In Juste la fin du
monde nell’immaginario comune, la fine del mondo è quel
momento esatto in cui tutto scomparirà. Succederà per lo scoppio
del sole, per un nuovo meteorite in caduta libera dal cielo, per
l’innalzamento dei mari e degli oceani dovuto al surriscaldamento
globale.
Tenendo però la fantasia a freno,
restando umani con i piedi saldi sul terreno, la fine del mondo è
più verosimilmente un dramma personale, una malattia terminale,
un’occasione mancata, del tempo perduto, perché ognuno di noi è un
mondo a se stante. Anche Louis è un pianeta a se stante, staccatosi
dalla sua orbita familiare per scappare lontano da quei volti che
non hanno mai compreso il suo essere, che non hanno mai ascoltato
ciò che aveva da dire; lontano da quelle voci che non sono mai
partite a cercarlo, quei pensieri che non si sono mai chiesti
perché ogni cartolina non avesse più di tre, quattro parole scelte
quasi a caso dal manuale delle frasi fatte.
Essere figli, come prima essere
genitori, fratelli maggiori, è tutt’altro, è più che sedersi a un
tavolo la domenica per divorare un piatto nel silenzio più
assordante, o ancor peggio fra le urla più laceranti. Urla di chi
ha un impellente bisogno di non dire niente e allo stesso tempo non
vuole far comunicare neanche gli altri, anche se non ci si vede da
dodici infiniti anni. Anni che ci hanno fatto diventare adulti, che
ci hanno portato dei figli, dei nipoti, delle rughe profonde, ma
che in sostanza hanno lasciato la medesima polvere sui mobili, lo
stesso odore di bruciato in cucina, l’identico sguardo chiuso su
noi stessi.
Juste la fin du monde, il film
Se in
Mommy si giocava con il formato dell’immagine, con i
protagonisti in cerca di un loro spazio rinchiusi in un piccolo
quadrato, in Juste la fin du monde si incastra
ogni viso in una serie infinita di primi piani soffocanti,
asfissianti, che non permettono di guardare oltre i lineamenti di
ognuno. Perché il contesto è un’isola che non c’è, è un sogno dopo
il risveglio, è terra bruciata, e guai a credere al contrario, a
pensare a Suzanne, Antoine, Catherine come a personaggi reali in un
luogo reale.

Nonostante i suoi pochi anni,
appena 27,
Xavier Dolan è già oltre ogni meccanica di
cinema, di messa in scena, di recitazione; tutto ciò che tocca e fa
è pensiero, astrazione, utopia, eppure è universale. Perché in ogni
famiglia infelice esiste una Suzanne, una sorella minore ribelle
che ha poco spazio di manovra e può solo combattere ringhiando, una
Catherine, una madre amorevole e attenta schiacciata da un
matrimonio opprimente, un Antoine, un fratello maggiore egoista che
si sente tradito dagli altri perché non ha mai fatto nulla per se
stesso. In ogni famiglia infelice esiste anche un Louis, un’anima
perennemente in fuga, perché l’incomunicabilità dei sentimenti è il
peggior male del nostro secolo. Un dolore talmente radicato nel
nostro essere contemporanei che in fin dei conti qualsiasi altra
malattia incurabile può sembrare infinitamente più compassionevole,
in grado di farci sorridere un attimo prima della nostra personale
fine del mondo, della nostra liberazione, del nostro volo finale,
all’interno di una gabbia dai vetri di cemento.
Juste la fin du
monde si trasforma così in esperienza viscerale e
impalpabile, soggettiva e inspiegabile, isterica e sovrumana.
Un’opera da vedere con i propri occhi, sentire con la propria
pelle, comprendere con il proprio pensiero, andando oltre la
barriera del meta-cinema e dubitando di ogni singola parola detta
da
Marion Cotillard,
Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Léa
Seydoux e Nathalie Baye: è ai loro
occhi, guidati dal loro inarrivabile talento, che dovete
credere.