Il fantasy è uno dei più
affascinanti generi cinematografici, ma anche uno di quelli più
difficili da produrre. Prendiamo, ad esempio, il franchise di Harry
Potter, che in questo discorso ritornerà a più riprese.
Harry Potter
è, nell’immaginario collettivo, una delle saghe più magiche e
travolgenti realizzate, merito soprattutto della sua solida
struttura narrativa e di una storia accattivante, riuscita a
diventare sogno di intere generazioni. Quanti, ancora oggi,
desiderano ricevere una convocazione a Hogwarts?
Esiste perciò un prima e un dopo
Harry Potter (o anche
Il Signore degli
Anelli), come esiste un prima e un dopo Star Wars nello sci-fi, entrambi capaci di
aver saputo dare nuova vita ai generi, forti sia della storia
formativa interna che dell’amore del pubblico. È dunque normale che
alcuni successivi film ne abbiano seguito la scia, riproponendo
universi simili, prendendone a volte spunto, altre volte purtroppo
emulandoli un po’ troppo.
Ed è così che arriviamo a
The Portable Door, adattamento della
serie fantasy in sette libri di Tom Holt. Diretto da
Jeffrey Walker, il film è una produzione interamente
australiana e vanta un cast di nomi altisonanti, fra cui spiccano
il due volte premio Oscar Christoph Waltz nei
panni del villain e Sam Neill, il celebre
Alan Grant di Jurassic Park, come suo braccio destro.
The Portable Door, la
trama
Con The Portable
Door facciamo la conoscenza della J.W. Wells & Co.,
un’azienda che si occupa di far accadere coincidenze fra le persone
e influenzarle a seguire una certa strada nella vita, a fin di
bene. O almeno così sembra. Ne sono a capo Humphrey
Wells (Christoph
Waltz), amministratore delegato dell’azienda, e il
manager Dennis Tanner (Sam
Neill), i quali un giorno assumono come stagisti
Paul Carpenter (Patrick Gibson) e
Sophie Pettingel (Sophie
Wilde).
A Paul, vero protagonista della
storia, verrà affidato il segreto compito di andare alla ricerca di
una “porta portatile” che si nasconde all’interno della struttura.
In realtà, il reale obiettivo di Wells, colui che gli ha affidato
l’incarico, è impossessarsi delle anime delle persone al fine di
poter stravolgere nel mondo reale le loro influenze e decisioni. In
questo modo, manipolandole, potrà ricavarne un guadagno e,
dall’altra parte, loro non se ne accorgeranno mai. La missione di
Paul, naturalmente, diventerà fermarlo prima che sia troppo
tardi.
Il problema sta alla base
Come accennato in apertura, le
storie fantasy possono avere un loro successo solo se, alla base,
c’è una forte visione artistica associata a una specifica idea
narrativa, in grado di forgiare nuove storie in nuove forme. Perché
se un certo mondo magico funziona, assicurando a livello di incassi
(conta anche questo) una buona cifra, è giusto appropriarsene per
rimodellarci sopra un racconto che risulti poi
inedito. È lì che entra in gioco la bravura di un
regista, ma anche quella di uno sceneggiatore. Ecco quindi il
primo, grande, problema di The Portable
Door. Non solo la storia è inserita in un universo di
maghi e goblin a Londra, ma riprende anche tutte le più peculiari
caratteristiche potteriane.
Il protagonista, un orfano e
impacciato Paul, scopre di essere il prescelto per distruggere il
mago Humphrey Wells, che vuole impossessarsi delle anime delle
persone per poterle manovrare. La sua vita cambia quando nel suo
appartamentino un po’ logoro arriva una lettera (altra somiglianza)
dall’azienda J.W. Wells & Co., dentro la quale gli verrà assegnato
il compito di cercare una porta portatile, la quale altro non sarà
che una sorta di polvere volante. Con la differenza che, in questo
caso, il luogo in cui ci si vuole recare va solo pensato, non
scandito a parole.
La porta in questione altro
non risulterà che un McGuffin, seppur il titolo stesso del
film faccia pensare a una sua importante rilevanza nella trama.
L’universo plasmato da Walker risulta perciò troppo derivativo e
scialbo, con una narrazione che va sfaldandosi subito dopo il primo
atto, arrivando a chiedersi quanto ancora ci vorrà prima che si
giunga al climax finale, al quale finalmente seguiranno i titoli di
coda. The Portable Door, al netto di una
composizione visiva discreta e semplice e una scrittura che brilla
di più solo nelle battute da humor inglese pronunciate dal
personaggio di Sam Neill, si è edificato su una base troppo fragile
e tremolante per poter essere coinvolgente.
E qualche scenografia ben fatta, un
dosato (quasi scarso) uso del VFX (per fortuna hanno capito che non
c’era bisogno di strafare o sarebbero peggiorate le cose), e
un’interpretazione sempre magistrale di Christoph Waltz nei panni
del cattivo (ruolo che gli calza fin troppo bene), non bastano
dunque a rendere il film meno scarico e sottotono di quanto già non
fosse in partenza.

Siamo nelle mani dei poteri
forti?
The Portable
Door aveva l’occasione, data l’inefficienza a livello
strutturale, di poter lavorare bene almeno sul versante del
contenuto. Opportunità mancata anche sotto questo aspetto, un po’
come accaduto al film Netflix L’accademia del Bene e del
Male uscito in piattaforma qualche mese fa. È chiaro che
il sottotesto di cui la pellicola si fa carico nasconde al suo
interno una nota politica molto attuale quanto estremamente
importante. Riguarda la nostra società, ma in particolare quella
americana, intesa come popolo manipolato dai poteri forti.
Un seguire un american
dream creduto come un desiderio sentito e comune, ma in
realtà frutto di una illusione ottenuta grazie a particolari
operazioni di persuasione, al fine di avere un cittadino ligio al
dovere. Una tematica che però è un peccato non emerga a dovere, e
che viene appena esplorata, per non dire accennata, solo nel
finale. C’era tanta carne al fuoco, molto potenziale che poteva
rendere The Portable Door un film di
qualità, per poter pensare poi eventualmente ad un futura saga che,
se questi sono i presupposti, rischia però di fallire.