scelta particolare che ricorda da vicino quella compiuta da Lucio Fulci nel lontano 1972 nel film Non si sevizia un Paperino.

le_iene_mr_orange

Eppure, nemmeno il genio di Tarantino è riuscito ad evitare le accuse di plagio che sono state rivolte al film, e a nulla è servito il suo intervento con la famosa frase “i grandi artisti non copiano: rubano” a sua volta “rubata” dal compositore Igor’ Stravinskij. Un fan lo accusò di aver copiato in modo imbarazzante un film di Ringo Lam datato 1987 ed intitolato City on Fire. Le analogie più evidenti sono nella sinossi, nella sparatoria finale (il “triello”) e nella scelta stilistica in base alla quale la scuola di Hong Kong mette in scena un mix letale di realismo, pessimismo, crudeltà, durezza nelle immagini e perdita di qualunque distinzione tra buoni e cattivi, ma alla fine anche queste critiche accese decadono, nel momento in cui Tarantino dichiara di essere un fan del regista Lam e di avere un poster del suo film in casa; ma molti altri sono i film che il regista cita e saccheggia, a partire da Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah fino al cultissimo The Blues Brothers di John Landis. Ma forse è proprio questa una delle abilità maggiori del cineasta del Tennessee: saper rielaborare, secondo una sensibilità e un gusto assolutamente personali, elementi disparati tratti dalla cultura e dall’immaginario pop.

Tarantino modella i suoi personaggi giocando sul labile confine del bene e del male; essi non subiscono un giudizio manicheo da parte del loro demiurgo “creatore”, vivono indipendentemente cogliendo tutte le infinite sfumature della realtà. E la loro forza è proprio in questo: nel riuscire ad essere assurdamente normali, pur essendo calati in un contesto di genere che rafforza l’aspetto fittizio della messinscena cinematografica; i dialoghi riproducono fedelmente il linguaggio della quotidianità, come nel teatro di Harold Pinter o nelle sceneggiature di David Mamet: il linguaggio forte, decisamente “politicamente scorretto”, serve per riprodurre l’alienazione umana nella realtà contemporanea, ormai svuotata di significato. Il cinema di Quentin Tarantino è un’overdose cinefila per gli occhi e per i palati degli spettatori più attenti, un tripudio di immagini e citazioni che celano, però, un significato molto più profondo e stratificato di quanto può apparire, semplicemente, in superficie.

Le Iene di Quentin Tarantino, oggi in tv

0
Le Iene di Quentin Tarantino, oggi in tv

le_iene_posterOggi, in onda su Rai 4 in seconda serata, ritornano sul piccolo schermo i Cani da Rapina di Quentin Tarantino, Le Iene, il primo film del regista cult che lasciò sbalordita la platea del Sundance Film Festival nel 1992.

LEGGI IL NOSTRO APPROFONDIMENTO SUL FILM

Nel cast del film Harvey Keitel è Mr. White/Larry Dimmick, Tim Roth è Mr. Orange/Freddy Newandyke, Steve Buscemi è Mr. Pink/Mark Nussy, Michael Madsen è Mr. Blonde/Vic “Sorriso” Vega, Chris Penn è Eddie “il Bello” Cabot, Lawrence Tierney è Joe Cabot, Quentin Tarantino è Mr. Brown/Dennis Koonstock, Edward Bunker è Mr. Blue/Roy Spafucci e Kirk Baltz è Marvin Nash.

Il film è stato fonte di nuemrosissim citazioni e omaggi e a sua volta è il risultato di uno studio attento e cinefilo da parte del regista che sin dal suo primo lungometraggio ha farcito il suo cinema di riferimenti alla cultura cinematografica passata.

Le Idi di Marzo: recensione del film di George Clooney

Le Idi di Marzo: recensione del film di George Clooney

Arriva finalmente nelle sale Le idi di marzo, ultimo film da regista di George Clooney, dopo essersi già imposto alla scorsa Mostra d’Arte Cinematografico di Venezia.  Il ritorno alla regia dell’attore segna anche il ritorno a temi a lui molto cari come la politica e le istituzioni, dopo la breve parentesi costituita da In amore niente regole, commedia più leggera e sentimentale.

Il film racconta la vicenda di un giovane e idealista addetto stampa (Ryan Gosling) che lavora per un candidato alla Presidenza, il governatore Mike Morris (George Clooney), e che si trova suo malgrado pericolosamente coinvolto negli inganni e nella corruzione che pervadono il mondo della politica. Le idi di marzo si colloca nel filone del thriller politico che fiorisce negli anni 60’-70’ grazie a registi del calibro di Elio Petri, o Sidney Lumet. La splendida sceneggiatura, tratta da Farragut North di Beau Willimon e scritta a quattro mani da Grant Heslov e dallo stesso Clooney, supporta mirabilmente l’opera elevandone la caratura artistica e sociale, impreziosita da un brillante uso di dialoghi, che aiuta la narrazione a non cadere in un immobilismo tipico di una messa in scena teatrale. In questo fa la sua parte Clooney che serve la storia con una regia lucida ed elegante, stilisticamente classica e funzionale al racconto in atto.

Le idi di marzo, il film

Al servizio della storia c’è anche un formidabile cast di confermatissime personalità attoriali, che regalano interpretazioni ad altissimi livello e all’altezza delle aspettative. Su tutti spicca come al solito un Paul Giamatti stratosferico, accompagnato da una sorprendentemente brava Evan Rachel Wood, una certezza come Philip Seymour Hoffman e un prezioso Ryan Gosling, ormai definitivamente lanciato nell’Olimpo dei performer di alto livello. Proprio il suo personaggio è il fulcro centrale della storia: un giovane idealista che crede in qualcosa di giusto ma che non necessariamente rappresenta la soluzione migliore per sopravvivere nel mondo che lo circonda.

L’allegoria del film di Clooney è quella propria di una “iniziazione”: il giovane idealista si addentra nel mondo della politica con il proprio bagaglio di valori, lontanissimo  dalle concrete dinamiche politiche e governative, e suo malgrado dovrà imparare a conviverci, sottostando a compromessi e imparando a scoprire il proprio lato oscuro. Il sistema dipinto dal regista è un malato inguaribile, in un perenne stato di dialisi, e nemmeno il recente cambiamento avvenuto sembra rappresentare quel vento di speranza tanto osannato. All’interno del racconto George Clooney ritrova un equilibrio solido che gli consente di raccontare attraverso una lucida e profonda (auto)critica, un mondo che lo sta tradendo (o forse lo ha già tradito). Alla fine il lato oscuro rappresenta sempre l’unica scelta percorribile e con una sorta di velato pessimismo, ma con netto distacco, il suo sguardo accompagna all’epilogo la storia.

Le Idi di Marzo: Clooney porta al cinema il cinismo della politica

Il prossimo 16 di dicembre uscirà nelle sale cinematografiche italiane il nuovo film diretto da George Clooney, Le idi di marzo, quarto lavoro alla regia dell’attore statunitense che del film è anche interprete co-protagonista. Le idi di marzo è un emozionante quanto amaro thriller politico ambientato in Ohio durante  le primarie del Partito Democratico. Mike Morris (George Clooney) è il candidato sfidante e meno accreditato ma che conquista progressivamente consensi grazie alla sua idealista e onesta interpretazione dei valori costituzionali.

Le idi di marzo – Trailer Italiano

0
Le idi di marzo – Trailer Italiano

Il film è ambientato nel mondo politico statunitense in un prossimo futuro, durante le primarie in Ohio per la presidenza del Partito Democratico. Racconta la vicenda di un giovane e idealista guru della comunicazione (Ryan Gosling) che lavora per un candidato alla presidenza, il governatore Mike Morris (George Clooney), e che si trova suo malgrado pericolosamente coinvolto negli inganni e nella corruzione che lo circondano.

Accanto a Ryan Gosling e George Clooney, “Le idi di marzo” è interpretato anche da Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei, Jeffrey Wright, Max Minghella ed Evan Rachel Wood. La direzione della fotografia è di Phedon Papamichael, il montaggio di Stephen Mirrione, la scenografia di Sharon Seymour, i costumi di Louise Frogley.

Le Idi di Marzo – trailer e locandina

0

Le Idi di Marzo aprirà Venezia, ed ecco on line una locandina (foto) e il trailer del film che vede il ritorno dietro la macchina da presa di George Clooney.

Le icone dei cartoni animati secondo Sakimi Chan

Le icone dei cartoni animati secondo Sakimi Chan

Chi segue le proposte di fan art che seleziona Cinefilos.it per i suoi lettori, sa che abbiamo un occhi di riguardo per la disegnatrice Sakimi Chan, che attraverso la sua pagina Facebook e DeviantArt propone quasi ogni giorni un nuovo pezzo d’arte originale. Oggi vi proponiamo, nati dalla maestria dell’artista, i ritratti dei protagonisti e delle icone di alcuni cartoni animati, come i Pokemon o Scooby Doo. Che ve ne pare?

Di Sakimi Chan vi abbiamo già mostrato:[nggallery id=1543]

Naruto Shippuden: le fan-art di Sakimi-chan [foto]

Genderswap: i personaggi dei film d’animazione cambiano sesso [FAN ART]

Le guerriere Sailor in versione steampunk! [foto]

Le guerriere Sailor in versione steampunk! [foto]

L’artista No Flutter ha realizzato una rielaborazione delle protagonista dell’anime/manga Sailor Moon. Ecco le trasformazioni steampunk delle guerriere Sailor!

Guarda anche: Le Principesse Disney diventano Guerriere Sailor! [FOTO]

guerriere Sailor

Pretty Guardian Sailor Moon (美少女戦士セーラームーン Bishōjo senshi Sērā Mūn?, lett. “La bella guerriera Sailor Moon”), meglio noto semplicemente come Sailor Moon, è un manga di genere mahō shōjo creato da Naoko Takeuchi all’inizio degli anni novanta ed esportato in numerosi paesi esteri. Il manga prende il nome dalla divisa alla marinaretta, indossata dalle guerriere nella serie, che è una rielaborazione della divisa scolastica femminile obbligatoria in molte scuole giapponesi.

Sailor Steampunk guerriere SailorIl manga getta le basi con Codename Sailor V, del 1991, per poi nascere ufficialmente con il titolo Bishōjo Senshi Sailor Moon, pubblicato dalla Kōdansha sulla rivista Nakayoshi lo stesso anno, ed in seguito raccolto in 18 tankōbon. Successivamente, andò in onda una trasposizione animata, uscita l’anno seguente e diventata una fra le più note espressioni della cultura pop giapponese del mondo, nonché uno dei maggiori successi dell’animazione giapponese su scala planetaria degli anni novanta, presso il pubblico infantile, adolescenziale e di giovani adulti appassionati di anime.

L’adattamento animato è composto da cinque serie televisive per un totale di 200 episodi, tre film cinematografici, due cortometraggi e tre special televisivi. Dopo la conclusione della versione animata, Sailor Moon sfociò in una trasposizione teatrale, Sailor Moon musical, e in una serie televisiva live action, Bishōjo senshi Sailor Moon. Come ogni altra serie di gran successo, la saga di Sailor Moon ha ispirato e prodotto numerosi articoli da merchandising, dai giocattoli ai videogiochi, dalla cancelleria scolastica fino ai prodotti alimentari. Dal 5 luglio 2014 viene trasmessa in versione anime un adattamento del manga originale, intitolato Pretty Guardian Sailor Moon Crystal.

In Italia, l’anime è stato acquistato da Mediaset, che ha trasmesso dal 1995 al 1997 le prime due serie su Canale 5 e le ultime tre su Rete 4. Il manga, invece è stato pubblicato per la prima volta da Star Comics dal 1995 al 1999 con il titolo Sailor Moon, la combattente che veste alla marinaretta. Nel 2010 viene invece pubblicata una nuova edizione più fedele all’originale da GP Publishing, con il titolo Pretty Guardian Sailor Moon.

Le Guerre Horrende: la conferenza stampa

Le Guerre Horrende: la conferenza stampa

Prodotto da Esperimentocinema, Le Guerre Horrende è il nuovo film di Luca Immesi e Giulia Brazzale, liberamente tratto da Le guerre orrende, testo teatrale scritto nel 1997 da Pino Costalunga, e con un cast di attori teatrali come Livio Pacella, Désirée Giorgetti e Dario Leone. Il film, un commedia fantasy con sfumature di dramma, è stato presentato a Roma alla presenza dei due registi, che al termine della proiezione hanno avuto modo di raccontare l’esperienza sul set e le tematiche del film.

“L’idea del film nasce dal testo teatrale di Costalunga – spiega il regista Luca Immesi – al quale abbiamo aggiunto diverse scene oniriche e cambiato il finale, il tutto per raccontare nel migliore dei modi l’orrore delle guerre e degli sconvolgimenti che queste portano nell’animo umano”.

“Abbiamo sfruttato il basso budget per farne una cifra stilistica – aggiunge la co-regista Giulia Brazzale – girando così pressoché in un unico luogo, il che ha accentuato l’influenza teatrale del film. Abbiamo girato in posti intrisi di racconti della prima e seconda guerra mondiale, e il finale si ispira proprio ad un evento reale e tristemente noto nel Veneto.”

Sul perché abbiano deciso di inserire la H nel titolo del film, Luca Immesi chiarisce: “Il titolo prende spunto da una frase di Machiavelli, che per “horrende” intendeva grandi, straordinarie, ma anche sanguinarie. Ci piaceva il collegamento che si generava tra questi aggettivi, e che descrive perfettamente un evento come quello della Grande Guerra”

“Il testo teatrale arriva a parlare di tutte le guerre della storia – prosegue Giulia Brazzale – mentre noi abbiamo preferito concentrarci sulle due grandi guerre di inizio ‘900, e di come queste abbiano diviso internamente il popolo italiano. L’idea fondante del nostro film è che le guerre e la violenza siano il frutto dei conflitti personali che giacciono irrisolti nel microcosmo di ognuno di noi”.

Il film della coppia di registi si avvale di una distribuzione non classica, ma che procede secondo un tour di proiezioni attraverso l’Italia, e che permetterà al film una maggiore visibilità.

Le guerre horrende, recensione del film di Luca Immesi e Giulia Brazzale

Le guerre horrende è il secondo lungometraggio di Luca Immesi e Giulia Brazzale, che dopo l’esordio con Ritual – Una storia psicomagica, traggono ispirazione per il loro nuovo film dall’omonima pièce teatrale di Pino Costalunga. Il titolo prende spunto da una frase di Machiavelli, che per “horrende”, intendeva grandi, straordinarie. E nell’anno del centenario dalla fine della Grande Guerra, è proprio sui grandi sconvolgimenti bellici della prima metà dell’900 che i due registi decidono di focalizzarsi, per raccontare di come la guerra nasca prima di tutto dentro di noi.

La vicenda del film racconta le avventure del Capitano (Livio Pacella), eccentrico reduce della Grande Guerra e del secondo conflitto mondiale, che in compagnia del suo fedele scudiero (Désirée Giorgetti) si è ritirato a vivere in un misterioso bosco sperduto. I due trascorrono tutto il tempo a narrare ed inscenare epiche battaglie, ma quest’atmosfera fiabesca viene spezzata dall’arrivo di un giovane soldato privo di memoria (Dario Leone), che porterà tensioni e conflitti tra i personaggi.

Di forte impostazione teatrale, il film non rinuncia alle convenzioni per le quali il testo originario è stato scritto, avvalendosi così di un’unica location, pochi attori ed una recitazione enfatica. Se tutto ciò potrebbe funzionare adeguatamente in teatro, non sempre si può dire la stessa cosa al momento della trasposizione cinematografica. Benché la bellezza del luogo in cui le vicende sono ambientate mantenga sempre una certa attrattiva nei confronti dello spettatore, con lo scorrere dei minuti si trovano sempre meno motivi per voler continuare a seguire gli eventi narrati. Complici scelte di sceneggiatura che hanno modificato parzialmente il testo di Costalunga, con l’aggiunta di elementi onirici e surreali che però non fanno che disorientare lo spettatore. Dove il film voglia arrivare risulta ben presto prevedibile, non riuscendo così a generare interesse verso lo svelamento finale dell’intreccio.

Le Guerre HorrendeUlteriore appesantimento è dato dai dialoghi del film, che se da una parte sottolineano come quella dei protagonisti sia tutta una grande recita, dall’altro risultano eccessivamente irrealistici e fuori contesto per il mezzo cinematografico. Tutto ciò non aiuta nemmeno gli attori, che si trovano costretti alle prese con un ibrido tra cinema e teatro che però non riesce a fondere adeguatamente i due medium.

Benché da un punto di vista fotografico il film trovi il suo punto di forza, è un’opera quella dei due registi inadatta per il cinema o che comunque non si avvale di una trasposizione in grado di renderla facilmente fruibile né godibile. Trattare il tema delle guerre ricercandone l’origine nei conflitti interiori che animano ognuno di noi è un’idea interessante, ma ridurre il tutto a soluzioni surreali e risvolti macchinosi risulta assai difficile da digerire.

Le grand Bain: recensione del film di Gilles Lellouche #Cannes71

0
Le grand Bain: recensione del film di Gilles Lellouche #Cannes71

Al suo esordio in solitaria dietro la macchina da presa, Gilles Lellouche presenta nel fuori concorso della selezione ufficiale di Cannes 2018, Le grand Bain, una commedia con un cast stellare il cui titolo internazionale è Skin or Swim (Affonda o nuota).

Un gruppo di uomini quasi tutti di mezza età cerca di trovare un nuovo scopo nella vita nella partecipazione a un campionato europeo amatoriale di nuovo sincronizzato. Ognuno con le sue paure, i suoi problemi di famiglia o lavoro e le sue insicurezze, troverà nuovo spirito in questa avventura.

Commedia alquanto convenzionale, Le grand Bain sfrutta il carisma del super cast di star francesi, guidato da Guillaume Canet, Virginie Efira e Mathieu Amalric, e lo inserisce in un contesto assurdo, il nuovo sincronizzato maschile. Tuttavia l’intuizione del film si esaurisce in questo, in quanto le risate arrivano ma la scrittura sacrifica i talenti e non presenta particolare spirito.

Una commedia per il grande pubblico che si riveste di qualche cliché di troppo nel tratteggiare gli uomini in crisi di mezza età e che alla fine resta un piacevole passatempo senza troppe pretese. Dalle crisi di coppia, alla depressione post licenziamento, sono molti i momenti di difficoltà che affrontano i nostri aspiranti nuotatori, e dopo qualche difficoltà iniziale, ognuno trova conforto nella disgrazia dell’altro, trasformando lo spogliatoio della piscina in un luogo di confronto e di conforto.

Peccato perché il potenziale comico del cast era notevole e le poche scene davvero ispirate sono esilaranti e trascinanti, probabilmente affidate al talento recitativo dei protagonisti.

Le giurie di Venezia 2010

Sarà Quentin Tarantino a presiedere la giuria del Concorso internazionale di lungometraggi del Festival di Venezia 2010.

Le Gemme dell’Infinito, l’Occhio di Agamotto e Heimdall, facciamo il punto

La scena post-credits di Avengers Age of Ultron aveva reso la situazione molto chiara. Per prepararsi al meglio alla guerra che ci sarà in Avengers Infinity War, il titano pazzo Thanos ha deciso di fare da solo e di collezionare le Gemme dell’Infinito in autonomia, senza affidarsi a scagnozzi o tirapiedi (vedi Ronan in Guardiani della Galassia).

La scena di cui sopra vedeva il Titano afferrare il Guanto sinistro, privo di Gemme (il destro lo avevamo già intravisto nel 2011, in Thor). Esattamente, quelle Gemme che sono state sapientemente sparpagliate nel MCU e che a breve vedremo tutte riunite, forse su quello stesso Guanto.

Ma andiamo con ordine: nella mitologia del MCU, le Gemme dell’Infinito “sono i resti di sei diverse singolarità che esistevano prima del Big Bang e sono state compresse nelle Gemme dopo la nascita dell’Universo.”

Dove e quando abbiamo visto le Gemme dell’Infinito? E soprattutto quali di esse hanno già esordito al cinema? Fino a questo momento il MCU ci ha raccontato di quattro Gemme su sei.gemme dell'infinito

  • Gemma dello Spazio (blu): è contenuta nel Tesseract, appare brevemente nella scena dopo i titoli di coda di Thor, poi in Captain America Il primo Vendicatore (2011), dove viene usata da Teschio Rosso per potenziare le armi dell’HYDRA, e in The Avengers (2012), dove viene usata da Loki per aprire il portale a New York da cui proviene l’esercito dei Chitauri, alla fine viene ricollocata nella stanza dei trofei di Asgard.
  • Gemma della Mente (giallo): incastonata nello scettro di Loki, che la utilizza per controllare la mente delle persone in The Avengers (2012), l’arma viene poi presa dal Barone Strucker che, come mostrato nella scena a metà dei titoli di coda di Captain America The Winter Soldier (2014), la utilizza per effettuare degli esperimenti sugli esseri umani, i cui unici due sopravvissuti sono i gemelli Quicksilver e Scarlet Witch, dopodiché viene incorporata da Ultron nella fronte dell’androide Visione.
  • Gemma della Realtà (rosso): contenuta nell’arma semi-fluida chiamata Aether, che viene consegnata da Volstagg e Lady Sif al Collezionista nella scena a metà dei titoli di coda di Thor The Dark World (2013), in modo che possa essere tenuta al sicuro e lontana dal Tesseract, poiché, se lasciate vicine, sarebbero un pericolo.
  • Gemma del Potere (viola): contenuta nell’Orb, una sfera ricercata da Ronan per conto di Thanos in Guardiani della Galassia (2014). Viene consegnata dai Guardiani della Galassia ai Nova Corps in modo che possa essere tenuta al sicuro.

collezionistaFino a questo momento è tutto quello che sappiamo con certezza in merito alle Gemme, che, lo ricordiamo, sono state nominate chiaramente soltanto una volta, dal Collezionista, nel momento in cui Star Lord e compagni, in Guardiani della Galassia, gli consegnano l’Orb per capire cosa contiene.

occhio di agamottoA novembre arriva al cinema Doctor Strange, il film Marvel Studios numero 14, e sappiamo, dalle dichiarazioni che sono state rilasciate sul set da Barry Gibbs, responsabile del design di oggetti, armi e materiali di scena, che l’Occhio di Agamotto, magico pendaglio indossato dallo Stregone Supremo, contiene in realtà una pietra dai riflessi opalescenti ma tendenti al verde. Kevin Feige ha inoltre dichiarato tempo addietro che l’Occhio di Agamotto consente a Strange di manipolare il tempo. Se ue indizi fanno una prova, la risposta è semplice: l’Occhio di Agamotto contiene un’altra Gemma, probabilmente quella del Tempo.

Non resta ora che trovare quella dell’Anima, che cattura e manipola le anime. La rete, si sa, è piena di curiosità e congetture, e navigando alla ricerca di storie e notizie sulle Gemme dell’Infinito abbiamo trovato questa immagine che ci suggerirebbe la presenza dell’ultima Gemma da qualche parte (forse incastonata nella parte frontale della sua armatura) addosso a Heidmall, il guardiano del Bifrost, che troveremo di nuovo in Thor Ragnarok.

Gemme dell'Infinito contenitoriOra, con tabella di marcia alla mano, sappiamo che la Gemma dell’Anima potrà comparire soltanto in altri quattro film, prima dell’arrivo di Avengers Infinity War: nell’ordine si tratta di Guardiani della Galassia Vol. 2, Spider-Man Homecoming, Thor Ragnaroke Black Panther.

Escludendo gli “esordienti” Spider-Man e Black Panther, e considerando che già una Gemma, l’Orb, ha fatto il suo esordio con i Guardiani, potrebbe essere plausibile che l’ultimo gioiello spaziale si possa rintracciare in qualche modo in Ragnarok.

Questo vuol dire chiaramente che sapremo esattamente dove sono le Gemme e sapremo in quali post Thanos dovrà andare a cercare per completare il suo Guanto dell’Infinito e dare davvero inizio a quella guerra tanto temuta e già annunciata dal titolo del film che chiuderà la Fase 3 della Marvel.

Le gemelle Avellan nel cast di Machete Kills!

0

Le gemelle Avellan, Electra ed Elise, diventate celebri per aver partecipato a Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez e Grindhouse – A prova di morte di Quentin Tarantino, vestiranno di nuovo i panni delle due pericolose infermiere Mona e Lisa nel sequel di Machete.

Le foto di Scarlett Johansson nuda

0

Dopo aver denunciato lo scorso Marzo all’FBI che il suo Iphone era stato hackerato, le foto che l’attrice si era fatta senza veli a casa sua sono ora state diffuse in rete.

Le foto della premiere di Burt Wonderstone con Jim Carrey

0

Domani, 15 marzo, le sale di tutti gli Stati Uniti vedranno l’uscita del nuovo film della Warner Bros, diretto da Don ScardinoThe Incredible Burt Wonderstone. Un film che promette davvero bene, soprattutto dando un’occhiata al cast, decisamente importante, infarcito di grossi nomi come Jim Carrey e Steve Buscemi, oltre a Steve Carrell, Olivia Wilde, James Gandolfini e Alan Arkin.

La pellicola segue le vicende di Burt Wonderstone (interpretato da Steve Carrell) e Anton Marvelton (Steve Buscemi) due illusionisti sulla cresta dell’onda, che animano e intrattengono Las Vegas con le loro strabilianti esibizioni. I due, nonostante le apparenze e l’impressione che danno in pubblico, non si sopportano e la loro collaborazione mostrerà ben presto delle crepe. Le cose precipiteranno quando un artista di stada, Steve Gray (Jim Carrey), comincia a conquistare notorietà, oscurando gradualmente i più esperti colleghi. Burt dovrà così appassionarsi di nuovo come un tempo alla magia e al suo lavoro per tornare ad essere apprezzato dal pubblico.

Il giorno dell’uscita italiana del film non è ancora stata comunicata, ma intanto arrivano le foto del red carpet tenutosi pochi giorni fa a Los Angeles, direttamente dalla Warner Bros via Twitter, aspettando domani per osservare le prime reazioni del pubblico americano.

Le foto della premiere a Tokyo di Star Wars Il Risveglio della Forza

0

Si è tenuta a Tokyo ieri una delle prime premiere di Star Wars Il Risveglio della Forza di JJ Abrams, e oltre al regista anche il cast di giovani leve ha infiammato la platea:

LEGGI ANCHE: Star Wars Il Risveglio della Forza: la premiere sarà più grande degli Oscar

[nggallery id=2297]

Star Wars Il Risveglio della Forza uscirà sul grande schermo il 18 dicembre 2015 con un cast che include il ritorno di Harrison Ford, Carrie Fisher, Mark Hamill, Anthony Daniels, Peter Mayhew e Kenny Baker con le nuove aggiunte John BoyegaDaisy RidleyAdam DriverOscar IsaacAndy SerkisDomhnall GleesonLupita Nyong’oGwendoline Christie Max von Sydow.

Le foto dei collectible di Django Unchained di Tarantino!

0
Le foto dei collectible di Django Unchained di Tarantino!

Ecco le foto dei collectible di Django Unchained, il nuovo film uscito questa settimana di Quentin Tarantino. I Toys saranno disponibili all’acquisto già da subito per tutti i fan che lo riterranno indispensabile: 

Le Follie dell’Imperatore: recensione del film

0
Le Follie dell’Imperatore: recensione del film

La recensione del film d’animazione Le Follie dell’Imperatore di Mark Dindal con le voci di David Spade (Kuzco); John Goodman (Pacha); Eartha Kitt (Yzma); Patrick Warburton (Kronk).

Sinossi: Kuzco, giovane e viziato imperatore di una civiltà ignota e fantastica, viene trasformato per sbaglio in lama da Yzma, la sua perfida consigliera che intendeva invece ucciderlo. Con l’aiuto dell’allevatore Pacha, l’imperatore Kuzco farà di tutto per ritornare alla sua regia e riacquistare le sue sembianze umane.

Le Follie dell’Imperatore: recensione del film

Le Follie dell’Imperatore, 40° lungometraggio di casa Disney, si differenzia dai prodotti standard della famosa casa di produzione ”per ragazzi” per l’atipicità della struttura e soprattutto dei contenuti che si rivelano principalmente divisi su due fronti: il lato comico, accentuato soprattutto dai personaggi “cattivi” Yzma e Kronk, e il lato avventuroso, che si risolve in inseguimenti e cacce al tesoro tipiche più dei personaggi animati della Warner Bros che degli eroi Disney.

Il punto forte de Le Follie dell’Imperatore è senza dubbio il lato comico che nella persona di Kuzco raggiunge picchi addirittura sarcastici, più adatti sicuramente ad un pubblico adulto che a bambini. La cura del dettaglio e dei caratteri fa di Le Follie dell’Imperatore uno dei film più interessanti del panorama Disney, proprio per l‘atipicità che lo contraddistingue, l’irriverenza che fa le boccacce a tutte le romantiche ed eroiche storie fino ad ora proposte, ma che non rinuncia nel finale al buonismo del viaggio di iniziazione durante il quale il giovane e viziato imperatore impara ad apprezzare il valore dell’amicizia e della semplicità, l’umiltà di essere una persona normale pur essendo imperatore, la capacità di prendersi le proprie responsabilità senza demandare ad altri i propri doveri.

A metà strada tra La Bella e La Bestia e Il Re Leone, strizzando l’occhio al pubblico, al quale spesso si ci rivolge direttamente, Le Follie dell’Imperatore, è un piccolo gioiello nella sterminata e preziosa produzione Disney, che diverte senza pretendere. Notevole nella traduzione italiana il doppiaggio della Marchesini per il bellissimo personaggio di Yzma.

Le Follie dell’Imperatore: 10 curiosità sul film Disney

Le Follie dell’Imperatore: 10 curiosità sul film Disney

Uscito nel 2000 e diretto da Mark Dindal, Le Follie dell’Imperatore è forse uno dei film Disney più sottovalutati di sempre, nonché uno dei più divertenti, mentre segue le disavventure dell’imperatore/lama Kuzco e del buon Pacha, che lo prende sotto la sua custodia. Irresistibili anche Yzma e Kronk, la villian e il suo tirapiedi, le cui battute diventate iconiche si sprecano, complice anche, per l’Italia, del fantastico doppiaggio di Anna Marchesini. Semplicemente irresistibile.

Ma dopo 25 anni dalla sua uscita, siamo davvero sicuri di sapere tutto quello che c’è da sapere su questa irresistibile commedia on the road? Ecco 10 curiosità su Le Follie dell’Imperatore che forse ancora non conosci!

  • Kuzco prende il nome dall’antica capitale degli Inca, Cuzco. La città esiste ancora sulle Ande, nel Perù meridionale, a un’altitudine di 3.200 metri.
  • La moglie di Pacha (John Goodman), Chicha (Wendie Malick), è incinta. Secondo il commento dell’edizione in Home Video, questo è il primo film d’animazione Disney a mostrare una donna incinta. E una delle prime madri umane a non essere trasformata nella villain o uccisa.
  • Patrick Warburton improvvisò quando Kronk canticchia la sua sigla mentre trasporta Kuzco (David Spade) nella borsa verso la cascata. L’ufficio legale della Disney fece firmare a Warburton tutti i diritti della composizione canticchiata.
  • Nella scena in cui Pacha trasporta Kuzco attraverso la giungla, Pacha e Kuzco discutono del fatto che Kuzco ha un basso livello di zucchero nel sangue. Questa è un inside joke sul fatto che David Spade, che interpreta Kuzco, è diabetico nella vita reale.
  • Nella scena della cena in cui Kronk accende un paio di candele, il portacandele è una piccola figura. Si trattava di un personaggio delle prime versioni del film. Era un consigliere dell’Imperatore, ruolo poi cancellato.
  • A causa dell’allusione nel titolo, il film viene spesso erroneamente descritto come una versione di “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Hans Christian Andersen. Sebbene alcuni tratti caratteriali del protagonista siano simili a quelli del protagonista della storia di Andersen, non ci sono ulteriori collegamenti. Piuttosto, la storia presenta molte più somiglianze con la fiaba “Kalif Storch” (Il califfo cicogna) di Wilhelm Hauff.
  • Il finale originale vedeva Kuzco costruire la sua enorme casa estiva sulla collina accanto alla casa di Pacha. Sting inviò una nota ai produttori obiettando che Kuzco non era cambiato davvero né aveva imparato nulla dalle sue esperienze se avesse comunque costruito la sua sfarzosa villa. Così, Kuzco costruisce (e si gode) una capanna molto più piccola, più adatta al villaggio e allo stile di vita contadino.
  • Quando Kronk e Yzma vanno al loro laboratorio segreto, oltrepassano diversi cancelli a forma di animale. Il primo è un gatto e si sente il suono di un gatto che miagola. Casualmente, Yzma si trasforma in un gatto alla fine di questo film. Questo è un omaggio al famoso ruolo di Eartha Kitt nei panni di Catwoman nella serie Batman (1966).
  • Nella sequenza in cui la mosca colpisce la ragnatela e viene mangiata, la mosca urla “Aiuto!”, proprio come nel classico cinematografico La mosca (1958), dove una mosca semiumana viene mangiata da un ragno.
  • Quando un gruppo di guardie riceve delle pozioni e si trasforma in vari animali, una di loro chiede: “Sono appena stata trasformata in una mucca, posso tornare a casa?” Si riferisce al detto “Till the cows come home”, che significa “per molto tempo”.

Le fate ignoranti: recensione della serie di Ferzan Ozpetek

Le fate ignoranti: recensione della serie di Ferzan Ozpetek

Il 13 aprile uscirà sulla piattaforma Disney+ la serie tv Le fate ignoranti, tratta proprio da quello che fu il film nell’anno 2001. Diretta ovviamente da Ferzan Ozpetek, che ne ha anche scritto la sceneggiatura insieme all’inseparabile Gianni Romoli, Carlotta Corradi e Massimo Bacchini, riprendendo sostanzialmente la storia originaria ma cambiando tutto il cast, eccezion fatta per l’iconica Serra Yilmaz.

La Disney ha iniziato a scegliere di proporre nel proprio catalogo almeno la metà dei contenuti che siano inerenti all’inclusività, e che quindi portino alla luce minoranze di ogni sorta. Ed ecco dunque spalancarsi le porte alla prima serie originale italiana Disney, che, tra l’altro, sarà disponibile all’interno della sezione Star.

Uno dei principali aspetti ad essere decisamente curiosi ad un primo sguardo alle sequenze iniziali, è la differenza d’età dell’impatto di determinati argomenti: a partire dal tradimento, fino ad arrivare alle tematiche LGBT+. L’ampio respiro che poteva respirarsi nel film del 2001, oggi ha una vaga aria cupa, quasi di un piccolo microcosmo cristallizzato sulla terrazza di un quartiere soleggiato a sud di Roma.

Le fate ignoranti, un microcosmo cristallizzato

Antonia (Cristiana Capotondi) è sposata con Massimo (Luca Argentero), che un bel giorno incontra Michele (Eduardo Scarpetta) che abita in un vivace condominio la cui amministratrice è Serra (Yilmaz, l’adorabile attrice feticcio di Ozpetek) e dove transitano tante briose personalità, tra cui Annamaria e Roberta (Ambra Angiolini e Anna Ferzetti), Mara e Luisella (Lilith Primavera e Paola Minaccioni) e Luciano e Riccardo (Filippo Scicchitano e Edoardo Purgatori). I due mondi s’incroceranno inevitabilmente ma, soprattutto, per usare le stesse parole in voice over di Luca Argentero: dopo ogni morte c’è una rinascita. E qua ce ne saranno più di una, di rinascite, chiaramente.

Infatti, Le fate ignoranti spalmato su otto episodi, è innegabile che sia godibile e che in parte rievochi la versione filmica di vent’anni fa, con quella leggerezza che inaspettata giungeva dalle labbra di qualche personaggio attinto dagli archivi di Pedro Almodovar. Ma è evidente che oggi tutto assuma una debolezza congenita, se non, addirittura, una punta di anacronismo.

Nel 2001 la rigidità espressa da Margherita Buy veniva guidata con gradualità all’interno di un’umanità nuova, e la novità era vissuta da ambo i lati: da chi la scopriva e da chi si faceva scoprire. E nella presentazione di ogni possibile sfaccettatura, la dolcezza e la fragilità dei due universi diventava il linguaggio comune, che lasciava parlare la sola cosa che contasse veramente in tutta la storia: il bisogno di essere sinceramente amati.

le fate ignorante castIl sottotesto del 2022 è molto diverso da quello del 2001

Nel 2022 è praticamente cambiato tutto il sottotesto. Le relazioni si allacciano e slacciano lasciando i personaggi implicati fissi nel proprio individualismo, che godono sì dell’altro e ne desiderano follemente la presenza, ma solo per abboffarsi il tempo necessario e poi congedarsi velocemente. E nessuno ne soffre, piuttosto a far male è il bisogno insoddisfatto, non la mancanza dell’altro in quanto tale.

Ma è chiaro che il problema non sia certo sulla forma, bensì nei contenuti. Per quanto anche gli attori, talvolta, sembra che interpretino la propria parte senza davvero entrare in relazione tra loro veramente, persino nella recitazione. Il quartiere Ostiense a Roma, così caro a Ferzan Ozpetek, ospita ancora creature umane alla disperata ricerca di qualche stralcio d’amore, ma trovandole tutte disperse, smarrite, e soprattutto ignare di ogni cosa: a replicare una formula che era stata efficace un tempo, ma che oggi non funziona più.

Dal punto di vista estetico la serie Le fate ignoranti racconta un mondo visto e stravisto, nel quale il cinismo di Perfetti sconosciuti del 2016 di Paolo Genovese, ad esempio, è già dato per assunto. E, probabilmente, è proprio a partire da un maggiore realismo relazionale che racconti del genere possono funzionare. Al di là di ogni tema a favore dell’inclusività.

Le fate ignoranti, Ferzan Ozpetek presenta la serie Star per Disney+

Oggi a Roma c’è stata la presentazione in anteprima delle due puntate iniziali della serie tv Le fate ignoranti, sviluppata dall’omonimo film del 2001. Diretta sempre festosamente da Ferzan Özpetek, è il primo prodotto originale italiano di Disney+, che comparirà nella sezione Star a partire dal 13 aprile in cinquanta Paesi.

A presenziare all’evento, oltre al regista, anche quasi tutto il cast: Eduardo Scarpetta che interpreta Michele, il ruolo che fu di Stefano Accorsi, Cristiana Capotondi nei panni di Antonia, che era stata Margherita Buy, Ambra Angiolini e Anna Ferzetti, che nella serie sono una coppia, Carla Signoris che è Veronica, la mamma di Antonia e, naturalmente l’incommensurabile Serra Yilmaz. Assenti Luca Argentero, che veste i panni di Massimo, marito di Antonia, e Paola Minaccioni.

Ozpetek inizia subito col raccontare che, con gli ormai vent’anni trascorsi dall’uscita del film, di differenze su alcune sfumature nei toni della storia, se ne vedono eccome. In particolare rispetto alle reazioni dei personaggi di fronte agli eventi: «Se ora scoprissi che il marito di una tua amica sta anche insieme ad un’altra la tua reazione con ottime probabilità sarebbe: “Ah ok, e allora?”. Quindi oggi la difficoltà è stata raccontare che gli amanti de Le fate ignoranti appartengono a due mondi diversi e spiegare che non potessero effettivamente stare insieme. Vent’anni fa era ancora comprensibile. Ad ogni modo la fortuna che ho avuto nel lavorare con la Disney è stata la grande elasticità che mi hanno dato sulla sceneggiatura: se qualcosa non mi convinceva potevo cambiarla anche in corso d’opera».

Interviene Gianni Romoli, che anche questa volta ha lavorato alla scrittura, confermando e ribadendo che narrare Le fate ignoranti all’inizio del secondo millennio aveva significato mostrare tutto il desiderio di scoperta che si respirava allora, specialmente verso le diversità, «tant’è che il punto di vista era quello di Antonia», spiega Romoli, «una borghese che dava la possibilità al pubblico di identificarsene, potendo essere introdotto man mano in una realtà che allora era nuova. Adesso non è più così. I punti di vista sono molti di più, si parla di un gruppo che, anziché spingersi e aprirsi all’esterno, si ripara e diventa rifugio».

«Quando era uscito il film le Torri Gemelle non erano ancora crollate. Da allora la chiusura è stata sempre maggiore, lo sguardo della gente sul mondo è cambiato», aggiunge il regista.

Il discorso poi si sposta verso la scelta del cast che, con la sola eccezione di Serra Yilmaz, è cambiato interamente: «Ho avuto la fortuna di lavorare con persone meravigliose», dice Ozpetek, «mi innamoro sempre di ognuno di loro, così come spero che loro lo siano di me!», esclama ridendo, «quando li scelgo mi devono comunicare qualcosa. Io mi adeguo al loro carattere: penso che non sia l’attore a dover entrare nel personaggio, ma il personaggio che debba costruirsi sull’attore. Ho visto che è un metodo di lavoro che li rende più efficaci».

Intervengono quindi Ambra Angiolini e Anna Ferzetti, definendo semplice il loro percorso nella costruzione della relazione che le lega nella serie, avendo entrambe puntato a fare solo la coppia innamorata. Prende la parola Ozpetek che dice con sarcasmo di aver ricevuto una telefonata da Pierfrancesco Favino, marito di Anna Ferzetti, che gli chiedeva cos’avesse fatto alla moglie, dal momento che sembrava essere diventata un’altra. E, dopo le risate di tutto il cast, Ferzetti spiega che il lavoro che il regista le ha proposto di fare nella realizzazione del personaggio, era partito già dal cambio di look e l’ha coinvolta molto profondamente: «Gli sconvolgimenti che faccio sulle attrici le fanno diventare delle pazze. Avrei dovuto fare il parrucchiere», conclude il regista, accompagnato ancora dalle risate di tutti. «Con Ozpetek è bellissimo lavorare», aggiunge Carla Signoris, «perché la concentrazione è tanta, ma c’è anche moltissima leggerezza».

Il regista, poi, parla del suo rapporto con Mina, che ha spesso contribuito nel suo lavoro anche dandogli preziosi pareri personali, e la descrive quasi come una strega con poteri da sensitiva. La sigla della serie è cantata da lei, con l’inedito pezzo “Buttare l’amore”, che ha voluto regalare ad Ozpetek per omaggiare lui e il bel rapporto che li lega. Tra pochi giorni ne verrà presentato il videoclip, rivela: «Mina mi emoziona sempre tanto».

Le fantome d’Ismael: recensione del film con Marion Cotillard #Cannes70

Realizzare oggi un film che sia originale dalla prima riga di sceneggiatura sino all’ultima è impresa quasi impossibile, e Arnaud Desplechin con il suo ultimo lavoro Le fantome d’Ismael neppure ci prova a farlo. Il suo cinema ha sempre puntato, e punta ancora adesso, a tutt’altro: a una scrittura complessa, emozionale, giocosa, a una direzione solida degli attori, ad inquadrature in grado di raccontare e creare atmosfere anche in silenzio.

Se Olvier Assayas allo scorso Festival di Cannes, il numero 69, ha raccontato i fantasmi attraverso gli smartphone e gli abiti di lusso, l’autore di Racconto di Natale sceglie oggi temi più inflazionati come l’amore, la nostalgia, l’arte, i sogni infranti e perduti, il riscatto, scegliendo un registro a dir poco particolare. Le linee di trama ci sono, ma non sono affatto fondamentali, ci trasportano avanti e indietro nel tempo come a voler risvegliare ricordi ormai sopiti, lo sfondo perfetto per un racconto fatto di volti, di carne e sangue, di passione e occasioni perdute.

Le fantome d'IsmaelIn Le fantome d’Ismael Charlotte è scomparsa da vent’anni, riposa in una tomba vuota e umida, poiché il suo corpo in realtà non è mai stato ritrovato; defunta solo per comodità legale, per egoismo di chi l’ha cercata per anni, invano. Charlotte invece è viva e vegeta, è soltanto scappata a vent’anni da una vita che la rendeva infelice, appesantita, e ora ha deciso di tornare senza dire niente a nessuno. Della sua vita passata sono rimaste soltanto macerie, un marito distrutto e un padre anziano ormai senza speranza, legato solo a vecchie e sfocate fotografie, è però forte la sua voglia di ricostruire tutto dalle fondamenta.

Ismael, quello che era l’uomo della sua vita, si è ora risposato, ma poco importa con il grande piano di Charlotte, anche perché è forte il dubbio che tutto questo – il ritorno in grande stile alla vecchia vita – sia soltanto mentale, ideale. È sempre Ismael, artista e regista nevrotico, schizzato e trasandato, a inventare tutto con minuzia di dettagli. Questo Desplechin non ce lo dice in modo esplicito, ma basta rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle che abbiamo a disposizione, uniti insieme soprattuto nel finale d’opera, durante il quale lo stesso protagonista paragona il suo film-dentro-il-film – e così la sua vita –  ad un dipinto di Jackson Pollock. Nelle linee apparentemente astratte e insensate si nasconde invece la ragione, la poesia, la linearità della vita.

Le fantome d'IsmaelProbabilmente per questo motivo il regista francese confeziona un film slegato in superficie, un omaggio al cinema noir e alla “nuova ondata” d’oltralpe con uno scopo ben preciso fra le righe, diretto con rigore stilistico e licenze poetiche sparse qua e là. La sua macchina da presa danza, gioca, gira su se stessa e crea dipinti dinamici, atmosfere emozionanti e momenti passionali, tutti rafforzati dagli ottimi interpreti. Charlotte Gainsburg e Marion Cotillard sono nemiche eppure complici, opposte eppure simili, portano a compimento la loro missione con grazia e sensibilità, soprattutto la prima – a cui è affidato l’intimo l’epilogo. A dirigere l’orchestra però è Mathieu Amalric, una vera e propria scheggia impazzita che genera paure e ricordi, fantasmi e desideri usando il corpo e la voce.

Le fantome d’Ismael finisce dunque per essere un viaggio mistico nella mente del suo protagonista folle e traumatizzato, dei suoi incubi ricorrenti e vividi, narrato con un linguaggio cinematografico che colpisce ognuno in modo soggettivo. Un inno visionario al fluire irrefrenabile della vita, che ha sempre un piano B e un modo per risorgere dalle sue stesse ceneri.

Le famiglie più complicate della televisione

Le famiglie più complicate della televisione

Lannister, White, Soprano, Collins. Sono tantissime le famgilie della tv ad avere dei problemi, delle difficoltà e a loro modo delle stranezze. Ecco di seguito le famiglie più problematiche della televisione!

[nggallery id=1540]

_______________________

Famiglie della tvDa Game of Thrones, che struttura la sua trama intricata sull’intreccio delle stesse, a I Soprano, in cui è la protagnista della serie, passando per Mad Men e Dark Shadows, la famiglia in tv è sempre stato un ottimo ambito per mettere in scena problemi e drammi, situazioni divertenti e ogni tipo di dinamica.

Le eroine action più sexy del cinema [FOTO]

0

I personaggi femminili forti e combattivi sono la linfa vitale di moltissimi franchise cinematografici. Se poi queste eroine appartengono anche al genere action, sono sempre donne magnifiche, autonome, forti, pericolose, che stimolano non solo la fantasia degli spettatori, ma anche la simpatia delle spettatrici. Ecco di seguito una gallery delle eroine action del cinema:

[nggallery id=458]

Tra queste, una delle più note e amate è senza dubbio Sigourney Weaver, la Ripley che le ha suonate di santa ragione agli alieni per un paio di decenni, in giro per lo spazio; oppure la giovane Vedova Nera/Scarlett Johansson, che sicuramente non ha bisogno del fidanzato per farsi rispettare. E che dire della sexy vampira Kate Backinsale? O Milla Jovovich nei panni di Alice? Ma l’elenco è lungo e tra le famose protagoniste dei franchise citati ci sono anche personaggi che hanno fatto una fugace apparizione in ruoli action, ma che sono diventate comunque icone di un genere: Charlize Theron in Aeon Flux, Olivia Wilde in Tron Legacy, Jessica Alba ne I Fantastici 4, oppure la cara Anne Hathaway nei panni di Selina Kyle per Il Cavaliere Oscuro il Ritorno.

Qual è la vostra preferita?eroine action

Le Easter Eggs nascoste nei costumi di famosi film

Le Easter Eggs nascoste nei costumi di famosi film

Il lavoro del costumista è sempre interessante ma qualche volta diventa vero e proprio scrigno di dettagli e particolari sui film. In particolare, di seguito potete vedere sei Easter Eggs nascoste in altrettanti costumi di film famosi che rimandano a insospettabili (quasi) retroscena o riferimenti culturali.

[nggallery id=2252]

Le due vite di Ben Affleck

Le due vite di Ben Affleck

Da uno spot di 30 secondi per il Burger King all’Oscar per il miglior film, annunciato niente meno che dalla first lady Michelle Obama: nel giro di vent’anni, Ben Affleck è riuscito a raggiungere vette insperate di carriera.

Classe 1992, Affleck inizia giovanissimo a coltivare il sogno di fare l’attore. Certo era in buona compagnia: sin dalla più tenera età, stringe infatti amicizia con un bambino di due anni più grande, un certo Matthew Damon, con le stesse identiche velleità. Il loro sodalizio artistico ed esistenziale crescerà negli anni, tanto che anche ad oggi, i due si definiscono (e non abbiamo elementi per pensare il contrario) migliori amici. Dopo aver ottenuto il diploma alla Cambridge Rindge and Latin High School, Ben abbandona gli studi universitari intrapresi senza troppa convinzione e decide di dedicarsi interamente alla recitazione. A quei tempi, ben pochi avrebbero scommesso su di lui: il suo viso da belloccio e l’apparente inespressività lo facevano quotare inizialmente come attore da soap-opera. Non per niente nel 1992 compariva nel cast di Buffy-L’ammazzavampiri nel ruolo di un giocatore di basket alquanto ininfluente.

Nello stesso anno ottiene una parte in Scuola d’onore di Robert Mandel, film che sarebbe caduto nell’oblio se non avesse avuto il merito di lanciare le carriere di Matt Damon, Chris O’Donnel e dello stesso Affleck. Negli anni immediatamente successivi l’aspirante attore stenta a ottenere parti decenti, e gira film mediocri come La vita è un sogno di Richard Linklater (1993) e Ultimo appello di Rich Wilkes (1996), per la prima volta nel ruolo da protagonista.

Il tanto agognato successo arriva come un tuono nel 1997, sotto la guida della fine regia di Gus Vas Sant nella pellicola indipendente Will Hunting – Genio ribelle, dove recita con l’inseparabile Matt. Le performance di entrambi sono eccezionali e decisamente toccanti, ma la vera sorpresa sta nella sceneggiatura scritta a quattro mani proprio dai due amici, un lavoro che li porterà dritti sul palco dell’Academy per ricevere il premio per la Miglior sceneggiatura originale; non male come traguardo per due venticinquenni fino ad ora considerati dei dilettanti. Fino ad ora, appunto: dopo l’Oscar la loro strada per raggiungere la fama di stelle è spianata, e Ben ottiene subito una parte nel fortunato Shakespeare in love (1998) di John Madden, dove conosce la futura fidanzata Gwyneth Paltrow, con cui rimarrà legato per circa un anno. Arrivano poi i grandi blockbuster diretti dal regista Michael Bay, grazie ai quali Affleck impone il suo nome all’intero star system hollywoodiano: il catastrofico Armageddon – Giudizio finale (1998) e il colossal bellico Pearl Harbour (2001), che avrà un successo straordinario di pubblico in continua crescita. Nei due anni precedenti Ben aveva recitato insieme a Damon nel controverso Dogma di Kevin Smith (1999) e insieme all’ormai ex Gwyneth nel romantico Bounce (2001).

La popolarità ha però un rovescio della medaglia, e l’attore, afflitto da un vizio dell’alcol sempre meno controllabile, si fa rinchiudere di sua spontanea volontà nella Promises Rehabilitation Center di Malibù. Dopo essersi riabilitato e aver recitato in due o tre film dimenticabili, nel 2003 riveste la parte del supereroe in Daredevil di Mark Steven Johnson accanto alla futura moglie Jennifer Garner. Ma il colossale flop è ora dietro l’angolo, e porta il nome di Amore estremo – Tough love, imbarazzante film di Martin Brest che sulla locandina sfoggia il connubio Ben Affleck – Jennifer Lopez, nel frattempo diventati fidanzati anche nella vita. I due sembrano proprio inseparabili, tanto da essere soprannominati “Bennifer”; la chiacchieratissima coppia arriva a un passo dall’altare, Ben pazzo di lei compare nel provocatorio video della hit “Jenny from the block” e le regala un anello da 3 milioni e mezzo di dollari. Ma il rapporto si evolve tormentato, e la rottura totale arriva nel luglio 2004. La fine del loro rapporto è stata accolta con un respiro di sollievo dai fan di Ben, preoccupati per l’inarrestabile discesa della sua carriera sempre più trascurata: indimenticabile il disastro del secondo e ultimo film girato con la cantante ispanica, Jersey Girl di Kevin Smith.

Sarà un’altra Jennifer, la Garner, a risollevare la situazione, offrendo a Ben la stabilità di un amore incondizionato, probabilmente ciò di cui aveva più bisogno. I due si sposano nel 2005 e avranno tre figli, Violet Anne nello stesso anno, Seraphina Rose Elizabeth nel 2009, e l’ultimo, Samuel, nel febbraio 2012. Sostenuto dalla moglie, Ben sfodera un grande quanto inaspettato talento come regista: nel 2007 dirige il fratello Casey Affleck, Ed Harris e Morgan Freeman nel riuscitissimo Gone Baby Gone, un thriller dai temi delicati di cui firma anche la sceneggiatura. Nel 2010 scrive e gira The Town, riservando a se stesso la parte del protagonista.

Nel 2012 viene scelto da un regista del calibro di Terence Malick per rivestire il ruolo principale in To the Wonder, sua ultima fatica. Nello stesso anno dirige e produce Argo, sua consacrazione: la pellicola narra il non facile argomento del cosiddetto Canadian Caper, ossia l’operazione segreta congiunta tra Stati Uniti e Canada del 1979 per liberare, nell’ambito della crisi degli ostaggi, sei cittadini americani rifugiatisi nell’ambasciata canadese della capitale iraniana. In realtà il film è una vera e propria dichiarazione d’amore per il cinema e la sua forza rivoluzionaria, e qui Affleck da il meglio di sé anche come attore. Il film si aggiudica tre premi Oscar (Miglior film, Migliore sceneggiatura non originale, Miglior montaggio), due Golden Globe e tre British Academy Film Awards. Nel discorso di ringraziamento agli Oscar, conclude sincero: “Non importa come sei caduto nella vita, perché succederà. L’importante è rialzarsi”.

Adesso lo aspettiamo al cinema con Runner Runner, film in cui recita la parte del cattivo accanto a Justin Timberlake e Gemma Arterton, un film dal quale non ci aspettiamo molto, ma in cui senza dubbio ci farà piacere ritrovareil nostro Ben.

E lui è riuscito senza dubbio a rialzarsi, con grinta e con spregiudicatezza, tanto che, dopo il trionfo dello scorso anno, ha deciso di rischiare il tutto per tutto e di accettare il ruolo del prossimo Batman cinematografico, comparendo nel prossimo film Batman vs Superman. La scelta, che a molti sembra azzardata, ci confermerà ancora una volta la grandissima capacità di Ben Affleck di trare il meglio da ogni situazione? Aspettiamo e vediamo, intanto noi facciamo il tifo per lui.

Le due vie del destino: recensione del film con Colin Firth

Le due vie del destino: recensione del film con Colin Firth

Le due vie del destino, tratto dalla vera storia di Eric Lomax, diventata anche un’autobiografia, ha due anime: romantica e atrocemente tragica e resta in bilico tra queste due vie, lasciandole entrambe poco approfondite in favore di un racconto di dolore, sì, ma anche di buoni sentimenti. La vicenda del protagonista – guerra e tortura subita, vendetta o perdono, epilogo – si dipana in modo fin troppo prevedibile, tanto consolatorio e buonista, da sembrare irrealistico, sebbene ispirato a una storia vera. A ciò contribuisce una sceneggiatura lacunosa, che non mostra il maturare delle decisioni, l’evolversi dei rapporti, ma piuttosto abbandona gli eventi a un accadere meccanico.

Ne Le due vie del destino Eric Lomax (Colin Firth) è un soldato britannico, fatto prigioniero dai giapponesi durante la Seconda Guerra mondiale e mandato in un campo di lavoro in Tailandia, a costruire la cosiddetta “Ferrovia della morte”. Qui assiste all’orrore ed è vittima di torture per aver costruito clandestinamente una radio. Anni dopo, in patria incontra Patti (Nicole Kidman) e con lei ritrova una normalità, ma i fantasmi del passato restano. Quando Patti viene a conoscenza di quanto Eric ha vissuto e del fatto che uno dei suoi aguzzini è ancora vivo, decide di farglielo sapere, per aiutarlo a chiudere i conti col suo passato.

Fotografia patinata, apertura da perfetta pellicola romantica: un gentleman scozzese con l’ossessione dei treni e l’incontro con la donna della sua vita. Poi i demoni del passato si riaffacciano, attraverso flashback che illustrano la prigionia di Eric. Ma il regista non vuole far troppo male allo spettatore, manca il vero pugno allo stomaco. È questa la scelta dell’australiano Jonathan Teplitzky, al suo quarto lavoro. In alcune scene di tortura o pestaggio, ad esempio, si concentra sul volto dell’aguzzino e sostituisce il sonoro realistico con un tappeto musicale enfatico, o mostra i risultati delle torture, ma non le torture stesse. Non vediamo poi, se non in qualche fugace scena, la quotidianità della vita nel campo, il vero lavoro forzato, la morte. Ci si concentra su singoli episodi, ma manca un contesto dettagliato, necessario per creare una reale partecipazione.

Anche il filone narrativo che riguarda la coppia non è sufficientemente approfondito: alla Kidman, di fatto, un ruolo di moglie più marginale di quanto ripetute dichiarazioni all’interno del film le riconoscano. Il romanticismo dei primissimi piani non basta a rendere il vero spessore di una storia d’amore certamente complessa.

Il valore del film sta dunque – oltre che nella scelta di una pagina poco nota del secondo conflitto mondiale, raccontata al cinema solo da Il ponte sul fiume Kwai – nell’interpretazione di Firth, che abilmente si cala nel complesso universo di Lomax, rendendone il caleidoscopio di stati d’animo, come anche in quella di Jeremy Irvine – Lomax da giovane. Peccato che la retorica prevalga sull’emozione.

Le Due Vie del Destino poster e trailer italiano del drama con Colin Firth e Nicole Kidman

0

 

le-due-vie-del-destino-posterPrimo trailer italiano per Le Due Vie del Destino, il drama di Jonathan Teplitzky (Burning Man, Better Than Sex) basato sul bestseller mondiale The Railway Man di Eric Lomax che vede protagonisti Colin Firth, Nicole Kidman e Stellan Skarsgard.

Lo script è basato sulla vita di Eric Lomax e racconta di come l’ufficiale inglese (Colin Firth) durante la seconda guerra mondiale sia stato torturato dai giapponesi durante la costruzione della ‘ferrovia della morte’. A distanza di dieci anni, comincia la caccia ai colpevoli. Patricia Wallace (Nicole Kidman), moglie di Lomax sostenne il marito aiutandolo ad affrontare le sue paure. Nel cast c’è anche Jeremy Irvine nei panni del giovane Lomax e Hiroyuki Sanada nel ruolo dell’ufficiale giapponese che lo ha imprigionato.

Le-Due-Vie-Del-Destino-The-Railway-Man-Locandina

 

 

Pubblicità
Pubblicità
Pubblicità