Lunedì 8 marzo, nella giornata
inaugurale della XXX edizione del Noir in Festival (in
programma fino al 13 marzo), il festival rende omaggio al
personaggio iconico creato dalla penna di Gabriella Genisi,
Lolita Lobosco.
La commissaria, interpretata da
Luisa Ranieri, sarà la protagonista della serie
tv Le indagini di Lolita Lobosco in
prima visione in 4 serate su Rai 1 dal 21 febbraio.
Nel segno della giornata
internazionale della donna il Noir in Festival dedicherà alla serie
uno speciale focus, che aprirà gli incontri del festival, in
cui interverranno l’autrice dei romanzi Gabriella
Genisi, il regista Luca Miniero e le
interpreti.
L’appuntamento è per
lunedì 8 marzo alle ore 11.00 sui canali social
del Noir in Festival.
Precisamente vent’anni fa veniva
presentata al Sundance Film Festival la pellicola di un anonimo
regista del Tennessee con alle spalle una lunga gavetta come
correttore di bozze e sceneggiatore. Dopotutto, non è da
sottovalutare un quasi-trentenne che vanta già nel suo curriculum
una collaborazione con Tony Scott e un’altra con
Oliver Stone, due grandi nomi di Hollywood.
Il film presentato ha un nome
particolare: Reservoir Dogs, titolo probabilmente
ispirato dalla difficoltà del regista- dovuta a dislessia- nel
pronunciare il titolo della pellicola francese Au revoir, les
enfants, che aveva ribattezzato The Reservoir film.
Dopo una prima visione, il pubblico è sconvolto, spiazzato: c’è chi
sghignazza e chi grida allo scandalo, perché il film presenta delle
scene di una violenza inaudita. Non è, infatti, un successo al
botteghino ma la critica osanna il nuovo genio che è nato,
presentando al prestigioso Festival
di Cannes non tanto l’opera quanto il regista, che finalmente
ha un nome e un cognome e che, a partire da quell’anno, si ritaglia
la propria nicchia di lusso nel dorato mondo della celluloide:
Quentin Tarantino.
E proprio lui dichiara durante la
celebre “Proiezione Faye Dunaway” all’Egyptian theater: “Non so
voi, ma io adoro la violenza al cinema. Quello che mi sconvolge è
tutta quella merda alla Merchant/Ivory!” dove l’accusa non era
rivolta tanto contro i singoli tirati in ballo, bensì contro un
certo tipo di cinema dall’impianto stantio e datato.
Il suo background non è quello
delle scuole di cinema, ma quello delle videoteche e della
cinefilia compulsiva, che lo spinge a “saccheggiare” letteralmente
più elementi stilistici e registici che può dalle pellicole più
disparate, spaziando dai film d’azione e wuxia di Honh Kong ai film
francesi della Nouvelle Vague firmati da Godard o Melville, senza
tralasciare i sottogeneri italiani anni ’70-’80 come il
poliziottesco, lo spaghetti western e l’horror splatter d’autore.
Cita tra i suoi maestri gli italiani Leone, Argento, Fulci,
Soavi, Lenzi, Di Leo, Bava, G. Castellari ma non disdegna
nemmeno Howard Hawks, figura paterna e nume tutelare per il
cineasta. Tarantino arriva comunque in un momento particolare per
il cinema e per la cultura in generale. Assistiamo, infatti, alle
soglie degli anni ’90 ad una vera e propria “crisi dei valori” e
della cultura monolitica: se le pellicole degli anni ’80 vedono
protagonisti eroi fissi, senza sfaccettature, e personaggi manichei
che si muovono in una dimensione divisa tra bene e male, alle
soglie invece dei ’90 si assiste ad un cambiamento; nelle pellicole
i ruoli si confondono, si assiste ad un gioco continuo delle parti
e si perdono i punti fissi di riferimento: gli eroi non sono poi
così buoni e i cattivi non sono esclusivamente perfidi e malvagi
fino al midollo. Il cinema comincia a popolarsi di antieroi,
personaggi ambigui portatori di valori relativi e di una loro
sinistra morale. Ed è proprio in questo solco che si innesta il
germe del pulp, iperrealistico e pop, specchio dell’assurda
violenza grottesca che popola il quotidiano.
Le uniche scuole di formazione
professionale che frequenta il giovane cineasta americano sono
quelle di recitazione (dove comincia a farsi conoscere per i suoi
fitti dialoghi logorroici, costante dei suoi futuri film) e Il
Sundance Institute, tappa fondamentale perché è proprio qui che
presenta la sua opera, il suo primo prodotto definitivo:
Reservoir Dogs, da noi Le Iene.
La pellicola crea
scandalo, divide la critica, scuote gli animi e dà lo slancio alla
nascita di un nuovo genere (o forse alla sua rinascita in chiave
pop): il Pulp, quel “pasticcio” di cui già aveva parlato Charles
Bukowski nel 1995 con il suo romanzo omonimo. Secondo il
dizionario, il termine “pulp” può avere un duplice
significato: può indicare sia un “pasticcio”, ovvero una massa
informe di materia, quanto una serie di riviste di basso costo e
scarsa qualità, diffuse prevalentemente nell’America degli anni
’50, costituite da una serie di racconti brevi (spesso scritti da
nomi noti della letteratura “di genere” come Cornell Woolrich o
Raymond Chandler) a base di sesso, violenza e azione. Le pellicole
di Tarantino probabilmente si avvicinano ad entrambe le definizioni
e, cavalcando l’onda del successo dei suoi film, si crea così un
fenomeno “pulp” globale che riporta in auge anche il già citato
capolavoro di Bukowski scritto nel 1964 e dedicato alla “cattiva
scrittura” ma edito da Feltrinelli solo nel 1995, ovvero un anno
dopo il successo di Pulp Fiction e la morte dello
scrittore.
Alcuni Paesi impongono pesanti
tagli al film (come gli Stati Uniti, con il discorso sulla censura
e il divieto per i minori di 18 anni o l’Italia, dove tutt’ora
viene trasmesso dalle tv “epurato” da alcune scene), addirittura la
Gran Bretagna arriva a ritirare le copie disponibili in vhs. Ma di
lì a breve nascerà un vero e proprio fenomeno mondiale che lancerà
il film nell’empireo della cinematografia mondiale facendolo
assurge a “cult”.
Tarantino cominciò a girare nel
1990, con a disposizione un budget esiguo di 30.000 dollari,
“prestati” dal produttore Lawrence Bender che avrebbe dovuto
ricoprire, inizialmente, il ruolo di Eddie il Bello. Ma tutto
cambiò quando una copia della sceneggiatura originale venne fornita
dalla moglie del suo insegnante di recitazione direttamente al noto
attore Harvey Keitel (che proprio nel 1992 fu presente a
Cannes con due film: Le Iene e Il cattivo
tenente di Abel Ferrara). L’attore non solo rimase
colpito dal copione, ma decise addirittura di co-produrlo: così il
budget lievitò fino a 1.200.000 dollari, investiti quasi tutti per
gli abiti di scena. Tarantino abbandonò definitivamente l’idea di
girare il film con pellicola da 16mm, ma decise di mantenere lo
stesso alcuni elementi della sceneggiatura originale, come
l’integrità spaziale (il film, infatti, è girato principalmente in
un garage, in realtà un’impresa di pompe funebri in costruzione)
riducendo al minimo perfino le inquadrature elaborate, lasciando
libero spazio ai piani sequenza senza apparentemente nessuno stacco
(il che ricorda da vicino l’Alfred Hitchcock di Nodo
alla Gola) liberamente ispirati al capolavoro di Godard
Fino all’ultimo respiro (citato apertamente nella
celebre sequenza dove Mr. Orange e Mr. White ripassano i dettagli
del colpo in auto).
La storia è semplice e
lineare: una banda composta da sei uomini viene formata da Joe
Cabot (Lawrence Tierney) per realizzare un colpo in una
gioielleria di Los Angeles. Gli uomini, senza nome ma
contraddistinti da nomignoli (che richiamano il film Il colpo
della metropolitana di Joseph Sargent) sono Mr. Blue
(Edward Bunker), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr.
White (Harvey Keitel), Mr. Orange (Tim Roth), Mr.
Blonde (Michael Madsen) e Mr. Pink (Steve Buscemi),
tutti avanzi di galera e fidati sgherri di Cabot. Ma il giorno del
colpo qualcosa va storto: la polizia è già sul posto, Mr. Blonde
apre il fuoco e si scatena una carneficina. Brown e Blue muoiono
sul colpo, Orange viene ferito durante la fuga e ha i minuti
contati. I superstiti si ritrovano in un garage abbandonato, il
luogo dove Joe ha detto di aspettare sue indicazioni… Mr. White
vorrebbe aiutare Orange, suo pupillo; Mr. Pink è riuscito a
scappare con i diamanti e Mr. Blonde (ruolo per il quale, in un
primo momento, si era pensato a nomi del calibro di Edward
Norton, James Woods e George Clooney) mostra tutto il
suo sadismo e la lucida follia nel momento in cui sequestra un
poliziotto legandolo nel portabagagli della sua auto. Ma il dubbio
si insinua nelle loro menti, un atroce sospetto che li porta a
diffidare l’uno dell’altro: c’è una talpa nel gruppo, un infiltrato
della polizia, ma chi?
Su questa trama lineare che ricorda
da vicino la tradizione del noir-gangsteristico americano della
migliore tradizione, Tarantino compone la propria personale
sinfonia giocando con la cultura pop, l’American Way, il teatro
dell’assurdo pinteriano e addirittura quello shakespeariano. I
protagonisti sono davvero “cani da rapina”, iene, animali
sanguinari, sadici e individualisti pronti a sacrificare il loro
prossimo pur di salvarsi la pelle. Non è un caso, forse, che
l’unico dei sei a salvarsi, alla fine (anche se arrestato dalla
polizia) sia proprio Mr. Pink, il più individualista del gruppo,
colui che fin dall’inizio dichiara le sue vere intenzioni nel
momento in cui rifiuta di dare la mancia alla cameriera.
Il film può essere inteso come una
cinica apologia della nostra società contemporanea: siamo animali
pronti a sbranare il nostro prossimo pur di preservarci, come
recitava il vecchio motto del filosofo Hobbes “Homo Homini
Lupus”. I sei uomini sono spietati e pronti a tutto, ma a
loro modo ognuno ha un’etica, una sorta di “codice morale dei
ladri” che li porta a seguire un determinato modello di
comportamento: Mr. Blonde non tradirebbe mai Joe ed Eddie, è solo
un pazzo sadico che vuole divertirsi, un “cane pazzo”; Mr. White si
lascia letteralmente “fregare” dal sentimento di amicizia e
protezione che lo spinge verso Mr. Orange, tant’è che arriva
addirittura a soppiantare la propria etica, anche se nel finale
viene punito cinicamente dagli eventi (o dal Destino?) che gli
mostrano inesorabilmente l’errore di valutazione compiuto
quando ormai è troppo tardi.
Da molti critici il film è stato
paragonato (o comunque confrontato) con l’opera di Stanley
KubrickRapina a Mano Armata, ma le diversità tra
le due pellicole sono profonde e significative: prima fra tutte, la
frammentazione del tempo della storia, di cui Tarantino è un
esperto, totalmente assente nel film di Kubrick che invece sceglie
di raccontare cronologicamente la preparazione di un colpo in un
ippodromo, destinato a finire tragicamente; inoltre, un’altra
particolarità che distingue Le Iene è l’assenza della
pianificazione, lo spettatore viene coinvolto fin dalle prime
inquadrature nella banale quotidianità di un gruppo di uomini
rozzi, nevrotici, sboccati che discutono di donne, sesso, canzoni
di Madonna, mance e cameriere. Improvvisamente, dopo i titoli di
testa (rigorosamente in giallo su fondo nero) ci troviamo a rapina
compiuta: non vediamo cosa accade nella gioielleria, il massacro,
possiamo solo intuirlo e ricostruirlo dai racconti dei
sopravvissuti e dai flashback che ricostruiscono i frenetici eventi
e le personalità complesse di questi loschi individui.
Proprio come in un
dramma del Bardo, è la parola ad avere la meglio su complesse
scenografie e perfino sul potere immaginifico del cinema stesso; la
parola, i dialoghi costruiscono la struttura della narrazione
proprio dove i personaggi “fanno”, letteralmente, la storia. Fin
dalla carrellata iniziale, con il dolly che gira intorno ai
personaggi prima prendendone le distanze poi avvicinandosi
cautamente, dai loro dialoghi intrisi di cultura popolare e
apparentemente senza senso capiamo in realtà la loro psicologia:
Mr. Pink è un egoista, individualista che si rifiuta di dare un
dollaro di mancia alla cameriera; Mr. Orange è pronto a fare la
spia a Joe, svelando subito il suo gioco pericoloso su due fronti;
Mr. Blonde è ciecamente fedele al capo Joe, pronto ad ubbidire a
qualunque ordine; Mr. White tiene testa al capo, lo conosce bene e
ha grinta da vendere, ma il suo lato debole è proprio l’istinto di
protezione paterna verso Orange, che siede al suo fianco perfino a
tavola;
Mr. Blue è schivo e taciturno; Mr.
Brown è assurdo e logorroico come Tarantino stesso, che realizza
con questo film il suo sogno di scrivere, dirigere e interpretare
una sua opera. Un’ultima attenta analisi riguarda il personaggio di
Mr. Orange e il suo aspetto meta- cinematografico: il personaggio
interpretato magistralmente da Tim Roth è la quintessenza
dell’attore, poiché in realtà il poliziotto Freddy Newandyke è
costretto ad interpretare un ruolo, si cala in esso, lo studia
attentamente vivisezionandolo al microscopio e finisce non solo per
crederci totalmente, per abbandonarsi ad esso, ma per modellarlo su
sé stesso e per viverlo fino in fondo, perdendo il labile confine
tra finzione e realtà: si sente un gangster, acquisisce il loro
linguaggio e il loro modo di pensare; uccide una donna a sangue
freddo, e quando l’atto è ormai compiuto lo spettatore non si sente
nemmeno più in grado di giudicarlo in alcun modo.
Il gusto di Tarantino per la
citazione cinefila si vede già a partire da quest’opera prima: per
esempio, l’uso del cosiddetto “Mexican Standoff” nel finale
del film, ovvero un “triello” (duello a tre) dove i personaggi di
Eddie il bello, suo padre Joe e Mr. White si tengono sotto tiro
contemporaneamente; il cineasta usa una tipica inquadratura cara
allo spaghetti western italiano e in particolare a Sergio
Leone, che ne introduce uno ormai famosissimo nel finale del
cult Il buono, il brutto e il cattivo dove i tre
protagonisti si affrontano, faccia a faccia, in un cimitero. Allo
stesso modo, un’altra scena ad alto tasso di cinefilia può essere
considerata la memorabile sequenza della tortura, una delle più
censurate della storia del cinema, dove il sadico Mr. Blonde si
diverte a torture e tagliuzzare il povero poliziotto sequestrato.
La scena ha un gusto fortemente grottesco, e la violenza che la
pervade scivola in un’assurda atmosfera ironica ed eccessiva
riconfermando quelle tesi che leggono il mondo descritto da
Tarantino come chiuso in sé stesso, autistico insomma, fumettistico
ed eccessivo quindi per questo totalmente avulso e lontano dalla
realtà stessa. L’azione di Mr. Blonde è sottolineata dal sapiente
uso di un pezzo rock degli anni ’70, “Stuck In The Middle With
You” dei Stealers Wheel, una scelta particolare che ricorda da
vicino quella compiuta da Lucio Fulci nel lontano 1972 nel
film Non si sevizia un Paperino.
Eppure, nemmeno il genio di
Tarantino è riuscito ad evitare le accuse di plagio che sono state
rivolte al film, e a nulla è servito il suo intervento con la
famosa frase “i grandi artisti non copiano: rubano” a sua
volta “rubata” dal compositore Igor’ Stravinskij. Un fan lo accusò
di aver copiato in modo imbarazzante un film di Ringo Lam
datato 1987 ed intitolato City on Fire. Le analogie
più evidenti sono nella sinossi, nella sparatoria finale (il
“triello”) e nella scelta stilistica in base alla quale la scuola
di Hong Kong mette in scena un mix letale di realismo, pessimismo,
crudeltà, durezza nelle immagini e perdita di qualunque distinzione
tra buoni e cattivi, ma alla fine anche queste critiche accese
decadono, nel momento in cui Tarantino dichiara di essere un fan
del regista Lam e di avere un poster del suo film in casa; ma molti
altri sono i film che il regista cita e saccheggia, a partire da
Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah fino al
cultissimo The Blues Brothers di John Landis.
Ma forse è proprio questa una delle abilità maggiori del cineasta
del Tennessee: saper rielaborare, secondo una sensibilità e un
gusto assolutamente personali, elementi disparati tratti dalla
cultura e dall’immaginario pop.
Tarantino modella i suoi personaggi
giocando sul labile confine del bene e del male; essi non subiscono
un giudizio manicheo da parte del loro demiurgo “creatore”, vivono
indipendentemente cogliendo tutte le infinite sfumature della
realtà. E la loro forza è proprio in questo: nel riuscire ad essere
assurdamente normali, pur essendo calati in un contesto di genere
che rafforza l’aspetto fittizio della messinscena cinematografica;
i dialoghi riproducono fedelmente il linguaggio della quotidianità,
come nel teatro di Harold Pinter o nelle sceneggiature di David
Mamet: il linguaggio forte, decisamente “politicamente scorretto”,
serve per riprodurre l’alienazione umana nella realtà
contemporanea, ormai svuotata di significato. Il cinema di
Quentin Tarantino è un’overdose cinefila per gli occhi e per
i palati degli spettatori più attenti, un tripudio di immagini e
citazioni che celano, però, un significato molto più profondo e
stratificato di quanto può apparire, semplicemente, in
superficie.
Oggi, in onda su Rai 4 in
seconda serata, ritornano sul piccolo schermo i Cani da Rapina di
Quentin Tarantino, Le
Iene, il primo film del regista cult che lasciò
sbalordita la platea del Sundance Film Festival nel 1992.
Nel cast del film Harvey
Keitel è Mr. White/Larry Dimmick, Tim
Roth è Mr. Orange/Freddy Newandyke, Steve
Buscemi è Mr. Pink/Mark Nussy, Michael
Madsen è Mr. Blonde/Vic “Sorriso” Vega, Chris
Penn è Eddie “il Bello” Cabot, Lawrence
Tierney è Joe Cabot, Quentin Tarantino è
Mr. Brown/Dennis Koonstock, Edward Bunker è Mr.
Blue/Roy Spafucci e Kirk Baltz è Marvin Nash.
Il film è stato fonte di
nuemrosissim citazioni e omaggi e a sua volta è il risultato di uno
studio attento e cinefilo da parte del regista che sin dal suo
primo lungometraggio ha farcito il suo cinema di riferimenti alla
cultura cinematografica passata.
Arriva finalmente nelle sale
Le
idi di marzo, ultimo film da regista di George Clooney, dopo essersi già imposto alla
scorsa Mostra d’Arte Cinematografico di
Venezia. Il ritorno alla regia dell’attore segna anche il
ritorno a temi a lui molto cari come la politica e le istituzioni,
dopo la breve parentesi costituita da In amore niente regole,
commedia più leggera e sentimentale.
Il film racconta
la vicenda di un giovane e idealista addetto stampa
(Ryan
Gosling) che lavora per un candidato alla Presidenza,
il governatore Mike Morris (George
Clooney), e che si trova suo malgrado pericolosamente
coinvolto negli inganni e nella corruzione che pervadono il mondo
della politica. Le idi di marzo si colloca nel
filone del thriller politico che fiorisce negli anni 60’-70’ grazie
a registi del calibro di Elio Petri, o
Sidney Lumet. La splendida sceneggiatura, tratta
da Farragut North di Beau Willimon e scritta a
quattro mani da Grant Heslov e dallo stesso
Clooney, supporta mirabilmente l’opera elevandone la caratura
artistica e sociale, impreziosita da un brillante uso di dialoghi,
che aiuta la narrazione a non cadere in un immobilismo tipico di
una messa in scena teatrale. In questo fa la sua parte Clooney che
serve la storia con una regia lucida ed elegante, stilisticamente
classica e funzionale al racconto in atto.
Le idi di marzo, il film
Al servizio della storia c’è anche
un formidabile cast di confermatissime personalità attoriali, che
regalano interpretazioni ad altissimi livello e all’altezza delle
aspettative. Su tutti spicca come al solito un Paul Giamatti stratosferico, accompagnato da
una sorprendentemente brava Evan Rachel Wood, una
certezza come Philip Seymour Hoffman e un prezioso
Ryan Gosling, ormai definitivamente lanciato
nell’Olimpo dei performer di alto livello. Proprio il suo
personaggio è il fulcro centrale della storia: un giovane idealista
che crede in qualcosa di giusto ma che non necessariamente
rappresenta la soluzione migliore per sopravvivere nel mondo che lo
circonda.
L’allegoria del film di Clooney è
quella propria di una “iniziazione”: il giovane idealista si
addentra nel mondo della politica con il proprio bagaglio di
valori, lontanissimo dalle concrete dinamiche politiche e
governative, e suo malgrado dovrà imparare a conviverci,
sottostando a compromessi e imparando a scoprire il proprio lato
oscuro. Il sistema dipinto dal regista è un malato inguaribile, in
un perenne stato di dialisi, e nemmeno il recente cambiamento
avvenuto sembra rappresentare quel vento di speranza tanto
osannato. All’interno del racconto George Clooney ritrova un equilibrio
solido che gli consente di raccontare attraverso una lucida e
profonda (auto)critica, un mondo che lo sta tradendo (o forse lo ha
già tradito). Alla fine il lato oscuro rappresenta sempre l’unica
scelta percorribile e con una sorta di velato pessimismo, ma con
netto distacco, il suo sguardo accompagna all’epilogo la
storia.
Il prossimo 16 di
dicembre uscirà nelle sale cinematografiche italiane il nuovo film
diretto da George Clooney, Le idi di marzo, quarto lavoro
alla regia dell’attore statunitense che del film è anche interprete
co-protagonista. Le idi di marzo è un emozionante quanto
amaro thriller politico ambientato in Ohio durante le
primarie del Partito Democratico. Mike Morris (George Clooney) è il
candidato sfidante e meno accreditato ma che conquista
progressivamente consensi grazie alla sua idealista e onesta
interpretazione dei valori costituzionali.
Il film è ambientato nel mondo
politico statunitense in un prossimo futuro, durante le primarie in
Ohio per la presidenza del Partito Democratico. Racconta la vicenda
di un giovane e idealista guru della comunicazione (Ryan Gosling)
che lavora per un candidato alla presidenza, il governatore Mike
Morris (George Clooney), e che si trova suo malgrado
pericolosamente coinvolto negli inganni e nella corruzione che lo
circondano.
Accanto a Ryan Gosling e George
Clooney, “Le idi di marzo” è interpretato anche da Philip Seymour
Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei, Jeffrey Wright, Max Minghella
ed Evan Rachel Wood. La direzione della fotografia è di Phedon
Papamichael, il montaggio di Stephen Mirrione, la scenografia di
Sharon Seymour, i costumi di Louise Frogley.
Le Idi di Marzo aprirà Venezia, ed
ecco on line una locandina (foto) e il trailer del film che vede il
ritorno dietro la macchina da presa di George Clooney.
Chi segue le proposte di fan art che
seleziona Cinefilos.it per i suoi lettori, sa che abbiamo un
occhi di riguardo per la disegnatrice Sakimi Chan,
che attraverso la sua pagina Facebook e DeviantArt propone quasi ogni giorni un
nuovo pezzo d’arte originale. Oggi vi proponiamo, nati dalla
maestria dell’artista, i ritratti dei protagonisti e delle icone di
alcuni cartoni animati, come i Pokemon o Scooby Doo. Che ve ne
pare?
Di Sakimi Chan vi abbiamo già
mostrato:[nggallery id=1543]
L’artista No Flutter ha realizzato
una rielaborazione delle protagonista dell’anime/manga Sailor Moon.
Ecco le trasformazioni steampunk delle guerriere Sailor!
Pretty Guardian Sailor Moon
(美少女戦士セーラームーン Bishōjo senshi Sērā Mūn?, lett. “La bella guerriera
Sailor Moon”), meglio noto semplicemente come Sailor Moon, è un
manga di genere mahō shōjo creato da Naoko Takeuchi all’inizio
degli anni novanta ed esportato in numerosi paesi esteri. Il manga
prende il nome dalla divisa alla marinaretta, indossata dalle
guerriere nella serie, che è una rielaborazione della divisa
scolastica femminile obbligatoria in molte scuole giapponesi.
Il manga getta le basi con
Codename Sailor V, del 1991, per poi nascere ufficialmente con il
titolo Bishōjo Senshi Sailor Moon, pubblicato dalla Kōdansha sulla
rivista Nakayoshi lo stesso anno, ed in seguito raccolto in 18
tankōbon. Successivamente, andò in onda una trasposizione animata,
uscita l’anno seguente e diventata una fra le più note espressioni
della cultura pop giapponese del mondo, nonché uno dei maggiori
successi dell’animazione giapponese su scala planetaria degli anni
novanta, presso il pubblico infantile, adolescenziale e di giovani
adulti appassionati di anime.
L’adattamento animato è composto da
cinque serie televisive per un totale di 200 episodi, tre film
cinematografici, due cortometraggi e tre special televisivi. Dopo
la conclusione della versione animata, Sailor Moon sfociò in una
trasposizione teatrale, Sailor Moon musical, e in una serie
televisiva live action, Bishōjo senshi Sailor Moon. Come ogni altra
serie di gran successo, la saga di Sailor Moon ha ispirato e
prodotto numerosi articoli da merchandising, dai giocattoli ai
videogiochi, dalla cancelleria scolastica fino ai prodotti
alimentari. Dal 5 luglio 2014 viene trasmessa in versione anime un
adattamento del manga originale, intitolato Pretty Guardian Sailor
Moon Crystal.
In Italia, l’anime è stato
acquistato da Mediaset, che ha trasmesso dal 1995 al 1997 le prime
due serie su Canale 5 e le ultime tre su Rete 4. Il manga, invece è
stato pubblicato per la prima volta da Star Comics dal 1995 al 1999
con il titolo Sailor Moon, la combattente che veste alla
marinaretta. Nel 2010 viene invece pubblicata una nuova edizione
più fedele all’originale da GP Publishing, con il titolo Pretty
Guardian Sailor Moon.
Prodotto da Esperimentocinema,
Le Guerre Horrende è il nuovo film di Luca
Immesi e Giulia Brazzale, liberamente
tratto da Le guerre orrende, testo teatrale scritto nel
1997 da Pino Costalunga, e con un cast di attori teatrali come
Livio Pacella, Désirée Giorgetti e Dario Leone. Il film, un
commedia fantasy con sfumature di dramma, è stato presentato a Roma
alla presenza dei due registi, che al termine della proiezione
hanno avuto modo di raccontare l’esperienza sul set e le tematiche
del film.
“L’idea del film nasce dal testo
teatrale di Costalunga – spiega il regista Luca Immesi –
al quale abbiamo aggiunto diverse scene oniriche e cambiato il
finale, il tutto per raccontare nel migliore dei modi l’orrore
delle guerre e degli sconvolgimenti che queste portano nell’animo
umano”.
“Abbiamo sfruttato il basso
budget per farne una cifra stilistica – aggiunge la co-regista
Giulia Brazzale – girando così pressoché in un unico luogo, il
che ha accentuato l’influenza teatrale del film. Abbiamo girato in
posti intrisi di racconti della prima e seconda guerra mondiale, e
il finale si ispira proprio ad un evento reale e tristemente noto
nel Veneto.”
Sul perché abbiano deciso di
inserire la H nel titolo del film, Luca Immesi chiarisce: “Il
titolo prende spunto da una frase di Machiavelli, che per
“horrende” intendeva grandi, straordinarie, ma anche sanguinarie.
Ci piaceva il collegamento che si generava tra questi aggettivi, e
che descrive perfettamente un evento come quello della Grande
Guerra”
“Il testo teatrale arriva a
parlare di tutte le guerre della storia – prosegue Giulia
Brazzale – mentre noi abbiamo preferito concentrarci sulle due
grandi guerre di inizio ‘900, e di come queste abbiano diviso
internamente il popolo italiano. L’idea fondante del nostro film è
che le guerre e la violenza siano il frutto dei conflitti personali
che giacciono irrisolti nel microcosmo di ognuno di noi”.
Il film della coppia di registi si
avvale di una distribuzione non classica, ma che procede secondo un
tour di proiezioni attraverso l’Italia, e che permetterà al film
una maggiore visibilità.
Le guerre
horrende è il secondo lungometraggio di Luca
Immesi e Giulia Brazzale, che dopo
l’esordio con Ritual – Una storia psicomagica, traggono
ispirazione per il loro nuovo film dall’omonima pièce teatrale di
Pino Costalunga. Il titolo prende spunto da una frase di
Machiavelli, che per “horrende”, intendeva grandi, straordinarie. E
nell’anno del centenario dalla fine della Grande Guerra, è proprio
sui grandi sconvolgimenti bellici della prima metà dell’900 che i
due registi decidono di focalizzarsi, per raccontare di come la
guerra nasca prima di tutto dentro di noi.
La vicenda del film racconta le
avventure del Capitano (Livio Pacella), eccentrico
reduce della Grande Guerra e del secondo conflitto mondiale, che in
compagnia del suo fedele scudiero (Désirée
Giorgetti) si è ritirato a vivere in un misterioso bosco
sperduto. I due trascorrono tutto il tempo a narrare ed inscenare
epiche battaglie, ma quest’atmosfera fiabesca viene spezzata
dall’arrivo di un giovane soldato privo di memoria (Dario
Leone), che porterà tensioni e conflitti tra i
personaggi.
Di forte impostazione teatrale, il
film non rinuncia alle convenzioni per le quali il testo originario
è stato scritto, avvalendosi così di un’unica location, pochi
attori ed una recitazione enfatica. Se tutto ciò potrebbe
funzionare adeguatamente in teatro, non sempre si può dire la
stessa cosa al momento della trasposizione cinematografica. Benché
la bellezza del luogo in cui le vicende sono ambientate mantenga
sempre una certa attrattiva nei confronti dello spettatore, con lo
scorrere dei minuti si trovano sempre meno motivi per voler
continuare a seguire gli eventi narrati. Complici scelte di
sceneggiatura che hanno modificato parzialmente il testo di
Costalunga, con l’aggiunta di elementi onirici e surreali che però
non fanno che disorientare lo spettatore. Dove il film voglia
arrivare risulta ben presto prevedibile, non riuscendo così a
generare interesse verso lo svelamento finale dell’intreccio.
Ulteriore appesantimento è
dato dai dialoghi del film, che se da una parte sottolineano come
quella dei protagonisti sia tutta una grande recita, dall’altro
risultano eccessivamente irrealistici e fuori contesto per il mezzo
cinematografico. Tutto ciò non aiuta nemmeno gli attori, che si
trovano costretti alle prese con un ibrido tra cinema e teatro che
però non riesce a fondere adeguatamente i due medium.
Benché da un punto di vista
fotografico il film trovi il suo punto di forza, è un’opera quella
dei due registi inadatta per il cinema o che comunque non si avvale
di una trasposizione in grado di renderla facilmente fruibile né
godibile. Trattare il tema delle guerre ricercandone l’origine nei
conflitti interiori che animano ognuno di noi è un’idea
interessante, ma ridurre il tutto a soluzioni surreali e risvolti
macchinosi risulta assai difficile da digerire.
Al suo esordio in solitaria dietro
la macchina da presa, Gilles Lellouche presenta nel fuori concorso
della selezione ufficiale di Cannes 2018,
Le grand Bain, una commedia con un cast stellare
il cui titolo internazionale è Skin or Swim
(Affonda o nuota).
Un gruppo di uomini quasi tutti di
mezza età cerca di trovare un nuovo scopo nella vita nella
partecipazione a un campionato europeo amatoriale di nuovo
sincronizzato. Ognuno con le sue paure, i suoi problemi di famiglia
o lavoro e le sue insicurezze, troverà nuovo spirito in questa
avventura.
Commedia alquanto convenzionale,
Le grand Bain sfrutta il carisma del super cast di
star francesi, guidato da
Guillaume Canet, Virginie Efira e Mathieu
Amalric, e lo inserisce in un contesto assurdo, il nuovo
sincronizzato maschile. Tuttavia l’intuizione del film si esaurisce
in questo, in quanto le risate arrivano ma la scrittura sacrifica i
talenti e non presenta particolare spirito.
Una commedia per il
grande pubblico che si riveste di qualche cliché di troppo nel
tratteggiare gli uomini in crisi di mezza età e che alla fine resta
un piacevole passatempo senza troppe pretese. Dalle crisi di
coppia, alla depressione post licenziamento, sono molti i momenti
di difficoltà che affrontano i nostri aspiranti nuotatori, e dopo
qualche difficoltà iniziale, ognuno trova conforto nella disgrazia
dell’altro, trasformando lo spogliatoio della piscina in un luogo
di confronto e di conforto.
Peccato perché il potenziale comico
del cast era notevole e le poche scene davvero ispirate sono
esilaranti e trascinanti, probabilmente affidate al talento
recitativo dei protagonisti.
La scena post-credits di
Avengers Age of
Ultron aveva reso la situazione molto chiara. Per
prepararsi al meglio alla guerra che ci sarà in
Avengers Infinity War, il titano pazzo
Thanos ha deciso di fare da solo e di collezionare le Gemme
dell’Infinito in autonomia, senza affidarsi a scagnozzi o
tirapiedi (vedi Ronan in Guardiani della
Galassia).
La scena di cui sopra vedeva il
Titano afferrare il Guanto sinistro, privo di Gemme (il destro lo
avevamo già intravisto nel 2011, in Thor). Esattamente, quelle
Gemme che sono state sapientemente sparpagliate nel MCU e
che a breve vedremo tutte riunite, forse su quello stesso
Guanto.
Ma andiamo con ordine: nella
mitologia del MCU, le
Gemme dell’Infinito“sono i resti di sei
diverse singolarità che esistevano prima del Big Bang e sono state
compresse nelle Gemme dopo la nascita dell’Universo.”
Dove e quando abbiamo visto le
Gemme dell’Infinito? E soprattutto quali di esse
hanno già esordito al cinema? Fino a questo momento il MCU ci ha raccontato di quattro
Gemme su sei.
Gemma dello Spazio (blu): è contenuta nel Tesseract,
appare brevemente nella scena dopo i titoli di coda di Thor, poi in Captain America Il primo
Vendicatore (2011), dove viene usata da Teschio
Rosso per potenziare le armi dell’HYDRA, e in The Avengers (2012), dove
viene usata da Loki per aprire il portale a New York da cui
proviene l’esercito dei Chitauri, alla fine viene ricollocata nella stanza dei trofei
di Asgard.
Gemma della Mente (giallo): incastonata nello scettro di
Loki, che la utilizza per controllare la mente
delle persone in The
Avengers (2012), l’arma viene poi presa dal Barone
Strucker che, come mostrato nella scena a metà dei titoli di coda
di Captain America The
Winter Soldier (2014), la utilizza per effettuare
degli esperimenti sugli esseri umani, i cui unici due sopravvissuti
sono i gemelli Quicksilver e Scarlet
Witch, dopodiché viene incorporata da Ultron nella
fronte dell’androide
Visione.
Gemma della Realtà (rosso): contenuta nell’arma
semi-fluida chiamata Aether, che viene consegnata
da Volstagg e Lady Sif al Collezionista nella scena a
metà dei titoli di coda di Thor The Dark World
(2013), in modo che possa essere tenuta al sicuro e lontana dal
Tesseract, poiché, se lasciate vicine, sarebbero un pericolo.
Gemma del Potere (viola): contenuta nell’Orb, una sfera
ricercata da Ronan per conto di Thanos in Guardiani della
Galassia (2014). Viene consegnata dai Guardiani della Galassia ai
Nova Corps in modo
che possa essere tenuta al sicuro.
Fino a questo momento è
tutto quello che sappiamo con certezza in merito alle
Gemme, che, lo ricordiamo, sono state nominate
chiaramente soltanto una volta, dal Collezionista,
nel momento in cui Star Lord e compagni, in
Guardiani della Galassia, gli consegnano
l’Orb per capire cosa contiene.
A novembre arriva al cinema
Doctor Strange, il
film Marvel Studios numero 14, e sappiamo, dalle
dichiarazioni che sono state rilasciate sul set da Barry
Gibbs, responsabile del design di oggetti, armi e
materiali di scena, che l’Occhio di Agamotto, magico pendaglio
indossato dallo Stregone Supremo, contiene in realtà una pietra dai
riflessi opalescenti ma tendenti al
verde. Kevin Feige ha inoltre
dichiarato tempo addietro che l’Occhio di Agamotto consente a
Strange di manipolare il tempo. Se ue indizi fanno una prova, la
risposta è semplice: l’Occhio di Agamotto contiene
un’altra Gemma, probabilmente quella del Tempo.
Non resta ora che trovare quella
dell’Anima, che cattura e manipola le anime. La rete, si sa, è
piena di curiosità e congetture, e navigando alla ricerca di storie
e notizie sulle Gemme dell’Infinito abbiamo
trovato questa immagine che ci suggerirebbe la presenza dell’ultima
Gemma da qualche parte (forse incastonata nella parte frontale della sua
armatura) addosso a Heidmall, il guardiano del
Bifrost, che troveremo di nuovo in Thor Ragnarok.
Escludendo gli “esordienti”
Spider-Man e Black Panther, e
considerando che già una Gemma, l’Orb, ha fatto il suo esordio con
i Guardiani, potrebbe essere plausibile che
l’ultimo gioiello spaziale si possa rintracciare in qualche modo in
Ragnarok.
Questo vuol dire chiaramente che
sapremo esattamente dove sono le Gemme e sapremo
in quali post Thanos dovrà andare a cercare per
completare il suo Guanto dell’Infinito e
dare davvero inizio a quella guerra tanto temuta e già annunciata
dal titolo del film che chiuderà la Fase 3 della Marvel.
Le gemelle Avellan, Electra ed Elise,
diventate celebri per aver partecipato a Grindhouse – Planet Terror
di Robert Rodriguez e Grindhouse – A prova di morte di Quentin
Tarantino, vestiranno di nuovo i panni delle due pericolose
infermiere Mona e Lisa nel sequel di Machete.
Dopo aver denunciato lo scorso
Marzo all’FBI che
il suo Iphone era stato hackerato, le foto che l’attrice si era
fatta senza veli a casa sua sono ora state diffuse in rete.
Domani, 15 marzo, le sale di tutti
gli Stati Uniti vedranno l’uscita del nuovo film della
Warner Bros, diretto da Don
Scardino, The Incredible Burt
Wonderstone. Un film che promette davvero bene,
soprattutto dando un’occhiata al cast, decisamente importante,
infarcito di grossi nomi come Jim Carrey e
Steve Buscemi, oltre a Steve
Carrell, Olivia Wilde, James
Gandolfini e Alan Arkin.
La pellicola segue le vicende di
Burt Wonderstone (interpretato da Steve Carrell) e
Anton Marvelton (Steve Buscemi) due illusionisti
sulla cresta dell’onda, che animano e intrattengono Las Vegas con
le loro strabilianti esibizioni. I due, nonostante le apparenze e
l’impressione che danno in pubblico, non si sopportano e la loro
collaborazione mostrerà ben presto delle crepe. Le cose
precipiteranno quando un artista di stada, Steve Gray (Jim
Carrey), comincia a conquistare notorietà, oscurando
gradualmente i più esperti colleghi. Burt dovrà così appassionarsi
di nuovo come un tempo alla magia e al suo lavoro per tornare ad
essere apprezzato dal pubblico.
Il giorno dell’uscita italiana del
film non è ancora stata comunicata, ma intanto arrivano le foto del
red carpet tenutosi pochi giorni fa a Los Angeles, direttamente
dalla Warner Bros via Twitter, aspettando domani per osservare le
prime reazioni del pubblico americano.
Si è tenuta a Tokyo ieri una delle
prime premiere di Star
Wars Il Risveglio della Forza di JJ
Abrams, e oltre al regista anche il cast di giovani leve
ha infiammato la platea:
Star Wars Il Risveglio della
Forzauscirà
sul grande schermo il 18 dicembre 2015 con un cast che include il
ritorno di Harrison
Ford, Carrie Fisher, Mark Hamill, Anthony
Daniels, Peter Mayhew e Kenny
Baker
con le nuove aggiunte John
Boyega, Daisy
Ridley, Adam
Driver, Oscar
Isaac, Andy
Serkis, Domhnall
Gleeson, Lupita
Nyong’o, Gwendoline
Christiee Max
von Sydow.
Ecco le foto dei collectible
di Django
Unchained, il nuovo film uscito questa settimana
di Quentin Tarantino. I Toys saranno disponibili
all’acquisto già da subito per tutti i fan che lo riterranno
indispensabile:
La recensione del film
d’animazioneLe Follie
dell’Imperatore di Mark Dindal con
le voci di David Spade (Kuzco); John Goodman (Pacha); Eartha
Kitt (Yzma); Patrick Warburton (Kronk).
Sinossi: Kuzco,
giovane e viziato imperatore di una civiltà ignota e fantastica,
viene trasformato per sbaglio in lama da Yzma, la sua perfida
consigliera che intendeva invece ucciderlo. Con l’aiuto
dell’allevatore Pacha, l’imperatore Kuzco farà di tutto per
ritornare alla sua regia e riacquistare le sue sembianze umane.
Le Follie dell’Imperatore:
recensione del film
Le Follie
dell’Imperatore, 40° lungometraggio di casa Disney,
si differenzia dai prodotti standard della famosa casa di
produzione ”per ragazzi” per l’atipicità della struttura e
soprattutto dei contenuti che si rivelano principalmente divisi su
due fronti: il lato comico, accentuato soprattutto dai personaggi
“cattivi” Yzma e Kronk, e il lato avventuroso, che si risolve in
inseguimenti e cacce al tesoro tipiche più dei personaggi animati
della Warner Bros che degli eroi Disney.
Il punto forte
de Le Follie dell’Imperatore è senza
dubbio il lato comico che nella persona di Kuzco raggiunge picchi
addirittura sarcastici, più adatti sicuramente ad un pubblico
adulto che a bambini. La cura del dettaglio e dei caratteri fa di
Le Follie dell’Imperatore uno dei film più interessanti del
panorama Disney, proprio per l‘atipicità che lo contraddistingue,
l’irriverenza che fa le boccacce a tutte le romantiche ed eroiche
storie fino ad ora proposte, ma che non rinuncia nel finale al
buonismo del viaggio di iniziazione durante il quale il giovane e
viziato imperatore impara ad apprezzare il valore dell’amicizia e
della semplicità, l’umiltà di essere una persona normale pur
essendo imperatore, la capacità di prendersi le proprie
responsabilità senza demandare ad altri i propri doveri.
A metà strada tra
La Bella e La Bestia e
Il Re Leone, strizzando l’occhio al pubblico, al
quale spesso si ci rivolge direttamente, Le Follie
dell’Imperatore, è un piccolo gioiello nella
sterminata e preziosa produzione Disney, che
diverte senza pretendere. Notevole nella traduzione italiana il
doppiaggio della Marchesini per il bellissimo personaggio di
Yzma.
Uscito nel 2000 e diretto da
Mark Dindal, Le Follie dell’Imperatore è forse uno dei film
Disney più sottovalutati di sempre, nonché uno dei più divertenti,
mentre segue le disavventure dell’imperatore/lama Kuzco e del buon
Pacha, che lo prende sotto la sua custodia. Irresistibili anche
Yzma e Kronk, la villian e il suo tirapiedi, le cui battute
diventate iconiche si sprecano, complice anche, per l’Italia, del
fantastico doppiaggio di Anna Marchesini.
Semplicemente irresistibile.
Ma dopo 25 anni dalla sua uscita,
siamo davvero sicuri di sapere tutto quello che c’è da sapere su
questa irresistibile commedia on the road? Ecco 10 curiosità su
Le Follie dell’Imperatore che forse ancora non
conosci!
Kuzco prende il nome dall’antica capitale degli Inca, Cuzco. La
città esiste ancora sulle Ande, nel Perù meridionale, a
un’altitudine di 3.200 metri.
La moglie di Pacha (John
Goodman), Chicha (Wendie Malick), è
incinta. Secondo il commento dell’edizione in Home Video, questo è
il primo film d’animazione Disney a mostrare una donna incinta. E
una delle prime madri umane a non essere trasformata nella villain
o uccisa.
Patrick Warburton improvvisò quando
Kronk canticchia la sua sigla mentre trasporta Kuzco (David
Spade) nella borsa verso la cascata. L’ufficio legale
della Disney fece firmare a Warburton tutti i diritti della
composizione canticchiata.
Nella scena in cui Pacha trasporta
Kuzco attraverso la giungla, Pacha e Kuzco discutono del fatto che
Kuzco ha un basso livello di zucchero nel sangue. Questa è un
inside joke sul fatto che David Spade, che interpreta Kuzco, è
diabetico nella vita reale.
Nella scena della cena in cui Kronk
accende un paio di candele, il portacandele è una piccola figura.
Si trattava di un personaggio delle prime versioni del film. Era un
consigliere dell’Imperatore, ruolo poi cancellato.
A causa dell’allusione nel titolo,
il film viene spesso erroneamente descritto come una versione di
“I vestiti nuovi dell’imperatore” di Hans
Christian Andersen. Sebbene alcuni tratti caratteriali del
protagonista siano simili a quelli del protagonista della storia di
Andersen, non ci sono ulteriori collegamenti. Piuttosto, la storia
presenta molte più somiglianze con la fiaba “Kalif Storch”
(Il califfo cicogna) di Wilhelm
Hauff.
Il finale originale vedeva Kuzco
costruire la sua enorme casa estiva sulla collina accanto alla casa
di Pacha. Sting inviò una nota ai produttori obiettando che Kuzco
non era cambiato davvero né aveva imparato nulla dalle sue
esperienze se avesse comunque costruito la sua sfarzosa villa.
Così, Kuzco costruisce (e si gode) una capanna molto più piccola,
più adatta al villaggio e allo stile di vita contadino.
Quando Kronk e Yzma vanno al loro
laboratorio segreto, oltrepassano diversi cancelli a forma di
animale. Il primo è un gatto e si sente il suono di un gatto che
miagola. Casualmente, Yzma si trasforma in un gatto alla fine di
questo film. Questo è un omaggio al famoso ruolo di Eartha
Kitt nei panni di Catwoman nella serie Batman
(1966).
Nella sequenza in cui la mosca
colpisce la ragnatela e viene mangiata, la mosca urla “Aiuto!”,
proprio come nel classico cinematografico La
mosca (1958), dove una mosca semiumana viene mangiata
da un ragno.
Quando un gruppo di guardie riceve
delle pozioni e si trasforma in vari animali, una di loro chiede:
“Sono appena stata trasformata in una mucca, posso tornare a casa?”
Si riferisce al detto “Till the cows come home”, che significa “per
molto tempo”.
Il 13 aprile uscirà
sulla piattaforma
Disney+ la serie tvLe fate ignoranti,
tratta proprio da quello che fu il film nell’anno 2001. Diretta
ovviamente da Ferzan Ozpetek, che ne ha anche
scritto la sceneggiatura insieme all’inseparabile Gianni
Romoli, Carlotta Corradi e
Massimo Bacchini, riprendendo sostanzialmente la
storia originaria ma cambiando tutto il cast, eccezion fatta per
l’iconica Serra Yilmaz.
La Disney ha iniziato a
scegliere di proporre nel proprio catalogo almeno la metà dei
contenuti che siano inerenti all’inclusività, e che quindi portino
alla luce minoranze di ogni sorta. Ed ecco dunque spalancarsi le
porte alla prima serie originale italiana Disney, che, tra l’altro,
sarà disponibile all’interno della sezione Star.
Uno dei principali
aspetti ad essere decisamente curiosi ad un primo sguardo alle
sequenze iniziali, è la differenza d’età dell’impatto di
determinati argomenti: a partire dal tradimento, fino ad arrivare
alle tematiche LGBT+. L’ampio respiro che poteva respirarsi nel
film del 2001, oggi ha una vaga aria cupa, quasi di un piccolo
microcosmo cristallizzato sulla terrazza di un quartiere soleggiato
a sud di Roma.
Le fate ignoranti, un microcosmo cristallizzato
Antonia
(Cristiana
Capotondi) è sposata con Massimo (Luca
Argentero), che un bel giorno incontra Michele
(Eduardo Scarpetta) che abita in un vivace
condominio la cui amministratrice è Serra (Yilmaz,
l’adorabile attrice feticcio di Ozpetek) e dove transitano tante
briose personalità, tra cui Annamaria e Roberta (Ambra
Angiolini e Anna Ferzetti), Mara
e Luisella (Lilith Primavera e
Paola Minaccioni) e Luciano e Riccardo
(Filippo Scicchitano e Edoardo
Purgatori). I due mondi s’incroceranno inevitabilmente ma,
soprattutto, per usare le stesse parole in voice over di
Luca Argentero: dopo ogni morte c’è una rinascita. E
qua ce ne saranno più di una, di rinascite, chiaramente.
Infatti, Le
fate ignoranti spalmato su otto
episodi, è innegabile che sia godibile e che in parte
rievochi la versione filmica di vent’anni fa, con quella leggerezza
che inaspettata giungeva dalle labbra di qualche personaggio
attinto dagli archivi di Pedro Almodovar. Ma è evidente che oggi tutto
assuma una debolezza congenita, se non, addirittura, una punta di
anacronismo.
Nel 2001 la rigidità
espressa da Margherita Buy veniva guidata con gradualità
all’interno di un’umanità nuova, e la novità era vissuta da ambo i
lati: da chi la scopriva e da chi si faceva scoprire. E nella
presentazione di ogni possibile sfaccettatura, la dolcezza e la
fragilità dei due universi diventava il linguaggio comune, che
lasciava parlare la sola cosa che contasse veramente in tutta la
storia: il bisogno di essere sinceramente amati.
Il
sottotesto del 2022 è molto diverso da quello del 2001
Nel 2022 è praticamente
cambiato tutto il sottotesto. Le relazioni si allacciano e
slacciano lasciando i personaggi implicati fissi nel proprio
individualismo, che godono sì dell’altro e ne desiderano follemente
la presenza, ma solo per abboffarsi il tempo necessario e poi
congedarsi velocemente. E nessuno ne soffre, piuttosto a far male è
il bisogno insoddisfatto, non la mancanza dell’altro in quanto
tale.
Ma è chiaro che il
problema non sia certo sulla forma, bensì nei contenuti. Per quanto
anche gli attori, talvolta, sembra che interpretino la propria
parte senza davvero entrare in relazione tra loro veramente,
persino nella recitazione. Il quartiere Ostiense a Roma, così caro
a Ferzan Ozpetek, ospita ancora creature umane
alla disperata ricerca di qualche stralcio d’amore, ma trovandole
tutte disperse, smarrite, e soprattutto ignare di ogni cosa: a
replicare una formula che era stata efficace un tempo, ma che oggi
non funziona più.
Dal punto di vista
estetico la
serieLe fate ignoranti racconta
un mondo visto e stravisto, nel quale il cinismo di Perfetti sconosciuti del 2016 di
Paolo Genovese, ad esempio, è già dato per
assunto. E, probabilmente, è proprio a partire da un maggiore
realismo relazionale che racconti del genere possono funzionare. Al
di là di ogni tema a favore dell’inclusività.
Oggi a Roma c’è stata la
presentazione in anteprima delle due puntate iniziali della serie
tv Le fate ignoranti, sviluppata dall’omonimo film
del 2001. Diretta sempre festosamente da Ferzan Özpetek, è il primo prodotto originale
italiano di Disney+, che comparirà nella sezione
Star a partire dal 13 aprile in cinquanta Paesi.
A presenziare
all’evento, oltre al regista, anche quasi tutto il cast:
Eduardo Scarpetta che interpreta Michele, il ruolo
che fu di Stefano Accorsi,
Cristiana Capotondi nei panni di Antonia, che era
stata Margherita Buy,
Ambra Angiolini e Anna Ferzetti,
che nella serie sono una coppia, Carla Signoris
che è Veronica, la mamma di Antonia e, naturalmente
l’incommensurabile Serra Yilmaz. Assenti
Luca Argentero, che veste i panni di Massimo, marito
di Antonia, e
Paola Minaccioni.
Ozpetek inizia subito
col raccontare che, con gli ormai vent’anni trascorsi dall’uscita
del film, di differenze su alcune sfumature nei toni della storia,
se ne vedono eccome. In particolare rispetto alle reazioni dei
personaggi di fronte agli eventi: «Se ora scoprissi che il
marito di una tua amica sta anche insieme ad un’altra la tua
reazione con ottime probabilità sarebbe: “Ah ok, e allora?”. Quindi
oggi la difficoltà è stata raccontare che gli amanti de Le fate
ignoranti appartengono a due mondi diversi e spiegare che non
potessero effettivamente stare insieme. Vent’anni fa era ancora
comprensibile. Ad ogni modo la fortuna che ho avuto nel lavorare
con la Disney è stata la grande elasticità che mi hanno dato sulla
sceneggiatura: se qualcosa non mi convinceva potevo cambiarla anche
in corso d’opera».
Interviene Gianni
Romoli, che anche questa volta ha lavorato alla scrittura,
confermando e ribadendo che narrare Le fate ignoranti
all’inizio del secondo millennio aveva significato mostrare tutto
il desiderio di scoperta che si respirava allora, specialmente
verso le diversità, «tant’è che il punto di vista era quello di
Antonia», spiega Romoli, «una borghese che dava la
possibilità al pubblico di identificarsene, potendo essere
introdotto man mano in una realtà che allora era nuova. Adesso non
è più così. I punti di vista sono molti di più, si parla di un
gruppo che, anziché spingersi e aprirsi all’esterno, si ripara e
diventa rifugio».
«Quando era uscito
il film le Torri Gemelle non erano ancora crollate. Da allora la
chiusura è stata sempre maggiore, lo sguardo della gente sul mondo
è cambiato», aggiunge il regista.
Il discorso poi si
sposta verso la scelta del cast che, con la sola eccezione di
Serra Yilmaz, è cambiato interamente: «Ho
avuto la fortuna di lavorare con persone meravigliose», dice
Ozpetek, «mi innamoro sempre di ognuno di loro, così come spero
che loro lo siano di me!», esclama ridendo, «quando li
scelgo mi devono comunicare qualcosa. Io mi adeguo al loro
carattere: penso che non sia l’attore a dover entrare nel
personaggio, ma il personaggio che debba costruirsi sull’attore. Ho
visto che è un metodo di lavoro che li rende più
efficaci».
Intervengono quindi
Ambra Angiolini e Anna Ferzetti,
definendo semplice il loro percorso nella costruzione della
relazione che le lega nella serie, avendo entrambe puntato a fare
solo la coppia innamorata. Prende la parola Ozpetek che dice con
sarcasmo di aver ricevuto una telefonata da Pierfrancesco
Favino, marito di Anna Ferzetti, che gli
chiedeva cos’avesse fatto alla moglie, dal momento che sembrava
essere diventata un’altra. E, dopo le risate di tutto il cast,
Ferzetti spiega che il lavoro che il regista le ha proposto di fare
nella realizzazione del personaggio, era partito già dal cambio di
look e l’ha coinvolta molto profondamente: «Gli sconvolgimenti
che faccio sulle attrici le fanno diventare delle pazze. Avrei
dovuto fare il parrucchiere», conclude il regista,
accompagnato ancora dalle risate di tutti. «Con Ozpetek è
bellissimo lavorare», aggiunge Carla
Signoris, «perché la concentrazione è tanta, ma c’è
anche moltissima leggerezza».
Il regista, poi, parla
del suo rapporto con Mina, che ha spesso contribuito nel suo lavoro
anche dandogli preziosi pareri personali, e la descrive quasi come
una strega con poteri da sensitiva. La sigla della serie è cantata
da lei, con l’inedito pezzo “Buttare l’amore”, che ha voluto
regalare ad Ozpetek per omaggiare lui e il bel rapporto che li
lega. Tra pochi giorni ne verrà presentato il videoclip, rivela:
«Mina mi emoziona sempre tanto».
Realizzare oggi un film che sia
originale dalla prima riga di sceneggiatura sino all’ultima è
impresa quasi impossibile, e Arnaud Desplechin con
il suo ultimo lavoro Le fantome
d’Ismael neppure ci prova a farlo. Il suo cinema
ha sempre puntato, e punta ancora adesso, a tutt’altro: a una
scrittura complessa, emozionale, giocosa, a una direzione solida
degli attori, ad inquadrature in grado di raccontare e creare
atmosfere anche in silenzio.
Se Olvier Assayas
allo scorso Festival
di Cannes, il numero 69, ha raccontato i fantasmi attraverso
gli smartphone e gli abiti di lusso, l’autore di Racconto di
Natale sceglie oggi temi più inflazionati come l’amore, la
nostalgia, l’arte, i sogni infranti e perduti, il riscatto,
scegliendo un registro a dir poco particolare. Le linee di
trama ci sono, ma non sono affatto fondamentali, ci trasportano
avanti e indietro nel tempo come a voler risvegliare ricordi ormai
sopiti, lo sfondo perfetto per un racconto fatto di volti, di carne
e sangue, di passione e occasioni perdute.
In
Le fantome d’Ismael Charlotte è scomparsa da
vent’anni, riposa in una tomba vuota e umida, poiché il suo corpo
in realtà non è mai stato ritrovato; defunta solo per comodità
legale, per egoismo di chi l’ha cercata per anni, invano. Charlotte
invece è viva e vegeta, è soltanto scappata a vent’anni da una vita
che la rendeva infelice, appesantita, e ora ha deciso di tornare
senza dire niente a nessuno. Della sua vita passata sono rimaste
soltanto macerie, un marito distrutto e un padre anziano ormai
senza speranza, legato solo a vecchie e sfocate fotografie, è però
forte la sua voglia di ricostruire tutto dalle fondamenta.
Ismael, quello che
era l’uomo della sua vita, si è ora risposato, ma poco importa con
il grande piano di Charlotte, anche perché è forte il dubbio che
tutto questo – il ritorno in grande stile alla vecchia vita – sia
soltanto mentale, ideale. È sempre Ismael, artista e regista
nevrotico, schizzato e trasandato, a inventare tutto con minuzia di
dettagli. Questo Desplechin non ce lo dice in modo esplicito, ma
basta rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle che abbiamo a
disposizione, uniti insieme soprattuto nel finale d’opera, durante
il quale lo stesso protagonista paragona il suo
film-dentro-il-film – e così la sua vita – ad un dipinto
di Jackson Pollock. Nelle linee apparentemente astratte e insensate
si nasconde invece la ragione, la poesia, la linearità della
vita.
Probabilmente per
questo motivo il regista francese confeziona un film slegato in
superficie, un omaggio al cinema noir e alla “nuova ondata”
d’oltralpe con uno scopo ben preciso fra le righe, diretto con
rigore stilistico e licenze poetiche sparse qua e là. La sua
macchina da presa danza, gioca, gira su se stessa e crea dipinti
dinamici, atmosfere emozionanti e momenti passionali, tutti
rafforzati dagli ottimi interpreti. Charlotte
Gainsburg e Marion Cotillard sono nemiche eppure complici,
opposte eppure simili, portano a compimento la loro missione con
grazia e sensibilità, soprattutto la prima – a cui è affidato
l’intimo l’epilogo. A dirigere l’orchestra però è Mathieu
Amalric, una vera e propria scheggia impazzita che genera
paure e ricordi, fantasmi e desideri usando il corpo e la voce.
Le fantome
d’Ismael finisce dunque per essere un viaggio mistico
nella mente del suo protagonista folle e traumatizzato, dei suoi
incubi ricorrenti e vividi, narrato con un linguaggio
cinematografico che colpisce ognuno in modo soggettivo. Un inno
visionario al fluire irrefrenabile della vita, che ha sempre un
piano B e un modo per risorgere dalle sue stesse ceneri.
Lannister, White, Soprano, Collins.
Sono tantissime le famgilie della tv ad avere dei problemi, delle
difficoltà e a loro modo delle stranezze. Ecco di seguito le
famiglie più problematiche della televisione!
[nggallery id=1540]
_______________________
Da Game of
Thrones, che struttura la sua trama intricata
sull’intreccio delle stesse, a I Soprano,
in cui è la protagnista della serie, passando per Mad
Men e Dark Shadows, la
famiglia in tv è sempre stato un ottimo ambito per mettere in scena
problemi e drammi, situazioni divertenti e ogni tipo di
dinamica.
I personaggi femminili forti e
combattivi sono la linfa vitale di moltissimi franchise
cinematografici. Se poi queste eroine appartengono anche al genere
action, sono sempre donne magnifiche, autonome, forti, pericolose,
che stimolano non solo la fantasia degli spettatori, ma anche la
simpatia delle spettatrici. Ecco di seguito una gallery delle
eroine action del cinema:
[nggallery id=458]
Tra queste, una delle più note e
amate è senza dubbio Sigourney Weaver, la Ripley
che le ha suonate di santa ragione agli alieni per un paio di
decenni, in giro per lo spazio; oppure la giovane Vedova
Nera/Scarlett Johansson, che
sicuramente non ha bisogno del fidanzato per farsi rispettare. E
che dire della sexy vampira Kate Backinsale? O
Milla Jovovich nei panni di Alice? Ma l’elenco è
lungo e tra le famose protagoniste dei franchise citati ci sono
anche personaggi che hanno fatto una fugace apparizione in ruoli
action, ma che sono diventate comunque icone di un genere:
Charlize Theron in Aeon
Flux, Olivia Wilde in
Tron Legacy, Jessica
Alba ne I Fantastici 4, oppure
la cara Anne Hathaway nei panni di Selina Kyle per
Il Cavaliere Oscuro il Ritorno.
Il lavoro del costumista è sempre
interessante ma qualche volta diventa vero e proprio scrigno di
dettagli e particolari sui film. In particolare, di seguito potete
vedere sei Easter Eggs nascoste in altrettanti costumi di film
famosi che rimandano a insospettabili (quasi) retroscena o
riferimenti culturali.
Da uno spot di 30 secondi per il
Burger King all’Oscar per il miglior film, annunciato niente meno
che dalla first lady Michelle Obama: nel giro di
vent’anni, Ben Affleck è riuscito a raggiungere
vette insperate di carriera.
Classe 1992, Affleck inizia
giovanissimo a coltivare il sogno di fare l’attore. Certo era in
buona compagnia: sin dalla più tenera età, stringe infatti amicizia
con un bambino di due anni più grande, un certo Matthew
Damon, con le stesse identiche velleità. Il loro sodalizio
artistico ed esistenziale crescerà negli anni, tanto che anche ad
oggi, i due si definiscono (e non abbiamo elementi per pensare il
contrario) migliori amici. Dopo aver ottenuto il diploma alla
Cambridge Rindge and Latin High School, Ben abbandona gli studi
universitari intrapresi senza troppa convinzione e decide di
dedicarsi interamente alla recitazione. A quei tempi, ben pochi
avrebbero scommesso su di lui: il suo viso da belloccio e
l’apparente inespressività lo facevano quotare inizialmente come
attore da soap-opera. Non per niente nel 1992 compariva nel cast di
Buffy-L’ammazzavampiri nel ruolo di un giocatore di basket
alquanto ininfluente.
Nello stesso anno ottiene una parte
in Scuola d’onore di Robert
Mandel, film che sarebbe caduto nell’oblio se non avesse
avuto il merito di lanciare le carriere di Matt Damon,
Chris O’Donnel e dello stesso Affleck. Negli anni
immediatamente successivi l’aspirante attore stenta a ottenere
parti decenti, e gira film mediocri come La vita è un
sogno di Richard Linklater (1993) e
Ultimo appello di Rich
Wilkes (1996), per la prima volta nel ruolo da
protagonista.
Il tanto agognato successo arriva
come un tuono nel 1997, sotto la guida della fine regia di
Gus Vas Sant nella pellicola indipendente
Will Hunting – Genio ribelle, dove recita
con l’inseparabile Matt. Le performance di entrambi sono
eccezionali e decisamente toccanti, ma la vera sorpresa sta nella
sceneggiatura scritta a quattro mani proprio dai due amici, un
lavoro che li porterà dritti sul palco dell’Academy per ricevere il
premio per la Miglior sceneggiatura originale; non male come
traguardo per due venticinquenni fino ad ora considerati dei
dilettanti. Fino ad ora, appunto: dopo l’Oscar la loro strada per
raggiungere la fama di stelle è spianata, e Ben ottiene subito una
parte nel fortunato Shakespeare in love
(1998) di John Madden, dove conosce la futura
fidanzata Gwyneth Paltrow, con cui rimarrà legato
per circa un anno. Arrivano poi i grandi blockbuster diretti dal
regista Michael Bay, grazie ai quali Affleck
impone il suo nome all’intero star system hollywoodiano: il
catastrofico Armageddon – Giudizio finale
(1998) e il colossal bellico Pearl
Harbour (2001), che avrà un successo straordinario di
pubblico in continua crescita. Nei due anni precedenti Ben aveva
recitato insieme a Damon nel controverso
Dogma di Kevin Smith
(1999) e insieme all’ormai ex Gwyneth nel romantico
Bounce (2001).
La popolarità ha però un rovescio
della medaglia, e l’attore, afflitto da un vizio dell’alcol sempre
meno controllabile, si fa rinchiudere di sua spontanea volontà
nella Promises Rehabilitation Center di Malibù. Dopo essersi
riabilitato e aver recitato in due o tre film dimenticabili, nel
2003 riveste la parte del supereroe in
Daredevil di Mark Steven
Johnson accanto alla futura moglie Jennifer
Garner. Ma il colossale flop è ora dietro l’angolo, e
porta il nome di Amore estremo – Tough
love, imbarazzante film di Martin
Brest che sulla locandina sfoggia il connubio Ben
Affleck – Jennifer Lopez, nel frattempo diventati
fidanzati anche nella vita. I due sembrano proprio inseparabili,
tanto da essere soprannominati “Bennifer”; la chiacchieratissima
coppia arriva a un passo dall’altare, Ben pazzo di lei compare nel
provocatorio video della hit “Jenny from the block” e le regala un
anello da 3 milioni e mezzo di dollari. Ma il rapporto si evolve
tormentato, e la rottura totale arriva nel luglio 2004. La fine del
loro rapporto è stata accolta con un respiro di sollievo dai fan di
Ben, preoccupati per l’inarrestabile discesa della sua carriera
sempre più trascurata: indimenticabile il disastro del secondo e
ultimo film girato con la cantante ispanica, Jersey
Girl di Kevin Smith.
Sarà un’altra Jennifer, la Garner,
a risollevare la situazione, offrendo a Ben la stabilità di un
amore incondizionato, probabilmente ciò di cui aveva più bisogno. I
due si sposano nel 2005 e avranno tre figli, Violet Anne nello
stesso anno, Seraphina Rose Elizabeth nel 2009, e l’ultimo, Samuel,
nel febbraio 2012. Sostenuto dalla moglie, Ben sfodera un grande
quanto inaspettato talento come regista: nel 2007 dirige il
fratello Casey Affleck, Ed Harris e Morgan
Freeman nel riuscitissimo Gone Baby
Gone, un thriller dai temi delicati di cui firma
anche la sceneggiatura. Nel 2010 scrive e gira The
Town, riservando a se stesso la parte del
protagonista.
Nel 2012 viene scelto da un regista
del calibro di Terence Malick per rivestire il
ruolo principale in To the Wonder, sua
ultima fatica. Nello stesso anno dirige e produce
Argo, sua consacrazione: la pellicola
narra il non facile argomento del cosiddetto Canadian Caper, ossia
l’operazione segreta congiunta tra Stati Uniti e Canada del 1979
per liberare, nell’ambito della crisi degli ostaggi, sei cittadini
americani rifugiatisi nell’ambasciata canadese della capitale
iraniana. In realtà il film è una vera e propria dichiarazione
d’amore per il cinema e la sua forza rivoluzionaria, e qui Affleck
da il meglio di sé anche come attore. Il film si aggiudica tre
premi Oscar (Miglior film, Migliore sceneggiatura non originale,
Miglior montaggio), due Golden Globe e tre British Academy Film
Awards. Nel discorso di ringraziamento agli Oscar, conclude
sincero: “Non importa come sei caduto nella vita, perché
succederà. L’importante è rialzarsi”.
Adesso lo aspettiamo al cinema con
Runner Runner, film in cui recita la
parte del cattivo accanto a Justin Timberlake e
Gemma Arterton, un film dal quale non ci
aspettiamo molto, ma in cui senza dubbio ci farà piacere
ritrovareil nostro Ben.
E lui è riuscito senza dubbio a
rialzarsi, con grinta e con spregiudicatezza, tanto che, dopo il
trionfo dello scorso anno, ha deciso di rischiare il tutto per
tutto e di accettare il ruolo del prossimo Batman cinematografico,
comparendo nel prossimo film Batman vs
Superman. La scelta, che a molti sembra azzardata, ci
confermerà ancora una volta la grandissima capacità di Ben Affleck
di trare il meglio da ogni situazione? Aspettiamo e vediamo,
intanto noi facciamo il tifo per lui.
Le due vie del
destino, tratto dalla vera storia di Eric Lomax, diventata
anche un’autobiografia, ha due anime: romantica e atrocemente
tragica e resta in bilico tra queste due vie, lasciandole entrambe
poco approfondite in favore di un racconto di dolore, sì, ma anche
di buoni sentimenti. La vicenda del protagonista – guerra e tortura
subita, vendetta o perdono, epilogo – si dipana in modo fin troppo
prevedibile, tanto consolatorio e buonista, da sembrare
irrealistico, sebbene ispirato a una storia vera. A ciò
contribuisce una sceneggiatura lacunosa, che non mostra il maturare
delle decisioni, l’evolversi dei rapporti, ma piuttosto abbandona
gli eventi a un accadere meccanico.
Ne Le due vie del
destino Eric Lomax (Colin
Firth) è un soldato britannico, fatto prigioniero dai
giapponesi durante la Seconda Guerra mondiale e mandato in un campo
di lavoro in Tailandia, a costruire la cosiddetta “Ferrovia della
morte”. Qui assiste all’orrore ed è vittima di torture per aver
costruito clandestinamente una radio. Anni dopo, in patria incontra
Patti (Nicole Kidman) e con lei ritrova una
normalità, ma i fantasmi del passato restano. Quando Patti viene a
conoscenza di quanto Eric ha vissuto e del fatto che uno dei suoi
aguzzini è ancora vivo, decide di farglielo sapere, per aiutarlo a
chiudere i conti col suo passato.
Fotografia patinata, apertura da
perfetta pellicola romantica: un gentleman scozzese con
l’ossessione dei treni e l’incontro con la donna della sua vita.
Poi i demoni del passato si riaffacciano, attraverso flashback che
illustrano la prigionia di Eric. Ma il regista non vuole far troppo
male allo spettatore, manca il vero pugno allo stomaco. È questa la
scelta dell’australiano Jonathan Teplitzky, al suo
quarto lavoro. In alcune scene di tortura o pestaggio, ad esempio,
si concentra sul volto dell’aguzzino e sostituisce il sonoro
realistico con un tappeto musicale enfatico, o mostra i risultati
delle torture, ma non le torture stesse. Non vediamo poi, se non in
qualche fugace scena, la quotidianità della vita nel campo, il vero
lavoro forzato, la morte. Ci si concentra su singoli episodi, ma
manca un contesto dettagliato, necessario per creare una reale
partecipazione.
Anche il filone narrativo che
riguarda la coppia non è sufficientemente approfondito: alla
Kidman, di fatto, un ruolo di moglie più marginale di quanto
ripetute dichiarazioni all’interno del film le riconoscano. Il
romanticismo dei primissimi piani non basta a rendere il vero
spessore di una storia d’amore certamente complessa.
Il valore del film sta dunque –
oltre che nella scelta di una pagina poco nota del secondo
conflitto mondiale, raccontata al cinema solo da Il
ponte sul fiume Kwai – nell’interpretazione di Firth,
che abilmente si cala nel complesso universo di Lomax, rendendone
il caleidoscopio di stati d’animo, come anche in quella di Jeremy
Irvine – Lomax da giovane. Peccato che la retorica prevalga
sull’emozione.
Primo
trailer italiano per Le Due Vie del
Destino, il drama di Jonathan
Teplitzky (Burning Man, Better Than
Sex) basato sul bestseller mondiale The
Railway Man di Eric Lomax che vede
protagonisti Colin Firth, Nicole Kidman e Stellan
Skarsgard.
Lo script è basato sulla vita di Eric
Lomax e racconta di come l’ufficiale inglese (Colin Firth)
durante la seconda guerra mondiale sia stato torturato dai giapponesi durante la
costruzione della ‘ferrovia della morte’. A distanza di dieci anni,
comincia la caccia ai colpevoli. Patricia Wallace (Nicole Kidman),
moglie di Lomax sostenne il marito aiutandolo ad affrontare le sue
paure. Nel cast c’è anche Jeremy Irvine nei panni del
giovane Lomax e Hiroyuki Sanada nel ruolo dell’ufficiale
giapponese che lo ha imprigionato.