L’aggettivo “maledetto” viene
solitamente impiegato per definire alcuni specifici prodotti
culturali (nel nostro caso specifico di tipo filmico) che, per un
motivo o per l’altro, fin dalle proprie origini possiedono la
capacità di imprimersi indelebilmente nell’immaginario popolare più
per la presunta aura di mistero e leggenda che vi aleggia attorno
che per il loro effettivo contenuto. A tal proposito, ben poche di
fatto appaiono le pellicole degne di poter essere definite
“maledette”, come Freaks! alcune grazie a
mitologici e inspiegabili accadimenti legati alla propria genesi
produttiva – come nei casi al limite del perturbante de
L’Esorcista (1973), Omen
(1976) o Amytiville
Horror (1979) –, altri invece in seguito a
celeberrimi e travagliati interventi censori che ne hanno visto in
gran parte alterata (spesso irrimediabilmente) la propria forma,
esattamente come Rapacità (1924) e
Sul globo d’argento (1989) tristemente
testimoniano.
Ma sopra ogni altro esempio
possibile, proprio in quella perturbante twilight zone che
unisce leggenda, verità e una gran dose d’immaginazione alimentata
dal tempo e dalla mitomania cinefila ecco collocarsi
Freaks, pellicola del 1932 divenuta nel
corso degli anni un autentico fenomeno di culto, tanto negli
ambienti underground quanto nelle cerchie di raffinati
cultori della settima arte. Un film giustamente definito e
definibile “maledetto” sia nelle peripezie che ne hanno visto la
nascita che nelle vicissitudini a dir poco grottesche che ne hanno
accompagnato la perpetrazione in questi ultimi ottant’anni.
La potenza culturale di Freaks
Per riuscire realmente a
comprendere quale potenza culturale (e quale relativa eredità)
possa mai sprigionarsi da un tale insieme di fotogrammi è bene
procedere con ordine, in quanto, così come accade per ogni prodotto
realmente definibile “artistico”, è dalla genesi dell’autore che si
comprende e conseguentemente giunge a quella dell’opera. In questo
caso la figura mitica chiamata in causa è quella di Tod
Browning, giovane promessa della giovane Hollywood
d’inizio ‘900 destinata a una rapida e strabiliante ascesa nel
cinema appena istituzionalizzatosi così come a un altrettanto
repentino e inglorioso epilogo.
Cresciuto con una profonda
ammirazione verso il mondo circense (esattamente come il futuro
collega italiano
Federico Fellini) e avendo avuto modo di
avvicinarvisi per un certo periodo della propria scapestrata
giovinezza, il giovane Tod (pseudonimo di Charles Albert
Jr) si fa le ossa nel mondo del cinema direttamente alle
dipendenze del leggendario regista David W.
Griffith, per il quale svolge il triplice ruolo di
assistente, attore e sceneggiatore nel capolavoro
Intolerance del 1916, prima di
muovere da solo i primi passi dietro la macchina da presa durante
il periodo del muto grazie alla grande amicizia col produttore
Irving Thalberg, all’epoca ai vertici della
Universal Pictures. Ed è proprio per la casa di produzione fondata
da Carl Laemmle che Browning realizza alcune
pellicole caratterizzate da tematiche morbose e inquietanti che
rivelano il suo peculiare gusto per un mondo malsano e perturbante
nel quale i veri protagonisti sono quei “diversi” che popolavano di
consueto i baracconi da fiera e le carovane circensi ancora a
inizio XX° secolo.
Con Il trio
infernale (1925) il regista narra ad esempio di un
gruppo di furfanti grotteschi e disumani dediti al travestitismo,
il cui leader è un nano vestito da neonato intento a fumare grossi
sigari – diretto antenato del Baby Herman di
Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), mentre
con Lo sconosciuto (1927) si cimenta
nella vicenda bohémien di un trapezista che decide di farsi
amputare le braccia in modo da poter restare in compagnia di una
giovane collega fobica degli abbracci maschili. Passando attraverso
narrazioni tipicamente proto-orrorifiche quali Il
fantasma del castello (1927) e trame poliziesche come
quelle di La grande città (1928) Browning
decide infine di dare una drastica svolta di qualità alla propria
carriera approfittando della recente rivoluzione (e subito moda)
del cinema sonoro dirigendo Dracula
(1931), prima e ormai famosissima trasposizione filmica
del romanzo di Bram Stoker caratterizzata da una messa in scena
formalmente impeccabile ma eccessivamente statica e teatrale a
causa dell’ingombro e delle difficoltà tecniche delle prime
cineprese sonore, nella quale il volto del vampiro più famoso di
tutti i tempi è quello della leggenda ungherese Bela
Lugosi.
Dopo aver diretto
un’ultima pellicola drammatica incentrata sul mondo pugilistico dal
titolo Iron Man (1931), l’ormai affermato
cineasta di Louisville decide lasciare la Universal per seguire il
suo amico e mentore Thalberg verso la MGM, ed è proprio in seno al
più famoso studio hollywoodiano che egli medita di realizzare una
pellicola interamente dedicata al mondo del circo e ai suoi
abitanti più illustri, ovvero i cosiddetti “freaks” (dura
e spregiativa terminologia anglosassone che sta a indicare tutti
coloro che sono in qualche modo “strani” e “diversi”, spesso al
limite del “mostruoso”), il tutto attraverso un ruvido e impietoso
racconto di vendetta e fratellanza nel quale a vincere, questa
volta, sono proprio coloro che il mondo è solito emarginare.
La vicenda, nella sua sconcertante
crudezza e semplicità, è pesto esposta: in un circo ambulante
caratterizzato dai più consueti e variegati “fenomeni da baraccone”
(donne barbuta, gemelli siamesi, uomini senza arti, donne cannone
ecc.) il nano Hans è fidanzato con la collega di spettacolo Frieda,
me ben presto inizia a nutrire una forte attrazione per Cleopatra,
splendida e altezzosa trapezista che è solita illudere il piccolo
uomo per ottenere regali e favori economici. Grazie alla complicità
del forzuto Ercole di cui è dichiaratamente invaghita, Cleopatra
decide di sposare Hans, iniziando però un processo di sordido
avvelenamento nei suoi riguardi con lo scopo di ereditarne la
piccola fortuna. Venuti a conoscenza del terribile piano ordito
dalla coppia, gli amici di Hans (i Freaks del titolo,
così come li etichetta la trapezista in uno sfogo alcolico durante
la grottesca festa di nozze) decidono di vendicarlo, accoltellando
a morte Ercole e sfigurando orribilmente la bella Cleopatra, la
quale sarà in seguito esposta al pubblico in qualità di
“donna-gallina” durante i futuri spettacoli girovaghi della
compagnia.
Se già di per sé un racconto del
genere può risultare alquanto bizzarro e a dir poco estremo per gli
standard del cinema americano dell’epoca già avviato verso
l’imminente codice di autocensura (l’integerrimo “codice Hays”),
ancora più azzardate – e in verità coraggiose – appaiono
le scelte registiche impiegate da Browning nella realizzazione di
un film che avrebbe sollevato un tale polverone mediatico da
mettere in atto una delle più radicali e feroci campagna di
boicottaggio e indignazione pubblica dell’industria del film.
Come prima cosa il cineasta decise
di ingaggiare autentici fenomeni circensi già all’epoca molto noti
e in gran parte provenienti dalle sue passate frequentazioni di
gioventù, alcuni di essi in seguito divenuti famosi negli ambienti
mondani, come ad esempio Prince Randian
(l’Uomo-Torso privo di tutti e quattro gli arti), Josephine
Joseph (l’ermafrodita più celebre d’Europa), le sorelle
siamesi Daisy e Violet Hilton, Frances
O’Connor (la ragazza senza braccia) e Johnny
Eck (l’uomo senza gambe). Mai prima di allora il grande
schermo aveva osato sfoggiare così apertamente il tema della
diversità e delle malformazioni corporee, tanto che apparve a dir
poco deplorevole al pubblico di allora il fatto che entità così
“diverse” e “mostruose” potessero essere capaci di provare
sentimenti così “umani” quali la fratellanza la compassione,
sentimenti che – almeno nella finzione filmica – li conducaono a
coalizzarsi per giustiziare, secondo un proprio codice d’onore (il
“codice dei Freaks” come lo chiama l’imbonitore nell’incipit della
pellicola), coloro che ordiscono a loro danno e che, cosa ancora
più grave, tradiscono la loro fiducia.
Descritto dagli stessi attori come
un despota e un insaziabile perfezionista avvezzo al facile
insulto, Browning ebbe modo di contare sulle superbe
interpretazioni di Olga Baclanova nelle vesti
della perfida Cleopatra e del nano di origini tedesche
Harry Eales (già attore di punta nel sopracitato
I tre furfanti e fratello di Daisy
Earles, colei che nel film interpreta la fidanzata
Frieda), ma ciò non poté salvare la pellicola dal turbolento e
mitico destino che l’avrebbe attesa al varco e che ne avrebbe in
gran parte alimentato la leggenda per gli anni avvenire. Malgrado
fosse stato ideato fin dall’origine come una pellicola
horror con cui rilanciare la non certo facile situazione
della MGM, Freaks venne in seguito prontamente
disconosciuto dai suoi stessi produttori in seguito alle polemiche
seguite alla prima tenutasi il 16 febbraio del 1932, venendo in
seguito vietato sia dalla Germania di Hitler fino al 1945 e anche
dall’Italia fascista fino ai tardi anni ’70, quando la RAI ne
chiese una traduzione e una conseguente uscita cinematografica
limitata (in tv bisognerà invece aspettare gli anni ’80 grazie alla
fascia notturna di Enrico Ghezzi). Addirittura nel Regno Unito la
pellicola venne interdetta al pubblico ben oltre il 1964.
Il più grande smacco a cui
però Browning dovette andare in contro fu la
censura e la conseguente mutilazione di oltre un quarto d’ora di
girato – in seguito distrutto e purtroppo a oggi del tutto
irrecuperabile – che, stando a quanto riportano le testimonianze
dell’epoca, corrisponderebbe a due sequenze a dir poco estreme: la
prima riguardante i dettagli della mutilazione inferta dai
freaks al corpo di Cleopatra e la seconda al destino ben
diverso e poco lusinghiero riservato a Ercole, evirato e costretto
a cantare in pubblico in falsetto. In seguito alle aspre polemiche
sollevate da questa sua controversa produzione il cineasta un tempo
celebre e acclamato si vide letteralmente sbattuta in faccia la
porta dei grandi studios e a nulla valsero le ultime collaborazioni
di genere con la MGM – tra cui i suggestivi ma ormai manieristici
I Vampiri di Praga (1935) e
La bambola del diavolo (1936) – poiché
agli albori della Seconda Guerra Mondiale la fulgida e promettente
carriera di Browning era ormai giusta irrimediabilmente al
capolinea.
Ben otto decadi abbondanti sono
passate da quando Freaks squarciò letteralmente i bianchi
schermi dell’America post Grande Depressione e altrettanto numerose
(e fantasiose) sono state le leggende maturate attorno a questo
controverso “tumore su celluloide” – tra cui una sequela di
svenimenti e addirittura un improbabile ma suggestivo aborto
spontaneo che avrebbe accompagnato la prima storica proiezione – e
sembra esse ormai giunto il momento di conferire la giusta
notorietà e il degno valore a un film che in realtà un po’ tutti
conosciamo (almeno nel mito popolare) e che molti hanno già visto
(spesso senza ammetterlo) in una miriade di versioni più o meno
apocrife passate di soppiatto nelle programmazioni di terza serata.
Ed è proprio a tal proposito che, grazie al progetto “Il
Cinema ritrovato al Cinema” realizzato dai laboratori
di restauro dell’Immagine Ritrovata della
Cineteca di Bologna, a partire da lunedì
24 ottobre Freaks ritorna nei cinema delle
maggiori città italiane in qualità rinnovata per far apprezzare
finalmente al grande pubblico dei nostri tempi un’opera “maledetta”
che già grandi maestri del cinema postmoderno hanno avuto modo di
omaggiare con sentito affetto, partendo dagli universi
dandy-trash di John Waters e giungendo
alle filosofie cinefile di
The Dreamers (2007) di
Bertolucci, senza dimenticare il più celebre e
dichiarato omaggio televisivo ad opera di
American Horror Story – Freak Show,
prodotto seriale anch’esso di culto capace di riproporre tutto
l’orrore e la visionarietà del suo antenato a lungo relegato ai
margini del cinema “ufficiale.
E noi, spettatori 2.0, facendo eco
all’allegro coro di grotteschi e deformi personaggi che popolano i
risicati e superstiti 60 minuti del girato, possiamo solo gridare a
gran voce «l’accettiamo… è uno di noi!».